attualità, memoria

La Giornata della memoria travolta dal turismo di massa, le denunce degli artisti, il dilemma degli studiosi

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Ad ogni anno, quando si avvicina la Giornata della memoria, diciamo che quello dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz è un anniversario che non guarda al passato, ma al presente e al futuro. Ma anno dopo anno, cresce il dubbio che possa davvero essere così. Ora che stanno rapidamente scomparendo i testimoni diretti dell’Olocausto e delle deportazioni politiche e razziali volute dai regimi nazi-fascisti, ci si interroga su come sia possibile mantenere viva la Memoria, storicamente corretta, e non una simil-memoria, mediata dalle ideologie e dalle retoriche dell’oggi. E ogni anno, in realtà, scopriamo che il tema non si esaurisce, che nuovi stimoli, nuove letture, nuovi fenomeni vengono ad arricchire, e diversificare, quello che pensavamo fosse un dato acquisito. Ad esempio, grazie anche all’opera di artisti sensibili e dotati che hanno saputo renderci partecipi del fenomeno, cresce la riflessione pubblica sul turismo di massa nei luoghi della memoria: luoghi di tragica sacralità, come i campi di concentramento o i memoriali, che vengono visitati da centinaia di migliaia di persone. E questo è certamente un bene per la Memoria. Ma poi, il prevalere di un atteggiamento distratto se non indifferente mostrato da questi particolari “turisti” – dovuto anche, ma non solo, alla scarsa conoscenza degli eventi – fa nascere più di un dubbio sulla consapevolezza della loro visita e, quindi, del loro atto di memoria. Ancora una volta, l’arte si dimostra capace di cogliere e rappresentare al grande pubblico un fenomeno particolare e controverso, altrimenti analizzato solo nella ristretta cerchia degli studiosi e degli addetti ai lavori. Il regista ucraino Sergei Loznitsa ha girato nel campo di concentramento di Sachsenhausen, a tre ore da Berlino, il film in bianco e nero “Austerlitz”, che sta arrivando nelle sale italiane. Con la tecnica del campo fisso, documenta una giornata di ordinario turismo nel luogo dove trovarono la morte trentamila ebrei. C’è chi fa uno spuntino, chi ascolta distratto la guida, chi si mette in posa per una foto di gruppo.
Proprio le foto, ma soprattutto i selfie, sono al centro del lavoro di un altro artista, Shahak Shapira, origini israeliane, ma immigrato adolescente in Germania insieme con la famiglia. Assistendo alla abnorme mole di selfie e pose assurde assunte dai visitatori del Memoriale dell’Olocausto di Berlino ha avuto l’idea di scontornare i singoli soggetti e inserirli non più tra la pregnanza asettica delle stele, ma direttamente tra i prigionieri scheletrici ed emaciati dei lager, tra i cumuli di cadaveri, nella realtà quotidiana degli oltre sei milioni di vittime della follia nazista. E le pose dei turisti, la loro smania di apparire, diventano oscene perché profane, scandalose nella loro banalità. Non c’è empatia, non c’è compassione, non c’è riflessione. Sia chiaro: non sostengo che questi luoghi debbano diventare santuari aperti solo a una ristretta élite di interessati. Anzi. Il rischio più grosso è la dimenticanza di quanto accaduto, la smemoratezza delle nuove generazioni, di quelle temporalmente sempre più lontane dagli avvenimenti. E, allora, affinché i selfie, e la visita di un ex-campo, magari in bermuda e infradito, non siano “invano”, ma possano trasformarsi in un barlume di conoscenza e consapevolezza bisogna lavorare tanto, ma proprio tanto in ogni sede e agenzia educativa, a cominciare dalla scuola e dall’università, per l’approfondimento della Storia, ma anche per l’educazione al rispetto dell’altro, di tutti gli altri. In realtà ci sono istituzioni che, da tempo, sono impegnate su questo fronte. Per restare al nostro territorio, penso al lavoro di ricerca e trasmissione della conoscenza portato avanti dalla Fondazione Villa Emma o all’impegnativo lavoro con le scuole della Fondazione Fossoli, i cui ormai famosi viaggi della memoria (che da quest’anno, tra l’altro, cambiano formula) sono preceduti da un rigoroso percorso di preparazione, in modo da rifuggire l’”effetto gita” per perseguire il tentativo di far giungere i ragazzi alla consapevolezza di quanto accaduto. Basterà in una società che fa del consumo, anche culturale, un elemento di distinzione e riconoscibilità sociale? Forse no, ma indietro non si torna: la riflessione su come procedere è aperta, e non solo agli addetti ai lavori…”.