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La contabilità delle Università e le esigenze di semplificazione

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Le università statali, in quanto pubbliche amministrazioni finanziate principalmente dallo Stato (ma non si dimentichi la capacità che esse hanno di avere entrate proprie derivanti dalle contribuzioni studentesche, dall’acquisizione di progetti di ricerca, dallo svolgimento di attività per conto di terzi, etc.), sono ovviamente e giustamente soggette da sempre ai principi della contabilità pubblica e all’obbligo di rendicontare le loro attività sulla base di schemi di bilancio predefiniti e coerenti con tutti gli altri bilanci delle pubbliche amministrazioni.
La legge n. 240 del 2010 ha stabilito che le università statali, come molti altri enti pubblici economici, dovessero passare dal sistema di contabilità finanziaria a quello di contabilità economico-patrimoniale e analitica di tipo civilistico, adottando ogni anno un bilancio unico e un bilancio consolidato di ateneo, nonché predisponendo anche un bilancio preventivo e un rendiconto in contabilità finanziaria. I principi di questo nuovo e complesso sistema di contabilità e bilanci sono stati fissati nel decreto ministeriale n. 19 del 2014 che, dopo una prima fase di applicazione, deve essere sottoposto ora ad alcune correzioni tecniche, contenute in un decreto interministeriale che da questa settimana è all’esame delle Commissioni parlamentari (e di cui sono relatrice in Commissione Cultura della Camera).
La prima fase di applicazione delle nuove norme contabili per le università ha evidenziato problematiche di più vasta portata che dovrebbero indurre il decisore politico a riflettere più complessivamente sulla questione. Faccio riferimento, in particolare, alla continua segnalazione al Parlamento, da parte di larghi strati delle comunità accademiche e di singoli ricercatori, delle notevoli difficoltà operative indotte dalla nuova normativa nell’espletamento delle attività istituzionali delle università, in particolare per l’attività di ricerca. Non è in effetti facile, e probabilmente nemmeno utile, ricondurre l’attività di ricerca universitaria ad una attività di natura economica e produttiva senza correre il rischio di rallentarne l’esecuzione, il che sarebbe esiziale per un’attività in cui rapidità, prontezza e libertà di azione sono fondamentali per sopravvivere nella accelerata competizione internazionale di oggi.
Più in generale, mi chiedo, è davvero utile concepire e classificare l’attività finanziaria delle università come fatta di attivi e passivi patrimoniali e di costi e ricavi della «produzione» (pur definiti «costi e proventi operativi»), alla stregua di una qualunque impresa produttrice di beni e servizi da vendere sul mercato? È ovvio che occorre chiedere alle università la più oculata e trasparente gestione di risorse che provengono loro dai contribuenti con il sistema fiscale generale o dalle famiglie degli studenti per il tramite delle contribuzioni studentesche, ma dovremmo forse interrogarci se la contabilità economico-patrimoniale sia davvero la più adatta a rappresentare contabilmente l’attività universitaria e a favorirne lo sviluppo. Qual è il legame economico-finanziario tra i proventi delle attività didattiche e di ricerca e il «prodotto» fornito (formazione e nuova conoscenza), che non ha costi unitari? Qual è la natura patrimoniale delle apparecchiature sperimentali per la ricerca o dei volumi delle biblioteche ?
Non suggerisco affatto di tornare indietro alla tradizionale contabilità puramente finanziaria delle entrate e delle uscite, ma mi sembrerebbe opportuna una riflessione politica e amministrativa sull’effettivo esito, in termini di costi e benefici, della nuova normativa introdotta dalla legge n. 240 del 2010, anche per tener conto delle osservazioni e delle richieste che sono provenute e provengono continuamente dal mondo accademico, spesso espresse in termini di «semplificazione» anche se, non di rado, più che semplificazioni, sono richieste di modifiche profonde della normativa vigente.
Il Parlamento, con l’ultima legge di stabilità e con altri atti importanti come il decreto legislativo n. 218 del 2016 sull’attività degli enti di ricerca, ha effettivamente provveduto a semplificare sotto più aspetti la normativa ma senza che queste semplificazioni siano state effettivamente percepite come tali, in termini di nuova efficienza, dagli addetti ai lavori. Forse perché, ed è questo il senso delle mie osservazioni, è mancata un’analisi tecnico-politica più approfondita del contesto generale delle norme che regolano l’attività universitaria.
A questo proposito segnalo anche un altro e ultimo punto delicato dell’organizzazione universitaria, come è stato modificato dalla legge n. 240 del 2010. Alludo alla questione dell’autonomia contabile e amministrativa dei dipartimenti universitari. Non vi è alcun dubbio che ogni università debba fornire allo Stato finanziatore un rendiconto unitario della propria attività. Ma è stato saggio, per l’efficienza e l’efficacia delle attività, ridurre così drasticamente l’autonomia dei dipartimenti? Per una corretta esigenza di unitarietà, non si è forse sacrificata un po’ troppo la scioltezza dell’attività corrente dei dipartimenti, spesso alle prese con una centralizzazione che sembrava essere stata definitivamente dimenticata da quasi quarant’anni fa, a seguito del decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980, e che, rimessa in auge, ha finito spesso, nonostante gli strumenti informatici e telematici ora disponibili, col riprodurre i difetti per i quali era stata eliminata dalla normativa universitaria ?
Ammetto: sono domande a cui non ho e alle quali non propongo risposte definitive, ma che intendono sollevare un problema e suscitare un dibattito affinché il mondo universitario ritrovi fiducia nel fatto che la politica comprende appieno le sue problematiche e interviene conseguentemente per favorire lo sviluppo dell’alta formazione e della ricerca libera quali obiettivi strategici del Paese che non possono rischiare di essere sepolti da normative concepite per tutt’altri contesti e situazioni

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