Latest Posts

"Le armi della Bce contro lo spettro della deflazione", di Carlo Buttaroni

Con la febbre a 39, il medico coscienzioso prescrive un farmaco per abbassarla e una terapia idonea a sconfiggere, non tanto la febbre che è un sintomo, ma la malattia che ne è la causa. Ma se, anziché alta, la temperatura del corpo fosse troppo bassa (34 gradi o addirittura meno), la questione sarebbe molto più preoccupante e, dopo le opportune verifiche su un eventuale malfunzionamento del termometro, il medico avvertirebbe immediatamente il pronto intervento, raccomandando una squadra di rianimazione pronta a tenere in vita il malcapitato. Infatti, poiché siamo animali a sangue caldo, l’ipotermia, cioè la temperatura corporea eccessivamente bassa, è un sintomo assai più pericoloso dell’ipertermia, cioè la temperatura più alta del normale.

Le economie in generale, e quelle occidentali in particolare, sono sistemi «a sangue caldo», che per stare bene hanno bisogno di avere la temperatura sopra un certo livello. La temperatura dei sistemi economici si chiama inflazione. Quando l’inflazione si aggira intorno al 2%, vuol dire che non c’è febbre. Ci possono naturalmente essere altri generi di problematiche, ma la temperatura è quella giusta. Se l’inflazione cresce eccessivamente possono essere adottate una serie di terapie economiche per abbassarla e tenerla sotto controllo. In alcuni casi, la crescita dell’inflazione è addirittura un fattore competitivo, così come un corpo, sollecitato a compiere prestazioni, registra un aumento della temperatura.

IL CIRCOLO VIZIOSO

Come per la febbre, il problema diventa terribilmente serio quando l’inflazione è troppo bassa e lo spettro della deflazione (cioè una diminuzione generale dei prezzi) comincia a materializzarsi. La causa deriva prevalentemente dalla debolezza della domanda. Le imprese, infatti, non riuscendo a vendere i propri prodotti a determinati prezzi cercano di collocarli sul mercato a prezzi sempre più bassi. L’abbassamento dei prezzi si ripercuote, però, sui ricavi che le imprese cercano di compensare con una diminuzione dei costi di produzione, che avviene a sua volta attraverso l’acquisto di beni e servizi da parte dell’impresa stessa di prezzo inferiore, alimentando così una spirale negativa.

Quando si avvia una fase deflattiva, la riduzione dei prezzi non stimola maggiori acquisti bensì l’accumulo di liquidità, perché i consumatori rinviano l’acquisto di ciò di cui hanno bisogno in attesa che i prezzi scendano ulteriormente. Quando si teme che l’indomani il prezzo possa salire, si tende, invece, ad acquistare subito per evitare di pagare di più lo stesso bene. Nelle fasi di deflazione, è facile che si registri una diminuzione dei consumi, una crescita del risparmio e un aumento dei tassi di disoccupazione. Ecco perché è proprio lo spettro della deflazione, oggi, a complicare gli scenari futuri dei Paesi dell’eurozona.

La buona notizia arriva dalla Bce che sta studiando un piano da mille miliardi di euro con l’obiettivo di far salire l’inflazione rispetto allo striminzito 0,5% registrato a marzo.

Gli strumenti e le modalità fanno pensare a quelli messi in campo da oltre un anno dalla Fed, cioè la banca centrale statunitense, per stimolare l’economia Usa. Il piano della Bce prevedrebbe (il condizionale naturalmente è d’obbligo) l’immissione nel sistema di 80 miliardi di euro al mese per un anno. Soldi che, questa volta, dovrebbero trasformarsi in credito per famiglie e imprese, e non ciambelle per le banche.

Anche perché l’Europa è tutt’altro che fuori dal tunnel della crisi e la «crescita lumaca» (e senza occupazione) che si preannuncia quest’anno, si traduce in una fuga in avanti degli Usa, del Giappone delle economie emergenti, i cui ritmi di crescita sono decisamente più veloci rispetto a quelli europei, azzoppati dalle cure del rigore messe a punto da Bruxelles.

Quanto la velocità della crescita sia decisiva e che le prospettive dell’eurozona siano tutt’altro che rosee lo si deduce anche dal 4° Rapporto trimestrale (2013) realizzato dal Dipartimento economia e finanze della Commissione europea. Un’analisi che in Italia è passata in sordina, ma che conferma quanto abbiamo diverse volte anticipato rispetto alle prospetti- ve dell’area euro e dell’Italia. In uno scenario «no-policy change», ossia senza nessun cambiamento a livello di politiche condotte dai Paesi dell’eurozona, il rap- porto mostra come le prospettive di crescita, nei prossimi 10 anni, siano decisamente più basse rispetto al periodo pre-crisi.

Nello stesso periodo di tempo (2014-2023), la media della crescita degli Stati Uniti sarà analoga al periodo pre-crisi, mentre quella dell’Europa sarà meno della metà di quella statunitense (+1% rispetto a +2,5%).

Secondo gli autori del rapporto, al ritmo attuale e senza politiche adeguate e riforme strutturali che rimuovano «le rigidità nell’allocazione delle risorse», l’eurozona potrebbe tornare ai livelli di crescita pre-crisi solo dopo il 2023, nel momento in cui il contributo della lenta ripresa dell’occupazione e dei capi- tali tornerà a farsi sentire.

L’ESEMPIO DELLA FED

Quanto emerge da questo report non è una novità, ma una conferma: se non riparte l’occupazione, non inizia la ripresa. D’altronde, non è un caso che la Fed abbia iniziato da tempo quegli stimoli all’economia che solo adesso la Bce inizia a pianificare. Durante
una fase di crisi, l’obiettivo è mettere più persone possibili al lavoro e stimolare la domanda interna, facendo in modo che le persone consumino di più e di conseguenza le imprese siano in- dotte a produrre di più. Tutto ciò si basa sulla premessa con- divisa delle economie occidentali, che la spesa di uno rappresenta il reddito di un altro.
Come sia stato possibile anche soltanto immaginare di poter uscire dalla crisi senza sostenere l’occupazione e la domanda interna, ma utilizzando soltanto politiche centrate sul rigore di bilancio resta ancora un mistero. E, infatti, il rapporto della Commissione europea è critico anche sulle politiche dell’austerity messe in campo in questi anni. E l’incoerenza tra le analisi degli uffici studi (da quelli della Commissione europea a quelli del Fmi) e le politiche adottate è talmente evidente da far venire più di un sospetto riguardo l’apparente neutralità delle scelte.

L’Unità 07.04.14

"Domani la Consulta su quel che rimane della Legge 40", di Franco Stella

Mai una legge aveva avuto una vita così tribolata, affossata da ben ventinove sentenze che ne hanno ridimensionato la portata, smantellandola dalla fondamenta. La legge 40 sulla procreazione assistita, in dieci anni di vita, ha subito un contraccolpo sull’altro. Ma la mazzata finale potrebbe arrivare domani quando la Corte Costituzionale sarà chiamata a decidere sul divieto di fecondazione eterologa (l’utilizzo di gameti, maschili o femminili che non appartengano alla coppia) previsto dalla legge insieme a quello sulla ricerca sugli embrioni.
Fino a qui sono tre i pilastri della legge sulla fecondazione in vitro già abbattuti dai giudici: il divieto di produzione di più di tre embrioni, l’obbligo di impianto contemporaneo di tutti gli embrioni prodotti, su cui è intervenuta appunto la Consulta nel 2009, e il divieto di diagnosi preimpianto (ma per le coppie infertili, quelle che hanno accesso alla Pma, con intervento del Tar del Lazio sulle linee guida).
«Siamo ottimisti anche sulla sentenza di domani afferma Filomena Gallo, avvocato e segretario dell’associazione Coscioni con la caduta del divieto di eterologa le coppie potranno tornare a utilizzare gameti donati liberamente come facevano prima della legge, e non ci sarà nessun commercio. Inoltre le massime tutele del nascituro sono già previste dalla legge».
Una delle conseguenze del divieto dell’eterologa è il turismo procreativo. Secondo un’indagine dell’Osservatorio sul Turismo Procreativo nel 2012 erano ancora 4mila le coppie che sono andate all’estero per trattamenti di fecondazione assistita, metà delle quali per l’eterologa. L’ultima relazione del Ministero della Salute sulla Legge nel 2011 ci dice che sono stati 11.933 i bambini nati da tecniche di fecondazione assistita, erano 12.506 l’anno precedente, in costante aumento dal 2005. Gli embrioni abbandonati, che secondo l’esperto vivono in un «limbo» perché la legge impedisce sia di distruggerli che di donarli alla scienza, sono un po’ meno di 19mila. Sono state molte le richieste alle istituzioni politiche di cambiare la legge, anche da parte di diverse società scientifiche, ma finora a modificare uno dei provvedimenti più contestati degli ultimi anni sono state solo le sentenze. «Io sono spaventata dalla politica afferma Gallo in questi anni il Parlamento ha dimostrato di essere inadatto ad affrontare il tema dei diritti della persone. Le leggi andrebbero fatte dai parlamenti e non dai tribunali, ma in questo caso i politici dovrebbero accettare con umiltà ciò che anche i cittadini hanno dimostrato di volere».
La decisione della Corte di domani non dovrebbe essere la sola in questo anno solare. L’Associazione Coscioni ha presentato, lo scorso gennaio, i casi di due famiglie portatrici di malattie genetiche ereditarie il cui ricorso al tribunale di Roma per avere la diagnosi sull’embrione prima dell’impianto ha generato una nuova richiesta di pronunciamento alla Corte Costituzionale. Le ordinanze riguardano due coppie, Valentina e Fabrizio e Maria Cristina e Armando, in entrambi i casi portatrici di malattie che si trasmettono per via materna. Nel caso di Maria Cristina la malattia è la distrofia di Becker, di cui era affetto anche il padre, che porta alla degenerazione di tutte le fibre muscolari. A quel punto la decisione di ricorrere alla fecondazione in vitro, con la diagnosi preimpianto che avrebbe potuto evidenziare quali embrioni erano portatori della malattia, possibilità però negata dalla struttura pubblica a cui si sono rivolti i genitori perché la legge la vieta, permettendola solo in caso di coppie sterili o in cui l’uomo abbia delle malattie infettive. Da qui il ricorso e la decisione del tribunale di Roma dello scorso gennaio di sollevare l’eccezione di costituzionalità.
Un caso analogo, anche se con una diversa malattia, è quello di Valentina e Fabrizio, che si sono visti rifiutare la diagnosi preimpianto e che hanno provato, come del resto l’altra coppia, ad avere un figlio per vie naturali. In questo caso la bambina è risultata affetta dalla patologia genetica rara per cui non c’è prognosi, e la coppia è stata costretta ad abortire, peraltro senza assistenza in un ospedale romano. La coppia ha poi presentato un ricorso al tribunale di Roma per la diagnosi, che ha ottenuto un’ordinanza gemella della prima, che la Corte potrebbe discutere prima dell’estate. In caso di esito positivo la decisione varrà per tutte le coppie che si trovano nelle stesse condizioni.

L’Unità 07.04.14

"L'Ultima cena ricordo di Piero Terracina unico superstite della sua famiglia deportata ad Auschwitz" di Mariagrazia Gerina

“Fino a che non verrà meno il testimone, fino a quando non mi mancheranno le forze?”, recita la sua promessa ai ragazzi. Sono loro il viatico migliore per ogni nuovo viaggio. Anche adesso che ha ottantacinque anni compiuti, Piero Terracina se la ripete e parte. Così, appoggiandosi al bastone della memoria, stamattina sarà di nuovo ad Auschwitz-Birkenau. Ci è andato tante volte, in questi vent’anni, ha accompagnato migliaia di studenti. «Però stavolta temo l’emotività», confessa. Il viaggio, organizzato dalla Regione Lazio, cade in un giorno drammaticamente speciale. Il 7 aprile 1944, esattamente settanta anni fa, nella Roma occupata dai nazisti, Piero, che aveva appena 15 anni, insieme a tutta la sua famiglia, il padre Giovanni, la madre Lidia, la sorella Anna, i fratelli Cesare e Leo, lo zio Amedeo, il nonno Leone, furono venduti ai tedeschi, strappati dal loro nascondiglio, e avviati al massacro. Di otto che erano, soltanto lui è tornato. Quello fu il «16 ottobre» dei Terracina. E Piero, l’unico sopravvissuto, settanta anni dopo, è ancora qui per raccontarlo. Accetta di farlo con noi, prima della partenza.

Il primo ricordo di quella giornata è suo padre Giovanni: «Il 7 aprile 1944 era Pesah, l’inizio della Pasqua ebraica, festa della libertà. Noi l’avevamo sempre festeggiata con tutta la famiglia. E quel mattino, anche se vivevamo nascosti, papà ci disse: “Perché stasera non facciamo il Seder tutti insieme (cioè la cena pasquale)? Poi ce ne torneremo ciascuno al suo rifugio”». Il rifugio era un palazzo in piazza Rosolino Pilo, nel quartiere di Monteverde: «Il portiere, rischiando la vita, ci aveva dato le chiavi di un appartamento rimasto vuoto, ma per essere più sicuri ci eravamo divisi: i nonni dormivano a casa sua, noi ragazzi in un vano a metà dello scivolo per il carbone». Il secondo ricordo è Anna, sua sorella maggiore, che va al mercato: «Non aveva ancora ventitré anni, era molto bella. C’era ancora un mercato dietro casa, Anna uscì per andare a prendere qualcosa da mangia- re e un ragazzo si mise a seguirla, facendole qualche complimento. Lei si voltò e disse: “Perché non giri un po’ alla larga?”». I fratelli invece restarono a casa: «Avevano trovato della farina, certo non kosher, e si misero ad impastare i pani azzimi per la cena. Papà intanto stava alla finestra. Se qualcuno fosse entrato nel por- tone, noi ragazzi avevamo una via di fuga: saremmo saltati sul terrazzo, avremmo scavalcato e ci saremmo ritrovati nel palazzo accanto, scendendo giù per le scale, senza farci notare».

Sembra un film il racconto di quel 7 aprile. La vita che continua, fino all’ultimo, anche in mezzo al terrore dell’occupazione nazista. «Uscivamo di casa tutti i giorni, a rischio di essere scoperti: dovevamo procurarci da vivere. Compravamo qualsiasi cosa per rivenderla: saponette, lamette da barba, filo da cucire». Piero aveva persino una bicicletta: «Come potevo tornavo nei posti dove un tempo avrei trovato i miei amici o qualche compagna della scuola ebraica, ce ne era una in particolare anche se, dopo il 16 ottobre, sapevo che non avrei incontrato più nessuno». Vivevano come fantasmi, ma speravano che presto sarebbero stati liberati. «Gli angloamericani erano vicini. A volte penso che se ci fossimo messi in cammino avremmo potuto raggiungerli anche a piedi».

E invece arrivò la sera. C’era anche zio Amedeo: «Era venuto a farci gli auguri». I Terracina si disposero tutti attorno alla tavola e nonno Leone intonò l’Haggadah, il lungo racconto dell’esodo: «Nonno aveva studiato alla scuola rabbinica, era nato in ghetto, nel 1860, si ricordava l’apertura dei cancelli il giorno della presa di Roma». In tavola c’erano le uova sode, il sedano, l’aceto, il sale, un cesto e il pane azzimo che Leo e Cesare avevano fatto al mattino: «Non eravamo ancora giunti al termine della preghiera quando bussarono alla porta. Mia sorella andò ad aprire: ritornò sconvolta, dietro di lei due SS con i mitra imbracciati. Venivano ad arrestare la più pacifica delle famiglie, armati come per un’azione di guerra. Sull’uscio c’era un italiano che li aveva accompagnati. Un altro era rimasto giù al portone.“Se ci indicate dove avete nascosto i gioielli proveremo a convincere i tedeschi a lasciarvi andare”, ci dissero. Anna ci raccontò che uno dei due era il ragazzo che l’aveva seguita al mattino, ci aveva venduto per cinquemila lire: eravamo in otto, un bel bottino».

Li portarono in carcere a Regina Coeli: «Sentii i cancelli chiudersi, ci misero con le spalle al muro, uno per uno ci schedarono e ci presero le impronte digitali, per me fu un trauma terribile, uscii piangendo, papà se ne accorse e sentì il bisogno di rivolgere a noi figli delle parole: “Ragazzi, possono accadere delle cose terribili, mi raccomando, qualsiasi cosa accada, siate uomini, non perdete mai la dignità”». Le ultime frasi umane, quella notte, le pronunciarono dei detenuti: «Cercarono di farci coraggio, ci dissero che gli alleati ci avrebbero liberato da un momento all’altro, uno di loro aveva ricevuto un pacco con delle cose da mangiare, che divise con noi». Quella fu la cena di Pasqua. Il giorno dopo per i Terracina iniziò la deportazione, prima a Fossoli e poi ad Auschwitz-Birkenau, dove Piero tornerà oggi. «Per fortuna non sarò solo», si schermisce immaginandosi già circondato da- gli studenti, davanti alla «rampa» dove finivano i binari: «Mia mamma ci abbracciò, ci pose le mani sul capo un attimo soltanto per darci la sua benedizione. Poi, vedendo arrivare le SS con i cani, ci disse: “andate via, andate via”. Aggiunse: “non vi vedrò più”. Aveva capito tutto».

Ma suo figlio Piero è qui a raccontarlo. A porre le mani sul capo dei ragazzi a regalare la sua testimonianza: «Oggi non temo per me, ormai prossimo al traguardo, ma per i giovani, ho paura per le derive che vedo riaffacciarsi in Europa, le tensioni si scaricano sempre sui più deboli: il rispetto, la dignità, la libertà, la solidarietà non sono dono di dio, ma prodotto degli uomini, bisogna difenderli, non voltarsi dall’altra parte».

L’Unità 07.04.14

"La generazione no-jobs persa nella crisi", di Luisa Grion

Sono pienamente digitalizzati, a volte laureati e precari per definizione. Nati nei «favolosi » anni Ottanta, cresciuti nell’età dell’oro del consumismo, oggi sono soprattutto disoccupati. Più disoccupati di tutti gli altri. I trentenni, o meglio ancora
quella fascia d’età che va dai 25 ai 34 anni, sono immersi fino al collo nella crisi e rappresentano in pieno quella generazione che anche secondo Christine Lagarde, direttore del Fondo Monetario, «rischiamo di perderci se non si fanno le riforme». Eppure di loro si parla meno: una parte non potrà nemmeno contare sulle opportunità che da maggio saranno offerte dalla «garanzia giovani » estesa fino ai 29 anni.
Sopraffatti dal dato statistico che segna la disoccupazione giovanile considerata come tale quella fra i 15 ai 24 anni – oltre il 42 per cento, pochi si accorgono che in cifre assolute è la fascia successiva quella più penalizzata. Uno studio di Manageritalia fa notare come, fra i 24 e i 34 anni (guardando ai dati Istat sull’intero 2013, gli ultimi comparabili per classi d’età), ci siano 938.112 disoccupati, il 18 per cento del totale. Dai 15 ai 24 ce ne sono 655.420. Fra i primi c’è la percentuale più alta di laureati, fra i secondi ci sono anche i troppi ragazzi che hanno abbandonato la scuola.
La chiamano generazione Y o Millennials e secondo Filippo Teoldi, economista de Lavoce.info, è quella che più di ogni altra si è impoverita con la crisi: chi aveva trent’anni nel 1977 aveva un reddito superiore del 3 per cento rispetto a quello medio nazionale, chi li ha compiuti nel 2010 ha fatto i conti con un crollo del 12 per cento sulla media. Un’analisi di Astraricerche e Manageritalia ha approfondito chi sono, è il ritratto che ne uscito è quello di una generazione che cerca disperatamente di farsi sentire e che avrebbe carte in regola per emergere. Sono superdigitalizzati (l’81,3 per cento usa Internet), spesso single (66 per cento) nel quale caso (52,3 per cento) «bamboccioni » per forza. Se lavorano, sono precari, la loro è la generazione delle partite Iva: 193.266 su un totale di 527.082 aperture del 2013. Sono laureati, ma non abbastanza: lo è il 21,7 per cento dei giovani fra i 30 e 34 anni contro una media europea del 35,8 (Regno
Unito 47,1, Francia 43,6. Germania 31,9 per cento). Disposti ad andarsene più di quanto si possa pensare (fra i trasferiti all’estero i laureati sono passati dall’11,9 per cento del 2002 al 27,6 del 2011). Per Alessandro Rosina, professore di Statistica sociale alla Cattolica di Milano questo è il «paradosso Italia». «Siamo incapaci di dare valore al capitale umano specifico. In tutta Europa essere giovani e laureati é un valore aggiunto, da noi no. Abbiamo meno giovani e meno laureati eppure costringiamo chi vuol lavorare qui ad abbassare le aspettative».
Meno aspettative, meno redditi, meno consumi. Mariano Bella, responsabile del centro studi Confcommercio fa notare come «le coppie under 35 stiano ancor peggio dei single, che almeno possono contare sul reddito familiare più alto garantito dai genitori; sarà difficile per loro ampliare la famiglia». La condizione della generazione Y, quindi, peserà sul futuro: «Dobbiamo far studiare più a lungo i ragazzi – conclude Guido Carella, presidente di Manageritalia – e trovare un lavoro dignitoso a tutti, ma ancor più ai giovani fra i 25 e i 34 anni perché sono indispensabili per accedere alla qualità, per avere un’economia competitiva e contribuire, quindi, a creare occupazione per tutti gli altri».

La Repubblica 07.04.14

"Il sonno che genera mostri", di Paolo Soldini

Il sonno dell’Europa genera mostri. Un mostro è Fidesz, il partito di Viktor Orbàn, che ha vinto le elezioni in Ungheria sulla base di un politica ultranazionalistica e autoritaria sul piano interno.
Non è ancora chiaro se riuscirà a conservare la maggioranza dei due terzi dei parlamentari che gli consentirebbe di proseguire la sua politica di smantellamento delle garanzie nell’ordinamento democratico del paese, ma comunque la sua vittoria è chiara. Jobbik, il partito fascista alla sua destra, ha avuto un successo temperato per fortuna dalla buona (e inattesa) tenuta dell’opposizione democratica, ma il suo estremismo xenofobo, revanscista e antisemita che va a sommarsi all’autoritarismo in doppio petto di Fidesz rende ancor più minacciosi i molti fantasmi dell’eversione che si agitano per l’Europa, dalla Francia lontana alla vicina Ucraina.

La conferma dello strapotere di Orbàn racconta all’Europa il contrario di quello che predicano le anime belle delle attuali istituzioni di Bruxelles e del Ppe, il partito popolare cui l’uomo forte di Budapest e i suoi aderiscono. Senza che nessuno abbia mai posto loro un problema di coerenza. Anzi, il capogruppo del Ppe al parlamento europeo, Joseph Daul, ha fatto addirittura un comizio con il primo ministro magiaro. Ha «messo la faccia» (come si ama dire di questi tempi) sua e del Ppe accanto all’uomo che rivendica l’esistenza della Grande Ungheria in cui dovrebbero riunirsi tutte le minoranze sparse per l’Europa orientale. Che ha asservito al governo la Banca centrale e ha cacciato i giudici costituzionali che lo infastidivano. Che ha istituito un organismo che distribuisce direttive e «visti di qualità» ai giornali e alle tv per controllare che non diffondano notizie «inopportune, offensive e non rispettose delle esigenze di ordine pubblico». Che ha promosso una politica di incentivi alle imprese, dopo aver- le strette in una ragnatela di clientele, che fa a pugni con le direttive Ue.

Ora ci si può chiedere: se le autorità di Bruxelles fossero state più coerenti e più attente, se i partiti che fanno capo al Ppe, a cominciare dalla Cdu tedesca, non avessero pesato col bilancino dei propri vantaggi l’apporto di Fidesz al gruppo popolare nel parlamento europeo sarebbe cambiato qualcosa in Ungheria e lo strapotere di Orbàn sarebbe stato almeno contenuto? Poiché la controprova non c’è nessuno può dirlo. Si sa però che tempo fa il gruppo dei liberali europei propose l’apertura di un procedimento contro Budapest in base all’art. 7 del Trattato di Lisbona, quello che prevede la sospensione dei Paesi che non rispettano i criteri minimi di democraticità e di rispetto dei diritti fondamentali dell’Unione.

L’iniziativa fu bloccata, e non solo dai popolari, ma anche dai socialisti per- ché i loro colleghi ungheresi temevano che potesse sfociare nell’uscita pura e semplice del Paese dalla Ue. Patetica manifestazione di impotenza e di colpevole rassegnazione che dice tutto sulla debolezza della sinistra magiara, povera di idee politiche e ricca di scandali, non ultima delle cause della resistibile ascesa di Viktor Orbàn. A voler essere ottimisti si può pensare che il risultato migliore delle pessime previsioni che circolavano alla vigilia ottenuto dalla coalizione democratica tra i socialisti, centristi e liberali sia un primo segnale di risveglio. Un segnale, nulla di più.

Ma la riflessione più seria che l’Europa deve fare prendendo spunto da quanto accade in un paese piccolo ma importante nella sua geografia e nella storia come l’Ungheria è quella evocata all’inizio. Ed essa non riguarda solo la contingenza, l’imminenza di elezioni per il parlamento europeo che rischiano di far diventare l’unica istituzione dell’Unione votata dai cittadini la tribuna di un populismo senza princìpi che vuole sfasciare tutto. Riguarda qualcosa di ben più profondo. Oggi c’è un abisso tra la ragion d’essere dell’Unione europea, la comunità di valori che essa rappresenta, prima e oltre l’economia, e i comportamenti concreti delle sue istituzioni e dei governi nazionali. Alla freddezza sociale, l’inimicizia quasi verso i cittadini, che le politiche economiche europee hanno dispiegato con l’austerità, i tagli e le trojke specie negli ultimi anni, fa riscontro una colpevole insensibilità verso i diritti e i doveri della democrazia, che pure sono esplicitamente sanciti nella Carta fondamentale approvata 14 anni fa e recepita nei Trattati. Il problema, prima che con l’Ungheria di Orbàn, si era posto con l’Austria delle coalizioni con gli xenofobi di Jörg Haider e per qualche altro paese in più di un passaggio della sua vita politica. Inclusa l’Italia, almeno per quanto riguarda- va l’informazione e la giustizia, ai tempi del Berlusconi trionfante. A Bruxelles e nelle cancellerie si sono commessi peccati di omissione.

L’Unità 07.04.14

"Ecco perché la sfida di Putin aiuta l’Europa", di Marta Dassù

La politica internazionale può apparire dominata da eventi casuali. Ma in realtà funziona sulla base di aspettative razionali. Se tali aspettative si dimostrano sbagliate, l’ordine internazionale si dissolve. Gran parte dell’Europa non aveva previsto – come da ultimo ha sottolineato Ivan Krastev, uno dei migliori politologi della nuova generazione – che la Russia avrebbe reagito alla rivoluzione di Kiev annettendosi la Crimea. A essere onesti l’Italia, nelle discussioni del 2013 sull’offerta di partnership all’Ucraina, aveva cercato di mettere in guardia i colleghi europei.

Se non avessimo tenuto conto del «fattore Russia», ci saremmo trovati di fronte – questo il nostro argomento – a una reazione scontata e molto dura di Mosca. Ci saremmo insomma trovati nel guaio in cui siamo oggi: l’ordine europeo post 1989, il cosiddetto ordine del dopo guerra fredda, è crollato a pezzi sulle sponde del Mar Nero.

Quali sono le conseguenze? In nome delle aspettative razionali, possiamo scartare un ritorno puro e semplice alla guerra fredda. C’è chi lo teme, c’è chi lo prevede, ma non ci sarà. Per due ragioni. Primo: se è ormai chiaro che la Russia neo-imperiale interpretata da Putin intende a tutti i costi preservare un’area di influenza diretta ai confini – attraverso la combinazione fra hard power militare, leva energetica e utilizzo del mito delle minoranze russe – la realtà è che la Russia attuale non ha comunque la solidità di un «blocco» ideologico e di potere contrapposto a quello occidentale. Senza Kiev, l’unione euro-asiatica vagheggiata da Mosca resterà poca cosa rispetto all’Ue. Seconda ragione: alcuni decenni di globalizzazione economica impediscono ormai di pensare che lo spazio «grande Russo», erede della tradizione zarista prima che comunista, possa mai prosperare in assenza di rapporti con le economie occidentali.

Eliminiamo dagli scenari, quindi, una replica della guerra fredda nel XXI secolo. E poniamoci il problema in termini secchi: su che basi, dopo lo choc della Crimea, potrà essere ricostruito un ordine europeo? C’è un primo elemento a cui guardare: la crisi ucraina ha portato gli Stati Uniti a concentrarsi di nuovo sull’Europa. Barack Obama, lo ricorderete, aveva esordito con il famoso «pivot to Asia», che non ha poi prodotto grandi risultati. Oggi, si potrebbe parlare di «ri-pivot to Europe». Un ritorno americano in Europa, che potrà rafforzarsi se gli europei smetteranno di eludere il problema delle politiche di difesa – Obama lo ha ripetuto una ennesima volta – e se il negoziato transatlantico su commercio e investimenti, il TTIP, verrà condotto sapendo di cosa si tratta: una grande occasione politica per l’Occidente. Forse l’ultima per riuscire ancora a influenzare in modo determinante, attraverso un accordo che interessa quasi la metà del Pil mondiale, regole e principi di funzionamento dell’economia globale. La questione energetica, nel dopo Ucraina, è il secondo elemento da considerare con molta attenzione. Se c’era bisogno di una scusa per spingere gli Stati Uniti a fare cadere vecchie riserve sull’export di energia; e se ci volevano degli incentivi per convincere l’Europa a porsi finalmente il problema di una politica di sicurezza energetica degna di questo nome, scusa e incentivi oggi ci sono.

Vedremo se seguiranno anche i fatti, a partire dal G7 sull’energia che si terrà fra poche settimane in Italia. Infine, ma non in ultimo, l’Europa è per una volta riuscita a non dividersi troppo sulla risposta immediata alla crisi ucraina. Ma conterà – il ministro Mogherini è stata esplicita su questo punto in un recente «Dialogo di Aspen» – la visione di medio termine: che lo si voglia o no, storia, geografia, energia, economia, indicano che la Russia resterà un interlocutore strategico dell’Ue. Che rapporto intendiamo costruire con Mosca? E che aspettative abbiamo sul futuro della Russia? La gestione abbastanza catastrofica della partnership verso Est ha dimostrato che fino a quando i Paesi europei non troveranno una posizione comune su una questione così rilevante per la geopolitica continentale, i rischi prevarranno sul resto. E il capo del Cremlino continuerà a far passare la debolezza del proprio Paese quale forza di una Russia ritrovata – in realtà, di una Russia frustrata.

La mia conclusione, guardando a questi elementi, è forse paradossale: pur cercando di non forzare troppo il punto, e soprattutto senza dimenticare le sofferenze del popolo ucraino, resta il fatto che lo strappo di Putin sta aiutando l’Europa. L’ha aiutata, messa di fronte alla brutale annessione della Crimea, a liberarsi di aspettative irrazionali e a sollevare le menti dalla crisi dell’euro. Per guardare alla sfida esterna. Uno spazio euro-atlantico rafforzato dal TTIP; una politica energetica comune; un rapporto più coeso e maturo verso l’Est: se gli europei si muoveranno in questo senso, la risposta alla crisi ucraina potrebbe segnare il passaggio dal vecchio ordine europeo, ormai andato in frantumi, a un ordine adatto al XXI secolo.

La stampa 07.04.14

"Quanto costa uscire dall’euro", di Tito Boeri

Saranno pure semi-vuoti i teatri della tournée siciliana di Beppe Grillo. Ma le urne degli euroscettici erano piene in Francia e in Ungheria. Vediamo le ultime proiezioni sul primo vero voto europeo.
ccreditano gli euroscettici di circa 150 seggi sui 751 nel nuovo Parlamento europeo, decisivi nello spostare la maggioranza a favore dei socialdemocratici o dei popolari. Nei paesi del Sud gli euroscettici sostengono la causa dell’opposizione all’austerità imposta dalla Germania, mentre al Nord prendono di mira gli immigrati che provengono dai paesi del Sud-Europa, compresi bulgari e romeni che fuggono dalla crisi in Spagna e in Italia. Il collante del populismo continentale è il rigetto della moneta comune. È un euroscetticismo con il simbolo dell’Euro al posto della “e”.
Gli argomenti utilizzati da chi propugna l’uscita unilaterale dell’Italia dall’Euro si giovano del fatto che non ci sono precedenti storici. Si può dire tutto e il contrario di tutto senza timore che qualcuno dal pubblico alzi la mano contraddicendo chi parla coi propri ricordi. Ma alcuni argomenti ricorrenti degli anti-euro nostrani sono talmente sconclusionati che non hanno bisogno di essere smentiti dalla storia. Fra questi l’idea che l’uscita dall’euro ci porterà a pagare meno tasse. Uno dei volantini del Movimento per l’Uscita dell’Italia dall’Euro, stranamente con sede a Londra e animato da persone che presumibilmente hanno redditi, se non patrimoni, all’estero, attribuisce all’euro qualsiasi aumento delle tasse della storia repubblicana. Si risale addirittura alle manovre di Rino Formica del 1990. E naturalmente, appena usciti dall’incubo euro, queste tasse evaporerebbero come d’incanto. Con una pressione fiscale al 60 per cento (per chi le tasse le paga davvero), l’idea è alquanto suggestiva. Ed è un vero peccato doverla smontare.
Se l’Italia dovesse uscire dall’Euro, il nostro debito pubblico potrebbe solo aumentare. C’è una quota di titoli di Stato e di prestiti contratti dallo Stato italiano sui mercati
internazionali, che aumenterebbe in proporzione alla svalutazione della lira nei confronti dell’euro e delle monete in cui i nostri titoli sono denominati. La parte restante potrebbe essere ridenominata in lire causando perdite ingenti agli investitori stranieri che hanno nostri titoli in portafoglio. Sarebbe come un ripudio unilaterale del debito, cui seguirebbe inevitabilmente un lungo periodo di chiusura del nostro paese ai mercati internazionali. Questo significa di fatto uno spread che tende all’infinito, un destino paradossale dopo che siamo riusciti a riportare i tassi di interesse sui nostri titoli decennali al minimo storico. E come pagare questi interessi più alti se non con nuove tasse?
Certo, a quel punto ci sarebbe sempre la possibilità di ripudiare anche il debito in lire, non rimborsando i titoli di Stato alla scadenza, una mossa serenamente evocata in televisione da Beppe Grillo. Peccato che anche questa sarebbe una tassa, una patrimoniale sui risparmiatori italiani che hanno investito i loro risparmi in titoli di Stato. E che patrimoniale! Quando si parla di tassare i patrimoni si ragiona su aliquote al massimo del 5 per mille. Qui si avrebbe una tassa che può arrivare fino all’80 per cento dei risparmi di una famiglia italiana, in genere appartenente al ceto medio (i ricchi hanno patrimoni maggiormente diversificati). Un altro argomento utilizzato dagli anti-euro è che il debito potrebbe essere monetizzato, facendo comprare alla banca centrale, che può stampare moneta, le nuove emissioni di titoli di Stato, sempre che il Governatore di Bankitalia si presti a questa politica. Per fortuna abbondiamo di precedenti storici di monetizzazione del debito. Basti pensare ai miniassegni sul finire degli anni ‘80 scambiati in fretta e furia prima che perdessero valore, un surrogato di una moneta che ogni giorno vedeva erodersi il proprio potere d’acquisto, con un’inflazione a due cifre. Certo, quando l’inflazione aumenta, i debitori, tra cui lo Stato italiano, vedono ridursi il valore di quanto devono ripagare. Ma a fronte di questi debitori contenti, ci sono creditori che piangono, famiglie italiane che hanno messo i risparmi in titoli di Stato o in attività che non sono indicizzate all’inflazione e che perderebbero molti soldi. Anche questa, dopotutto, è una tassa, la tassa da inflazione. Ed è utile notare che l’inflazione colpisce sempre le persone più vulnerabili, quelle che non sono in grado di avere redditi indicizzati ai prezzi e che perciò vedono ridursi il loro potere d’acquisto del 10-15% ogni anno, un calo dei redditi reali che non si è visto neanche durante questa interminabile recessione.
Ma la carta vincente di chi si batte contro l’euro è che un governo non più sotto il giogo dell’austerità tedesca potrebbe fare quelle politiche espansive che servono a far ripartire l’economia. Strano che a sostenere queste tesi siano gli stessi movimenti che, non senza qualche merito, si battono a parole contro la casta. Davvero credono che politici lasciati liberi di spendere e spandere si occuperebbero del bene comune e non tornerebbero ad accordarsi lauti compensi? Perché deresponsabilizzare la nostra classe dirigente, perché perdonare i monocolori e i pentapartito sotto i quali il debito pubblico è esploso o i 10 anni di politica economica di Berlusconi che hanno utilizzato la minor spesa per interessi per aumentare altra spesa corrente? È la stessa accondiscendenza che mostra la lista Tsipras, candidato da intellettuali italiani in quanto “greco” perché «rappresenta il Paese che soffre di più per le politiche di austerity». Peccato che la crisi del debito nell’area Euro che ha portato miseria a milioni di europei sia scoppiata perché nel 2009 il deficit pubblico greco si è rivelato essere del 15,6% contro il 3% previsto dai trattati firmati dal governo greco, con politici e banchieri centrali ellenici che avevano truccato i conti.
Ci saranno dunque maggiori tasse in caso di uscita dall’Euro. E non abbiamo considerato le tasse nella transizione, nel passaggio dall’euro alla lira. Ci torneremo.

La Repubblica 07.0.14