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Università, reso più equo il criterio del costo standard

La Camera dei deputati entro la giornata approverà il cosiddetto Dl Mezzogiorno che contiene, tra altre misure, la revisione del “costo standard per studente”, sulla cui base è ripartito il finanziamento statale alle università. Si tratta di una misura che il Governo era già stato sollecitato ad adottare grazie a una mozione, a mia prima firma, approvata circa un anno fa. Sono intervenuta in Aula per spiegare l’importanza delle modifiche apportate nel calcolo del “costo standard”. Ecco il testo integrale del mio intervento

Signor Presidente,

poco più di un anno fa, la Camera approvò – sostanzialmente all’unanimità – la mozione a mia prima firma che impegnava il Governo ad assumere specifiche iniziative per superare gli ostacoli che si frappongono tra i giovani e l’accesso al sistema universitario.
Dopo qualche mese, in occasione della discussione della legge di bilancio, furono attuati alcuni impegni di quella mozione. Da un lato, quelli connessi al potenziamento del finanziamento per il diritto allo studio universitario e al completamento e miglioramento dei suoi strumenti operativi. Dall’altro, quelli connessi alla riforma della contribuzione studentesca sulla base di una redistribuzione del carico contributivo, con l’introduzione della “no-tax area” per gli studenti provenienti da famiglie a basso reddito e patrimonio – cioè fino a 13.000 euro di ISEE – e un calmieramento della contribuzione per quelle a medio reddito e patrimonio – vale a dire da 13.000 a 30.000 euro di ISEE.
Un altro degli impegni della mozione viene ora attuato con il decreto sul Mezzogiorno oggi in discussione. Si tratta della revisione del cosiddetto “costo standard per studente in corso”, introdotto in forma di delega dalla legge n. 240 del 2010, attuato con il decreto legislativo n. 49 del 2012 e poi applicato per la ripartizione del fondo di finanziamento ordinario delle università statali mediante gli algoritmi definiti dal decreto interministeriale n. 893 del 2014 (sui cui dettagli ritornerò tra breve).
Ricordo infatti che a legislazione vigente, il fondo di finanziamento ordinario, cioè quello trasferito dallo Stato alle università statali per affrontare le spese di funzionamento, una volta detratte le somme necessarie per interventi specifici previsti da disposizioni normative, è suddiviso in due quote: la “quota base” e la “quota premiale”. La quota premiale è assegnata sulla base delle valutazioni della qualità delle attività universitarie, principalmente la ricerca. La quota base è invece assegnata in parte con riferimento al finanziamento degli anni precedenti – la cosiddetta “spesa storica” – e in parte al costo standard per studente in corso. Per dare un’idea delle cifre in gioco, il fondo di finanziamento ordinario del 2016 ammontava a circa 6,9 miliardi di euro, la quota base a circa 4,6 miliardi e la quota premiale a circa 1,6 miliardi.
La parte della quota base assegnata in base al costo standard è, per legge, crescente negli anni. Così è stata del 20% nel 2014 (primo anno di applicazione), del 25% nel 2015, del 28% nel 2016. In cifre assolute il costo standard è stato utilizzato per ripartire circa 980 milioni nel 2014, 1.200 milioni nel 2015, 1.280 milioni nel 2016, cifre comunque decisamente significative del bilancio dello Stato e delle università.
Il primo triennio di applicazione del costo standard ne ha messo in luce i pregi, riferibili soprattutto alla trasparenza e alla oggettività dei criteri di riparto, ma ne ha evidenziato anche alcuni limiti, legati soprattutto alle modalità con cui esso è calcolato ateneo per ateneo.
Si faccia attenzione a questo aspetto, che non è tecnico, ma squisitamente politico. Il finanziamento assegnato ad un ateneo statale condiziona profondamente il raggiungimento dei suoi obiettivi, da quelli costituzionali a quelli statutari o definiti dai suoi organi di governo. La determinazione dell’ammontare del finanziamento non può quindi essere affidata alla mera e ripetitiva applicazione di formule matematiche basate su parametri teorici, per quanto oggettivi essi siano o appaiano, ma ne devono continuamente essere vagliati gli effetti rispetto agli esiti attesi delle politiche universitarie nazionali.
Quali sono, in sintesi, i limiti individuati dal Partito Democratico nello studio approfondito del decreto interministeriale del 2014 sul costo standard e riportati nella mozione del 2016? Tre sono i principali.
In primo luogo, l’efficacia dell’addendo perequativo introdotto nel calcolo per contemperare – secondo il disposto della legge – i «differenti contesti economici, territoriali e infrastrutturali in cui opera l’università». Infatti questo addendo è risultato pesare in modo minimo sul costo standard, senza riuscire a livellare concretamente i ben noti, forti divari territoriali del nostro Paese. Per fare un esempio, rispetto alla Lombardia che è presa come regione di riferimento, l’addendo perequativo pesa meno del 6 per cento per la Sicilia e circa del 3 per cento per la Sardegna. Percentuali evidentemente molto al di sotto dei divari economici e infrastrutturali esistenti.
In secondo luogo, l’algoritmo che definisce il costo standard per studente ha come parametro principale, da cui dipendono quasi tutti gli altri, il costo standard (stipendiale) del personale docente. Il calcolo di questo costo standard dei docenti si basa a sua volta su un parametro teorico, vale a dire la “numerosità ottimale di studenti regolari per corso”: una numerosità definita dall’alto, senza che ne siano noti i criteri, che è eguale in tutti gli atenei italiani. Non tiene quindi conto della consistenza demografica territoriale delle fasce giovanili, della mobilità studentesca, delle carenze infrastrutturali delle aree interne e marginali, tanto del Sud continentale e insulare quanto del Nord, finendo col penalizzare gli atenei di queste aree del Paese indipendentemente dalla qualità della didattica svolta.
L’uso acritico di formule di questo tipo potrebbe alla lunga portare alla chiusura, in specifiche parti del Paese, di molti corsi di laurea a carattere specialistico, perché non raggiungono la numerosità ottimale degli studenti e quindi ricevono dei finanziamenti inferiori ai costi reali, con un effetto finale di concentramento delle attività universitarie in pochi atenei ubicati nelle regioni più ricche e meglio collegate. Non sarebbe, a mio parere, una situazione auspicabile, per nulla. Diventeremmo complici di una desertificazione dei talenti dei giovani e, di conseguenza, di una desertificazione di quei luoghi promotori di cultura e di progresso costituiti dalle università e dai centri di ricerca. Peraltro non sarebbe nemmeno auspicabile un’estrema frammentazione del sistema universitario – anche se, ricordiamolo, l’Italia ha tuttora un numero inferiore di università per popolazione rispetto agli altri grandi paesi – quanto piuttosto sarebbe semmai auspicabile un coordinamento dell’offerta formativa, almeno in ambito regionale, che risponda ai bisogni e alle attese dei giovani, delle loro famiglie, dei sistemi produttivi. Il riparto del finanziamento statale deve essere insomma equo e sostenibile insieme.
In terzo luogo, il costo standard fa riferimento solo agli studenti in corso, a differenza da quanto si prevede, da tempo, per il diritto allo studio e da quanto questo stesso Parlamento ha deciso per le recenti norme sulla contribuzione studentesca che richiamavo poc’anzi. In effetti la decisione di conteggiare solo gli studenti in corso deriva dalla legge 240 del 2010, che ha modificato la normativa precedente, a partire dalla prima in assoluto, cioè l’articolo 5 della legge n. 537 del 1993, che, istituendo il fondo di finanziamento ordinario, indicava tra i parametri di ripartizione gli “standard dei costi di produzione per studente”. Non può sfuggire come tra il 1993 e il 2010 si sia transitati da “studenti” a “studenti in corso”, circoscrivendo di fatto la platea degli universitari ad un suo sottoinsieme e forzando così la realtà. Né può sfuggire il fatto che è negli atenei meridionali che si concentra la maggiore percentuale di studenti fuori corso, con gli ovvi effetti negativi che seguono dal fatto che il calcolo attuale del costo standard non li contempla, sebbene costoro, soprattutto a ridosso della durata normale del corso di studio, siano ancora nella grande maggioranza studenti a tutti gli effetti che utilizzano i servizi universitari, frequentano corsi, biblioteche e laboratori, sostengono esami, preparano la tesi.
E’ appunto su questi tre punti che la mozione dello scorso anno ha impegnato il governo ad intervenire.
Questa è la storia, necessaria – come sempre – a comprendere il presente.
La mozione parlamentare ha sollecitato una discussione pubblica e politica sul costo standard per studente, ma è in realtà un ricorso presentato dall’Università di Macerata sul riparto del 2014 che ha accelerato i tempi di un intervento di modifica legislativa. Infatti, partendo proprio da questo ricorso, una recente sentenza della Corte Costituzionale, depositata l’11 maggio 2017 e favorevole all’Università di Macerata, ha dichiarato costituzionalmente illegittimi gli articoli 8 e 10, limitatamente al comma 1, del decreto legislativo n. 49 del 2012, che ho richiamato poco fa. Stessa sorte ha quindi subito la disciplina del costo standard concretamente definita dal decreto interministeriale n. 893 del 2014, anch’esso già citato.
La Consulta ha individuato il vulnus di illegittimità nel trasferimento dell’esercizio della funzione normativa dal Governo, nella sua collegialità, ai singoli Ministri competenti, e nel declassare la relativa disciplina a livello di fonti sub-legislative (cioè il decreto interministeriale). In altre parole, la censura ha riguardato principalmente aspetti procedurali, collegati all’ormai usuale “decretazione a cascata”, con la quale si concentrano nell’atto finale, un semplice decreto ministeriale, scelte generali di natura strategica che dovrebbero essere riservate a normative gerarchicamente sovraordinate e sottoposte al controllo del Parlamento.
Un destino quasi annunciato. Già nel parere della VII Commissione del Senato sullo schema del decreto legislativo 49/2012 vi era un chiaro ed esplicito invito al Governo Monti ad individuare con maggior precisione le spese da includere nel computo del costo standard, i criteri di calcolo e quelli di ponderazione di ciascuna voce, ma l’invito non fu raccolto.
Mi si consenta a questo proposito una breve considerazione di carattere generale, alla luce della esperienza parlamentare fin qui maturata. La funzione di controllo sull’attività del Governo esercitata dal Parlamento è garanzia reciproca dell’equilibrio dei poteri e non interferenza. Sarebbe proficuo – come questa vicenda, determinata da un vizio dell’esercizio del potere legislativo delegato, dimostra chiaramente – se gli esecutivi, che nel nostro ordinamento sono più discontinui delle assemblee rappresentative, se ne facessero convintamente carico, proprio al fine di un maggior successo e consolidamento nel tempo degli obiettivi che essi stessi vogliono legittimamente raggiungere.
La Corte Costituzionale, peraltro, nella sentenza citata ha concluso che “tale declaratoria di illegittimità costituzionale … non impedisce ulteriori interventi in merito del Parlamento e del Governo, sui quali comunque incombe la responsabilità di assicurare, con modalità conformi alla Costituzione, la continuità e l’integrale distribuzione dei finanziamenti per le università statali, indispensabili per l’effettività dei principi e dei diritti consacrati negli artt. 33 e 34 Cost.”.
Il Governo ha quindi provveduto, nel decreto al nostro esame, a rispondere ai rilievi della Corte riportando in legge primaria i criteri e le voci di costo sulla base dei quali, a decorrere dall’anno corrente, sarà determinato (ed eventualmente aggiornato) il modello di calcolo del costo standard per studente, nonché la quota di finanziamenti statali da distribuire in base a questo modello.
Non appaia incongrua la collocazione delle nuove norme in seno ad un decreto che contiene misure urgenti per la crescita del Mezzogiorno. Come ho già osservato, il sistema universitario è volano di tale crescita e quindi, se il nuovo modello di calcolo del costo standard avrà un impianto più attento ai divari territoriali, si determinerà un riparto delle risorse più coerente con i fabbisogni dei singoli atenei, a partire da quelli meridionali.
Le modifiche apportate al modello di calcolo dall’articolo 12 del decreto-legge sono rilevanti: alcune erano già presenti nel testo originario del decreto, altre sono frutto di emendamenti approvati durante l’esame del Senato, grazie anche ad un’approfondita analisi tecnica e politica approntata dalla Commissione Cultura di quel ramo del Parlamento.
Diamo ora uno sguardo sintetico ma dettagliato alle nuove norme.
Già il testo del decreto originario interveniva significativamente sul meccanismo perequativo ed è rimasto sostanzialmente invariato. Per tenere in maggior conto i differenti contesti economici e territoriali in cui gli atenei si trovano ad operare, è stato stabilito che il peso dell’addendo perequativo potrà arrivare fino al 10% del costo standard medio nazionale, prendendo a riferimento la diversa capacità contributiva degli studenti tramite il reddito medio familiare del territorio di pertinenza dell’ateneo, di norma quello regionale. Inoltre è stato introdotto un ulteriore importo di natura perequativa, sempre fino ad un massimo del 10% del costo standard medio nazionale, che prenderà a riferimento la diversa accessibilità ad ogni università in relazione alla rete dei trasporti e dei collegamenti.
Hanno certamente fondamento i rilievi mossi da chi sostiene che sarebbe stato preferibile correlare gli importi di natura perequativa a parametri interni al sistema universitario e non a condizioni esterne, come il reddito familiare o le infrastrutture. Ma adesso è urgente e necessario, già per la ripartizione del fondo di finanziamento ordinario del 2017, determinare forme di riequilibrio degli svantaggi territoriali. Peraltro nulla impedisce che, in futuro, si possa mettere mano e testa ad una diversa e migliore soluzione di questi problemi.
Un’altra importante novità del testo del decreto originario si riferisce al criterio per la determinazione del costo standard del personale docente, che abbiamo visto essere certamente il più significativo dal punto di vista quantitativo e con riflessi anche su tutti gli altri addendi del costo standard. Si prevede infatti che, ai fini del calcolo del costo standard per studente, la numerosità standard degli studenti stabilita ai fini dell’accreditamento possa essere ridotta fino al 60% del suo valore. Abbassare la numerosità ottimale implica che il costo effettivo della docenza possa essere integralmente riconosciuto nel costo standard per studente già con classi più piccole rispetto a quelle previste per l’accreditamento, tenendo quindi conto di quei corsi di laurea e di laurea magistrale che hanno una domanda di formazione più contenuta rispetto agli standard previsti dall’accreditamento, come quelli inseriti nelle aree interne e insulari del Paese.
La riduzione graduata della numerosità standard degli studenti tende inoltre a risolvere un altro problema di grande attualità. Essendo le numerosità standard differente per le diverse aree disciplinari (maggiori per le aree umanistico-sociali, minori per le aree scientifico-tecnologiche) si ottiene che, a parità di docenti, il costo standard della docenza per studenti delle materie umanistiche è più basso di quello per studenti delle materie scientifiche, con effetti già evidenti sulle politiche degli atenei, che non derivano da autonome scelte culturali ma dall’obiettivo di massimizzare gli effetti finanziari. Riducendo le numerosità standard in modo più flessibile si possono contrastare questi effetti, causa non ultima dell’introduzione del numero chiuso per questi corsi in molti atenei oltre che di un’inaccettabile penalizzazione delle discipline umanistico-sociali dovuta a puri fattori algoritmici.
Su questo punto è significativamente intervenuto anche il Senato con una modifica del testo originario che tende a rendere ancora più cogente il principio di tenere conto dei costi fissi di un corso di studi nella determinazione del costo standard. Con il nuovo comma 2-bis dell’articolo 12 si stabilisce infatti che, a decorrere dal 2018, il costo standard della docenza dovrà rimanere invariata, in aderenza alla realtà, tra una numerosità minima e una numerosità massima di studenti da stabilire con decreto ministeriale, e non ancorata al singolo valore della numerosità ottimale.
Un’altra importante modifica introdotta dal Senato stabilisce infine che il costo standard di ateneo, quello in base al quale si ripartisce la quota prevista del fondo di finanziamento ordinario, si ottiene moltiplicando il costo standard per studente per il numero degli studenti iscritti in corso o al primo anno fuori corso. L’aggiunta degli studenti del primo anno fuori corso è una positiva risposta alla maggiore gradualità nella considerazione dello status di studente che era stata richiesta dalla mozione approvata lo scorso anno.
Molto altro rimarrebbe certamente da fare, soprattutto nell’ormai improcrastinabile necessità di un intervento legislativo organico che riordini il finanziamento statale delle università. Se otterremo gradualmente un algoritmo corretto di determinazione del costo standard, ne verrà di conseguenza determinato in modo corretto il “fabbisogno” che andrebbe riconosciuto a ciascun ateneo sulla base della sua offerta didattica e del numero dei suoi studenti. Su questo aspetto è particolarmente interessante l’analisi della VII Commissione del Senato espressa nel parere al provvedimento al nostro esame, in una sorta di staffetta con la mozione approvata dalla Camera.
Si tratta di una elaborazione genuinamente “politica” del costo standard universitario che porta al concetto di “fabbisogno” standard di ateneo, con significato diverso da quello normalmente utilizzato per la finanza pubblica. Si tratta cioè di dargli il senso di “costo standard di funzionamento di ateneo”, almeno per quanto riguarda la didattica, al quale, pur tenendo in considerazione la contribuzione studentesca, divenuta in Italia veramente molto elevata nei confronti internazionali, lo Stato dovrebbe provvedere in via ordinaria per quanto concerne le università statali. Solo così il fondo di finanziamento ordinario potrà recuperare il suo significato reale originario, persino dal punto di vista lessicale.
Provvedano invece altri e separati fondi statali agli interventi di natura non ordinaria, destinati, ad esempio, alle finalità premiali e quindi non consolidabili automaticamente nel tempo, per incentivare i risultati di migliore qualità ottenuti dalle università nella ricerca e nella didattica, al sostegno di programmi nazionali di innovazione, all’investimento nello sviluppo di atenei che operano in aree interne o a territori svantaggiati del Paese, in cui costituiscono presidi sociali e culturali irrinunciabili.