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"Storie, trucchi e innovazioni Il lato oscuro della politica 2.0", di Cesare Buquicchio

Strumento di democrazia diretta, pagliacciata mediatica, grimaldello per varcare (virtualmente e non) i palazzi del potere, consolazione per anime solitarie, brillante veicolo di propaganda, acceleratore di populismi, simulacro della trasparenza a tutti i costi. Il rapporto tra politica e web non riesce ad essere incardinato in nessuna di queste definizioni.

Tutte vere ed approssimative insieme. Ma non c’è da sbatterci troppo la testa: l’arte del possibile e la panoplia comunicativa della Rete sono materie già di per sé troppo malleabili e la natura umana che esse riflettono, sa essere persino più contraddittoria.

È almeno dal 2008, dalla prima campagna elettorale di Barack Obama, che si è compreso quanto un uso sapiente della Rete potesse influenzare le campagne elettorali e il destino dei candidati. Ma, come ci fa notare Michele Di Salvo nel suo nuovo libro “Politica 2.0 – La politica e la comunicazione nell’era digitale” disponibile come e.book su Amazon.it, il web diventa vincente quando ti fa fare in modo nuovo (e più efficiente) le stesse cose che facevi prima. La rivoluzione web della prima campagna Obama passava dalle vendite di torte porta a porta e dalle gare territoriali di coinvolgimento di donatori di fondi, con “un posto a cena” col candidato presidente per i vincitori. Da quella campagna ad oggi il rapporto tra web e politica si è arricchito di molteplici aspetti e il volume di Di Salvo li analizza in modo sistematico mettendone in luce problematicità e buone pratiche. Un po’ manuale pronto all’uso di politici e organizzatori, un po’ riflessione generale sul rapporto tra digitale e comunicazione, scorrendo le pagine di “Politica 2.0”, oltre ad Obama, incontriamo il Tea Party, il Partito Pirata, il MeetUp e le fortune del Movimento 5 Stelle in Italia, Albadorata, la nuova costituzione islandese nata dal web, Hugo Chavez e Twitter, la rete nei contesti autoritari come Sud America, Russia, Siria, Turchia e Cina.

TUTTI I TRUCCHI DELLA “ZONA NERA”
Di Salvo, imprenditore ed esperto di comunicazione, blogger, editorialista e scrittore, svela trucchi e trucchetti nell’uso della rete in modo strategico, dai più innocenti e scontati fino ad arrivare alle pratiche della cosiddetta “zona nera” del web. «Nella zona “nera” possiamo fare rientrare tutte quelle tecniche decisamente illegali come violazioni di siti web, attacchi DDoS, vero e proprio hacking teso a danneggiare siti software e strutture altrui o per “spionaggio informatico”, invio di mail “a nome di…” fasulle, la diffusione di notizie false, di cui si conosce la falsità, l’uso di falsi profili a nome o di nome simile al proprio avversario, o anche l’accusa non dimostrata che una di queste azioni venga compiuta da un concorrente».
Siamo già ben lontani dalle torte porta a porta di Obama. Altrettanto interessante è l’analisi delle cosiddetta “zone grigie” della comunicazione web. Ccome il CrossBlogging quando ad esempio una notizia viene pubblicata su un blog anonimo o creato ad hoc per pubblicarla (e non direttamente riconducibile a quella parte politica), semmai in forma anonima, salvo poi “contribuire a rilanciare” quella notizia dicendo candidamente “questo blog ha detto che…”.

QUANTO È SPONTANEA LA RETE?
In misura speculare il ForcedReBlogging, ovvero un sistema quasi automatico per cui un post viene sistematicamente rilanciato da una rete di blog e siti apparentemente non collegati tra loro, alle volte usando semplicemente dei feed o rss, per accrescere la visibilità e la percezione di autorevolezza i una certa notizia o informazione. Parliamo di CyberShilling quando persone – normalmente freelance – vengono impiegate per “postare commenti favorevoli o propagandistici” in rete, generalmente su blog o siti di riferimento, spesso usando nick-name di fantasia, semmai associati a profili Twitter o Facebook. Questa tecnica nasce per le esigenze commerciali di alcune aziende per “parlare bene in rete” dei propri prodotti o per limitare l’effetto di commenti sgradevoli, e nondimeno è di efficace impiego anche nella comunicazione politica. C’è poi il Comment-Storming, ovvero un’attività più o meno coordinata massiva di commenti di più utenti, in rapida successione sotto un articolo, un video, un post. La forza di questo strumento risiede in almeno due caratteristiche: la prima, è quella di apparire come una forma di azione spontanea, di attivisti “numerosi” (anche quando basta vedere un minimo di storico e scopriamo che un gran rumore viene fatto da qualche decina di soggetti, e sempre più o meno gli stessi), e la seconda, che quando un determinato contenuto viene condiviso, “trascina” inevitabilmente con sé anche i commenti, e questo ci riporta alla funzione essenziale di avere una strategia di risposta. Infine, ci sono i Troll, profili che interagiscono con gli altri utenti tramite messaggi provocatori, irritanti, fuori tema o semplicemente senza senso, con l’obiettivo di disturbare la comunicazione e fomentare gli animi; i Fake, profili falsi, contraffatti, che nascondono identità o ne imitano altre (discorso diverso e altrettanto interessante quello relativo ai falsi follower dei politici su Twitter: da Renzi a Grillo | LEGGI TUTTO); e i Botnet, macchine e profili artificiali che compiono azioni programmate: si va dallo spam di messaggi privati via Twitter, all’invio di mail automatiche.

UN VERO AMICO O UN VERO FAN?
L’analisi di Di Salvo ci svela così quanto sia ormai profonda la distanza tra le ingenue premesse egualitarie, orizzontali, spontaneistiche e reticolari del web e una realtà fatta di controllo, strategie, investimenti economici e tecnologici. Fortunatamente la Rete è ancora giovane e abbastanza libera per non farci cedere al cinismo, ma le pagine di “Politica 2.0” contengono una riflessione che dal piano pubblico e politico si sposta a quello privato e ci chiama tutti ad una sincera auto-analisi.
«Qualsiasi sia il nostro ruolo e lavoro, e qualsiasi sia la posizione politica, la rete ha comunque in sé un forte elemento di distorsione ottica della realtà, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo – scrive Di Salvo –. Il rischio più diffuso è quello di perdere inconsciamente contatto con la realtà, con le persone vere: fare cioè una selezione delle dinamiche relazionali e ricavare una “rubrica per sottrazione”. Un esempio concreto. Se io avevo 100 persone con cui mi relazionavo nella vita vera, e poi attraverso i social ne raggiungo altre 10.000, e se queste sono tendenzialmente “a me affini”, da queste mi sento stimato, voluto bene, apprezzato, può nascere in me la tendenza selettiva a dire “ma chi me lo fa fare a frequentare ancora quelle 40 persone che invece mi trattano come una persona normale e mi criticano, e mettono in discussione le mie idee, quando “il resto del mondo” mi fa sentire al centro dell’attenzione?” Manicheo? Eccessivo? Troppo ‘patologico’ per essere un fenomeno diffuso? Allora provate a misurare quante persone “avete perso”, tralasciato, sostituito, in due o tre anni di vita social, e provate a verificare quante persone nuove sono entrate nella vostra vita reale dai social network. Forse scoprirete che quelle “nuove” sono “vostri fan” e quelle che ne sono uscite spesso sono quelle che maggiormente vi mettevano in discussione».

L’Unità 17.03.14

"ANVUR: Italia meglio di Germania, Francia e Giappone come efficienza della ricerca pubblica", di Giuseppe De Nicolao

Domani l’ANVUR presenterà il primo Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca. Quale sarà la diagnosi? Roars prova ad anticiparne il contenuto, almeno per quanto riguarda il posizionamento internazionale della ricerca italiana. Una fuga di notizie dovuta a qualche “gola profonda” interna all’agenzia? No, nessun “ANVURgate”: molto più semplicemente era stata l’ANVUR stessa a fornire un’anteprima all’interno della Relazione finale VQR del luglio scorso. Un’anteprima che però aveva avuto eco quasi nullo sia nei comunicati dell’agenzia che sui mezzi di stampa. Ma quei dati erano veramente privi di interesse?

1. Cosa dirà il primo Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca?

Il 13 marzo è apparso sul sito dell’ANVUR il seguente avviso. Anvur presenta il primo rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca.

Dal momento che si tratta della prima versione del rapporto, è più che lecito domandarsi quali aspetti verranno coperti e quale sarà la diagnosi complessiva che verrà proposta dall’ANVUR. In questa sede, crediamo di poter anticipare almeno alcuni dei contenuti relativi ai confronti internazionali in termini di spesa, personale, produzione scientifica ed efficienza della produzione. No, non c’è stata una fuga di notizie imputabile a qualche “gola profonda” degna del “Watergate”.

Niente di così romanzesco: infatti, è stata la stessa ANVUR a fornirci un’anteprima, più di sei mesi fa in occasione della pubblicazione del Rapporto finale della VQR. Mentre l’attenzione dei mezzi di comunicazione e della comunità accademica era focalizzata sulle classifiche “double face” e sulle pagelle di atenei e dipartimenti, la terza parte del Rapporto VQR era passata quasi del tutto inosservata.

Nella sua introduzione erano chiariti bene gli scopi ed anche i limiti:

IL DM che istituisce la VQR 2004-2010 prevede che, al fine di verificare il posizionamento del paese nel contesto internazionale, l’ANVUR sviluppi all’interno del Rapporto Finale VQR un confronto internazionale della posizione relativa della ricerca italiana, realizzata utilizzando i principali indicatori bibliometrici disponibili. Le analisi che seguono sono basate sui dati contenuti nelle banche dati ISI Web of Science e Scopus; i dati relativi a pubblicazioni e citazioni sono anche combinati con quelli sui principali fattori di input per la produzione scientifica (numero di ricercatori e spesa in ricerca e sviluppo), di fonte OCSE, allo scopo di calcolare indicatori di produttività dell’attività di ricerca. […] L’analisi si concentrerà in particolare sulle aree scientifiche 1- 9, con l’aggiunta dell’Area 13 e di parte dell’Area 11, per le quali è usuale il ricorso a indicatori di tipo bibliometrico. L’analisi presentata in seguito è da considerarsi come una esplorazione preliminare dei dati disponibili; l’ANVUR ha intenzione di approfondire ulteriormente l’analisi in occasione del prossimo Rapporto sullo Stato del Sistema Universitario e della Ricerca.

Questa parte del rapporto ha avuto eco quasi nulla nei comunicati ANVUR ed anche sulla stampa nazionale. Infatti, l’attenzione fu completamente catturata da classifiche e pagelle, che a posteriori si sarebbero dimostrate maldestre e inaffidabili al punto che sono in circolazione quatro diversi tipi di votazione VQR, nessuna della quali appare solida:

Invece che esercitarsi in classifiche di dubbio valore, sarebbe stato molto più interessante avere un confronto della ricerca italiana con quella delle altre nazioni. Era vero quello che diceva il Ministro Gelmini nel 2009?

È risibile il tentativo di qualcuno di collegare la bassa qualità dell’Università italiana alla quantità delle risorse erogate. Il problema, come ormai hanno compreso tutti, non è quanto si spende (siamo in linea con la media europea) (M. Gelmini 2009)

La qualità era veramente bassa in termini comparativi? E la spesa era veramente in linea con la media europea?

Ebbene, l’ANVUR aveva finalmente messo a disposizione la risposta all”interno di un documento ufficiale. Come vederemo in seguito, ci sarebbe stato materiale per scrivere articoli assai più significativi delle disamine sui presunti sorpassi tra università madri e figlie o sulle competizioni tra atenei metropolitani e di provincia.

Non fu così e quei dati passarono nel dimenticatoio a parte la pubblicazione di qualche grafico nei commenti di Roars (qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui e qui). Sarebbe davvero auspicabile che il Rapporto sullo stato della ricerca riprendesse questi raffronti internazionali, dando loro il peso che non hanno avuto fino ad oggi.

Nel seguito, riassumiamo i dati di maggior interesse seguendo uno schema simile a quello proposto dall’ANVUR:

analisi degli input finanziari ed umani;
analisi degli output in termini di pubblicazioni e di citazion;
calcolo dell’efficienza ottenuta come rapporto tra output ed input.

2. Gli input: risorse finanziarie ed umane

Il primo dato da considerare è la spesa in ricerca e sviluppo in rapporto al PIL. Come si può vedere, l’Italia è in sensibile ritardo rispetto alle altre nazioni del gruppo di confronto.

Non sarebbe tuttavia corretto utilizzare il dato di cui sopra quando ci si riferisce alla ricerca accademica. Il rapporto ANVUR riporta un grafico relativo alla spesa in ricerca e sviluppo disaggregata nei diversi settori. Tuttavia, l’ammontare della spesa nel settore “Istruzione superiore” non è ben leggibile e preferiamo riferirci alla fonte originaria, ovvero le statistiche OCSE. Se si considerano le realtà più comparabili, come Regno Unito, Germania e Francia, permane un sensibile ritardo italiano seppur meno pronunciato rispetto al grafico precedente.

È interessante considerare anche un’altra forma di input, costituita dal numero di ricercatori in rapporto alla forza lavoro complessiva. Di nuovo, l’Italia è in forte ritardo, Nel gruppo di confronto considerato, solo la Cina si colloca alle sue spalle.

Anche in questo caso, è bene disaggregare il numero dei ricercatori in funzione del settore, come viene fatto nel seguente grafico. Nel settore dell’istruzione superiore permane un considerevole ritardo, anche se non così spiccato come nel settore privato.

3. Gli output: pubblicazioni e citazioni

Se passiamo a considerare gli output, ovvero le pubblicazioni scientifiche e le citazioni che esse ricevono, scopriamo che l’ANVUR non fornisce i relativi grafici, ma riporta i dati solo in forma tabellare. Poco male: a partire dai dati del Rapporto finale VQR non è difficile ottenere i grafici che riportiamo di seguito.

Cominciamo con le pubblicazioni. Per ragioni di leggibilità sono stati omessi i dati delle prime due nazioni, USA e Cina. In assoluto, l’Italia si colloca all’ottavo posto, in avvicinamento rispetto al Canada.

Inoltre, la produzione scientifica italiana appare in rapida crescita. Per verificarlo, nel seguente grafico è riportata la crescita media annua (in %) nel periodo 2004-2010. Si vede che l’Italia, pur superata da diverse nazioni, è cresciuta più rapidamente di Germania, Regno Unito, Francia, Svezia, USA, Russia e Giappone.

Per capire l’impatto della ricerca italiana sulla comunità scientifica internazionale è utile far riferimento alle citazioni ricevute dagli articoli scientifici. In termini assoluti, l’Italia si colloca di nuovo all’ottavo posto.

Per avere un’idea del profilo temporale, esaminiamo l’andamento della percentuale mondiale di citazioni. Per motivi di leggibilità il grafico non comprende il dato USA. È visibile la rapida crescita del dato italiano che si avvicina ormai a quello canadese e giapponese e riduce il distacco rispetto a quello francese.

4. L’efficienza: pubblicazioni e citazioni su spesa e per ricercatore

Se i dati precedenti sembrano smentire una presunta bassa qualità del sistema della ricerca italiano, rimane aperta la domanda sulla sua efficienza. Una prima misura di efficienza proposta dall’ANVUR si ottiene dividendo il numero di pubblicazioni per la spesa pubblica in ricerca e sviluppo. L’Italia si colloca al quarto posto dietro Svizzera, Regno Unito e Svezia. Risulterebbe pertanto più “efficiente” delle altre nazioni, che includono Francia, Germania, USA e Giappone.

Un’altra misura di efficienza è data dal rapporto tra numero di citazioni e spesa pubblica in ricerca e sviluppo. In questo caso l’Italia occupa “solo” l’ottavo posto, ma rimane più “efficiente” di Germania, USA, Francia e Giappone.

Le misure di efficienza più facilmente comprensibili sono quelle relative alla produttività individuale dei ricercatori. Purtroppo, sono anche misure che vanno lette con una certa cautela perché la definizione del numero di ricercatori è in qualche modo convenzionale e segue regole che potrebbero differire da nazione a nazione. Tra i problemi da considerare, c’è la definizione di ricercatore “full-time equivalent”, dato che i professori universitari dedicano parte del loro tempo alla didattica ed anche la definizione delle tipologie di soggetti da contare come ricercatori.

Tenendo presenti tutte quesi caveat, esaminiamo i dati riportati dall’ANVUR per i ricercatori del settore pubblico. In quanto a numero di pubblicazioni pro-capite l’Italia è sesta e – ancora una volta – risulta più produttiva di Francia, Germania e Giappone.

Passando al numero di citazioni, l’Italia diventa sesta, ma precede pur sempre Germania, USA, Francia e Giappone.

5. Una domanda per l’ANVUR

I dati pubblicati lo scorso luglio dall’ANVUR mettono in evidenza alcuni fatti già noti agli esperti del settore, ma che in Italia non erano mai stati oggetto di Rapporti di un organo istituzionale:

Le risorse finanziarie ed umane investite nella ricerca e sviluppo sono comparativamente basse rispetto alle altre nazioni con cui amiamo confrontarci, soprattutto per quanto riguarda la spesa privata.
I risultati in termini di produzione scientifica e di impatto sono tutt’altro che trascurabili; fino al 2010 l’Italia oltre che collocarsi all’ottavo posto mondiale mostrava una velocità di crescita percentuale persino maggiore di nazioni come Germania, Regno Unito, Francia, Svezia, USA.
L’efficienza, comunque la si misuri (pubblicazioni o citazioni contro spesa o numero di ricercatori), appare buona e sistematicamente maggiore di quella di Germania, Francia e Giappone.

Si tratta di informazioni rilevanti ai fini della politica universitaria e della ricerca, se soltanto fossero messe a disposizione dell’opinione pubblica e dei decisori politici. La presentazione di domani, durante la quale interverrà anche il nuovo Ministro Giannini, offrirà all’agenzia di valutazione un’occasione importante per sgombrare il campo da equivoci e narrazioni ideologiche che hanno inquinato il recente discorso pubblico sull’università e la ricerca.

L’ANVUR saprà e vorrà approfittarne?

Qui le tabelle e i grafici

da www.roars.it

Taddei: "Rinegoziare il Fiscal compact, delicato ma inevitabile", di Andrea Carugati

Filippo Taddei, 38 anni, economista bolognese e responsabile economico Pd da tempo proponeva una riduzione dell`Irpef come primo passo necessario. L`aveva fatto alle primarie con Civati, a Renzi l`idea era piaciuta e l`ha chiamato in segreteria. Ora quel disegno sta muovendo i primi passi.

«Non voglio certo prendermi meriti non miei. La decisione è di Renzi. Sono ben felice di osservare che la sinistra di questo Paese si impegna con la più grande riduzione fiscale degli ultimi vent`anni e parte dai lavoratori dipendenti, che sono i contribuenti più fedeli e vanno premiati. La stella polare è questa, i loro interessi vengono messi davanti a tutto e il resto si muove di conseguenza. In passato, nei momenti di difficoltà, lo Stato metteva le mani nelle tasche di queste persone per tappare le falle: c`è un ribaltamento della logica. L`obiettivo primario è premiare il lavoro, poi certo ci aspettiamo dei vantaggi sulla crescita. La Cgia di Mestre stima che il 90% di questa restituzione vada in consumi: io sono più prudente, però la stragrande maggioranza di quei 10 miliardi andrà a stimolare la domanda interna».

Sulle coperture restano dei dubbi. Pare più probabile che l`Europa ci consenta di usare la leva del deficit per pagare i debiti della Pa rispetto alla riduzione del cuneo.

«Dei 60 miliardi di debiti, la stragrande maggioranza è già conteggiata nel deficit. La piccola parte che riguarda gli investimenti viene invece conteggiata nel momento in cui viene pagata. Se anche comportassero, e non è affatto sicuro, cambiamenti del deficit sopra il 2,6% sono certo che la Commissione Ue sarà molto tollerante, visto che è proprio Bruxelles che ci chiede di pagare in tempi brevi».

E il grosso del debito come verrà pagato?

«Gli strumenti esistono, si potrà fare con le banche private e con il sostegno della Cassa depositi e prestiti. Le parole di Bassanini sono state molto chiare su questo».

Sul cuneo dove troverete le coperture?

«Per il 2014 servono circa 6 miliardi, visto che la misura partirà da maggio: 3 di questi derivano dalla spendig review, come ha spiegato il commissario Cottarelli. Altri 1-2 miliardi arrivano da una spesa per interessi più bassa grazie al calo degli spread. Poi ci sono le entrate che derivano dal rientro dei capitali all`estero, la “volontary disclosure”. L`ex ministro Saccomanni stimava i ricavi straordinari fino a 8 miliardi. Anche con una stima più prudente, con questi tre capitoli ci sono le risorse per finanziare la riduzione Irpef per il 2014. Il piano complessivo prevede a regime un taglio di spesa di 20 miliardi l`anno, 10 già nel 2015. Credo che di fronte a una riforma della spesa di questa portata, sia legittimo aspettarsi dai partner europei una certa dose di cooperazione».

Nel futuro, quando il risparmio a regime sarà di 20 miliardi l`anno, ci sarà un`altra sforbiciata sulle tasse?

«Noi dobbiamo recuperare un differenziale di tassazione su lavoro e imprese di 2 punti di Pil, circa 30 miliardi. Se tra tre anni saremo riusciti a recuperare due terzi di questo differenziale avremo vinto la nostra scommessa. Non siamo davanti a provvedimenti tampone ma ad una vera ristrutturazione della spesa pubblica».

I benefici toccheranno le categorie finora escluse?

«La mia opinione è che in seconda battuta occorra intervenire sui lavoratori autonomi e i pensionati».

I provvedimenti sui contratti a termine rischiano di produrre più precarietà?

«Sui contratti a termine il decreto serve sostanzialmente a ridurre i contenziosi, non cambia la durata dei contratti ma solo la necessità di una motivazione. C`è dunque una minore incertezza per i datori di lavoro. Gli interventi di razionalizzazione del contratto di apprendistato mi paiono utili a rilanciare questo strumento, che in Germania è molto efficace. È vero che il contratto di unico è rimasto in secondo piano. Mi aspetto che il governo se ne occupi al più presto».

Il prelievo sulle pensioni ci sarà?

«Ci sono delle ipotesi allo studio. Vorrei rassicurare i pensionati che l`eventuale provvedimento riguarderebbe una persona su 20, una piccola platea di pensionati con assegni elevati».

Quali risultati ci si può aspettare ragionevolmente da questo viaggio europeo del premier?

«Ci si può aspettare cooperazione dai nostri partner. A differenza di quanto sostiene la propaganda antieuropeista, in Europa c`è grande attesa e fiducia verso di noi. Francesi, tedeschi e anche inglesi non vedono l`ora di avere a che fare con un governo italiano che presenta e realizza un serio piano di riforme».

Nel concreto?

«Sono convinto che di fronte a fatti concreti l`Europa ci sarà tutto il sostegno del caso, sia sotto il profilo del deficit che di una rinegoziazione del Fiscal compact. L`idea di un`Italia depressa e di un`Europa costrittiva è una retorica utile a chi non vuole cambiare nulla. I parmer Ue hanno problemi simili ai nostri, e sono pronti a sostenerci».

È immaginabile una proposta italiana di rinegoziazione del Fiscal compatc?

«Il rientro dal debito si può ottenere con la riduzione delle spese o con l`aumento della crescita. Quest`ultimo fattore è decisivo come correttore del debito pubblico. Nessun Paese potrebbe reggere a tagli di spesa per 50 miliardi l`anno, come sono previsti dal Fiscal compact. Sarà un negoziato molto delicato ma inevitabile».

L’Unità 17.03.14

"Meno istruzione meno Pil: è crisi capitale umano", di Carlo Buttaroni

​​In Italia,negli ultimi cinquant’anni,la crescita dei livelli di scolarizzazione e l’andamento del Pil sono andati di pari passo. Negli anni Sessanta, i diplomati nelle scuole secondarie superiori sono cresciuti del 105% rispetto al decennio precedente, con una crescita del Pil del 56%. Negli anni Settanta, il numero di diplomati è cresciuto del 91% e il Pil del 45%. Tendenza positiva proseguita fino al 2000, anno in cui è iniziata un’inversione di tendenza che ha visto, nella decade 2000-2010, un calo del numero dei diplomati del 6% rispetto al decennio precedente e il Pil fermo sotto il 3%. Un caso? Non proprio. L’istruzione, nelle economie avanzate, è il più importante fattore di crescita. Proprio come per gli investimenti in «capitale fisico», un Paese investe in istruzione e formazione per migliorare il proprio «capitale umano» sostenendo dei costi che in futuro si trasformano in maggiori guadagni. Se si analizza la capacità di creare valore aggiunto, cioè l’incremento di valore che si verifica nell’ ambito dei processi produttivi a partire dalle risorse iniziali, ci si rende conto che l’elemento della «competenza» è fondamentale, perché si traduce in migliore qualità dei beni e servizi, insieme da performance produttive più alte. I differenziali di conoscenza incidono sulla competitività più dei costi di produzione che, seppur rilevanti, hanno una valenza che si misura soprattutto nel breve termine, mentre il miglioramento degli standard produttivi, ottenuti attraverso l’aumento delle conoscenze e delle competenze, migliora la competitività nel lungo periodo. Il livello di capitale umano, dunque, è un fattore decisivo per la crescita economica di qualunque Paese. Ed è anche un fattore attrattivo degli investimenti esteri, diventati, in questi ultimi anni, la principale leva di finanziamento dello sviluppo. Agli inizi degli anni ’70, i paradigmi della finanza sono cambiati radicalmente con la scelta del governo USA di sospendere la convertibilità in oro del dollaro. Una decisione che ha azzerato gli accordi di Bretton Woods del 1944 che limitavano la circolazione dei capitali. Da quel momento, enormi quantità di ricchezza sono uscite dai radar dei governi nazionali e hanno iniziato a muoversi a livello globale.Oggi,per esempio,le grandi centrali finanziarie mondiali possono scegliere se sostenere il debito pubblico di un Paese e questa decisione, al netto delle speculazioni, dipende dalla capacità di trasformare il debito in crescita. Una scelta che avviene tenendo in considerazione, come variabile fondamentale, il potenziale produttivo di un Paese e la sua capacità di generare valore aggiunto. I grandi fondi di private equity mondiali, che raccolgono risorse in tutto il mondo e hanno portafogli d’investimento di centinaia di miliardi di dollari, finanziano imprese che operano nel campo della meccanica di precisione, del chimico, del farmaceutico, dell’high-tech, in base a parametri dove il «capitale umano» non conta meno del costo del lavoro. Un elevato livello di capitale umano, alimentato da una costante crescita delle conoscenze e delle competenze, rappresenta, infatti, il presupposto di miglioramenti continui degli standard produttivi e nella capacità di creare valore. Oltretutto, attraverso il movimento internazionale dei capitali, è possibile incrementare il trasferimento di nuove conoscenze e tecnologie ottenendo un progressivo avanzamento della frontiera della produzione. Investire in conoscenza, quindi, conviene all’intera economia di una nazione. A livello globale, gli investimenti in conoscenza vedono in prima fila le economie emergenti, che stanno scalando le classifiche mondiali non solo in termini di Pil ma anche di livelli d’istruzione e qualità delle università. L’Italia, invece, sta perdendo questa sfida sul futuro, non solo a livello mondiale ma anche all’interno dell’Europa. I dati sul livello del capitale umano delle persone occupate nel nostro Paese misurato ad esempio attraverso il livello d’istruzione degli occupati non sono confortanti, soprattutto se confrontati con quelli della media europea. E ancor più sconfortanti sono quegli indicatori che la Ue utilizza come obiettivo strategico per il 2020. Nell’Europa dei 27 l’Italia è terza per quanto riguardala quota dei NEET, i giovani che non lavorano, non studiano e non sono impegnati in percorsi formativi. Un primato negativo che ci vede preceduti solo da Grecia e Bulgaria. Un paese, il nostro, a fondo scala per quanto riguarda la classifica sull’istruzione universitaria, nel gruppo di testa per l’abbandono scolastico e al 16° posto in merito alle competenze matematiche dei nostri studenti. La Strategia di Lisbona aveva posto,tra i cinque obiettivi da raggiungere entro il 2010, la riduzione al 10 per cento della quota di giovani che lasciano la scuola senza un adeguato titolo di studio, e il piano «Europa2020» ha posto il tetto di almeno il40 per cento di giovani che ottiene un titolo di studio universitario. L’Italia ha fallito il primo obiettivo ed è assai lontana dal raggiungere il secondo. Una condizione che non stupisce, perché l’Italia è nella parte bassa della classifica anche per quanto riguarda la spesa pubblica per l’istruzione e la formazione, ben al di sotto la media europea. E gli esempi non mancano: la Danimarca, per citarne uno, investe una quota pari al 7,8% del PIL, contro il 4,2% dell’Italia. Un’impostazione, la nostra, che nel medio/lungo periodo porterà a un minore tasso di sviluppo dell’Italia anche rispetto ai propri partner europei, con un conseguente deterioramento dei processi produttivi. L’Italia, quindi, se non cambia strada,si andrà ad attestare su livelli di competitività più arretrati rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea, con conseguenze inevitabilmente negative sui tassi di crescita economici. Nelson Mandela ricordava spesso che «L’istruzione e la formazione sono le armi più potenti che si possono utilizzare per cambiare il mondo» e,sicuramente, sono l’unico strumento per non scivolare verso un futuro assai meno glorioso del nostro passato. Senza istruzione manca la conoscenza di base necessaria per il progresso tecnico e scientifico, ma anche per quello umano, senza il quale ogni forma di progresso rischia di rimanere sterile e priva di frutti. ​

L’Unità 17.03.14

"L’austerity non è più un dogma", di Paolo Soldini

Forse lui non lo sa nemmeno, ma alla vigilia della sua difficile trasferta Matteo Renzi ha trovato a Berlino un alleato prezioso. Si tratta di Peter Bofinger, uno dei «cinque saggi» istituzionalmente incaricati di consigliare il governo federale in materia economica.
È forse l’economista più conosciuto in Germania e certo il meno allineato sul- la tradizionale linea dell’austerity. Bo- finger stavolta ha indirizzato la sua inesausta vis polemica contro il proposito del ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, annunciato con grande battage propagandistico nel piano finanziario presdentato in parlamento, di raggiungere nel 2015 il pareggio assoluto di bilancio, ovvero l’eliminazione di ogni debito. Secondo l’economista, non è proprio il momento di puntare allo «zero nero», come in gergo viene definita l’eliminazione totale dell’indebitamento nel bilancio. Oggi, alla luce del livello bassissimo del costo del denaro, che non è mai stato tanto favorevole, sarebbe invece molto conveniente eliminare il blocco degli investimenti in fatto di infrastrutture imposto dall’attuale rigida disciplina. Bisognerebbe spendere di più, insomma. Nell’anno in corso e nel prossimo, secondo l’economista dei «saggi», il governo federale dovrebbe «utilizzare a pieno gli spazi di manovra» offerti dal patto di stabilità e stanziare investimenti finanziati a debito che nel 2015 potrebbero ammontare a 27,5 miliardi di euro.

Altri analisti, anche indipendenti, condividono l’opinione secondo la qua- le la politica economica della Germania dovrebbe favorire la ripresa degli investimenti, a cominciare da quelli pubblici, e privilegiare il rafforzamento del mercato interno riducendo la propensione alle esportazioni, la quale è diventata un tale fattore di squilibrio all’interno dell’Unione da aver fatto balenare la prospettiva di sanzioni della Commissione se il gap non verrà ridotto.

Il parere di Bofinger e di molti suoi colleghi è musica per le orecchie di tutti coloro che ritengono sia arrivato il momento di allentare nell’Eurozona i vincoli imposti dall’austerità a tutti costi per promuovere investimenti e crescita. In questa schiera c’è, com’è arcinoto, il capo del governo italiano, il quale arriverà stamani a Berlino con il proposito di convincere Frau Merkel (e Herr Schäuble) ad appoggiare, o almeno non ostacolare, il proposito di Ro- ma di chiedere a Bruxelles il permesso di manovrare sui margini offerti dai quattro decimi di punto tra il deficit al 2,6% attuale e la fatidica soglia del 3%. Si tratta di miliardi necessarissimi per finanziare le manovre illustrate nei giorni scorsi a Roma e gratificate, a Berlino, con l’aggettivo “ambiziose”.

Certo, gli interlocutori della nutrita delegazione governativa italiana non saranno Bofinger e gli altri economisti che la pensano più o meno come lui e che cominciano ad essere un bel numero anche a Berlino e dintorni. Renzi e i suoi dovranno vedersela con la cancelliera, come dire la «linea Merkel» nella sua pura e semplice incarnazione terrena, e con il possibilmente anche più ostico ministro da lei messo a guardia dei conti. Ma il fatto di arrivare nella tana dei lupi nel momento in cui tra gli stessi lupi qualche discussione comincia a vivacizzare la scena, potrebbe aiutare non poco l’argomentare dell’italiano.

Anche perché in fatto di politiche economiche e di strategia contro la crisi del debito, qualche novità rispetto alle chiusure e alle rigidità del passato a Berlino c’è anche a prescindere dalle convinzioni e dalle raccomandazioni di Bofinger e compagni. Al governo insieme con Angela Merkel (e con Schäuble) ci sono i socialdemocratici, i quali sono sensibili, sì, alle ragioni della disciplina di bilancio ma lo sono altrettanto alle esigenze degli investimenti e dell’allargamento del mercato interno, come si è visto anche nelle lunghe trattative d’autunno per la formazione della große Koalition. Renzi, che socialdemocratico non è mai stato, ha fatto anche lo sforzo di stabilire un buon rapporto con la Spd nell’ambito del partito dei socialisti e democratici europei cui ha favorito l’adesione del Pd e al cui congresso a Roma ha tenuto un impegnativo discorso. E d’altra parte questo tour di prese di contatto nelle capitali importanti e a Bruxelles del nuovo capo del nuovo governo di Roma si col- loca a poco più di due mesi dalle europee, a quattro dalla presidenza di turno dell’Italia e a otto dal rinnovo della Commissione: avvenimenti che potrebbero aprire la strada a modifiche pro- fonde, nel segno degli investimenti e del lavoro, nelle politiche dell’Unione europea.

L’Unità 17.03.14

"Pinotti: dalla Difesa tre miliardi il piano degli F35 sarà ridotto", di Rosaria Amato

La spending review arriverà anche agli F-35. Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, rispondendo a una domanda di Maria Latella su Sky Tg24, annuncia che «è lecito immaginare una razionalizzazione». E poco dopo, al Tg5, il premier Matteo Renzi conferma: «Il programma continua ma sarà rivisto. Da qui ai prossimi tre anni sono circa 3 miliardi di euro di risparmi sulla spesa della Difesa. Non tutti dagli F-35, ma anche dal recupero delle caserme e dalla riorganizzazione delle strutture militari». Il piano F-35 prevede l’acquisto di 90 caccia in 15 anni: il costo è di 14,3 miliardi di euro. Il ministro Pinotti precisa che verranno dismessi 385 tra caserme e presidi: «Entro un mese porterò il provvedimento in Cdm e attiverò una task force». In programma anche la riduzione dei militari di Aeronautica, Marina ed Esercito che, da qui al 2024, dovrebbero passare da 190.000 a 150.000.
Dibattito anche su Jobs Act e pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha difeso con forza nell’intervista data ieri a Repubblica il dl su contratti a termine e apprendistato, ma il segretario della Cgil Susanna Camusso rimane convinta che non si possano sacrificare i diritti dei lavoratori in nome dell’«efficacia» delle misure: «Io credo che dopo questa lunga stagione di crisi i giovani sono dei soggetti sottoposti a una straordinaria disuguaglianza (da quella del non trovare lavoro ad avere una lunga stagione di precarietà) e forse il messaggio vero di cambiamento è dire loro che si prova a ridurre la disuguaglianza». «A che serve la precarizzazione del mercato del lavoro? — si chiede il leader di Sel Nichi Vendola — Non solo rende più indifese le persone, ma rende meno competitivo il sistema produttivo italiano ». «Semplificare non significa dare più precarietà ma consentire ai ragazzi di lavorare», taglia corto Matteo Renzi. Sul dl Poletti interviene anche l’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero, mostrando apprezzamento per la liberalizzazione dei contratti a termine: «Se le imprese non assumono bisogna incoraggiarle attraverso la riduzione del costo del lavoro e la flessibilità è la strada giusta», anche se «non è questa la strada per irrobustire il mercato del lavoro italiano». Fornero è invece molto critica sulle modifiche all’apprendistato, che ne indeboliscono la parte formativa.
Del pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione parla con Lucia Annunciata su Rai Tre il presidente della Cassa Depositi e Prestiti, Franco Bassanini, dicendosi convinto che il governo farà fronte al suo impegno di esaurire tutti i pagamenti entro il 21 settembre. Si tratta, ricorda Unioncamere, di 69,5 miliardi che riguardano oltre 215.000 imprese. Anzi, secondo Bassanini, «il grosso, i debiti di parte corrente » si esauriranno entro luglio. Mentre sarà un po’ più complicato intervenire sui debiti in conto capitale, tra i 5 e i 10 miliardi, «che vengono conteggiati nel nostro deficit, nel 3%». Però qui potrebbe arrivare in aiuto del governo il margine dello 0,3-0,4% che l’Italia può utilizzare senza «sforare».

La Repubblica 17.03.14

"Meno istruzione meno Pil: è crisi capitale umano", Carlo Buttaron

​​In Italia,negli ultimi cinquant’anni,la crescita dei livelli di scolarizzazione e l’andamento del Pil sono andati di pari passo. Negli anni Sessanta, i diplomati nelle scuole secondarie superiori sono cresciuti del 105% rispetto al decennio precedente, con una crescita del Pil del 56%. Negli anni Settanta, il numero di diplomati è cresciuto del 91% e il Pil del 45%. Tendenza positiva proseguita fino al 2000, anno in cui è iniziata un’inversione di tendenza che ha visto, nella decade 2000-2010, un calo del numero dei diplomati del6% rispetto al decennio precedente e il Pil fermo sotto il 3%. Un caso? Non proprio. L’istruzione, nelle economie avanzate, è il più importante fattore di crescita. Proprio come per gli investimenti in «capitale fisico», un Paese investe in istruzione e formazione per migliorare il proprio «capitale umano» sostenendo dei costi che in futuro si trasformano in maggiori guadagni. Se si analizza la capacità di creare valore aggiunto, cioè l’incremento di valore che si verifica nell’ ambito dei processi produttivi a partire dalle risorse iniziali, ci si rende conto che l’elemento della «competenza» è fondamentale, perché si traduce in migliore qualità dei beni e servizi, insieme da performance produttive più alte. I differenziali di conoscenza incidono sulla competitività più dei costi di produzione che, seppur rilevanti, hanno una valenza che si misura soprattutto nel breve termine, mentre il miglioramento degli standard produttivi, ottenuti attraverso l’aumento delle conoscenze e delle competenze, migliora la competitività nel lungo periodo. Il livello di capitale umano, dunque, è un fattore decisivo per la crescita economica di qualunque Paese. Ed è anche un fattore attrattivo degli investimenti esteri, diventati, in questi ultimi anni, la principale leva di finanziamento dello sviluppo. Agli inizi degli anni ’70, i paradigmi della finanza sono cambiati radicalmente con la scelta del governo USA di sospendere la convertibilità in oro del dollaro. Una decisione che ha azzerato gli accordi di Bretton Woods del 1944 che limitavano la circolazione dei capitali. Da quel momento, enormi quantità di ricchezza sono uscite dai radar dei governi nazionali e hanno iniziato a muoversi a livello globale.Oggi,per esempio,le grandi centrali finanziarie mondiali possono scegliere se sostenere il debito pubblico di un Paese e questa decisione, al netto delle speculazioni, dipende dalla capacità di trasformare il debito in crescita. Una scelta che avviene tenendo in considerazione, come variabile fondamentale, il potenziale produttivo di un Paese e la sua capacità di generare valore aggiunto. I grandi fondi di private equity mondiali, che raccolgono risorse in tutto il mondo e hanno portafogli d’investimento di centinaia di miliardi di dollari, finanziano imprese che operano nel campo della meccanica di precisione, del chimico, del farmaceutico, dell’high-tech, in base a parametri dove il «capitale umano» non conta meno del costo del lavoro. Un elevato livello di capitale umano, alimentato da una costante crescita delle conoscenze e delle competenze, rappresenta, infatti, il presupposto di miglioramenti continui degli standard produttivi e nella capacità di creare valore. Oltretutto, attraverso il movimento internazionale dei capitali, è possibile incrementare il trasferimento di nuove conoscenze e tecnologie ottenendo un progressivo avanzamento della frontiera della produzione. Investire in conoscenza, quindi, conviene all’intera economia di una nazione. A livello globale, gli investimenti in conoscenza vedono in prima fila le economie emergenti, che stanno scalando le classifiche mondiali non solo in termini di Pil ma anche di livelli d’istruzione e qualità delle università. L’Italia, invece, sta perdendo questa sfida sul futuro, non solo a livello mondiale ma anche all’interno dell’Europa. I dati sul livello del capitale umano delle persone occupate nel nostro Paese misurato ad esempio attraverso il livello d’istruzione degli occupati non sono confortanti, soprattutto se confrontati con quelli della media europea. E ancor più sconfortanti sono quegli indicatori che la Ue utilizza come obiettivo strategico per il 2020. Nell’Europa dei 27 l’Italia è terza per quanto riguardala quota dei NEET, i giovani che non lavorano, non studiano e non sono impegnati in percorsi formativi. Un primato negativo che ci vede preceduti solo da Grecia e Bulgaria. Un paese, il nostro, a fondo scala per quanto riguarda la classifica sull’ istruzione universitaria, nel gruppo di testa per l’abbandono scolastico e al 16° posto in merito alle competenze matematiche dei nostri studenti. La Strategia di Lisbona aveva posto,tra i cinque obiettivi da raggiungere entro il 2010, la riduzione al 10 per cento della quota di giovani che lasciano la scuola senza un adeguato titolo di studio, e il piano «Europa2020» ha posto il tetto di almeno il40 per cento di giovani che ottiene un titolo di studio universitario. L’Italia ha fallito il primo obiettivo ed è assai lontana dal raggiungere il secondo. Una condizione che non stupisce, perché l’Italia è nella parte bassa della classifica anche per quanto riguarda la spesa pubblica per l’istruzione e la formazione, ben al di sotto la media europea. E gli esempi non mancano: la Danimarca, per citarne uno, investe una quota pari al 7,8% del PIL, contro il 4,2% dell’Italia. Un’impostazione, la nostra, che nel medio/lungo periodo porterà a un minore tasso di sviluppo dell’Italia anche rispetto ai propri partner europei, con un conseguente deterioramento dei processi produttivi. L’Italia, quindi, se non cambia strada,si andrà ad attestare su livelli di competitività più arretrati rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea, con conseguenze inevitabilmente negative sui tassi di crescita economici. Nelson Mandela ricordava spesso che «L’istruzione e la formazione sono le armi più potenti che si possono utilizzare per cambiare il mondo» e,sicuramente, sono l’unico strumento per non scivolare verso un futuro assai meno glorioso del nostro passato. Senza istruzione manca la conoscenza di base necessaria per il progresso tecnico e scientifico, ma anche per quello umano, senza il quale ogni forma di progresso rischia di rimanere sterile e priva di frutti. ​

L’Unità 17.03.14