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"Afghanistan. Dopo undici anni una guerra sempre più confusa" di Ugo Papi

In Afghanistan un altro soldato italiano è stato ucciso e cinque sono rimasti feriti. In un intervento così difficile bisogna sempre mettere in conto la perdita di vite umane, ma l’aumento esponenziale dei morti, si lega ad una situazione sul campo sempre più confusa, per non dire drammatica. L’Afghanistan a undici anni dall’inizio dell’intervento internazionale, rimane un luogo insicuro e dai precari equilibri. Fin dall’inizio la presenza della coalizione si è caratterizzata per una divisione patente tra gli obbiettivi dell’Isaf, tesa a garantire sicurezza alla popolazione e creare nuove istituzioni democratiche e gli americani concentrati alla lotta al terrorismo.
Questi obbiettivi diversi hanno creato negli anni contraddizioni, sprechi e inefficienze. Ad oggi l’economia afghana è ancora dipendente dagli aiuti internazionali, il sistema politico è arcaico, l’apparato amministrativo è inefficiente e corrotto e il mercato dell’oppio copre oramai il 90 % della produzione mondiale. Ogni anno se ne volano indisturbati a Dubai più di 4 miliardi e mezzo di dollari, più o meno pari al Pil annuale dell’intero Paese. Nessuno, neanche gli americani, sono riusciti a trovare un’alternativa a Karzai, uomo sicuramente abile, ma poco affidabile. Negli anni i suoi parenti hanno tutti assunto posizioni di potere e lo stesso processo di riconciliazione con i talebani è stato sfruttato dal Presidente per rafforzare la sua forza elettorale e le alleanze con il suo clan.
Negli ultimi anni sono aumentati drasticamente gli attacchi kamikaze e le lo scoppio di ordigni improvvisati, con un conseguente aumento dei morti tra i militari e i civili. Sempre più spesso sono gli stessi militari afghani a sparare
sugli alleati internazionali. Nel 2009 finalmente il generale Patreus si è impegnato assieme alla Nato, in una nuova strategia di contro insurrezione, focalizzata sulla protezione della popolazione civile nelle aree del sud ancora in mano ai talebani, per conquistarne «il cuore e le menti». Questo cambiamento non sembra aver portato a chiari risultati positivi. I gruppi talebani, per quanto divisi, sono ancora attivi e trovano protezione in Pakistan, dove gli americani hanno intensificato la loro attività di bombardamento con i droni, creando un ondata di anti americanismo tra la popolazione pakistana.
A complicare la situazione sono intervenuti gli incredibili casi delle copie del corano bruciate in una caserma americana e la strage del soldato americano a Kandahar, con l’uccisione di 17 tra donne e bambini. Nonostante le rassicurazioni ufficiali, il grado di popolarità delle truppe straniere tra la popolazione è sempre più bassa. In questa quadro la coalizione ha già da tempo annunciato i tempi di un ritiro a partire dal 2014.
Obama sembra accontentarsi dell’uccisione di Bin Laden. Ma le condizioni per un passaggio di poteri alle istituzioni locali, anche se progressivo, sembra problematico. C’è chi suggerisce una linea diversa della coalizione, un comprehensive approach che non indichi date di ritiro, e si concentri sul miglioramento dello Stato di diritto, di quello giudiziario e di quello istituzionale e politico, insistendo su una maggiore coordinazione delle forze internazionali e un atteggiamento più rigoroso nei confronti di Karzai.
Ma i governi occidentali e le loro opinioni pubbliche hanno fretta di andarsene e sono stanche di una guerra che non sembra mai finire.

L’Unità 25.03.12

“Afghanistan. Dopo undici anni una guerra sempre più confusa” di Ugo Papi

In Afghanistan un altro soldato italiano è stato ucciso e cinque sono rimasti feriti. In un intervento così difficile bisogna sempre mettere in conto la perdita di vite umane, ma l’aumento esponenziale dei morti, si lega ad una situazione sul campo sempre più confusa, per non dire drammatica. L’Afghanistan a undici anni dall’inizio dell’intervento internazionale, rimane un luogo insicuro e dai precari equilibri. Fin dall’inizio la presenza della coalizione si è caratterizzata per una divisione patente tra gli obbiettivi dell’Isaf, tesa a garantire sicurezza alla popolazione e creare nuove istituzioni democratiche e gli americani concentrati alla lotta al terrorismo.
Questi obbiettivi diversi hanno creato negli anni contraddizioni, sprechi e inefficienze. Ad oggi l’economia afghana è ancora dipendente dagli aiuti internazionali, il sistema politico è arcaico, l’apparato amministrativo è inefficiente e corrotto e il mercato dell’oppio copre oramai il 90 % della produzione mondiale. Ogni anno se ne volano indisturbati a Dubai più di 4 miliardi e mezzo di dollari, più o meno pari al Pil annuale dell’intero Paese. Nessuno, neanche gli americani, sono riusciti a trovare un’alternativa a Karzai, uomo sicuramente abile, ma poco affidabile. Negli anni i suoi parenti hanno tutti assunto posizioni di potere e lo stesso processo di riconciliazione con i talebani è stato sfruttato dal Presidente per rafforzare la sua forza elettorale e le alleanze con il suo clan.
Negli ultimi anni sono aumentati drasticamente gli attacchi kamikaze e le lo scoppio di ordigni improvvisati, con un conseguente aumento dei morti tra i militari e i civili. Sempre più spesso sono gli stessi militari afghani a sparare
sugli alleati internazionali. Nel 2009 finalmente il generale Patreus si è impegnato assieme alla Nato, in una nuova strategia di contro insurrezione, focalizzata sulla protezione della popolazione civile nelle aree del sud ancora in mano ai talebani, per conquistarne «il cuore e le menti». Questo cambiamento non sembra aver portato a chiari risultati positivi. I gruppi talebani, per quanto divisi, sono ancora attivi e trovano protezione in Pakistan, dove gli americani hanno intensificato la loro attività di bombardamento con i droni, creando un ondata di anti americanismo tra la popolazione pakistana.
A complicare la situazione sono intervenuti gli incredibili casi delle copie del corano bruciate in una caserma americana e la strage del soldato americano a Kandahar, con l’uccisione di 17 tra donne e bambini. Nonostante le rassicurazioni ufficiali, il grado di popolarità delle truppe straniere tra la popolazione è sempre più bassa. In questa quadro la coalizione ha già da tempo annunciato i tempi di un ritiro a partire dal 2014.
Obama sembra accontentarsi dell’uccisione di Bin Laden. Ma le condizioni per un passaggio di poteri alle istituzioni locali, anche se progressivo, sembra problematico. C’è chi suggerisce una linea diversa della coalizione, un comprehensive approach che non indichi date di ritiro, e si concentri sul miglioramento dello Stato di diritto, di quello giudiziario e di quello istituzionale e politico, insistendo su una maggiore coordinazione delle forze internazionali e un atteggiamento più rigoroso nei confronti di Karzai.
Ma i governi occidentali e le loro opinioni pubbliche hanno fretta di andarsene e sono stanche di una guerra che non sembra mai finire.

L’Unità 25.03.12

“Afghanistan. Dopo undici anni una guerra sempre più confusa” di Ugo Papi

In Afghanistan un altro soldato italiano è stato ucciso e cinque sono rimasti feriti. In un intervento così difficile bisogna sempre mettere in conto la perdita di vite umane, ma l’aumento esponenziale dei morti, si lega ad una situazione sul campo sempre più confusa, per non dire drammatica. L’Afghanistan a undici anni dall’inizio dell’intervento internazionale, rimane un luogo insicuro e dai precari equilibri. Fin dall’inizio la presenza della coalizione si è caratterizzata per una divisione patente tra gli obbiettivi dell’Isaf, tesa a garantire sicurezza alla popolazione e creare nuove istituzioni democratiche e gli americani concentrati alla lotta al terrorismo.
Questi obbiettivi diversi hanno creato negli anni contraddizioni, sprechi e inefficienze. Ad oggi l’economia afghana è ancora dipendente dagli aiuti internazionali, il sistema politico è arcaico, l’apparato amministrativo è inefficiente e corrotto e il mercato dell’oppio copre oramai il 90 % della produzione mondiale. Ogni anno se ne volano indisturbati a Dubai più di 4 miliardi e mezzo di dollari, più o meno pari al Pil annuale dell’intero Paese. Nessuno, neanche gli americani, sono riusciti a trovare un’alternativa a Karzai, uomo sicuramente abile, ma poco affidabile. Negli anni i suoi parenti hanno tutti assunto posizioni di potere e lo stesso processo di riconciliazione con i talebani è stato sfruttato dal Presidente per rafforzare la sua forza elettorale e le alleanze con il suo clan.
Negli ultimi anni sono aumentati drasticamente gli attacchi kamikaze e le lo scoppio di ordigni improvvisati, con un conseguente aumento dei morti tra i militari e i civili. Sempre più spesso sono gli stessi militari afghani a sparare
sugli alleati internazionali. Nel 2009 finalmente il generale Patreus si è impegnato assieme alla Nato, in una nuova strategia di contro insurrezione, focalizzata sulla protezione della popolazione civile nelle aree del sud ancora in mano ai talebani, per conquistarne «il cuore e le menti». Questo cambiamento non sembra aver portato a chiari risultati positivi. I gruppi talebani, per quanto divisi, sono ancora attivi e trovano protezione in Pakistan, dove gli americani hanno intensificato la loro attività di bombardamento con i droni, creando un ondata di anti americanismo tra la popolazione pakistana.
A complicare la situazione sono intervenuti gli incredibili casi delle copie del corano bruciate in una caserma americana e la strage del soldato americano a Kandahar, con l’uccisione di 17 tra donne e bambini. Nonostante le rassicurazioni ufficiali, il grado di popolarità delle truppe straniere tra la popolazione è sempre più bassa. In questa quadro la coalizione ha già da tempo annunciato i tempi di un ritiro a partire dal 2014.
Obama sembra accontentarsi dell’uccisione di Bin Laden. Ma le condizioni per un passaggio di poteri alle istituzioni locali, anche se progressivo, sembra problematico. C’è chi suggerisce una linea diversa della coalizione, un comprehensive approach che non indichi date di ritiro, e si concentri sul miglioramento dello Stato di diritto, di quello giudiziario e di quello istituzionale e politico, insistendo su una maggiore coordinazione delle forze internazionali e un atteggiamento più rigoroso nei confronti di Karzai.
Ma i governi occidentali e le loro opinioni pubbliche hanno fretta di andarsene e sono stanche di una guerra che non sembra mai finire.

L’Unità 25.03.12

«Monti sia coerente. O tratta con tutti o con nessuno», intervista a Chiara Saraceno di Massimo Franchi

«Mi ha colpito molto un’espressione usata da Monti, ovvero che il governo non vuole la concertazione, come se la concertazione fosse un inciucio. L’inciucio il governo e il Parlamento lo hanno fatto sulle liberalizzazioni con i tassisti, i farmacisti, le varie lobby. Quando si dice, poi, che i sindacati non devono avere potere di veto è giusto, ma poi non si dovrebbe permettere che lo abbia Mediaset sulle frequenze o la Chiesa Cattolica su molte altre questioni».
Professoressa Saraceno, il governo dei tecnici manda in pensione solo la concertazione. Dicono sia un elemento di modernità… «Pensare che i sindacati vanno solo consultati e poi si decide da soli, rischia di mutare radicalmente i rapporti di potere tra soggetti sociali producendo forti squilibri. Si può sostenere che sono poco rappresentativi, ma allora i tavoli vanno allargati ad altri soggetti, non chiusi. Concertare significa tentare di raggiungere un accordo, è fondamentale in una democrazia. Non si può parlare di modello tedesco e poi di inciucio: in Germania la concertazione e la cogestione sono regole, modelli».

La modifica dell’articolo 18 è il simbolo di questo nuovo modo di trattare. Ma il governo sostiene che sia solo una parte della riforma e nemmeno la più importante. È d’accordo? «È una parte, ma condiziona tutto il resto. L’articolo 18 è una questione simbolica soprattutto per il governo, che ha voluto portarla a casa ad ogni costo. A rischio di fare un pasticcio, di tirarsi la zappa sui piedi, il governo ha voluto modificare a tutti i costi i rapporti di forza tra i singoli lavoratori e datori di lavoro, indebolendo ulteriormente i primi, togliendo il potere deterrente che ha quella norma. Questo non credo che produrrà ondate di licenziamenti, ma di sicuro creerà un contenzioso giudiziario fortissimo. In questo è stato il governo a dimostrarsi ideologico».

Elsa Fornero ha sempre parlato di giovani. La riforma li tutela realmente di più? «Solo parzialmente. C’è qualche tutela in più, come l’attenzione agli abusi su co.co.pro e partite Iva. Ma la gran parte delle nuove norme non riguarda i trentenni, la categoria cioè più in difficoltà oggi. Il contratto di apprendistato potrà favorire i giovani sotto i trentenni che entreranno nel mondo del lavoro, ma non chi ha 30 anni e più. Per quanto riguarda gli ammortizzatori si parlava di universalità,ma c’è solo un piccolo allargamento perché si lascia come requisito le 52 settimane di lavoro nel biennio e i 2 anni di anzianità di contribuzione. Per loro ci sarebbe il mini Aspi, ma è la solita mania italiana di prevedere tanti istituti ad hoc,come la disoccupazione a requisiti ridotti in agricoltura o nell’edilizia. Sarebbe stato meglio prevedere una sola misura, modulata secondo l’anzianità contributiva, come negli altri Paesi. In ogni caso continuano ad essere esclusi i co.co. pro. Va poi sottolineato che tutte queste modifiche non produrranno un solo posto di lavoro».

L’altro cavallo di battaglia di Fornero è il lavoro femminile. Qua la riforma produce più risultati? «Ancora meno. La norma sulle dimissioni in bianco è importante, ma èun atto dovuto, di reintrodurre quei controlli che erano stati cancellati sciaguratamente dal governo Berlusconi. Sul resto non vedo risultati. I problemi dell’occupazione femminile sono la scarsa domanda di lavoro e la conciliazione con la vita familiare. E non sono stati affrontati».

E i congedi di paternità? Quelli sono positivi, no? «Una cosa carina, niente più. Se si vuole che i padri condividano la cura dei figli, tre giorni non bastano. Io avrei chiesto di pagare di più i congedi, quella sarebbe stata una svolta. Oggi in Italia i genitori hanno 10 mesi di congedo dopo la maternità. I primi sei mesi sono pagati al 30%, gli altri quattro non lo sono affatto. E non mi si venga a dire che è un passo avanti verso la parità. Lo sarebbe solo se oltre alla quota riservata (10 mesi divisibili fra i due genitori) che abbiamo in Italia, si alzasse il livello di copertura dello stipendio almeno al 50%, come chiede l’Unicef».

C’è poi il voucher per il baby-sitting… «La norma non è chiara,ma comunque, incoraggiando il ritorno al lavoro della donna al più presto, va in direzione opposta rispetto, ancora una volta, alla Germania, l’ultimo Paese avanzato ad adottare una normativa che invece consente ai genitori a stare, eventualmente alternandosi, con il figlio per tutto il primo anno di vita. In più l’idea del baby sitting va contro il principio che i servizi per l’infanzia devono essere strumenti educativi. In Italia sono troppo pochi,ma hanno una grande tradizione di eccellenza».

Bisogna però riconoscere che tutta questa riforma è fatta senza risorse. Dove si potevano trovare? «A parte i giusti e autorevoli pareri sul rischio che continuando a tagliare non si potrà crescere, io avrei utilizzato le poche risorse disponibili per creare unpo’ di lavoro per giovani e donne, producendo coesione sociale. E il modo migliore era investire sulla riqualificazione ambientale ed urbana e sui servizi alla persona. E non lo si è fatto per niente».

L’Unità 25.03.12

"Il premier ha violato la promessa di non toccare i contratti in vigore", intervista a Dario Franceschini di Giovanna Casadio

Tanti lavoratori si chiedono: anch´io rischio di essere licenziato? È un errore creare queste paure. E rischiamo di avere dichiarazioni di crisi pretestuose per tagliare posti. Il testo sul lavoro è chiuso. Ha detto Monti: “Su questo non si tratta”. Non crede che il Pd si illuda di poter cambiare l´articolo 18, onorevole Franceschini?
«Monti ha detto di riferirsi al fatto che il governo non intende riaprire la trattativa con le parti sociali. Assicura però, e non poteva essere diversamente, che sarà il Parlamento a decidere se approvare la riforma del lavoro in blocco, respingerla o correggerla. Il Pd è impegnato a correggerla. Quella norma così com´è non passerà. Abbiamo sostenuto subito che ci doveva essere un disegno di legge, e non un decreto legge. Non per prendere tempo – perché anche un ddl si può approvare in fretta, con una corsia preferenziale – ma perché con un decreto le norme sarebbero entrate in vigore immediatamente, compresa quella sbagliata sull´articolo 18. Invece siamo convinti che il Parlamento la modificherà. Siamo del resto in un sistema parlamentare, in cui è il governo a rispondere al Parlamento e non viceversa».
Però riformare il mercato del lavoro era la mission del governo Monti?
«Noi sosteniamo le cose che stanno nel patto costituente di questo governo. Monti sa che le parole pronunciate in Parlamento sono sempre come pietre. Ma se sono le parole del discorso di insediamento – su cui il governo ha ottenuto la prima fiducia costitutiva – sono ancora più pesanti. Il 17 novembre del 2011 in Senato, Monti disse a proposito di mercato del lavoro: “In ogni caso, il nuovo ordinamento che andrà disegnato verrà applicato ai nuovi rapporti di lavoro per offrire loro una disciplina veramente universale, mentre non verranno modificati i rapporti di lavori regolari e stabili in essere”. Lo stenografico dopo questa frase riporta: “Applausi dei deputati del Pd e del Pdl”. È la nuova norma sull´articolo 18 ora a differenziarsi da quella linea, non noi. Non è vietato discostarsi, ma solo con l´accordo delle forze politiche che hanno fatto nascere il governo».
Quindi, qual è il punto di mediazione sull´articolo 18?
«Si può lavorare proprio su quella traccia, differenziando le regole per i nuovi assunti da quelle per i contratti già in essere. Per questi si può arrivare al massimo al modello tedesco che prevede di fronte al licenziamento per ragioni economiche il ricorso al giudice, il quale può decidere tra indennizzo o reintegro».
Lo scontro in atto – con lo sciopero annunciato dalla Cgil, il pressing del Pd – indeboliscono il governo, come sostiene Alfano?
«Nessuno mette in discussione il sostegno al governo. Una democrazia parlamentare si basa sul rapporto tra l´esecutivo e la maggioranza che lo sostiene. E penso che il cambiamento di quella norma sui licenziamenti per motivi economici non possa avvenire con maggioranze occasionali: né riproponendo la vecchia opposizione più la Lega, né con un arco di forze contro il Pd».
Il Pdl invita a un impegno per chiudere entro l´estate. I Democratici se la sentono di prenderlo?
«Assolutamente sì. Il testo modificato potrebbe essere approvato entro gli stessi termini di un decreto legge».
Realisticamente, quali margini ci sono per cambiare il provvedimento?
«Tutti i precedenti decreti del governo, dal “Salva Italia” alle liberalizzazioni, sono stati modificati e migliorati dal Parlamento. Sarà così anche questa volta. Non è una minaccia, è il rispetto delle regole costituzionali. Sono convinto che più passa il tempo e più si esce dalla lettura in base alle diverse posizioni dei partiti e dei sindacati, e si passa al merito di cosa produce questa norma. Sarà il semplice buonsenso a far capire che è sbagliata. Non a caso anche la Cisl, poi la Uil, l´Ugl, e la Cei via via hanno sostenuto che serve il reintegro».
In cosa la norma è sbagliata, secondo lei?
«La norma è sbagliata sia per gli effetti individuali che produce sia per l´impatto psicologico in un paese già impaurito. Crea una situazione in cui la più forte della due parti, il datore di lavoro, stabilisce unilateralmente la propria situazione di difficoltà economica che gli consente di licenziare. Al lavoratore, resta la possibilità di ricorrere al giudice al massimo per ottenere un indennizzo. È evidente che potranno esserci pretestuose dichiarazioni di crisi per poter licenziare. Siamo un paese in piena crisi. Il problema italiano è stabilizzare i precari, non precarizzare gli stabili».

La Repubblica 25.03.12

“Il premier ha violato la promessa di non toccare i contratti in vigore”, intervista a Dario Franceschini di Giovanna Casadio

Tanti lavoratori si chiedono: anch´io rischio di essere licenziato? È un errore creare queste paure. E rischiamo di avere dichiarazioni di crisi pretestuose per tagliare posti. Il testo sul lavoro è chiuso. Ha detto Monti: “Su questo non si tratta”. Non crede che il Pd si illuda di poter cambiare l´articolo 18, onorevole Franceschini?
«Monti ha detto di riferirsi al fatto che il governo non intende riaprire la trattativa con le parti sociali. Assicura però, e non poteva essere diversamente, che sarà il Parlamento a decidere se approvare la riforma del lavoro in blocco, respingerla o correggerla. Il Pd è impegnato a correggerla. Quella norma così com´è non passerà. Abbiamo sostenuto subito che ci doveva essere un disegno di legge, e non un decreto legge. Non per prendere tempo – perché anche un ddl si può approvare in fretta, con una corsia preferenziale – ma perché con un decreto le norme sarebbero entrate in vigore immediatamente, compresa quella sbagliata sull´articolo 18. Invece siamo convinti che il Parlamento la modificherà. Siamo del resto in un sistema parlamentare, in cui è il governo a rispondere al Parlamento e non viceversa».
Però riformare il mercato del lavoro era la mission del governo Monti?
«Noi sosteniamo le cose che stanno nel patto costituente di questo governo. Monti sa che le parole pronunciate in Parlamento sono sempre come pietre. Ma se sono le parole del discorso di insediamento – su cui il governo ha ottenuto la prima fiducia costitutiva – sono ancora più pesanti. Il 17 novembre del 2011 in Senato, Monti disse a proposito di mercato del lavoro: “In ogni caso, il nuovo ordinamento che andrà disegnato verrà applicato ai nuovi rapporti di lavoro per offrire loro una disciplina veramente universale, mentre non verranno modificati i rapporti di lavori regolari e stabili in essere”. Lo stenografico dopo questa frase riporta: “Applausi dei deputati del Pd e del Pdl”. È la nuova norma sull´articolo 18 ora a differenziarsi da quella linea, non noi. Non è vietato discostarsi, ma solo con l´accordo delle forze politiche che hanno fatto nascere il governo».
Quindi, qual è il punto di mediazione sull´articolo 18?
«Si può lavorare proprio su quella traccia, differenziando le regole per i nuovi assunti da quelle per i contratti già in essere. Per questi si può arrivare al massimo al modello tedesco che prevede di fronte al licenziamento per ragioni economiche il ricorso al giudice, il quale può decidere tra indennizzo o reintegro».
Lo scontro in atto – con lo sciopero annunciato dalla Cgil, il pressing del Pd – indeboliscono il governo, come sostiene Alfano?
«Nessuno mette in discussione il sostegno al governo. Una democrazia parlamentare si basa sul rapporto tra l´esecutivo e la maggioranza che lo sostiene. E penso che il cambiamento di quella norma sui licenziamenti per motivi economici non possa avvenire con maggioranze occasionali: né riproponendo la vecchia opposizione più la Lega, né con un arco di forze contro il Pd».
Il Pdl invita a un impegno per chiudere entro l´estate. I Democratici se la sentono di prenderlo?
«Assolutamente sì. Il testo modificato potrebbe essere approvato entro gli stessi termini di un decreto legge».
Realisticamente, quali margini ci sono per cambiare il provvedimento?
«Tutti i precedenti decreti del governo, dal “Salva Italia” alle liberalizzazioni, sono stati modificati e migliorati dal Parlamento. Sarà così anche questa volta. Non è una minaccia, è il rispetto delle regole costituzionali. Sono convinto che più passa il tempo e più si esce dalla lettura in base alle diverse posizioni dei partiti e dei sindacati, e si passa al merito di cosa produce questa norma. Sarà il semplice buonsenso a far capire che è sbagliata. Non a caso anche la Cisl, poi la Uil, l´Ugl, e la Cei via via hanno sostenuto che serve il reintegro».
In cosa la norma è sbagliata, secondo lei?
«La norma è sbagliata sia per gli effetti individuali che produce sia per l´impatto psicologico in un paese già impaurito. Crea una situazione in cui la più forte della due parti, il datore di lavoro, stabilisce unilateralmente la propria situazione di difficoltà economica che gli consente di licenziare. Al lavoratore, resta la possibilità di ricorrere al giudice al massimo per ottenere un indennizzo. È evidente che potranno esserci pretestuose dichiarazioni di crisi per poter licenziare. Siamo un paese in piena crisi. Il problema italiano è stabilizzare i precari, non precarizzare gli stabili».

La Repubblica 25.03.12

“Il premier ha violato la promessa di non toccare i contratti in vigore”, intervista a Dario Franceschini di Giovanna Casadio

Tanti lavoratori si chiedono: anch´io rischio di essere licenziato? È un errore creare queste paure. E rischiamo di avere dichiarazioni di crisi pretestuose per tagliare posti. Il testo sul lavoro è chiuso. Ha detto Monti: “Su questo non si tratta”. Non crede che il Pd si illuda di poter cambiare l´articolo 18, onorevole Franceschini?
«Monti ha detto di riferirsi al fatto che il governo non intende riaprire la trattativa con le parti sociali. Assicura però, e non poteva essere diversamente, che sarà il Parlamento a decidere se approvare la riforma del lavoro in blocco, respingerla o correggerla. Il Pd è impegnato a correggerla. Quella norma così com´è non passerà. Abbiamo sostenuto subito che ci doveva essere un disegno di legge, e non un decreto legge. Non per prendere tempo – perché anche un ddl si può approvare in fretta, con una corsia preferenziale – ma perché con un decreto le norme sarebbero entrate in vigore immediatamente, compresa quella sbagliata sull´articolo 18. Invece siamo convinti che il Parlamento la modificherà. Siamo del resto in un sistema parlamentare, in cui è il governo a rispondere al Parlamento e non viceversa».
Però riformare il mercato del lavoro era la mission del governo Monti?
«Noi sosteniamo le cose che stanno nel patto costituente di questo governo. Monti sa che le parole pronunciate in Parlamento sono sempre come pietre. Ma se sono le parole del discorso di insediamento – su cui il governo ha ottenuto la prima fiducia costitutiva – sono ancora più pesanti. Il 17 novembre del 2011 in Senato, Monti disse a proposito di mercato del lavoro: “In ogni caso, il nuovo ordinamento che andrà disegnato verrà applicato ai nuovi rapporti di lavoro per offrire loro una disciplina veramente universale, mentre non verranno modificati i rapporti di lavori regolari e stabili in essere”. Lo stenografico dopo questa frase riporta: “Applausi dei deputati del Pd e del Pdl”. È la nuova norma sull´articolo 18 ora a differenziarsi da quella linea, non noi. Non è vietato discostarsi, ma solo con l´accordo delle forze politiche che hanno fatto nascere il governo».
Quindi, qual è il punto di mediazione sull´articolo 18?
«Si può lavorare proprio su quella traccia, differenziando le regole per i nuovi assunti da quelle per i contratti già in essere. Per questi si può arrivare al massimo al modello tedesco che prevede di fronte al licenziamento per ragioni economiche il ricorso al giudice, il quale può decidere tra indennizzo o reintegro».
Lo scontro in atto – con lo sciopero annunciato dalla Cgil, il pressing del Pd – indeboliscono il governo, come sostiene Alfano?
«Nessuno mette in discussione il sostegno al governo. Una democrazia parlamentare si basa sul rapporto tra l´esecutivo e la maggioranza che lo sostiene. E penso che il cambiamento di quella norma sui licenziamenti per motivi economici non possa avvenire con maggioranze occasionali: né riproponendo la vecchia opposizione più la Lega, né con un arco di forze contro il Pd».
Il Pdl invita a un impegno per chiudere entro l´estate. I Democratici se la sentono di prenderlo?
«Assolutamente sì. Il testo modificato potrebbe essere approvato entro gli stessi termini di un decreto legge».
Realisticamente, quali margini ci sono per cambiare il provvedimento?
«Tutti i precedenti decreti del governo, dal “Salva Italia” alle liberalizzazioni, sono stati modificati e migliorati dal Parlamento. Sarà così anche questa volta. Non è una minaccia, è il rispetto delle regole costituzionali. Sono convinto che più passa il tempo e più si esce dalla lettura in base alle diverse posizioni dei partiti e dei sindacati, e si passa al merito di cosa produce questa norma. Sarà il semplice buonsenso a far capire che è sbagliata. Non a caso anche la Cisl, poi la Uil, l´Ugl, e la Cei via via hanno sostenuto che serve il reintegro».
In cosa la norma è sbagliata, secondo lei?
«La norma è sbagliata sia per gli effetti individuali che produce sia per l´impatto psicologico in un paese già impaurito. Crea una situazione in cui la più forte della due parti, il datore di lavoro, stabilisce unilateralmente la propria situazione di difficoltà economica che gli consente di licenziare. Al lavoratore, resta la possibilità di ricorrere al giudice al massimo per ottenere un indennizzo. È evidente che potranno esserci pretestuose dichiarazioni di crisi per poter licenziare. Siamo un paese in piena crisi. Il problema italiano è stabilizzare i precari, non precarizzare gli stabili».

La Repubblica 25.03.12