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«La sfida sulla scuola: sbloccare le risorse per darle ai sindaci», di Natalia Lombardo

Da cosa sarà composto il dossier scuola che Matteo Renzi ha promesso, con il tweet della sveglia mattutina all’Italia, di presentare al Consiglio dei ministri del 12 marzo? Le voci nel dettaglio sono ancora da definire, spiega Roberto Reggi, sottosegretario all’Istruzione, così come l’ammontare delle risorse necessa- rie a vincere questa «scommessa» è ancora in discussione, «ci stiamo lavorando», risponde l’ex sindaco di Piacenza.
Allora da cosa sarà composto questo dossier scuola?
«Per ora parliamo delle infrastrutture, della messa in sicurezza delle scuole. L’impostazione generale prevede di restituire ai sindaci la possibilità di spendere delle risorse incagliate in vari capitoli del bilancio dello Stato, e si tratta anche di allentare il patto di stabilità». È vero che una delle proposte è di sfilare il dossier scuola dal patto di stabilità? Oppure si tratta di uno «sforamento»? «Renzi sta valutando la questione in maniera dettagliata. Non possiamo sforare completamente il patto, né superare la soglia, e se da una parte vai oltre dall’altra devi stringere. Si tratterebbe di uno sforamento per tipologia di interventi, dando la possibilità a tutti i Comuni di avere delle risorse e che queste siano disincagliate dai vari ministeri». In che modo restano “incagliate”: per intoppi burocratici, per volontà?

«Sono risorse non sfruttate che rischiano di rimanere lì e di non essere usate. Anche molti fondi europei che si perdono se non ne viene rendicontato l’uso entro il dicembre 2015. Altri sono fermi da anni per intoppi burocratici». Dove si pensa di reperire queste risorse? «Da varie fonti: individuando quelle a disposizione dagli anni scorsi e dal decreto Destinazione Italia per il 2014-2015. E si pensa all’allentamento del patto di Stabilità. La scommessa è reperire una quantità di fondi da mettere subito a disposizione per l’edilizia scolastica, per far partire i cantieri». Come si può sbloccare una situazione rimasta “incagliata” da anni? «Organizzando un coordinamento forte e ribaltando il punto di partenza: dalla periferia al centro, mettendosi dalla parte del territorio, con i sindaci protagonisti e commissari diretti. E con una duplice azione: individuare le risorse e dare ai sindaci il potere di spendere subito i fondi senza troppi intermediari, senza i passaggi in Enti superiori che bloccano i fondi, almeno in alcune Regioni come in quelle di “convergenza”, Campania, Calabria e Sicilia (in Puglia no) dove il consultivo delle spese è più basso rispetto al preventivo e quindi se quelle risorse non sono destinate all’uso si perdono».
Il Codacons ha criticato la richiesta fatta da Renzi ai sindaci perché segnalassero su quali scuole intervenire. «Una critica ingenerosa, solo i sindaci sanno qual è l’opera più urgente e quanto serve. Si vede che al Codacons nessuno era negli enti locali…». C’è una tabella di marcia?

«Gli 8100 Comuni sono di tre tipi: il sindaco che ha sia risorse che progetti deve poter partire subito se sblocchi i fondi. Due: il sindaco che ha progetti ma non risorse, e qui le devi trovare (tra l’altro c’è un fondo del Miur di 150 milioni di euro in graduatoria). Tre: i sindaci senza soldi né progetti si possono legare a professionisti che, con garanzie, possono avviare i cantieri».

Ci sarà un’altra riforma della scuola?

«Procediamo per tappe. Certo bisogna ridare dignità alla scuola, pensare al merito e alla selezione degli insegnanti, farli tornare protagonisti. Domani il Pd organizza a Roma una prima giornata di ascolto, con il metodo Leopolda, sulle necessità della scuola. Certo il ministero dovrà fare su questo un lavoro enorme». Rimetterete la storia dell’arte nei programmi?

«Certo, ci penseremo, non si può agire come se in Italia non avessimo un tale patrimonio culturale».

L’Unità 09.03.14

"La coscienza di un maschio", di Paolo di Paolo

«Cari uomini, questo otto marzo parla a voi perché a voi, ora, tocca fare un passo. Per non lasciare indietro l’Italia» ha scritto ieri Sara Ventroni sull’Unità. Ha ragione. Come ha ragione il presidente della Camera Laura Boldrini quando ricorda semplicemente che le donne sono la metà del Paese. È anche solo questo dato che dovrebbe riflettersi nella rappresentanza politica. È bene che siano gli uomini – impegnati in politica e non – a porsi con serietà e concretezza il tema, perché non si riduca all’ennesima mostra di buone intenzioni o a uno sventolio perfino un po’ retorico di mimose.

Sono a Catania, le strade del centro sono affollate di banchetti che vendono i fiori dell’Otto marzo. Capito, per caso, al Palazzo della Cultura alla presentazione di un libro. Si intitola «Quello che resta. Storia di Stefania Noce», l’ha scritto una giovane giornalista, Serena Maiorana ed è stato pubblicato da un editore piccolo e vivace, Villaggio Maori. C’è molta gente ad ascoltare, ma sono soprattutto donne: come sempre quando si parla di libri, come sempre se si parla di femminicidio. Gli uomini dove sono? Questa storia di violenza omicida contro le donne colpisce, se possibile, ancora più del solito perché riguarda una ragazza che si era impegnata in prima persona sul tema. Una giovane militante di sinistra che lottava per i diritti delle donne, divenuta vittima della stessa forma di violenza che denunciava. Stefania difendeva il femminismo, cercava di spiegare che non era l’estremo opposto del maschilismo, cercava nei gesti della sua militanza generosa di saldare un debito, un conto ancora aperto con le donne protagoniste delle grandi battaglie di quarant’anni fa. Stefania contestava la dittatura mediatica del «patriarcato», le immagini che ne derivano e schiacciano il corpo della donna sulla dimensione più prevedibile e spesso volgare. Contestava, in un suo scritto, la logica dura a morire che porta a pensare, di fronte a una violenza, a uno stupro, «sarà stata anche un po’ colpa sua». Scriveva testualmente: «Uno Stato si racconta attraverso le sue leggi, attraverso i suoi luoghi simbolici e di potere. Il nostro Stato racconta quasi di soli uomini e non racconta dunque la verità. Da nessuna parte viene nominata la presenza femminile come necessaria e questo, probabilmente, è l’effetto di una falsa buona idea: le donne e gli uomini sono uguali, per cui è perfettamente indifferente che a governare sia un uomo o una donna. Ecco il perché di un’eclatante assenza delle donne nei luoghi di potere».

Uguali, diceva Stefania, ma nel senso sbagliato. Dobbiamo trovare il modo di pensare a un’uguaglianza carica delle differenze dei corpi – aggiungeva – ma che uguaglianza sia davvero, tenendo presente l’orizzonte dei diritti universali. Siamo nel 2014, Stefania scriveva queste parole nel 2005 e la storia diversa che immaginava deve ancora essere scritta. Stefania oggi avrebbe 27 anni, ma è stata uccisa il 27 dicembre 2011 con dieci coltellate, in un piccolo paese della Sicilia di tremila abitanti. A ucciderla è stato l’uomo che diceva di amarla, ma che nei quattro anni di relazione l’aveva tante volte messa in difficoltà, con crisi di rabbia e di gelosia. Lei aveva perciò deciso di lasciarlo. Lui non ha accettato quel no. L’ennesima storia così – racconta la giornalista che ha ricostruito la storia di Stefania Noce – dimostra come in Italia non siano molti i ruoli previsti per le donne. Mamma, moglie, oppure troia.

Agli occhi di Loris, Stefania era diventata questo. Ma il suo era lo sguardo incattivito, ingiusto e violento di un uomo che vedeva la «propria» ragazza, appunto, come una proprietà. Penso a questa storia e penso all’articolo di Sara Ventroni. Penso che sì, mi chiama in causa. Come uomo di trent’anni che sarà marito e forse padre. Vorrei contribuire al passo pubblico che Ventroni ci chiede. Ma vorrei contribuire anche a un passo privato che non è soltanto privato, e – se sarò padre – essere capace di dire a mio figlio, come lo dico a me stesso, che può liberarsi dai retaggi inconsapevoli di una cultura anti-storica e carica di pregiudizi e di violenza anche solo mentale, quindi di una non-cultura. Di quel «maschilismo» ottuso che potrebbe portarlo, senza farci caso, a essere l’uomo-padrone, l’uomo intollerante che alza la voce e le mani, l’uomo che nasconde dietro la gelosia la sua ansia di possesso, l’uomo che parla delle donne come fotografie di un calendario erotico, l’uomo che sventola le mimose ma – da cittadino, da politico, o da qualunque cosa sia – lo fa per nascondere la coscienza sporca.

L’Unità 09.03.14

"Un’altra Europa è possibile", di Paolo Guerrieri

Per trasformare la fragile ripresa della nostra economia in una vera fase di crescita servono politiche e riforme sul piano domestico. Ma un ruolo fondamentale lo avrà anche l’Europa. Un’Europa che, così com’è, non funziona. E la recente sentenza della Commissione europea che ci ha declassato al rango di «sorvegliati speciali» ne è una ulteriore conferma.

Compito del governo Renzi sarà rispondere contribuendo a promuovere una svolta in Europa, anche utilizzando il seme- stre italiano di presidenza Ue.

A pochi mesi dalla fine del suo mandato la Commissione europea ha inserito l’Italia in un ristretto gruppo di Paesi che registrano squilibri economici così rilevanti da rappresentare una fonte di contagio per l’intero sistema europeo. Ora, che l’elevato stock di debito pubblico e il deficit di competitività rappresentino da tempo problemi seri per il nostro Paese e che vadano affrontati con maggiore determinazione rispetto al passato è un dato di fatto. E si può accettare che, per tutelare gli interessi e la stabilità del sistema europeo nel suo complesso, rientri tra i compiti della Commissione la facoltà di intervenire e prescrivere specifiche misure correttive nei confronti di un Paese membro che non voglia e/o non sia in grado di adottare i necessari processi di aggiustamento. Riconosciuto tutto ciò, risulta allora incomprensibile – o spiegabile solo in termini di meri rapporti di forza – perché la Commissione, nella stessa procedura, abbia dedicato solo generici commenti all’enorme surplus commerciale tedesco e non abbia incluso anche la Germania tra i Paesi “sorvegliati speciali”. L’avanzo commerciale tedesco rappresenta da tempo – come riconosciuto dalla maggioranza degli economisti e degli osservatori internazionali – la più preoccupante fonte di squilibri nell’area euro: è oggi il più elevato nel mondo, avendo superato il 7 per cento in termini di Pil lo scorso anno e si situa molto sopra quella soglia massima tollerata dalle nuove regole di governance europea. Tanto più che aggiustamenti più simmetrici all’interno dell’area euro, in grado di meglio distribuire il peso e i costi dell’aggiustamento tra Paesi in deficit e Paesi in surplus, rappresentano una sorta di condizione necessaria sia per contrastare il ristagno-deflazione sia per un consolidamento del debito dei Paesi dell’Eurogruppo.

In realtà, molti altri esempi potrebbero essere portati a conferma del fatto che la fallimentare gestione della crisi europea – due fasi recessive in cinque anni – sia dovuta proprio alla mancanza di una strategia d’insieme da parte della Commissione e delle altre autorità europee di politica economica. Sono state somministrate politiche economiche (l’austerità) che hanno guardato l’area euro come la semplice somma di Paesi e non come un sistema, fatto di interdipendenze macroeconomiche complesse. Ne è una riprova la costante negazione dei problemi di domanda aggregata esistenti nell’area euro, nonostante l’evidenza di un crescente ed elevato grado di capacità produttiva inutilizzata. Continuando così, a rischio è il futuro dello stesso processo di integrazione.

È dunque necessario promuovere una stagione nuova in Europa, che si affermi anche attraverso un cambiamento profondo e radicale delle politiche economiche fin qui seguite. Assai importante al riguardo sarà il risultato delle elezioni eu- ropee del 22-25 maggio col confronto tra i due candidati a guidare la prossima Commissione – Jean-Claude Junker per il Partito popolare europeo e Martin Schulz per i socialisti e democratici – animati da programmi e proposte sulla carta assai diversi, di sostanziale continuità con l’approccio fin qui adottato il primo e di evidente discontinuità il secondo. Con la terza incognita rappresentata dalla variegata galassia dei movimenti antieuropei e del «fronte del rifiuto» che continuano a crescere nei sondaggi.

È in questa complessa fase evolutiva attraversata dall’Europa che dovrà inserirsi la risposta del governo Renzi alla sentenza di declassamento emessa dalla Commissione. Innanzi tutto è meglio evitare qualunque tono di sfida e/o confronto musco- lare che non servirebbe a incidere a Bruxelles. Serve in realtà una strategia fatta di iniziative che si muovano su tre piani. A brevissimo termine, ovvero già dalla prossima settimana, c’è da approvare e mettere in atto la serie di misure in calendario, a sostegno della domanda, in tema di cuneo fiscale, edilizia scolastica, mercato del lavoro, rimborso dei crediti della pubblica amministrazione, tenendo conto che alla decisione della Commissione non deve essere fatta seguire alcuna manovra correttiva. Di qui a due mesi, alla fine di aprile, ci sarà da presentare in Europa il programma nazionale di stabilità e quello di riforma, che dovranno contenere le misure dirette a incre- mentare la crescita potenziale e un corposo insieme di riforme atte a sostenerlo. Il compito più importante, anche per poter trattare da una posizione di forza con la Commissione, sarà legare gli aspetti del quadro di stabilizzazione macroeconomica con quelli del piano di riforme e delle misure strutturali. Tenuto conto che in passato questo collegamento è stato realizzato solo parzialmente.

La terza fase sarà quella del semestre italiano di presidenza dell’Europa. La nostra ambizione deve essere rilanciare una visione dell’integrazione europea alternativa al ristagno generato dalle politiche di austerità, scommettendo su un nuovo ciclo di crescita sostenibile. Perché ciò avvenga sono necessa- ri, unitamente alle riforme strutturali, nuovi investimenti, europei e nazionali, a medio e lungo termine, pubblici e privati. Le altre priorità si chiamano completamento dell’Unione bancaria e avvio di una capacità fiscale autonoma dell’area euro. Nel complesso, serve un insieme di azioni in grado di realizzare quella svolta di politica economica che consenta all’Europa di ritrovare un’iniziativa politica, prima che sia lo scoppio di una nuova crisi ad imporla.

L’Unità 09.03.14

"Ridurre il cuneo per rilanciare crescita e lavoro", di Alberto Quadrio Curzio

Il dibattito sulle critiche della Commissione Europea all’Italia non ha tenuto conto di tutta la risposta delministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Nella stessa si legge, tra l’altro, che le imprese manifatturiere italiane hanno compresso i costi di produzione, i margini di profitto ed i prezzi, da un lato, e migliorato la qualità dei prodotti, dall’altro, in tal modo recuperando competitività e contribuendo al passaggio in surplus della bilancia commerciale. Infatti la stessa da un deficit di 30 miliardi nel 2010 e arrivata ad un surplus di 30 miliardi nel 2013. Ciò è stato determinante per spostare il saldo delle partite correnti da un insostenibile deficit del 3,5% del Pil ad un surplus dello 0,8 per cento.
Dunque è stata la competitività delle imprese esportatrici ad attenuare un po’ la pesante recessione italiana e questo nonostante i gravami fiscali, l’alto costo dell’energia, il peso della burocrazia. Se riducessimo questi oneri alla media dell’eurozona aumenterebbero molto la nostra competitività, crescita ed occupazione. E non solo tramite l’export ma anche per i maggiori investimenti, interni ed esteri, ossia per una crescita di iniziative imprenditoriali essenziali per aumentare produttività e posti di lavoro.
Perciò adesso che si ricomincia a parlare di alleggerimenti fiscali per rilanciare la crescita bisogna, data la scarsezza delle risorse, fare scelte selettive e di massima efficacia. Perchè purtroppo non è possibile una riduzione generalizzata della pressione fiscale malgrado abbia raggiunto il 43,8% del Pil che, depurato dall’evasione, porta al 56% sui contribuenti leali.
Per dare una spinta alla crescita, alla competitività e all’occupazione bisogna ridurre il cuneo fiscale e contributivo che arriva (incluse Irap, Tfr e trattenuta Inail) al 52,9% del costo del lavoro. Siamo molto sopra la media della Uem e quindi ha ragione la Commissione europea quando chiede da tempo di ridurlo. Per fare una scelta corretta consideriamo tra i molti due punti di riferimento.
Il primo è quanto fatto nel 2007 dal governo Prodi che tagliò il cuneo fiscale di 5 punti percentuali per 7,5 miliardi con una ripartizione del 60% sulle imprese e del 40% sul lavoro. Fu ridotta l’Irap sul costo del lavoro (ottima scelta anche per l’impropria natura di questa imposta) delle imprese e ridisegnata la curva Irpef per i lavoratori. Fu una operazione importante ma che ebbe un effetto molto limitato per i lavoratori dipendenti soprattutto perché fu distribuita su tutti i contribuenti in forza delle minori aliquote Irpef.

Oggi una misura analoga sull’Irpef sarebbe ancora meno efficace perché l’incremento della domanda interna per una riduzione delle aliquote spalmato su tutti verrebbe molto attenuato dalle scelte di risparmio precauzionale delle famiglie pressate dalle incertezze occupazionali.
Il secondo riferimento è uno studio di Confindustria, che risale a tempi non sospetti (marzo 2008) e che calcola diversi effetti di una riduzione del cuneo per 9 miliardi, cifra analoga a quella di cui si tratta oggi. Delle tre ipotesi fatte da Confindustria e cioè una riduzione del cuneo solo per i lavoratori o solo per le imprese o mista (con il 60% al lavoro e il 40% alle imprese), quella che produce i maggiori effetti espansivi su crescita e occupazione è quella concentrata sulla riduzione del costo per le imprese. L’effetto cumulato triennale sarebbe dello 0,92% del Pil, dell’1,15% dei consumi e dello 0,55% dell’occupazione. Viceversa, un taglio della stessa entità concentrato sulle famiglie avrebbe un impatto dimezzato.
Tuttavia a noi pare che una soluzione mista sarebbe oggi più condivisa. Ovviamente gli effetti crescono se l’importo totale della riduzione del cuneo aumenta e, a nostro avviso, se ci fosse una qualche correlazione degli sgravi per le imprese in termini di maggiore produttività congiunta ad occupazione, specie giovanile.

Il sole 24 Ore 09.03.14

"Ecco perché il futuro è donna", di Umberto Veronesi

Come medico delle donne e come sostenitore della scienza al femminile in Europa, credo sarebbe più corretto in futuro discutere di «quote azzurre». Per prendere posizione oggi nel dibattito sulla parità di genere nella legge elettorale, basterebbe infatti ispirarsi all’equilibrio biologico del Pianeta: l’umanità è composta per metà da donne e per metà da uomini, e dunque la «superiorità» del maschio è una costruzione squisitamente culturale, nata dalle condizioni di vita di secoli fa. O piuttosto una «distorsione», resa necessaria in società in cui la violenza e l’aggressività, tendenze legate al profilo ormonale maschile, avevano una funzione importante perché garantivano l’approvvigionamento del cibo – tramite la caccia e la conquista di territori – e la protezione della prole in comunità dedite principalmente alla guerra. Nelle società moderne tuttavia il quadro è capovolto: la violenza è un handicap, mentre valgono molto di più le capacità di ricomporre i conflitti tramite il dialogo, la comprensione e l’intuizione, che sono prerogative tipicamente femminili. Per questo penso che alle donne andrebbe riconosciuto un ruolo non solo paritario, ma addirittura superiore a quello dell’uomo, perché sono più adatte al mondo di oggi. Da qui la mia provocazione delle «quote azzurre». Ho molto riflettuto sui punti di forza femminili e ne ho raccolti dieci, che ho pubblicato nell’ultimo capitolo del libro «Dell’Amore e del Dolore delle Donne» (Einaudi, 2010). Il primo è di ordine biologico: con la procreazione, la donna ha nelle sue mani la sopravvivenza della specie umana. Senza contare che nei primi mesi di vita, i bambini sono esposti prima di tutto all’influenza materna, dunque il mondo dell’infanzia, che ci determina come adulti, è un mondo femminile. Il secondo è la capacità di unire il ruolo procreativo e materno con quello sociale e lavorativo: una delle conquiste sociali più recenti che non ha ancora espresso tutto il suo potenziale rivoluzionario. Il terzo è la resistenza al dolore e alla fatica. Potrei testimoniare con migliaia di storie, come le donne abbiano una capacità straordinaria di affrontare la malattia e il dolore psicologico e fisico.

Il quarto punto precedente è la motivazione. Così come per un motivo superiore (l’amore per i figli o per la vita stessa) una donna sopporta e supera tragedie profondissime, così per l’attaccamento ad una causa o un’idea è una lavoratrice instancabile, intelligente, tenace. Al quarto è legato il quinto punto che è il senso della giustizia. Già oggi metà dei nostri magistrati è donna e la maggior parte di loro si distingue per integrità e fermezza di giudizio. Il sesto punto è la tendenza all’armonia, che è in linea con il senso femminile per l’organizzazione e l’ordine, molto importante nelle attività gestionali. Il settimo è la maggior sensibilità soprattutto in senso artistico e culturale. Dico spesso che al cinema, a teatro, ai concerti, alle mostre troviamo soprattutto donne, mentre gli uomini riempiono gli stadi.

L’ottavo è la capacità di ragionamento e concentrazione. Al contrario di ciò che si è detto per secoli, la donna è più adatta alle attività scientifiche e di ricerca. Al Campus di ricerca biomolecolare dell’Istituto Europeo di Oncologia, metà del personale è donna e la produttività è straordinaria. Il nono punto è che le donne decidono meglio e più rapidamente nelle situazioni critiche. Cito ancora il mio campo: quando qualcuno si ammala in famiglia, anziani o bambini, è la donna che prende in mano la situazione. Il decimo, a cui ho già accennato è che la donna è portata alle soluzioni diplomatiche e la fine delle guerre è la condizione imprescindibile per il progresso civile. È ovvio che i punti di forza sono molto più di dieci e basta guardarsi intorno: alle nostre compagne, figlie, madri, colleghe per rendersi conto che, quote a parte, il futuro è donna.

La Stampa 09.03.14

“Non è una battaglia di parte ma una rivoluzione culturale”, di Giovanna Casadio

«Gli uomini di centrodestra hanno un riflesso corporativo… non si può rinunciare alla parità di genere, è il punto qualificante della legge elettorale». Roberta Agostini è la deputata della minoranza dem che ha presentato i tre emendamenti sulle quote rosa, sottoscritti poi da donne di tutti i partiti, da cui è partita la battaglia. E oggi dice di essere «fiduciosa ».
Agostini, è davvero indispensabile introdurre subito la parità nella legge elettorale?
«È un punto che qualifica la legge. In Parlamento nella scorsa legislatura e anche in questa abbiamo approvato una serie di norme per la parità negli enti locali, per le quote nei consigli di amministrazione. Sono gli articoli 3 e 51 della Costituzione a chiedere che la Repubblica promuova con appositi provvedimenti la presenza delle donne nelle istituzioni».
Ma insistendo come voi deputate state facendo, non rischia di saltare la riforma elettorale?
«Io non credo. Non è una richiesta di parte, è un sentimento diffuso, un’esigenza che parla a tutte le cittadine e i cittadini italiani. Un punto che qualifica. E a riprova c’è il fatto che lo schieramento è bipartisan. Donne di tante associazioni inoltre, si sono mobilitate. Prima ancora che fosse scelta la strada dell’Italicum, hanno fatto presente che, qualsiasi fosse la riforma, ogni ipotesi avrebbe dovuto prevedere norme che promuovessero le donne nelle istituzioni».
Gli uomini immaginano di avere così meno posti a loro disposizione?
«Ripeto, c’è un certo riflesso corporativo tra i leader del centrodestra e dicono che sono i partiti a doversi attrezzare. Ma senza regole adeguate non si va da nessuna parte. In Basilicata sono state elette poche donne; in Sardegna ancora meno perché non c’era la doppia preferenza di genere. Le regole servono anche perché accompagnano un cambiamento culturale. Chiaro che è questo a dovere avvenire nella società, nei partiti».
Passerà la parità?
«Sono abbastanza fiduciosa sulla trattativa aperta, si sta chiudende in queste ore… e ricordo che conviene a tutti».

La Repubblica 09.03.14

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Quote rosa, Renzi sfida Forza Italia “Noi pronti al sì, tocca a loro decidere” Toti apre, spiragli per una intesa, di GIOVANNA CASADIO

Uno spiraglio c’è. La parità nella nuova legge elettorale potrebbe passare con l’ok all’emendamento che prevede un rapporto di 60% uomini e 40% donne capolista. È il compromesso di cui si sta discutendo. Lorenzo Guerini per il Pd e Denis Verdini per conto di Berlusconi sono gli ufficiali di collegamento dei due schieramenti. Alfano ha fatto sapere che ci sta. Ma di strada ancora ce n’è tanta, e tutto si deve chiudere entro le 9,30 di domani, quando a Montecitorio è convocato il comitato ristretto della commissione poco prima dell’aula. Il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi – che ieri si è dedicata soprattutto ad abbozzare il disegno di legge per l’abolizione del Senato – getta acqua sul fuoco: «Sulla parità proveremo a migliorare la legge ma ci deve essere l’ok di tutti».
Niente fughe in avanti insomma nel Pd, nonostante il pressing delle deputate sia fortissimo e bipartisan. Anche i presidenti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Piero Grasso incalzano sulle norme paritarie. Forza Italia è divisa e soprattutto i manovratori della macchina forzista, cioè Verdini e Renato Brunetta sono riluttanti. Ma Giovanni Toti, il consigliere politico di Berlusconi, apre al dialogo: «Non abbiamo bisogno di lezioni da parte di nessuno sulla parità di genere. Comunque Forza Italia non è contraria a priori».
Il premier Renzi è preoccupato. Con i collaboratori si è sfogato: «Ho fatto la parità da presidente della Provincia, da sindaco, da segretario, da premier. Qualcuno ha da dirmi qualcosa su questo?». Non ci sta il capo del governo a diventare bersaglio del pressing per le quote rosa. «Io sono pronto a votare un emendamento – chiarisce – sia sul 60-40, sia sul 50-50, tanto noi del Pd faremo comunque liste fiftyfifty ». Però il timore vero è che ci sia un uso strumentale della questione. Renzi infatti avverte: «L’argomento della parità non può essere usato per fare saltare la riforma elettorale. Non posso mettere le dita negli occhi di Forza Italia, che ne sta discutendo… ». Ha anche il sospetto che «qualcuno stia forzando per provare a rimettere tutto in discussione alla vigilia dell’approvazione. Faccio notare che non esiste in nessun paese del mondo una norma del genere. E che il mio è il quinto governo in tutto il mondo in cui c’è la parità di genere ». Debora Serracchiani, “governatrice” del Friuli e probabile portavoce della segreteria dem nel nuovo organigramma, osserva: «Il tema della parità riguarda la sfida culturale dell’uguaglianza, ma ci vuole l’accordo delle altre forze per condurre in porto questa battaglia nella legge elettorale.
Il Pd ha le idee chiare e le norme interne adeguate».
La partita dell’Italicum è assai complessa, legata alla trasformazione del Senato in Camera delle autonomie, poiché la nuova legge elettorale varrà solo per la Camera. Gaetano Quagliariello, il coordinatore degli alfaniani, annuncia che a Palazzo Madama riprenderà la lotta per ottenere le preferenze: «Noi sulla legge elettorale abbiamo dimostrato tutta la responsabilità possibile, ma non possiamo mettere da parte le nostre battaglie in nome di un accordo a due stretto all’ora del caffè in una piazzetta romana. Per questo anche al Senato continueremo a batterci perché il prossimo non sia un Parlamento di nominati e perché gli elettori possano scegliere i propri rappresentanti». Per Berlusconi è un punto che non si tocca né ora né poi: devono restare le liste corte e bloccate.
Di nodi ancora da sciogliere ce ne sono tanti. Non è stato ancora ritirato l’emendamento sulle primarie obbligatorie presentato da Marco Meloni, democratico. Il presidente della commissione Affari costituzionali, Francesco Paolo Sisto è scettico su accordi in vista: «Non vedo segnali di fumo…». Dal punto di vista costituzionale – sottolinea – la parità che si vuole introdurre nell’Italicum è «una follia, da garantire è la parità di accesso, non di elezione». Scelta civica poi chiede un vertice di maggioranza. Stefania Giannini, leader dei montiani e ministro della Pubblica Istruzione, rilancia l’appello a Renzi: «Bene il Pd, se si interviene sulla parità di genere, ma ci sono anche altri punti. Chiediamo un incontro di maggioranza nel passaggio della legge elettorale tra la Camera e il Senato. È giusto che il Parlamento faccia la sua parte».

La Repubblica 09.03.14

"Contro l'ignoranza attiva", di Dario Antiseri

La storia della filosofia esiste perché esistono i problemi filosofici. Problemi come questi: Dio esiste o è solo un’invenzione per usi disparati? Il tutto-della-realtà è solo quello di cui parla o può parlare la scienza o si danno anche validi argomenti a difesa dell’idea che tutto non è destinato a finire in questo nostro mondo? È proprio vero che l’ateo è più scientifico del credente oppure si può ben dire che l’ateismo è una pura e semplice fede non di rado camuffata da teoria razionale? L’uomo è libero o determinato? E cosa è cambiato o cambia, per l’immagine dell’uomo, con l’avvento della teoria dell’evoluzione?
Problemi carichi di conseguenze morali e politiche sono quelli che i filosofi hanno affrontato con la proposta delle diverse filosofie della storia: la storia umana è da sempre un campo aperto all’impegno morale, creativo e responsabile degli esseri umani oppure è una imponente realtà che si evolve seguendo ineluttabili leggi di sviluppo? E ineludibili problemi filosofici sono quelli relativi alla «migliore» organizzazione della convivenza umana — problemi, dunque, di filosofia politica. Quali le ragioni di una società aperta? E perché mai non valgono quelle argomentazioni con le quali più d’un filosofo, a cominciare verosimilmente da Platone, ha cercato di giustificare concezioni totalitarie e tiranniche del potere politico? E quei valori etici di fondo per i quali, come diceva Kierkegaard, si può vivere o morire, sono oggetto di pura scelta o sono razionalmente fondabili? Insomma, ha ragione Pascal allorché afferma che «il furto, l’incesto, l’uccisione dei padri e dei figli, tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose» ovvero sono nel giusto i sostenitori del «diritto naturale», per i quali l’umana ragione sarebbe in grado di individuare e razionalmente fondare norme morali valide sub specie aeternitatis ? Ma che ne è, poi, del diritto naturale se si ritiene valida quella legge — definita da Norberto Bobbio «una legge di morte per il diritto naturale» — che è la cosiddetta legge di Hume, la quale fissa l’impossibilità logica di derivare asserti prescrittivi da asserti descrittivi, con la conseguenza che da tutta la scienza non è possibile estrarre un grammo di morale?
Ulteriori problemi filosofici. La scienza può dare certezze oppure ogni teoria scientifica, per ragioni logiche, resta sempre sotto assedio? E come demarcare il discorso scientifico da altri tipi di discorsi come, per esempio, quello metafisico o quello etico? E ancora: regge o è davvero inconsistente, per usare una espressione di Nelson Goodman, la «dispotica dicotomia» tra artistico-emotivo e scientifico-cognitivo? E un solo altro interrogativo, quello di Pilato: che cos’è la verità? Cosa vuol dire che una teoria fisica è vera, che un teorema matematico è vero, che una teoria metafisica è vera, che una fede religiosa è vera? Le idee — ha detto Einstein — sono la cosa più reale che esista al mondo. E non si fa fatica a comprendere che, tra queste «cose più reali», talvolta anche tra le più disumane, ci sono proprio idee filosofiche. La terra è, infatti, inzuppata di sangue versato in nome di alcune di queste idee filosofiche. Non si uccide né si è disposti a farsi uccidere per le leggi di Ohm o di Faraday. E concezioni fatalistiche e liberticide come le varie filosofie deterministiche della storia ovvero, ancora, teorie, fonti di immani tragedie, come quelle razziste o come i totalitarismi di destra e di sinistra, non sono prodotti di botteghe di artigiani, sono teorie uscite dalla testa di filosofi il cui influsso nefasto si è diffuso come peste tra le masse.
Sta qui, pertanto, una non indifferente ragione per educare i giovani a tenere sotto controllo idee filosofiche assorbite magari inconsapevolmente dalle persone con le quali sono venuti a contatto, dalle loro più o meno o nient’affatto guidate letture, dalle sempre più invadenti fonti di incontrollabili informazioni. È per questo, dunque, che la filosofia va studiata: va studiata per venire a conoscenza delle risposte che grandi menti dell’umanità hanno dato a problemi molti dei quali riguardano tutti, ogni uomo e ogni donna: de nobis fabula narratur . In poche parole, come ha scritto Isaiah Berlin, il fine della filosofia è sempre il medesimo: «Consiste nell’aiutare gli uomini a capire se stessi e quindi a operare alla luce del giorno e non, paurosamente, nell’ombra».
Si rischia seriamente di essere meno cittadini e oggi — cosa sottolineata di recente anche da Martha Nussbaum — meno cittadini del mondo senza la consapevolezza critica che uno studio serio della storia delle idee e delle controversie filosofiche è in grado di offrire. Solo «menti aperte» costituiscono il presidio più sicuro di una «società aperta». Conseguentemente, l’insegnamento della filosofia andrebbe esteso a tutti gli ordini delle scuole superiori, potenziato in tutte le facoltà umanistiche ed introdotto, con opportune modalità, nelle facoltà scientifiche, a cominciare dalla facoltà di Medicina. E, allora, che dire di coloro — burocrati, esperti e consulenti — che, aggirandosi nell’antro del ministero della Pubblica istruzione e della ricerca scientifica, avanzano proposte tese a ridurre da una parte e a cancellare da un’altra l’insegnamento della filosofia?
Alle «ideazioni» di questi «fantasmi» pare addirsi alla perfezione un pensiero di Goethe, e cioè che «nulla è più funesto dell’ignoranza attiva». Spegnere la luce della filosofia dalle menti dei nostri giovani equivale a perpetrare un furto nei loro confronti e a renderli facili prede del primo imbonitore.
Ministro Stefania Giannini, è disposta Lei a farsi complice di questi «ladri di formazione», «barbari non più ai confini ma in mezzo a noi», veri «scassinatori» di quei tesori che fortunatamente rimangono ancora nella nostra scuola?

Il corriere della Sera 09.03.14