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"Legge 40 tutti i divieti abbattuti dai giudici", di Mariagrazia Gerina

Sono stati dieci anni travagliati quelli della Legge 40, due lustri di battaglie giudiziarie che ne hanno riscritto e ridimensionato la portata e il significato originari. Sono stati 29 gli interventi dei tribunali con venti bocciature e la «riscrittura» di alcune sue parti con sentenza della Corte costituzionale, unico organo che può cancellare i divieti modificando leggi in vigore.
Sono tre i pilastri della legge sulla fecondazione in vitro già abbattuti dai giudici: il divieto di produzione di più di tre embrioni, l’obbligo di impianto contemporaneo di tutti gli embrioni prodotti, su cui è inter- venuta appunto la Consulta nel 2009, e il divieto di diagnosi preimpianto (ma per le coppie infertili, quelle che hanno accesso alla Pma, con intervento del Tar del Lazio sulle linee guida).

Ecco la fotografia attuale della legge 40 (secondo una elaborazione dell’Associazione Coscioni): Divieto di produzione di più di tre embrioni: rimosso con sentenza della Corte costituzionale 151/2009.

Obbligo di contemporaneo impianto di tutti gli embrioni prodotti: rimosso con sentenza della Corte costituzionale 151/2009.

Divieto di diagnosi preimpianto: rimosso con sentenza del Tar del Lazio del 2008 che ha annullato per «eccesso di potere» le Linee Guida per il divieto di indagini cliniche sull’embrione.

Divieto di accesso alle coppie fertili ma portatrici di patologie genetiche: è oggetto della questione di costituzionalità sollevata dal Tribuna- le di Roma e in attesa di udienza davanti alla Corte costituzionale. Divieto di eterologa: in attesa di udienza in Corte costituzionale che sarà oggi.

Divieto di utilizzo degli embrioni per la ricerca scientifica: in attesa di udienza in Corte costituzionale che sarà oggi.

Divieto di accesso alla fecondazione assistita per single e coppie del- lo stesso sesso: in vigore. In Italia manca però, come spiega Filomena Gallo dell’associazione Coscioni, una legislazione di riferimento.

L’Unità 08.04.14

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«La Consulta mi aiuti a diventare mamma»,di Mariagrazia Gerina

Devono permetterci di farlo in Italia, io all’estero non ci torno più», ripete con un filo di voce Elisabetta, trentaquattro anni, siciliana. Lei e suo marito sono una delle migliaia di coppie sterili che la legge 40 sulla procreazione assistita ha costretto ad emigrare in cerca delle cure negate. A loro è andata male e sentono di aver pagato un prezzo troppo alto per provarci ancora. Se la Consulta dovesse cancellare il divieto di fecondazione eterologa, allora sarebbe diverso: «In Italia mi sentirei più tutelata», spiega Elisabetta, in attesa del verdetto della Corte costituzionale. «C’è qualche speranza stavolta?», ha scritto alla vigilia dell’udienza a Filomena Gallo, legale e segretario della Associazione Luca Coscioni, che interverrà davanti alla Consulta parlerà a nome di tutte le coppie ostacolate dalla legge 40.

Coppie come Elisabetta e Giovanni. I nomi sono di fantasia, la loro storia no. È storia italiana. Elisabetta e Giovanni sono siciliani. Quando si sono sposati, ad agosto 2011, sapevano già che sarebbe stato difficile avere figli. «Mio marito ha la sindrome di Klinefelter e non produce spermatozoi», spiega Elisabetta: «Però pensavamo che con la fecondazione assistita avremmo potuto lo stesso mettere al mondo dei bambini. Poi il medico ci ha spiegato che era possibile sì, ma solo attraverso la fecondazione eterologa, che in Italia è vietata». Inizia così il loro viaggio del- la speranza, fai-da-te. «Prima cerchi in rete le cliniche e i centri che all’estero fanno l’eterologa, poi entri nei forum, cominci a scambiarti informazioni con le altre coppie…». Un viaggio senza rete. Si va per tentativi. «All’inizio ci siamo rivolti al centro Procrea in Svizzera, ma ci chiedevano 3.500 euro solo per la fecondazione, escluso il viaggio: troppo per noi, così abbiamo cercato ancora». Alla fine, per risparmiare, hanno scelto di andare a Praga, al centro Gennet, dove i costi sono molto più bassi: «1900 euro tra prelievo e trasferimento più i costi dei medicinali che de- vi assumere prima di partire». E così ha fatto Elisabetta, che, come fosse un agente segreto, ha ricevuto da Praga il piano terapeutico da seguire in Italia. Poi ad aprile è partita per la Repubblica Ceca per la fecondazione. Le cose però non sono andate bene: «Cinque giorni dopo il prelievo degli ovociti avrei dovuto fare i trasferimento in utero, ma ho cominciato a sentirmi male: sono andata in iperstimolazione ovarica, ho preso dieci chili in tre giorni. Mi hanno detto di farmi ricoverare lì a Praga, ma io non me la sono sentita e sono voluta tornare in Italia, dove sono stata in ospedale per 11». Non è stato facile, ma a luglio, quando è stata meglio, Elisabetta è tornata a Praga per l’impianto. Solo che, dopo essere rimasta incinta, alla ottava settimana ha avuto un aborto spontaneo. L’unica cosa semplice è stata quella che in Italia mette più paura: la scelta del donatore. «Ci hanno domandato una fotografia per fare in modo che fosse simile a mio marito, non l’abbiamo chiesto noi, non ci importava. Non so se altrove funziona diversamente».
Il terzo e ultimo viaggio lo hanno fatto a gennaio. Ultimo perché è andata male, gli embrioni sono finiti e Elisabetta e Giovanni non hanno i soldi per provarci un’altra volta. «Io sono laureata in Lingue ma disoccupata, mio marito è artigiano. I soldi per andare a Praga ce li hanno prestati i nostri genitori. Anche risparmiando su tutto, scegliendo il paese più economico, la stanza d’albergo a 40 euro, ci vogliono almeno 6mila euro per tentare ancora». E poi non è solo una questione economica: «Ho avuto paura – racconta Elisabetta -, sono stata male, ho rischiato la vita. Un’altra volta non ce la faccio. Non così, non sei abbastanza seguita. Se potessi ritentare in Italia sarebbe diverso, mi sentirei più tutelata. Così il tuo ginecologo non può neppure prendere contatto con la clinica che ti segue, per paura della legge».

L’unica speranza ora è che la Consulta metta fine a questo incubo, suo e di tante altre donne. «Io credevo di essere l’una e invece ho scoperto che ce ne sono tantissime in Italia di coppie come noi. A Praga ne ho incontrate proprio tante. Per questo mi chiedo:
perché all’estero sì e in Italia no? Forse perché in Italia c’è il Vaticano? Ma che c’entra la religione? Perché non lascia- re queste scelte alla coscienza di ciascuno?», si domanda Elisabetta, da cattolica oltretutto, che crede e va a messa. «E poi basta ripeterci: ma perché non adottate un bambino? Come se poi fosse più facile. O come se fosse da egoisti voler restare incinta. Sì mio marito, anche se non può avere figli, vuole vedermi con il pancione, vivere la gravidanza con me e allora? La scienza ce lo permette perché la legge ce lo deve vietare?».

L’Unità 08.04.14

"Dottori di ricerca, chi va all'estero guadagna il doppio", da Agenzia Dire

I dottori di ricerca italiani che decidono di andare a lavorare all’estero guadagnano in media il doppio di chi non ha intrapreso percorsi di mobilità. E’ quanto emerge dall’Indagine sulla Mobilità Geografica dei Dottori di Ricerca svolta dall’Isfol, di cui oggi l’Istituto mette a disposizione una prima anticipazione. I dati si riferiscono a un vasto campione di individui che hanno conseguito il dottorato nel 2006 e sono stati intervistati sei anni dopo. A fronte di un reddito medio annuo dei dottori di ricerca pari a 20.085 euro netti, chi sceglie di lasciare l’Italia percepisce circa 10.000 euro in più (con un reddito medio di 29.022 euro). Un vantaggio retributivo si riscontra, pur se in forma minore, anche per coloro che affrontano percorsi di mobilità geografica all’interno del territorio nazionale (con un reddito medio di 20.524 euro, contro i 19.180 euro di chi non si muove affatto).

Tra gli altri fattori che determinano disparità di reddito particolarmente rilevanti emerge il peso della dimensione di genere: i dottori di ricerca maschi hanno retribuzioni maggiori del 19,6% rispetto alle donne, così come si rileva in generale nel mercato del lavoro italiano. Dal punto di vista contrattuale, essere un lavoratore dipendente a tempo indeterminato permette di raggiungere una retribuzione dell’11% superiore rispetto a chi svolge un lavoro su basi autonome. Viceversa i lavoratori dipendenti a tempo determinato hanno una riduzione dei salari del 10% se paragonati agli autonomi. La contrazione è addirittura del 22% laddove la forma contrattuale sia una collaborazione o un lavoro a progetto. Trova inoltre conferma il forte peso dell’esperienza lavorativa, a scapito dell’elevato titolo di studio posseduto: coloro che svolgono il medesimo lavoro da prima del conseguimento del titolo hanno un reddito del 17% superiore.

Gli indirizzi disciplinari che generano retribuzioni più elevate afferiscono alle scienze mediche, farmaceutiche e veterinarie (circa +7% del valore medio). All’opposto si collocano i dottori con studi umanistici e psicosociali (oltre il -16%). I dottori che svolgono professioni mediamente qualificate presentano retribuzioni inferiori sia a coloro che lavorano in professioni tecniche sia soprattutto a quanti lavorano in professioni high-skill (rispettivamente -6% e -20,5%).

La maggior parte dei dottori di ricerca risulta impiegata nel settore pubblico. Tuttavia lavorare nel privato fa aumentare le retribuzioni medie dei dottori di circa 9 punti percentuali.

Complessivamente in termini occupazionali la situazione di questa componente del mercato del lavoro è decisamente positiva. A distanza di circa sei anni dal conseguimento del titolo il tasso di occupazione raggiunge il 92,5% (per chi va all’estero si arriva al 95,4%). Il tasso di disoccupazione è del 2,1% (2% se all’estero). Il tasso di inattività è del 5,4% (2,6% se all’estero). Vi è una netta prevalenza del lavoro dipendente (65%), con un 47,5% a tempo indeterminato e un 17,6% a tempo determinato. Il 20,6% ha un contratto di collaborazione e il 10,6% è libero professionista.

Per i dottori di ricerca che sono emigrati in un altro Stato si evidenzia una maggiore concentrazione in forme contrattuali di natura flessibile: circa il 30% ha un contratto a tempo determinato e il 27% di collaborazione. I dottori che si sono trasferiti all’interno del territorio italiano mostrano invece un più elevato inserimento professionale con contratti permanenti(52%).

Il 65% degli occupati svolge attività di ricerca, in coerenza con il livello di studi conseguito. La percentuale sale all’86% per chi va all’estero. L’88% dei dottori occupati afferma di essere molto o abbastanza soddisfatto del proprio lavoro. Per chi è andato all’estero il valore arriva al 97%. Infine, l’indagine evidenzia l’importanza di esperienze di mobilità svolte durante gli studi universitari: chi ha partecipato al programma Erasmus ha un reddito mediamente più alto del 2,4%. E’ un dato, quest’ultimo, che va a confermare il valore di un programma al quale l’Isfol partecipa direttamente come una delle tre Agenzie nazionali. Proprio in questi giorni e per l’esattezza il 10 aprile a Firenze si terrà l’evento di lancio di Erasmus+.

Agenzia DIre 08.04.14

"A Mirandola il tecnopolo al servizio del biomedicale", di Ilaria Vesentini

Dalla ricostruzione all’innovazione hi-tech. Potrebbe essere il sottotitolo del nuovo Parco scientifico e tecnologico presentato oggi a Mirandola, comune del Modenese culla del secondo distretto biomedicale d’Europa – 94 aziende, 3.500 occupati oltre 900 milioni di fatturato – e simbolo del sisma che qui due anni fa ha paralizzato il 95% delle attività. Un investimento da oltre 4,5 milioni tra edifici (800 mq) e attrezzature dei tre laboratori (biologia, tossicologia e bio-misurazioni) e 20 nuovi posti di lavoro per ricercatori. All’interno di un campus, targato sempre dalla Fondazione Democenter, che offrirà corsi di alta formazione post diploma e post laurea (il primo master partirà il 10 aprile) e un incubatore di start-up da 1.100 mq.
Quello che diventerà prima dell’estate l’undicesimo tecnopolo della rete Alta tecnologia regionale è oggi il testimonial di un distretto «che ha ormai digerito la fase del terremoto, perché sono tutti ripartiti, ma è costretto a fare i conti con un mercato domestico falcidiato dalla spending review che ci rende meno ottimisti di quanto fossimo sei mesi fa», afferma Giuliana Gavioli, caposezione Biomedicale di Confindustria Modena.
Eppure sei mesi fa non si sapeva ancora che il big tedesco dell’healthcare Fresenius avrebbe investito 15 milioni nel polo mirandolese per farne il centro di produzione mondiale dei filtri per trasfusione. E che pure il colosso Sorin avrebbe puntato sul distretto 20 milioni per ampliare la produzione e creare nuovi laboratori R&S nel cardiovascolare. Sei mesi fa non si aveva certezza che Gambro, alle prese con il passaggio nell’orbita americana di Baxter, avrebbe avviato i 40 milioni di euro di lavori per restare a Medolla: invece il distribution center è finito e ora in fase di test, mentre il prossimo autunno saranno pronti i due siti produttivi per monitor e blood line e potranno rientrare macchinari e addetti (360) finora delocalizzati tra Poggio Rusco e Crevalcore. Così come sei mesi fa non si sapeva che Haemotronic, sotto le cui macerie morirono quattro persone, non avrebbe solo ricostruito il magazzino di Mirandola (costato 5 milioni e inaugurato 15 giorni fa), ma avrebbe colto la chance del sisma per potenziare la fabbrica distrutta di Medolla, trasferendola a Mirandola, per creare un unico polo produttivo-logistico più efficiente. Un progetto da 35 milioni da mettere in cantiere entro l’anno.
Sono tutti tornati al 100% delle attività pre-sisma i grandi nomi del biomedicale, dai primi a ripartire come Bbraun, Bellco, Covidien agli altri ancora alle prese con le impalcature. Lo confermano i dati inediti sull’export distrettuale del Monitor Intesa Sanpaolo, che raccontano di vendite oltrefrontiera cresciute del 6,3% l’anno scorso con un exploit del 51,6% tra luglio e settembre, quando l’ottimismo a Mirandola era alle stelle. «Il nuovo tecnopolo che lavorerà in stretto collegamento con atenei, centri di ricerca e Ssn – sottolinea Gavioli – è sicuramente un input in più per le multinazionali a restare nel distretto ma è soprattutto la risposta a un gap competitivo di cui soffrono le Pmi». In ottobre partirà a Mirandola anche l’Istituto tecnico superiore biomedicale per formare tecnici qualificati. La ricostruzione è stato solo il punto di partenza.

Il Sole 24 Ore 08.04.14

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Parco biomedicale, il futuro inizia da qui

Le istituzioni, nel corso dell’incontro, hanno più volte minimizzato i sospetti e tentato di fugare i dubbi sul fatto che strutture come queste, oltre all’importante aspetto dell’innovazione, rappresentino lo “scotto” da pagare alle multinazionali dopo averle convinte a restare sul territorio in seguito al sisma del 2012. Un discorso dunque per certi versi collegabile a quello della Cispadana, la cui nascita sulla carta dovrebbe permettere una più veloce circolazione di materiali e risorse umane. «Non credo che le multinazionali abbiano posto questa struttura come paletto per la loro permanenza sul territorio – ribadisce Gian Carlo Muzzarelli, seguito a ruota da Giuliana Gavioli – Piuttosto ritengo che il Parco scientifico sia di aiuto a tutte le imprese, soprattutto a quelle più piccole». Sul fatto che all’estero i centri di ricerca ottengano molte più risorse, e che quindi Mirandola si troverà di fronte a competitors agguerriti e con solidi finanziamenti alle spalle, la risposta è univoca: «Fare paragoni con gli altri Paesi non aiuta, soprattutto se si considera la realtà italiana al momento attuale e la ridotta estensione del territorio». (g.v.)di Giovanni Vassallo wMIRANDOLA Tre laboratori, iniziative di alta formazione, un incubatore per start-up. Sono queste le principali caratteristiche del nuovo Parco scientifico e tecnologico che sorgerà nei pressi del polo scolastico, ideato da Democenter in collaborazione con l’Università di Modena e realizzato con finanziamenti regionali (4,25 milioni), mentre Fondazione Cassa di Risparmio di Mirandola ha investito 300mila euro nell’acquisto delle attrezzature. Alla presentazione hanno partecipato l’assessore regionale Muzzarelli, il rettore di Modena Angelo Oreste Andrisano, il sindaco Benatti e Giuliana Gavioli, responsabile sezione biomedicale di Confindustria. Un progetto che parte da un contesto locale per ambire ad un ruolo ed un accreditamento internazionale, tramite una governance e un’impostazione di tipo industriale ma allo stesso tempo fortemente relazionata al mondo della ricerca: realizzato grazie al supporto di svariate imprese del distretto, infatti, il Parco tecnologico potrà anche usufruire delle competenze e del supporto di diverse università e centri di ricerca esteri. Entrando più nel dettaglio, i tre laboratori (biologia, tossicologia e bio-misurazioni) si occuperanno di materiali innovativi, uno dei punti di partenza per lo sviluppo di nuove tecnologie di interesse biomedicale. Il primo lavorerà sulla biocompatibilità e sulle reazioni tra il materiale e le cellule; il secondo valuterà i processi di invecchiamento, la caratterizzazione della degradazione in condizioni d’uso e realizzerà estratti e campioni per test di materiali; il terzo, infine, funzionalizzerà i materiali attraverso le nanotecnologie e svilupperà sensoristica e tecniche di misura per grandezze di interesse medico. A questo primo aspetto si affiancano le iniziative di alta formazione, fondamentali per indirizzare i giovani. Importante in tal senso è l’istituzione del master di primo livello in “Materiali, prodotti, processi e sistemi per la filiera biomedicale”, tenuto da docenti specializzati che dovrebbe arrivare a fine 2014. A fianco del Parco scientifico, infine, sorgerà un incubatore con 1100 metri quadrati destinati alle start-up. Per le tre che vi troveranno spazio (provenienti da Mirandola, Modena e Bologna, da gennaio ospitate in un container) ci sarà la possibilità di accedere ai laboratori e di usufruire di un programma comprendente formazione, consulenze specialistiche, accesso a reti per l’internazionalizzazione e fundraising. I lavori di costruzione della struttura, che ospiterà 20 competenze tecniche tra ricercatori, docenti e tecnici, sono già a buon punto: l’obiettivo è quello di procedere con l’inaugurazione a luglio.

La Gazzetta di Modena 08.04.14

"Come rendere democratici i tagli di spesa", di Elisabetta Gualmini

La revisione della spesa pubblica che ha finalmente preso corpo nel nostro paese non può essere solo un’operazione contabile, una sadica ossessione da ragionieri pulp di dare colpi di accetta qua e là sull’inerme progenie di Monsù Travet. Il miglioramento dell’efficienza della pubblica amministrazione non passa solo per la riduzione chirurgica degli sprechi ma anche, allo stesso tempo, per nuovi investimenti sul personale. Sembra un paradosso ma non è così. Se ben gestita, la spending review potrebbe essere la più equa e «democratica» delle riforme: si liberano risorse dai settori dove ce ne sono troppe per evitare che altri settori di particolare rilevanza per i cittadini debbano essere ulteriormente degradati. Non si può dire ai dipendenti pubblici: ti tolgo risorse, ti blocco lo stipendio, e siccome sei un po’ fannullone può anche darsi che ti tagli la testa, ma comunque tu preparati a partecipare con entusiasmo a una straordinaria avventura di cambiamento e modernizzazione.

In un paese in cui il personale pubblico è uno dei più vecchi al mondo questa sfida è ancora più difficile.

Anzi, è proprio questo il nodo più intricato da sciogliere se si vuole riformare sul serio la pubblica amministrazione e mettere in moto una spending review permanente. Il ministro Madia ha fatto quindi bene a metterlo in agenda e a tenere il punto.

Il confronto internazionale è impietoso. L’amministrazione centrale italiana ha il tasso più alto di dipendenti pubblici con oltre 50 anni tra tutti i paesi Ocse, Giappone incluso: circa il 50% contro il 30% della Francia e il 31% del Regno Unito. Una burocrazia così anziana fa fatica a recuperare produttività e a elaborare visioni rivoluzionarie che guardino al futuro.

Altre cose che in tanti pensano invece non sono vere. Non è vero che i funzionari pubblici sono troppi. Nel decennio compreso tra il 2001 e il 2010 la diminuzione del pubblico impiego in Italia è stata di 4,4 punti percentuali (-160.000 unità), contro l’aumento del 5,1% in Francia e del 2,5% in Germania. Si contano da noi 58,4 dipendenti ogni 1.000 cittadini, un po’ più della Germania (55,4) ma molto di meno della Francia (80,8). Nessun elefante, nessun Leviatano, checché se ne dica. Semmai rimane il problema di retribuzioni dirigenziali completamente squilibrate e sproporzionate tra i diversi comparti; pensiamo a un dirigente scolastico che guadagna 6 volte in meno di alcuni direttori generali.

Ho recentemente partecipato a una ricerca sulla dematerializzazione dei procedimenti amministrativi. Le frasi che ci siamo sentiti ripetere in tutti gli enti coinvolti nella sperimentazione riflettono la consapevolezza della necessità dell’innovazione, ma anche l’impossibilità del cambiamento in un’organizzazione vecchia. «Se non si darà ai giovani la possibilità di entrare, le pubbliche amministrazioni saranno lasciate alla buona volontà dei cinquantenni. Possiamo fare tutti i corsi di formazione che volete, ma senza un ricambio generazionale le organizzazioni invecchiano». E ancora: «Io, che sono il solo qui a occuparmi di innovazione, ho 59 anni». Oppure «Molti colleghi pur avendo imparato a gestire i flussi documentali digitali, si fanno ancora una copia cartacea di tutti gli atti così si sentono più sicuri».

Siamo dunque nel mezzo della terza spending review dal 2011 ad oggi, dopo il tentativo di autoriforma dall’interno (Giarda), di riforma eterodiretta (Bondi) e dopo il mix, giustamente messo in atto da Cottarelli tra coinvolgimento dei dipendenti interni e guida esterna. Siamo in ritardo di vent’anni rispetto agli Stati Uniti e alla «Reinvenzione del governo» di Al Gore (1992) e di trenta anni rispetto al restyling fatto a forza di verifiche e «scrutini» della Thatcher (1982).

Ma per la prima volta il governo sembra aver preso di petto la questione decidendo finalmente di decidere. Ha iniziato, opportunamente, dagli enti più che dai servizi e dalle persone.

La proposta poi del ministro Madia di assumere nuove leve almeno con un rapporto 1 a 3 (rispetto ai prepensionamenti) è ragionevole. D’altro canto non ci sono alternative: inaugurare il cambiamento del settore pubblico e sperare in un paese semplice e accogliente non si può fare a risorse umane invariate. Si rischia altrimenti di avere un’anziana e bella signora con una silhouette perfetta. Ma che comunque non può correre i cento metri.

La Stampa 08.04.14

"L'antiriciclaggio svela l'evasione", di Marco Mobili e Giovanni Parente

Il contrasto al riciclaggio «accende» sempre più la lotta all’evasione. Le segnalazioni di operazioni sospette (Sos) sull’utilizzo di denaro sporco arrivate al nucleo di polizia valutaria della Guardia di Finanza nel 2013 hanno superato quota 91mila, in aumento del 47,5% rispetto all’anno precedente e addirittura del 384,3% (quasi quintuplicate) nei confronti del 2009. Ma c’è di più: l’attività di contrasto al riciclaggio ha messo in luce un reimpiego di denaro proveniente da diversi reati per 3,4 miliardi di euro, con un aumento del 29% rispetto al 2012. E il 56% (1,9 miliardi) deriva da frodi a carattere fiscale.
Il tetto al contante
La crescita continua delle segnalazioni di operazioni sospette, sottolinea il comandante del terzo reparto operazioni della Guardia di Finanza, Francesco Mattana, trova una sua giustificazione soprattutto con il passaggio da 5mila a mille euro della soglia oltre la quale banche, intermediari e professionisti sono chiamati a effettuare le segnalazioni antiriciclaggio.
Non si tratta solo di una crescita quantitativa. Le Sos, aggiunge Mattana, ormai rivestono un ruolo più che strategico nell’attività della Guardia di finanza. E proprio la trasversalità dell’azione condotta dal corpo consente alle Fiamme gialle di utilizzare uno strumento nato per contrastare il riciclaggio anche per altri fini legati all’attività di polizia economica finanziaria come il contrasto all’evasione, alla criminalità organizzata, la tutela della spesa pubblica così come dei prodotti made in Italy. Come a dire che c’è un flusso sempre più integrato delle diverse forme di violazioni che girano intorno al reimpiego del denaro sporco.
In questo senso, precisa ancora il comandante del terzo reparto operazioni del Comando generale, «3 finanzieri su 4 oggi sono impegnati in attività di polizia economica-finanziaria a 360 gradi». E per sgombrare il campo da ogni equivoco «degli attuali 59mila finanzieri il 72% è impegnato in attività operative e di questi il 70% è, ad esempio, attivo nel contrasto all’evasione. Il 18% delle Fiamme Gialle è impegnato in attività di formazione e il restante 12% è utilizzato per il funzionamento dell’intera macchina».
La dinamica
L’attività di controllo innescata dalle Sos ha dato risultati di un certo rilievo nel 2013: i flussi finanziari oggetto di riciclaggio accertati hanno sfiorato i 3,4 miliardi di euro. I sequestri di beni e delle disponibilità finanziarie, anche per equivalente, sono stati pari a 49,1 milioni mentre 1.347 sono state le persone denunciate di cui 166 sono state arrestate. Per quanto riguarda la provenienza delle operazioni sospette, sono sempre le banche in testa (86,2%) mentre l’apporto dei professionisti sconta le solite difficoltà (le segnalazioni sono appena il 2% del totale), dovute a un rapporto molto più diretto e “personale” con i clienti, e quasi tutto concentrato nelle regioni del Centro Italia.
Il monitoraggio e l’approfondimento delle Sos generate dal sistema finanziario, sottolinea Mattana, costituiscono l’input per ulteriori approfondimenti investigativi che spesso portano a far emergere riciclaggio, terrorismo o evasione fiscale.
Un’attenzione specifica nell’ultimo tempo è stata dedicata alla crescita del numero degli operatori che ormai si muovono all’interno dell’intero sistema finanziario come agenti, mediatori creditizi, promotori e consulenti finanziari o ancora i compro oro. Il tutto con un duplice obiettivo, ricorda ancora il Comandante: «Prevenire il rischio che questi soggetti possano essere utilizzati come canali preferenziali per ripulire capitali sporchi agevolandone l’immissione nei circuiti finanziari, e reprimere eventuali condotte fraudolente nei confronti dei risparmiatori».

Il Sole 24 Ore 08.04.14

"Il 35% delle lezioni in azienda", di Alessandra RIcciardi

Da appannaggio quasi esclusivo degli istituti professionali, l’esperienza in azienda sarà generalizzata a tutte le superiori. Anzi, con un vero contratto di apprendistato per i giovani prescelti e per un’incidenza non da poco: fino al 35% dell’orario annuale delle lezioni e già dai 16 anni di età dello studente.
L’obiettivo: consentire ai ragazzi di raggiungere il diploma e contestualmente, attraverso l’apprendistato, di inserirsi in un contesto di lavoro. Il decreto che innova il tradizionale rapporto formazione-lavoro è alla firma dei ministri dell’istruzione, Stefania Giannini, del lavoro, Giuliano Poletti, dell’economia, Pier Carlo Padoan. ItaliaOggi è in grado di anticiparne i contenuti: la novità riguarderà l’ultimo biennio delle superiori, a partire già dal prossimo settembre. Una tabella di marcia stretta, quella che si è data il governo Renzi, che punta a superare i prevedibili scogli sia finanziari (l’operazione deve essere a zero euro) che sindacali (viene facile l’idea che con la formazione in azienda si possa ridurre l’organico dei docenti) grazie all’arma della sperimentazione.

Il progetto infatti non è ordinamentale ma sperimentale (utilizza gli spazi previsti dal decreto legge n. 104/2013) ed è del volontario per le adesioni. Le scuole e le imprese, sia pubbliche che private, interessate dovranno sottoscrivere una convenzione.

L’azienda per candidarsi, prevede la bozza di decreto interministeriale, deve essere affidabile economicamente, avere tutti i requisiti per concorrere ad un appalto pubblico, essere in grado di accogliere singoli studenti o gruppi di classe ed avere già un’esperienza nella formazione di apprendisti in merito ai profili professionali corrispondenti all’indirizzo del diploma delle scuole di riferimento. Paletti che di fatto tengono fuori i licei dall’operazione. Se l’impresa risponde a questi canoni potrà sottoscrivere un protocollo d’intesa con la direzione scolastica regionale e le direzioni del lavoro per stabilire il percorso formativo, il numero minimo di ore da passare in azienda, il numero di studenti da destinare ai percorsi anche alla luce delle prospettive occupazionali.

L’idea è di farne un’esperienza a numero chiuso o comunque programmata rispetto alle esigenze imprenditoriali. In base all’intesa regionale, le scuole interessate, singolarmente oppure in rete, potranno accordarsi con l’azienda per l’organizzazione della didattica, la scelta dei ragazzi interessati da avviare ai percorsi, la certificazione delle competenze. Per l’intera durata del percorso, sarà garantita la presenza di un tutor aziendale e di un tutor scolastico. Il tempo per l’apprendistato sarà ricavato utilizzando gli spazi di flessibilità fino a un tetto del 35% dell’orario annuale delle lezioni: ancora da chiarire se saranno ridotte le ore di laboratorio o quelle delle discipline di base.

E per facilitare la didattica, potranno essere smontate le classi e creati percorsi omogenei. Ai ragazzi sarà comunque garantita, in ogni momento, la possibilità di rinunciare al progetto rientrando nel percorso scolastico tradizionale con l’attribuzione dei crediti maturati. I docenti, nel valutare il rendimento degli studenti-apprendisti, dovranno tenere conto delle valutazioni aziendali. Anche l’esame di maturità dovrebbe cambiare, con la terza prova scritta predisposta dalle commissioni includendo il progetto in azienda.

Per i docenti utilizzati in veste di tutor non è previsto un compenso aggiuntivo: si utilizzeranno le risorse esistenti per la valorizzazione della professionalità docente, espressione che fa pensare al fondo di istituto, quasi dimezzato negli ultimi tre anni. I percorsi dureranno fino al 2016 e saranno valutati dai dicasteri dell’Istruzione e del Lavoro attraverso Indire e Isfol. La firma del decreto è prevista a giorni.

da ItaliaOggi 08.04.14

"Giovani talenti in fuga dall'Italia", di Francesco C. Billari

Un vero e proprio “boom” nella propensione dei giovani italiani a esplorare la possibilità di andarsene via. Un segnale, forte, del rischio di una nuova ondata di emigrazione dalle proporzioni d’altri tempi. Proporzioni impreviste, nonostante la crisi, che potrebbero portarci a un modello “polacco”: essere paese di emigrazione (più qualificata) e allo stesso tempo d’immigrazione (meno qualificata). Questo il messaggio proveniente dai dati recentemente pubblicati.
Se continuassero le migrazioni come nel 2013 per i prossimi anni, infatti, su 13 giovani italiani uno si trasferirebbe, per cercare lavoro o lavorare in modo esplicito, nel Regno Unito. Quarantaquattromila giovani italiani hanno ricevuto un nuovo NINo (“National Insurance Number”), essenziale per lavorare nel Regno Unito. Nel 2013 l’Italia è, per la prima volta, il terzo paese per nuove emissioni di NINo, dietro Polonia e Spagna. Il nostro è il paese caratterizzato dalla crescita dei numeri più marcata, +66% rispetto al 2012 (con circa 27 mila NINo). Per avere una misura dell’ordine di grandezza demografico di questo flusso possiamo calcolare la dimensione di una “coorte media” dei potenziali italiani in uscita in un anno come media delle dimensioni di un gruppo annuale di età (tra 18-34 anni): 575mila circa su dati Istat. Si ottiene così il 7,7%: se continuassimo a questo ritmo nei prossimi anni questa sarebbe la percentuale di diciottenni che prima o poi tenterebbero la strada britannica.
Potrebbe, forse, trattarsi di un anno eccezionale. In fondo, fino al 2004 i nuovi NiNO italiani nel Regno di Elisabetta II erano meno di 10 mila all’anno. Solo nel 2011 hanno superato i 20 mila. Non si va solo però verso Albione: i dati dell’Ufficio Statistico Tedesco dicono che l’aumento del numero di italiani registrati nel 2013 rispetto al 2012 è pari a circa 24mila unità: un altro 4% rispetto alla coorte teorica. Saremmo quindi, potenzialmente, a un diciottenne italiano su 8, contando solo Regno Unito e Germania.
Non sono, purtroppo, ancora disponibili i dati Aire (l’Anagrafe Italiana dei Residenti all’Estero) relativi al 2012. Se nell’anno precedente la variazione negli iscritti Aire non era lontana dalle stime interne in Germania, il dato Aire era molto inferiore ai nuovi NiNO. Forse un segnale che il Regno Unito è un terreno di esplorazione maggiore per i giovani italiani con una qualche conoscenza della lingua franca inglese, con le registrazioni per lavorare che superano di gran lunga quelle presso i Consolati per una residenza fissa all’estero. Un’esplorazione a basso costo delle opportunità che possono essere offerte. I dati sono scarsi e lenti ad arrivare – un peccato vista l’importanza del fenomeno.
Si è parlato per molto tempo di “fuga di cervelli”, riferendosi alla nuova emigrazione di un numero ridotto di “talenti” appetiti sul mercato internazionale avvenuta già prima della crisi. I dati che abbiamo visto indicano un potenziale deciso cambiamento di ritmo verso una nuova tendenza generalizzata a emigrare da parte dei giovani italiani, con i voli “low cost” e diploma o laurea in tasca anziché valigie di cartone. Ma, nuovamente, in gran numero.

Il Sole 24 Ore 08.04.14