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"Il Senato alla sfida della legge elettorale", di Andrea Manzella

Può darsi che il funambolo caschi al Senato. Ma non è ragionevole fare il tifo perché finisca nel vuoto. Il progetto elettorale avviato alla Camera, sotto la “dettatura” dei giudici costituzionali, ha certo, e ben visibile, bisogno di emendamenti e rammendi. Ma non di un insensato disfare.
Il mestiere di una seconda Camera è appunto di riflessione e di garanzia. Il Senato ha una splendida occasione per dimostrare di poter fare questo suo lavoro, presto e bene, con visione di equilibrio istituzionale. Allontanando ogni tentazione di ostruzionismi aperti o nascosti: proprio perché gli vorticano intorno indefiniti progetti di sua radicale mutazione. Insomma, ogni cosa al tempo e nella corsia giusta. Oggi il Senato si trova in una eccezionale posizione di “terzietà”. Deve, infatti, rivedere e giudicare un progetto elettorale che riguarda solo l’altra Camera e da questa già approvato. Nulla che per ora riguardi direttamente la sua elezione, né tantomeno la sua struttura. Ma è logico che ci sia stata questa separazione nel procedimento legislativo elettorale?
Sì, è logico. E non perché “tanto il Senato non sarà più eletto”(finché gli annunci non diventano diritto, restano annunci). E neppure per quella certa “autonomia” che la consuetudine riserva a ciascuna Camera circa i modi della propria nascita elettorale. Ma perché i giudici costituzionali hanno colto nelle vecchie leggi due vizi catastrofici, però opposti: uno per la Camera, uno per il Senato. Per la Camera, l’incostituzionalità derivava dell’irrazionale sconvolgimento della proporzione tra voto degli elettori e formazione della maggioranza parlamentare. Il vizio era nella rappresentanza distorta.
Per il Senato, invece, l’incostituzionalità derivava dal fatto che la frammentazione delle “aggiunte”, regione per regione, alterava inutilmente il voto degli elettori senza assicurare una maggioranza “nazionale” al Senato. Con la conseguenza, puntualmente realizzatasi sotto gli occhi di tutti, della quasi — impossibilità di “rendere efficace e attuabile l’indirizzo politico del governo e della maggioranza parlamentare, vero motore del sistema” (come, post-sentenza, ha detto il presidente della Corte costituzionale). Il vizio era qui nella ingovernabilità che dal Senato si trasmetteva al sistema. Per un ramo, dunque un guasto di legge; per l’altro, una rottura di sistema. Giusto perciò, procedere per divisione.
Ora il Senato ha quindi due compiti ben precisi. Primo, appurare se la Camera ha davvero riparato i guasti di legge, indicati dalla Corte costituzionale. Secondo, verificare se, mettendo mano alla legge, la Camera non abbia provocato danni collaterali.
Il progetto dovrebbe superare il primo esame. La introduzione di una “soglia minima” elettorale e, in mancanza, di una specie di ballottaggio- referendum: sono meccanismi che rendono ragionevole e legittimo il premio aggiuntivo di seggi parlamentari (prima, dato “alla cieca”, senza risultato di base e senza un ulteriore interpello popolare). La introduzione di “liste corte” in ambiti territoriali limitati assicura la “effettiva conoscibilità” dei candidati (prima negata da “liste lunghe” in dimensioni territoriali fuori della portata degli elettori). Basta così? Sì, basta così — rispetto al dettato e alle puntuali esemplificazioni del giudizio costituzionale — per riportare la legge a legittimità. Poi, naturalmente, sul piano della opportunità, ogni fantasia di legislatore è libera: per altri rimedi e misure. Purché non si contrabbandino come vincoli costituzionali quelle che sarebbero solo eventuali opzioni politiche.
La seconda missione del Senato si annuncia più complicata. Perché, nell’aggiustare la legge, la Camera è caduta in errori evidenti di incostituzionalità. Errori sopraggiunti che la Corte non poteva quindi prevedere né prevenire. Ma che, se non corretti in questa fase parlamentare, rischiano di farle ritornare indietro, di corsa, la legge per un nuovo, demolitorio giudizio. Di corsa: perché per l’“accesso” alla Corte, in questa materia, basta ormai promuovere una semplice azione di accertamento. Di corsa: perché sarà difficile per un magistrato ordinario non accorgersi della rilevanza di quelle cadute.
In realtà i veri errori sono solo tre, ma sono radicali. Perché feriscono nientedimeno che le due norme-chiave del nostro sistema politico- costituzionale: l’art.3 e l’art.49. Il diritto “uguale” di tutti i cittadini di associarsi in partiti. Quali sono questi errori?
Uno. La fissazione della quota dell’8 per cento perché un partito possa entrare in Parlamento crea uno sbarramento fuori di ogni misura mondiale. Non è un ostacolo ai “partitini”: è più semplicemente un ostacolo alla vita democratica e alla sua mobilità, del tutto sconosciuto, nella sua dismisura, all’Occidente. Comparativamente nell’Unione europea e per il suo parlamento, la clausola massima possibile è del 5 per cento. Nessuno aveva mai pensato che un partito con questa percentuale potesse essere definito come “scheggia” o “polvere” del sistema. Averlo previsto è un pubblico peccato costituzionale.
Due. Questo iperbolico innalzamento di quota è reso ancora più irragionevole per la contemporanea trovata del ticket ridotto (al 4,5, per cento) per chi entra, embedded,
in una coalizione. Cioè, se un partito si presenta agli elettori con la propria fisionomia e il suo programma, deve superare una condizione di difficoltà estrema. Se, invece, si cerca un potente alleato — con le contaminazioni, le confusioni e i compromessi che qualsiasi accordo comporta — la sua vita è facilitata. Ognuno vede come le lesioni al diritto dei cittadini di associarsi in partiti che “concorrono” in condizioni di parità alla “politica nazionale” (ancora gli art. 3 e 49) non potrebbero essere più gravi. Con un’aggravante “storica”: perché di coalizioni “giuridicamente” agevolate (e quindi “politicamente” coatte) il sistema italiano è oggi gravemente ammalato.
Tre. La eguaglianza di status politico dei cittadini è colpita ancora dopo il primo turno di ballottaggio (che in realtà, è un referendum di governo). In questa fase non sono possibili nuove alleanze: e ciò viene presentato come una epifania di moralità politica. La proibizione del “soccorso” al presunto vincitore. Ma le regole di buona politica consiglierebbero proprio il contrario. E cioè che partiti presentatisi con la loro identità al primo impatto con l’elettore, potrebbero poi, al momento della scelta del governo, costruire alla luce del sole programmi e alleanze per la gestione della cosa pubblica. Ma quel che più importa è che con la loro esclusione ancora una volta ferisce la parità costituzionale tra cittadini e tra partiti.
Per aiutare il passaggio in questa funambolica strettoia, il Senato dovrà dunque correggere questi errori di fondo. Senza perdersi nel sospetto labirinto delle ipotesi “ben altre”. E anche per far capire a che cosa può servire un Senato.

La Repubblica 18.03.14

"Altro che quote rosa, è democrazia paritaria", di Francesca Izzo

E’ accaduto con la parola “femminicidio”: al principio c’era una resistenza fortissima ad usarla perché brutta e urticante, ma poi l’ha spuntata perché è l’unico termine appropriato per denotare l’uccisione di una donna solo perché è donna. Quando con una grande campagna di informazione si è chiarito che mariti, fidanzati, conoscenti le uccidono perché, aspettandosi acquiescenza e subordinazione, non riescono invece a tollerare la loro libertà e il loro rifiuto, allora il termine è diventato di uso corrente.
Ecco ora siamo alle prese con un’analoga situazione, forse ancora più difficile. L’espressione che deve entrare nell’uso comune è «democrazia paritaria» ma deve combattere per affermarsi contro quella semplice e diffusa di «quote rosa». In questi giorni di quote rose se ne è scritto e detto a destra e manca per raccontare dell’iniziativa di un consistente numero di deputate di inserire nella nuova legge elettorale il principio della parità. Chi si è dichiarato a favore chi contro, ma tranne pochissime eccezioni, tutti a parlare di quote rosa.
Appena qualche giorno fa, ad esempio, Gian Antonio Stella ne ha sostenuto la necessaria e temporanea introduzione per vincere uno storico gap. Invece una platea vasta, arringata a sorpresa ieri sera a Che tempo che fa da una Luciana Littizzetto antiquote, è duramente contraria perché respinge le tutele, vuole il merito e non i recinti protetti. Soprattutto le giovani donne si mostrano ostili: hanno misurato a scuola, negli studi, nei concorsi il loro valore e sanno di poter competere alla pari con i loro coetanei e quindi non vogliono essere ricacciate nel ghetto degli svantaggiati, di quote infatti si parla per chi ha degli handicap, per le minoranze …
Hanno pienamente ragione: le donne non sono una minoranza e per giunta oggi le giovani donne sono forti, preparate e competitive, altro che svantaggiate. E allora? Il fatto è che le parole sono le cose e usare la parola quota per indicare qualcosa di diverso produce terribili fraintendimenti.
Democrazia paritaria è l’espressione adeguata. Adeguata ad indicare che la rappresentanza del popolo (quella che con il voto eleggiamo in Parlamento), per essere democratica e non «oligarchica», deve dare «rappresentazione» del dato basilare che il popolo è fatto per metà da uomini e per metà da donne e che quindi la composizione parlamentare deve essere paritaria. I criteri con i quali vengono scelti i rappresentanti, cioè i famosi merito, qualità e competenza dei candidati riguardano in egual misura sia gli uomini che le donne e prescindono dalla regola paritaria, a meno che non si pensi che merito, qualità e competenza abbondino tra gli uomini e scarseggino tanto drammaticamente tra le donne da dover ricorrere a sciocche incompetenti per rispettarla.
La democrazia paritaria non configura alcuna concessione, alcun regalo o tutela, è la semplice presa d’atto (frutto però di un’epocale rivoluzione culturale e politica) che il popolo sovrano è fatto di uomini e donne e non è una nozione neutra, indistinta. È stata quella nozione neutra a consentire, anche nella storia repubblicana, di considerare «normale» che la rappresentanza fosse monopolizzata dagli uomini e che la presenza delle donne fosse un’anomalia, un’eccezione da giustificare con meriti altrettanto eccezionali. Questa visione, diffusa ancora oggi, è l’eredità di un lungo passato che non vuole passare, nel quale la politica era per definizione cosa esclusivamente di uomini e alle donne era vietato, proibito di occuparsene e qualcuna, per sfidare il divieto, ci ha rimesso pure la testa.
La democrazia paritaria è il compimento della democrazia, perché porta a compimento l’inclusione delle donne nella polis. E fa anche un’altra cosa non meno rilevante: sottrae all’arbitrio o alla «generosità» degli uomini che ne detengono le chiavi una parte del potere di decidere, rendendo più libere le donne.
Non si chiedono meriti o medaglie speciali alle donne per entrare nella cittadella della rappresentanza, né ci aspettiamo azioni miracolistiche dalla loro presenza. Ma credo sia chiaro a tutti che una rappresentanza popolare composta per metà da donne, cambiamenti nella concezione e nella concreta azione politica li produce e sicuramente in meglio, vista la crisi drammatica di credibilità e di fiducia delle istituzioni rappresentative.

L’Unità 18.03.14

“In quelle onde l’eco del Big Bang” ecco l’ultimo segreto dell’universo, di Marco Cattaneo

C’è voluto un telescopio installato al Polo Sud e tre anni di pazienti osservazioni, per catturare il primo vagito del cosmo dopo il Big Bang, un flebile segnale arrivato fino a noi sotto forma di onde gravitazionali, lievissime increspature impresse nella trama della radiazione cosmica di fondo. A darne l’annuncio, dopo che da giorni in rete si rincorrevano voci di una scoperta clamorosa, è stato il gruppo di astrofisici dell’Harvard Smithsonian Center for Astrophysics, responsabile dell’esperimento BICEP2 (Background Imaging of Cosmic Extragalactic Polarization), guidato da John Kovac.
Prevista dalla relatività generale di Einstein quasi un secolo fa, l’esistenza delle onde gravitazionali era stata confermata in modo indiretto nel 1974 da Russell Hulse e Joseph Taylor, insigniti del premio Nobel nel 1993, studiando sistemi di stelle binarie, ovvero coppie di stelle che orbitano una attorno all’altra. Ma il risultato ottenuto da BI-CEP2, installato fra i ghiacci antartici della Amundsen-Scott South Pole Station, sebbene sia ancora una misurazione indiretta, va molto oltre, perché non si limita a confermare l’esistenza delle onde gravitazionali, ma offre uno scorcio dell’universo neonato. E soprattutto è la prima prova diretta dell’inflazione cosmica, un elemento cruciale dei modelli cosmologici dei giorni nostri.
Secondo questa idea, proposta all’inizio degli anni Ottanta da Alan Guth, una frazione infinitesimale di secondo dopo il Big Bang l’universo attraversò una fase di espansione esponenziale rapidissima, che lo portò ad avere dimensioni enormi rispetto a quelle iniziali, un po’ ciò che accade all’inizio quando gonfiamo un palloncino. Molto discussa ai suoi esordi, l’inflazione era stata introdotta per dare all’universo le “giuste” dimensioni per accordare la teoria del big bang con le osservazioni astronomiche.
Per verificare l’esistenza delle onde gravitazionali primordiali all’epoca dell’inflazione, gli scienziati di BICEP2 hanno osservato la radiazione di fondo a microonde, scoperta mezzo secolo fa da Arno Penzias e Robert Wilson, e risalente a circa 380 mila anni dopo il big bang. Prima, l’universo era così denso e caldo che tutta la radiazione che vi era contenuta rimaneva intrappo-lata, ma quando si fu raffreddato a sufficienza da permettere la formazione di atomi di idrogeno, si liberò un’immensa quantità di fotoni, le particelle di luce, che ancora oggi raggiungono i nostri rivelatori.
Scoprire la debolissima impronta delle onde gravitazionali su quella radiazione «era come cercare un ago in un pagliaio», ha dichiarato Clem Pryke, dell’Università del Minnesota, uno dei responsabili dell’esperimento, «invece abbiamo trovato un piede di porco». Studiando la polarizzazione della radiazione cosmica di fondo, infatti, ovvero l’orientamento della sua oscillazione, il gruppo di BICEP2 ha trovato un segnale importante, che permette, in particolare, di escludere alcune ipotesi alternative dell’inflazione.
Per osservare la presenza di onde, per esempio sull’oceano, ci sono due possibili modi. Uno, quello più diretto, è disporre una boa che si muove su e giù al passaggio delle onde. È questo il metodo adottato da rivelatori di onde gravitazionali come VIRGO, realizzato nelle campagne di Cascina, in provincia di Pisa, dall’Istituto nazionale di fisica nucleare e dal CNRS francese, e LI-GO, negli Stati Uniti. Ma la frequenza delle onde gravitazionali prodotte nel big bang è troppo lenta per poterne seguire la variazione nel tempo. L’altro metodo è fare un’istantanea della superficie del mare dall’alto, riconoscendo la “firma” delle onde dalle increspature. E questo è esattamente quello che hanno fatto gli scienziati di BICEP2 misurando la polarizzazione della radiazione di fondo.
Già paragonata per importanza alla scoperta del bosone di Higgs, e pur dovendo attendere la verifica di altri esperimenti indipendenti, l’osservazione delle onde gravitazionali da parte di BICEP2 è una svolta epocale per la cosmologia moderna. Al di là delle implicazioni immediate, infatti, apre un nuovo capitolo nello studio dell’universo attraverso il nuovo strumento delle onde gravitazionali, a cominciare dagli esperimenti a terra per proseguire con LISA, un progetto di antenna gravitazionale dell’Agenzia spaziale europea.

La Repubblica 18.03.14

"Stipendi, la grande incertezza", di Alessandra Ricciardi

La scuola, con il suo milione di dipendenti, è certamente il settore pubblico più interessato al piano da 10 miliardi di agevolazioni sui redditi da lavoro. Su cui però le incertezze abbondano: al Tesoro stanno ancora definendo la platea e la soglia da cui far partire la detrazione che consenta di avere mille euro netti in più l’anno: fissata a 25 mila euro (lordi) l’anno dal premier Matteo Renzi nel corso della conferenza stampa della scorsa settimana, potrebbe anche salire a 30 mila, con la detrazione a scalare inversamente proporzionale al reddito.
Sarebbe questa l’ultima ipotesi a cui starebbero lavorando tra palazzo Chigi, Tesoro e ministero dell’istruzione. Un bel colpo, soprattutto in vista del voto delle europee. Se così fosse, nella scuola gli interessati sarebbero ancora di più di quelli finora stimati: sotto i 25 mila euro lordi l’anno, per un netto mensile di circa 1500 euro, ci sono tutti gli assistenti tecnici e amministrativi e la metà dei docenti fino alla primaria, un terzo dei docenti delle secondarie. Complessivamente oltre la metà dei lavoratori ella scuola. Se la soglia dovesse arrivare con la riduzione del cuneo fiscale a redditi netti di circa 1700 euro, l’aumento in busta paga salirebbe: per esempio nella primaria e infanzia riguarderebbe quasi tutti. Ma si tratterebbe di un aumento ridotto rispetto agli 85 euro mensili di cui ha parlato Renzi in conferenza stampa. Per mettere a punto l’intervento ci sono altri 20 giorni di tempo, visto che in busta paga la nuova detrazione dovrà scattare per il mese di maggio.

L’annuncio dell’agevolazione sui redditi medio-bassi è stata salutata con favore da tutti i sindacati della scuola. Che però hanno subito messo le mani avanti: non si tratta di aumenti che possono far passare nel dimenticatoio il rinnovo del contratto. Flc-Cgil, Cisl scuola, Uil scuola, Snals -Confsal e Gilda chiedono infatti che il contratto sia rinnovato, avendo chiare scadenze, risorse e criteri. Una partita, questa, che già nei prossimi giorni dovrebbe vedere un primo step con il recupero degli scatti di anzianità su cui l’Aran, l’agenzia governativa per la contrattazione nel pubblico impiego, dovrà avviare la trattativa con i sindacati. Il relativo decreto legge è infatti in fase di conversione alla camera, dove il sottosegretario all’istruzione, Gabriele Toccafondi, ha dichiarato di voler trovare una diversa copertura per il futuro: l’attuale, che prevede per le risorse mancati l’utilizzo del fondo per l’offerta formativa, non è più ritenuta percorribile. Da 1,3 miliardi di euro, nel giro di pochi anni il fondo del Mof si è quasi dimezzato. La partita più cospicua, e più delicata riguarda però il rinnovo delle retribuzioni base di tutta la scuola, compresa quella dei dirigenti. L’unica in grado di dare concretezza, dicono le sigle sindacali, a quell’annuncio di centralità dell’istruzione nell’agenda di governo che è diventato lo slogan di Renzi. La sola edilizia scolastica, pur fondamentale (anche su questo i sindacati sono concordi), non basta.

Il ministro dell’istruzione, Stefania Giannini, ha più volte avuto modo di dire che se l’anzianità di servizio, i cosiddetti scatti, deve avere il suo riconoscimento nel futuro contratto altrettanto deve averlo il merito. E che non ha senso scindere la valutazione dei prof dal rendimento degli alunni. Indicazioni chiare, che aprono a una stagione certamente impegnativa per il confronto nella scuola.

da ItaliaOggi 18.03.14

"Il cambio di passo dell'Europa", di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini

Dopo circa 15 anni dall’ultima grande manovra di riduzione delle tasse, quella attuata nel 2000 dall’allora ministro dell’Economia Vincenzo Visco nel governo Amato, il nuovo governo Renzi ha deciso di tagliare le tasse ai lavoratori con basso reddito. Si tratta di un intervento da 10 miliardi di euro che interesserà circa 10 milioni di lavoratori i quali avranno un incremento del potere di acquisto di 80 euro mensili. È una scelta giusta attesa da tempo immemorabile che può rilanciare i consumi, passo fondamentale per sostenere la produzione, l’occupazione e gli investimenti delle imprese.
Immediatamente sono divampate le polemiche: la Banca Centrale Europea ha redarguito il governo italiano perché non sta attuando quelle misure necessarie per ridurre l’enorme debito pubblico. La critica della Bce è inaccettabile per due motivi fondamentali.
Primo, perché la Bce dovrebbe preoccuparsi di intervenire per ridurre il valore dell’euro che ormai è arrivato ad 1,4 rispetto al dollaro: l’euro forte sta distruggendo le economie meno competitive dell’Unione Monetaria rendendo vane tutte le politiche di riduzione del debito pubblico.
Secondo, perché il risanamento dei conti pubblici potrà essere ottenuto solo se ci sarà una ripresa dell’economia e la crescita dell’occupazione. Pertanto, se veramente si vuole ridurre il peso del debito pubblico, bisogna lanciare un grande piano di investimenti per avviare un nuovo ciclo di crescita. L’affermazione che politiche per la crescita e misure di risanamento possano coesistere è solo una grande menzogna. Senza maggiore occupazione non ci può essere la riduzione del debito.
Ricordiamo che Joschka Fischer, exbraccio destro del Cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder nei primi anni duemila, in un’intervista rilasciata un paio di anni fa aveva affermato che “L’attuale strategia chiaramente non funziona. Va contro la democrazia e va contro la realtà: lo sappiamo sin dalla crisi del 1929, dalle politiche deflattive di Herbert Hoover in America e del cancelliere Heinrich Brüning nella Germania di Weimar, che l’austerità in una fase di crisi finanziaria porta solo a una depressione. Sfortunatamente, sembra che i primi a dimenticarlo siamo proprio noi tedeschi”.
È necessaria, dunque, una svolta radicale nella politica economica europea. La Banca Centrale Europea deve attuare una consistente espansione monetaria per portare il tasso di cambio dell’euro in rapporto al dollaro ad un valore non più alto di 1,2. E considerando che in questa fase la pressione sui tassi di interesse si è allentata e che non c’è nessuna garanzia che le banche facciano affluire le maggiori risorse finanziarie nell’economia reale se questa non riprende a crescere, la Bce dovrebbe garantire l’emissione di Eurobonds per finanziare un grande piano di investimenti a livello continentale assicurando il pagamento delle spese per interessi sulle nuove obbligazioni.
Se tale linea di azione non sarà fatta propria dai principali paesi europei come la Germania e la Francia, la situazione potrebbe aggravarsi per il crescente sentimento antieuropeista che sta montando non solo in Italia ma nella maggior parte dei paesi in difficoltà. In Italia, da tempo, stanno circolando proposte molto drastiche tra cui il ritiro delle risorse che sono state versate nel Fondo Salvastati, superiori a 40 miliardi di euro, la costituzione di un Euro del Sud Europa e addirittura l’uscita dell’Italia dall’Unione Monetaria Europea.
La nostra speranza è che l’euro possa sopravvivere, ma perché ciò avvenga occorre che vi sia un netto cambiamento della politica economica e che si passi dalle invocazioni alla crescita e alla lotta alla disoccupazione ad azioni concrete che siano in grado di rilanciare il progetto di integrazione europea.

La Repubblica 18.03.14

"Il modo più semplice per stimolare la crescita", di Luca Orlando

Sulla carta, tutti d’accordo. Pagare i debiti della pubblica amministrazione è una priorità per il Paese. E chi, del resto, potrebbe sostenere e argomentare una tesi contraria. Dalle parole ai fatti, tuttavia, la distanza resta spesso ampia e le amministrazioni italiane certamente non brillano nella capacità di colmare il gap. Alcuni deputati della Regione Sicilia, ad esempio, storcono il naso davanti alla possibilità di dover mettere mano al portafoglio sottoscrivendo un mutuo da un miliardo con la Cdp, argomentando che «questi soldi servirebbero per pagare le aziende del Nord». Tesi suggestiva, anche dimenticandosi delle migliaia di imprese locali che attendono da tempo immemore il saldo delle proprie fatture da parte della Regione, perché pagare i debiti – anche nei confronti delle imprese «del Nord», resta comunque un dovere, la cui declinazione geografica pare poco comprensibile.
Pagare, dunque. Mettendo da parte i poteri di veto della burocrazia per allineare tutte le amministrazioni su questo obiettivo, a maggior ragione cruciale nel momento in cui per le imprese è il profilo finanziario quello più difficile da gestire. Per assecondare i deboli e incostanti refoli di ripresa, infatti, le aziende possono contare solo in parte sul credito bancario, con uno stock di finanziamenti crollato in un anno di altri 30 miliardi (-5,2%) mentre nello stesso periodo in Germania la riduzione è di appena lo 0,1%. Il perimetro dei benefici possibili derivanti da un immediato saldo dei debiti della Pa è peraltro più ampio della semplice schiera dei fornitori diretti. Evoluzione visibile già nelle prime analisi sul 2013, studiando l’impatto delle somme già liquidate sul sistema. Nel terzo trimestre del 2013, dopo aver saldato debiti pregressi per 11,3 miliardi di euro, lo “scaduto” della Pa si è ridotto drasticamente, scendendo al 48,2%, quasi 15 punti in meno rispetto al periodo precedente. L’effetto ulteriore è però riscontrabile negli stessi fornitori, aziende che ottengono finalmente i fondi dovuti, recuperando almeno in parte il proprio equilibrio finanziario. Imprese che a loro volta sono ora in grado di pagare per tempo i propri fornitori e i dati di Cerved group certificano questa tendenza: a settembre del 2012 lo scaduto valeva un terzo delle fatture, ora il 28,8%. Accelerare i pagamenti è quindi forse il modo migliore per provare a dare una scossa all’economia come conferma l’analisi di Confindustria Padova. Meglio un decreto legge, come sostiene il vicepresidente della commissione Ue Antonio Tajani? Sulla carta sì, anche se l’esperienza recente della Sabatini-bis per incentivare gli acquisti di macchinari evidenzia le grandi difficoltà insite anche in questo percorso, accelerato soltanto sulla carta. Il decreto del Fare, che includeva la Sabatini-Bis, risale alla scorsa estate (21 giugno il decreto, 20 agosto la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale) mentre l’accesso allo strumento sarà possibile per le imprese soltanto tra un paio di settimane, alla fine di marzo. Che sia un Decreto o un disegno di Legge in fondo conta relativamente, l’importante è muoversi.

Il Sole 24 Ore 18.03.14

"Tra i neo-diplomati il 44% insoddisfatto di scuola e indirizzo", di Gianni Trovat

Delusi e disorientati. Sono gli studenti italiani che escono dalla scuola superiore secondo l’ultimo rapporto di AlmaDiploma, la “versione” per la scuola superiore dell’indagine sulla condizione occupazionale che il consorzio inter-universitario AlmaLaurea conduce da 16 anni sui laureati.
Appena chiusi i libri dopo aver superato l’esame di Stato, spiega il rapporto che ha messo sotto esame 72mila diplomati, il 41% dei “maturi” si dichiara pentito della scelta fatta a scuola, e precisa che potendo tornare indietro cambierebbe istituto, indirizzo di studi oppure, nella maggioranza dei casi, entrambi.
Quando passa il tempo, e ci si confronta con la scelta universitaria oppure con le difficoltà del mondo del lavoro, la situazione peggiora, e la quota dei delusi cresce ancora fino ad attestarsi al 44 per cento.
Numeri, questi, che indicano una scarsissima efficacia delle attività di orientamento, e che trovano una conferma ulteriore quando i neo-diplomati si affacciano all’università. Il tasso di giovani che dopo la maturità continua a studiare, prima di tutto, non si schioda da un 64% che mantiene molto lontana l’Italia dalle medie europee: fra questi, poi, l’8% abbandona le aule universitarie entro il primo anno, e un altro 10% cambia nello stesso periodo il corso di laurea o anche l’ateneo. Anche in questo caso, con il tempo il quadro peggiora e a tre anni dalla maturità la quota dei delusi dalla propria scelta universitaria sale al 28 per cento. Morale: l’orientamento che non ha funzionato dopo le medie si rivela inefficace anche dopo le superiori, quando il peso della famiglia di provenienza sulla scelta dello studente dovrebbe essere minore.
Non va molto meglio a chi tenta la strada del lavoro, com’è evidente visti i tassi di disoccupazione giovanile registrati nel Paese. A un anno dal titolo, sono disoccupati 39 diplomati su cento, e questa quota sale fino ad arrivare al 50,3% se si considerano solo gli studenti usciti dagli istituti professionali. I tassi di disoccupazione dei diversi indirizzi si riallineano con il passare del tempo, quando la disoccupazione rimane al 19,1% e scende (al 16,7%) solo fra chi ha in tasca un diploma rilasciato da un istituto tecnico. Rari, fra chi lavora, gli inquadramenti stabili (17,5 ogni 100 diplomati occupati), mentre spopolano i contratti flessibili e a termine (32%) e quelli di formazione e lavoro (26%). Quasi piatti gli stipendi di chi lavora: a un anno dal diploma la retribuzione media degli occupati è di 916 euro netti al mese, sale a 1.063 euro dopo tre anni e si attesta a 1.149 dopo cinque anni.

Il SOle 24 Ore 18.03.14