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"L’Italia e il coraggio di essere  donne", di Mario Calabresi

L’ 8 marzo del 1968 alla Camera dei deputati le parlamentari erano soltanto 19 su 630. Oggi sono 198, il 31 per cento dell’emiciclo, più del doppio di soli dieci anni fa. Un cambiamento storico che rischia però di essere messo in discussione dalla nuova legge elettorale che, se non sarà modificata in corso d’opera, le riporterà ad essere meno di un quarto.
La discussione di questi ultimi giorni ha il merito di averci aperto gli occhi sulla fragilità di conquiste che vorremmo definitive e acquisite ma che in verità non lo sono. E se alziamo lo sguardo e facciamo il punto su quest’ultimo anno vediamo che la violenza sulle donne non diminuisce, che i numeri dei femminicidi, nonostante il varo di una legge importante che aspetta di essere attuata in tutti i suoi aspetti, non calano e che sette vittime su dieci avevano denunciato la situazione in cui si trovavano, ma questo non è bastato a salvarle.

Se guardiamo avanti invece dobbiamo fare i conti con una crisi che impedisce a un numero crescente di giovani italiani di trovare un lavoro e costruirsi un futuro. E le ragazze sono le più colpite, soprattutto al Sud. Il tasso di disoccupazione femminile nel Mezzogiorno è del 21,5 per cento, ma se andiamo a guardare chi ha meno di 24 anni sale al 53,7. Ancora più sconvolgente vederla dall’altro punto di vista e prendere il dato dell’occupazione giovanile femminile: 8,9 per cento, un numero che parla di desertificazione delle opportunità. E non può non preoccuparci il calo dei servizi sociali, figlio dei tagli al welfare, che riducendo il numero e i posti negli asili nido va a colpire prima di tutto la possibilità di lavoro delle madri. Non ci si può stupire allora se siamo tra quelli che fanno meno figli in Europa.

Di fronte a tutto questo ci vogliono politiche che abbiano sensibilità diverse e ci vuole energia nuova, quella che ha permesso – e questa è finalmente una buona notizia – di far crescere il numero delle imprese femminili che, secondo i dati di Unioncamere, sono quasi 11 mila in più negli ultimi 3 anni .

La stampa 08.03.14

"L’otto marzo amaro dell’Italia condanna del Consiglio d’Europa “Aborto, violati i diritti delle donne”, di Maria Novella De Luca

L’Italia calpesta la vita delle donne. Altro che mimose. In questo amaro otto marzo che racconta un paese senza parità e senza lavoro, assediato dai femminicidi e dalla piaga delle dimissioni in bianco, un duro documento del Consiglio d’Europa condanna il nostro paese per aver violato la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Con un provvedimento che sarà reso pubblico oggi, il “Comitato europeo dei diritti sociali”, organismo del Consiglio d’Europa, afferma: «A causa dell’elevato e crescente numero di medici obiettori di coscienza, l’Italia viola i diritti delle donne che alle condizioni prescritte dalla legge 194 del 1978, intendono interrompere la gravidanza».
È la prima volta che l’Europa condanna con tanta chiarezza il nostro paese per la disapplicazione della legge sull’aborto, riconoscendo, finalmente, che pur esistendo ancora sulla carta, l’interruzione volontaria di gravidanza è di fatto ormai impossibile in intere regioni d’Italia. Le donne sono costrette a migrare di provincia in provincia perché centinaia di ospedali hanno ormai chiuso i reparti, ma in tante, troppe, respinte dalle strutture, e ormai fuori dai tempi consentiti per l’interruzione di gravidanza, si rivolgono,
come 40 anni fa, al fiorente mercato degli aborti clandestini. Le cui stime oggi sfiorano i 40-50mila interventi l’anno.
Il documento europeo che condanna l’Italia è il frutto di una lunga battaglia portata avanti dall’Ippf, (International Planned Parenthood Federation European Network), insieme all’italiana Laiga, associazione di ginecologi per l’applicazione della legge 194. Un “reclamo collettivo” (il numero 87 depositato l’8 agosto 2012), oggi diventato un pesante monito contro il nostro paese. E le conseguenze più immediate, esattamente come è avvenuto per la legge 40 sulla fecondazione assistita, sarà la possibilità per le donne e le associazioni usare il documento europeo per denunciare e iniziare azioni legali contro gli ospedali che non garantiscono il servizio di interruzione di gravidanza. Nell’attesa che finalmente il ministero della Sanità si decida a far applicare la legge 194, ormai resa nulla dallo spropositato numero di ginecologi obiettori di coscienza, che in alcune regioni superano il 90% del personale sanitario.
«Questa vittoria è un successo importante perché l’obiezione di coscienza non é un problema solo in Italia ma in molti altri paesi europei», commenta Vicky Claeys, direttore regionale dell’Ippf, ricordando forse la drammatica situazione della Spagna. «La nostra istituzione, che da 60 anni lotta nel mondo per garantire a tutte le donne i loro diritti, e l’accesso alla salute sessuale e riproduttiva, vuol fare emergere la mancanza di misure adeguate da parte dello Stato italiano nel garantire il diritto fondamentale alla salute, e all’autodeterminazione femminile». Ed è soddisfatta Silvana Agatone, presidente della Laiga, ginecologa, da sempre in prima linea nella difesa della legge 194, e che da anni denuncia lo smantellamento dei reparti di “Ivg” negli ospedali italiani, e soprattutto il calvario delle donne. «Questo risultato è il frutto di anni di lavoro della Laiga che fornendo dati fondamentali sulla non applicazione della legge 194, ha avviato il percorso verso la condanna dell’Italia». E riallaccia
il suo pensiero a questo contraddittorio 8 marzo, la costituzionalista Marilisa D’Amico, che insieme ad un’altra avvocata, Benedetta Liberali, ha lavorato a lungo sul “reclamo” presentato dall’Italia. «Come donna e ancor prima che come avvocato — ha detto D’Amico, cui si devono già grandi battaglie legali contro la legge 40 — sono felice che sia stato ribadito un diritto fondamentale sancito dallo Stato italiano. Oggi è la giornata della donna, e suona quasi beffardo che a trent’anni dall’approvazione della legge 194, si debba ancora combattere per affermare un diritto per noi donne definito costituzionalmente irrinunciabile. Spero che adesso si prendano i provvedimenti necessari per applicare la legge in tutte le strutture nazionali ».

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“Non rinunciate ai vostri sogni la parità deve diventare la regola”

Elena Cattaneo, esperta di staminali e senatrice a vita

«La parità? Dovrebbe essere la normalità». Elena Cattaneo è una scienziata di fama internazionale, direttore del Centro di ricerca sulle cellule staminali UniStem dell’Università di Milano, terza donna nominata senatore a vita nella storia della Repubblica. Alla politica, allo Stato, chiede di mantenere alta la guardia sui temi eticamente sensibili, dall’aborto alla procreazione assistita, «altrimenti sui diritti si rischia di fare un passo avanti e tre indietro». E dà un consiglio alle giovani: «Non vivete di stereotipi, avere marito e figli non significa dover rinunciare ai sogni».
Senatrice, anche nel mondo scientifico le donne devono dimostrare di essere meglio degli uomini per poter aspirare a dei riconoscimenti?
«Se guardo alle esperienze di tanti colleghi dico che è proprio così, ma non lo è stato nella mia storia personale. Forse ho subito delle discriminazioni e non me ne sono accorta o forse non l’ho permesso. È così naturale non consentire a nessuno di recintarti in quanto donna. Resta il fatto che anche in campo scientifico le posizioni apicali sono occupate soprattutto da uomini. È così in medicina, forse meno in biologia».
Lei è cattolica, ma è anche stata tra i promotori del referendum contro la legge 40 sulla procreazione assistita. Come vive la conflittualità tra alcune posizioni della Chiesa e la difesa dei diritti delle donne?
«Io cattolica? Penso di esserlo. Il problema della legge 40 è che con un escamotage etico si vietava la produzione in Italia di cellule staminali embrionali, autorizzando però la ricerca su quelle provenienti dall’estero. E c’erano norme che andavano contro la tutela della salute femminile, per escludendo la diagnosi preimpianto. Per fortuna questa legge è stata smantellata da numerose sentenze e ora si tratta di capire come andare avanti. Io però non credo che ci sia una contrapposizione tra religione e scienza, religione e diritti delle donne. È vero invece che c’è una dimensione politica della religione, che esistono alcune posizioni della Chiesa che hanno inciso, eccome, sulla libertà dell’individuo. Ma forse ora, anche grazie a Papa Francesco, stiamo assistendo ad una svolta».
Tuttavia la legge sull’aborto è ancora sotto attacco. Soprattutto attraverso un ricorso massiccio all’obiezione di coscienza da parte dei medici. Che ne pensa?
«Che le donne devono poter vedere rispettati i loro diritti e che lo Stato ha il dovere di tutelarli. Altrimenti facciamo un passo avanti e tre indietro».
Dall’agosto scorso lei è senatrice. E oggi proprio in Parlamento e proprio a ridosso dell’8 marzo è scoppiata una guerra trasversale sulla parità di genere nelle liste elettorali. Lei condivide la battaglia di molte sue colleghe per il fifty-fifty?
«La parità è la rivendicazione di una condizione che dovrebbe essere normale, che dovrebbe partire dall’educazione, a scuola e in famiglia e poi svilupparsi sul lavoro e certo anche in Parlamento. Molte cose però abbiamo dovuto conquistarle e altre restano da conquistare. È un fatto importante, ad esempio, avere per la prima volta un governo composto per la metà di donne, ma è altrettanto fondamentale che le donne arrivino a posizioni di vertice per le loro qualità. Per farlo però è necessario che siano garantite pari opportunità ».
Lei è sposata, ha due figli e una carriera molto impegnativa svolta in parte all’estero. Come ha fatto a conciliare tutto?
«Consiglierei alle giovani di non adagiarsi sugli stereotipi. Avere una famiglia non significa rinunciare ai propri sogni. Certe cornici sembrano rassicuranti, ma possono rivelarsi una prigione, una fregatura auto inflitta. La prima mossa è scegliere accuratamente la persona con cui condividere la propria vita. A me il miracolo è riuscito, forse perché non ho mai consentito al lavoro di escludere la mia famiglia, e non ho mai permesso alla famiglia di escludere la mia professione».

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Lucrezia Reichlin è docente di economia alla London business school

“Non dimentichiamoci questa festa ci ha insegnato ad avere coraggio”

È la donna che in questi mesi tutti volevano: la Banca d’Inghilterra come vice-governatore secondo il
Financial Times, Matteo Renzi come ministro dell’Economia secondo le indiscrezioni italiane. Invece per ora è rimasta al suo posto di docente della London Business School, una delle università più prestigiose del mondo, ultimo gradino di una carriera iniziata con un dottorato alla New York University e proseguita tra l’altro come direttore generale alla ricerca della Banca Centrale Europea. Figlia di Alfredo Reichlin, a lungo deputato del Pci, e di Luciana Castellina, fondatrice del Manifesto, Lucrezia Reichlin parla con Repubblica dell’8 marzo al termine di una giornata in cui ha fatto sei ore di lezione e due riunioni.
Che significato ha per lei la festa della donna?
«L’8 marzo è una festa importante per me. Quando ero piccola mia madre lavorava all’Unione Donne Italiane e ricordo bene la festa e le mimose. Si cantava “sebben che siamo donne paura non abbiamo”. In fondo quella canzone ha ancora senso, anche se si sono fatti molti progressi».
C’è grande dibattito nella City di Londra e nel mondo economico finanziario sul ruolo della donna nelle aziende: lei è favorevole a quote prestabilite riservate alle donne nei consigli di amministrazione, come nei paesi scandinavi?
«L’ho detto molte volte. Sono favorevole alle quote. Correggono una distorsione. Ormai si sa che senza le quote c’è una barriera culturale contro le donne che le esclude
sistematicamente. Non credo ce ne sia bisogno in modo permanente, ma è una misura temporanea per cambiare la cultura delle stanze dei bottoni».
Ci sono solo tre donne amministratore delegato tra le cento maggiori aziende del Regno Unito quotate in borsa: a cosa è dovuto?
«Le ragioni sono molte. Le donne hanno un rallentamento della carriera e in certi casi un’interruzione quando decidono di avere figli. In molti casi è una scelta, in altri è l’assenza di modelli culturali che le spingano ad una ambizione professionale. Molti progressi si sono fatti nella promozione delle donne nelle fasi iniziali delle carriere, ma poi ci si ferma. Io credo che molto ha a che fare con i modelli culturali, con l’imparare a
osare e ad acquistare fiducia in se stesse. Ma c’è anche una minore capacità delle donne ad organizzarsi, a fare network, a competere, e questo avviene perché le donne sono tagliate fuori da migliaia di sottili e invisibili meccanismi che le spingono ai margini di quell’insieme di relazioni informali che servono a fare carriera».
Cosa consiglia alle sue studentesse della London Business School che si affacciano al mondo del lavoro?
«Consiglio saggezza. Per uomini e donne la forza viene dal contenuto della propria ambizione e non solo da una volontà di affermazione ad ogni costo. Ma consiglio anche di trovare nella relazione con le altre donne una fonte di forza e di sostegno. I modelli femminili di riferimento sono importanti e sono una fonte di ispirazione».
Lei personalmente come ha affrontato il fatto di essere donna nella sua carriera?
«Ci ho messo molto ad acquistare sicurezza in me stessa. Ho fatto tanti giri prima di trovare la mia strada e credo di avere pagato un alto prezzo personale, almeno in certe fasi della mia vita. Ma sono contenta di avere l’opportunità di fare cose interessanti e di potere scegliere».
E che effetto le ha fatto vedere cinque ministri della difesa donne alla recente riunione della UE e metà del governo Renzi composto da donne?
«Un effetto fantastico!».

La Repubblica 08.03.14

"L’ultima arma di Mosca: tagliamo il gas all’Ucraina", di Bernardo Valli

È IL dialogo dei sordi. Barack Obama ha chiesto a Vladimir Putin di autorizzare contatti diretti tra il governo russo e quello di Kiev, di consentire agli osservatori internazionali di lavorare in Crimea, e, sempre in Crimea, di far rientrare le truppe russe nelle loro basi. Questo dice il resoconto della Casa Bianca dopo il lungo colloquio telefonico dei due
presidenti. MA POCHE ore dopo il Cremlino dà la sua versione, che non è la stessa. Vladimir Putin ha denunciato, parlando con Barack Obama, un colpo anticostituzionale a Kiev e ha sottolineato che la Russia non può ignorare, nel rispetto delle leggi internazionali, gli appelli provenienti dalle province sud-orientali dell’Ucraina sottoposte a “decisioni illegittime”. Le relazioni russo-americane, ha proseguito Putin, sono tuttavia troppo importanti per la sicurezza globale e non possono quindi essere sacrificate per rincorrere problemi internazionali particolari, anche se di rilievo. Dalle note dissonanti, diffuse dalla Casa Bianca e dal Cremlino, appare evidente che Obama e Putin hanno ribadito per più di un’ora le loro posizioni senza portare elementi distensivi alla crisi. La quale è adesso più profonda. E in apparenza inestricabile.
Putin va dritto per la sua strada. Ma ricorda a Obama che dai rapporti tra Russia e Stati Uniti dipende la situazione mondiale e che quindi non li si deve compromettere per una questione non essenziale. E qui il russo punta alto. Parla come quando due superpotenze si spartivano il mondo, e imponevano la loro volontà nelle rispettive aree. Riallacciandosi a un passato concluso con l’implosione dell’Unione sovietica, dà l’impressione di volerne ristabilire le regole. Mi ricorda “la sovranità limitata” di Leonid Breznev, adesso applicata all’Ucraina. Putin ricolloca soprattutto Mosca a fianco di Washington. La considera allo stesso livello, mentre gli appelli dell’Europa, ha detto ieri il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov, «fanno sorridere». Putin si sente tanto forte da rivendicare (o da millantare) la potenza perduta. A consentirgli l’illusione è il comportamento dei suoi antagonisti. Lui pensa al passato, mentre America ed Europa, su piani e con toni diversi, sono in un presente non ben definito. Il calendario non è lo stesso per gli uni e per gli altri. La tesi di Putin, basata sulla supposta parità Mosca-Washington, dà alla crisi ucraina una dimensione classica ma obsoleta.
L’imminente, probabile, annessione della Crimea accende intanto il patriottismo russo. La manifestazione di ieri davanti al Cremlino (sessantamila e più persone) ne è la prova. Putin usa a fini interni il recupero della storica provincia sul Mar Nero, assegnata dall’incauto Nikita Krusciov nel 1954 alla Repubblica ucraina, allora inclusa nell’Unione sovietica, e poi rimastavi nel 1991 quando l’Ucraina diventò indipendente. Oggi l’avvenimento accende gli animi russi. È quel che vuole Putin. Ma nel futuro potrebbe sollecitare le aspirazioni all’indipendenza del Daghestan e della Cecenia; o spingere all’insubordinazione l’Uzbekistan, il Kazakhstan, e altre componenti essenziali dell’Unione euroasiatica, il grande disegno di Putin. Il rischio che si riveli col tempo un boomerang, come affacciano gli esperti, non impedisce a Mosca di celebrare in anticipo il ritorno della Crimea tra le braccia della madre Russia.
Valentina Matviyenko, presidente del Senato, e Sergei Naryskin, presidente della Camera dei deputati, hanno espresso il loro appoggio al voto della Crimea in favore della secessione. In anticipo sul referendum del 16 marzo i due rami del Parlamento russo abbracciano i figli prodighi della lontana provincia, come se il loro arrivo fosse scontato. I votanti potrebbero esprimersi in teoria anche per una maggiore autonomia, e quindi respingere la secessione, ma l’ipotesi non è presa in considerazione. La Crimea è già di fatto in mano russa. Gli osservatori dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, trentasette militari di diciotto nazioni, fino a ieri pomeriggio non erano neppure stati autorizzati ad entrare nella provincia.
Una delegazione dei deputati che senza aspettare il referendum hanno già votato l’annessione ha invece potuto lasciare la Crimea e raggiungere Mosca. A riceverla con tutti gli onori sono stati i presidenti dei due rami del Parlamento. Trascurando l’essenziale, e cioè che Londra autorizza l’iniziativa mentre Kiev la considera fuori legge, Valentina Matviyenko ha paragonato la Crimea alla Scozia che attraverso un referendum vorrebbe staccarsi dalla Gran Bretagna. Sergei Naryshkin ha detto che la Camera bassa, di cui è il presidente, rispetterà «la scelta storica della Crimea». Infatti ha votato una legge in favore dell’annessione di territori sotto diversa sovranità che ne esprimano la volontà attraverso una consultazione popolare. Naryshkin, uomo di fiducia di Putin, ha elogiato il coraggio dei deputati filo russi nel fronteggiare le minacce e gli attacchi non solo alle loro persone, ma anche alla Flotta russa del Mar Nero basata a Sebastopoli. Queste manifestazioni patriottiche lasciano pochi dubbi sull’imminente stacco della penisola meridionale dalla nazione Ucraina. Restano invece dei dubbi sulle conseguenze.
Il governo di Kiev condanna il referendum sia perché non ritiene legittimo il potere locale che l’ha indetto, sia perché pensa che si tratterà di una consultazione con un risultato truccato o imposto. «Si svolgerà sulla punta dei fucili russi». Ero in Parlamento mentre arrivavano le notizie sul deludente dialogo tra Obama e Putin, e sulle manifestazioni di Mosca in favore dell’annessione della Crimea. L’atmosfera era più perplessa che tesa. I responsabili politici ucraini cercano di mantenersi su una linea moderata. Il primo ministro, Arsenij Yatsenjuk, ha chiesto finora invano una seconda conversazione con Dmitri Medvedev, il primo ministro russo. Domenica hanno avuto un primo contatto, il solo finora ad alto livello, ignorato fino a ieri. Gli scambi tra gli addetti all’economia non hanno avuto esiti positivi, poiché Gazprom, fornitore di gran parte dell’energia indispensabile al paese, ha avvertito che se l’Ucraina non salderà il debito di due miliardi di euro interromperà il flusso di gas.
Nell’attesa del referendum, e della conseguente (probabile) secessione la possibilità di un vero dialogo sembra scarsa. Lo stesso Vladimir Putin, ricevendo
Sigmar Gabriel, vice cancelliere tedesco e ministro dell’economia, ha detto che il promesso gruppo di contatto resta in sospeso. Nei prossimi giorni, in attesa del 16 marzo, la diplomazia internazionale cercherà di attenuare l’intransigenza russa. E’ difficile per Putin rinunciare alla Crimea, ma la penisola può diventare una carta di scambio. Non annessa ma più autonoma se il compromesso è compensato da una politica di Kiev più accettabile da Mosca. Neppure il governo ucraino è tuttavia libero di manovrare in piena libertà. Un suo membro, sottosegretario alla difesa, Dmitrj Yarosh, candidato alla presidenza della repubblica, è un super naziona-lista, capo del “settore di destra” sulla Majdan. Yarosh si dichiara pronto a promuovere una resistenza armata nel caso di un cedimento ai russi.

La Repubblica 08.03.14

8 marzo, deputate “Con la nuova legge più donne nelle Istituzioni”

“In occasione della Festa della donna ribadiamo la necessità della modifica dell’Italicum”. Le parlamentari modenesi del Pd Manuela Ghizzoni, Cècile Kyenge e Giuditta Pini sono tra le firmatarie della lettera aperta, promossa dalla coordinatrice nazionale delle Democratiche Roberta Agostini, con cui, trasversalmente, le parlamentari chiedono che nella nuova legge elettorale, ora in discussione alla Camera, venga garantita l’equa rappresentanza dei generi. ““Non possiamo pensare che la questione “legge elettorale” – confermano Ghizzoni, Kyenge e Pini – sia chiusa senza prevedere norme capaci di garantire nuovi spazi alle donne. Quest’anno l’8 marzo delle democratiche non può che essere all’insegna della “democrazia paritaria”.

“Un 8 marzo che festeggiamo ribadendo il nostro impegno a varare una nuova legge elettorale che preveda regole cogenti per promuovere la presenza femminile nelle Istituzioni”: le deputate Pd modenesi del Pd Manuela Ghizzoni, Cécile Kyenge e Giuditta Pini sono tra le firmatarie della lettera aperta, promossa dalla coordinatrice nazionale delle Democratiche Roberta Agostini, con cui, trasversalmente, le parlamentari chiedono ai segretari e ai leader dei partiti che nella nuova legge elettorale venga garantita la democrazia paritaria. “In queste ore – si legge nella lettera – si sta discutendo alla Camera la nuova legge elettorale, un traguardo importante ed atteso da parte dei cittadini e delle cittadine italiane. Siamo consapevoli dell’importanza e della necessità di approvare nuove regole che presiedano al buon funzionamento della nostra vita democratica e che definiscano la rappresentanza e l’efficienza del nostro sistema politico. Siamo altresì convinte – concludono le parlamentari firmatarie dell’appello – che non sia possibile varare una nuova legge senza prevedere regole cogenti per promuovere la presenza femminile nelle istituzioni e per dare piena attuazione all’articolo 3 e all’articolo 51 della Costituzione”. “Non possiamo pensare che la questione “legge elettorale” – confermano Ghizzoni, Kyenge e Pini – sia chiusa senza prevedere norme capaci di garantire nuovi spazi alle donne. Quest’anno l’8 marzo delle democratiche non può che essere all’insegna della “democrazia paritaria”.

"La politica non è solo per uomini", di Massimo Adinolfi

“La parità di genere non si impone per legge” ha stabilito Maria Stella Gelmini, e per questo Forza Italia non si è dichiarata disponibile agli emendamenti che invece ne accolgono il principio, imponendo ad esempio l’alternanza uomo/donna in lista e la metà dei capilista donne. Forse, se all’ex ministro avessero chiesto della festa della donna, che cade domani, avrebbe proseguito contrariata osservando che nemmeno quella si può imporre per legge. Si può imporre infatti di festeggiare qualcuno o qualcosa, conculcando il diritto di libertà di chi invece proprio non vuol far festa? EvidentementeNO: perciò via la festa.
E forse anche: via quel senso di vincolo collettivo, pubblico, che si cerca di affidare ai gesti e alle manifestazioni dell’8 marzo.
A pensarci bene, poi, le parole della Gelmini sono un filo pleonastiche: non solo, avrebbe dovuto dire, le quote rosa non si impongono per legge, ma non si impone niente a nessuno. Non è questione di imposizione, insomma. Bensì di cortesia, di buona volontà, di garbo e, perché no? di cavalleria. Il tutto messo in un pacchetto e ben confezionato con in bella vista l’importante dicitura: «cultura». È questione di cultura, si dice infatti. Se non cambia la cultura del Paese, la presenza delle donne nelle istituzioni non sarà mai davvero paritaria. Intanto, però, è da dire che le cose stanno già cambiando: il 30 per cento della composizione dell’attuale Parlamento è costituito dalle donne (e svettano, quasi alla pari, le rappresentanze dei 5 Stelle e del Pd). È la percentuale più alta dall’inizio della storia repubblicana. In secondo luogo, si dimentica che le leggi sono uno strumento fondamentale proprio per il cambiamento della cultura di un Paese. Se è questione di cultura, è anche perché certe leggi promuovono attivamente una certa cultura: aperta per esempio ai diritti fondamentali, all’uguaglianza, alla parità di genere. Certo, Alcune volte sono i cambiamenti sociali e culturali del Paese a imporre mutamenti del corpo delle leggi, ma altre volte va al contrario, e non c’è alcun motivo per essere così perentori come la Gelmini, rifiutando di percorrere una delle due direzioni. Anche perché, nonostante i progressi compiuti, l’Italia è ancora un Paese a rappresentanza prevalentemente, quando non esclusivamente maschile: alla Presidenza della Repubblica, alla Corte Costituzionale, alla Corte dei Conti, alla Presidenza del Senato, e via elencando i vertici delle nostre istituzioni. Fa parzialmente eccezione la Camera, che ha avuto tre Presidenti donna, e ora il governo, dove il numero di uomini e donne è, finalmente, pari. Ma non si capisce perché non aiutare questo processo, cosa si teme da un maggiore ingresso delle donne nel Parlamento. La cui credibilità (dico quella delle Camere, non delle donne) è peraltro attualmente così bassa, come dimostra il rapporto Eurispes sul grado di fiducia nelle istituzioni, che ben difficilmente le quote rosa potrebbero peggiorarlo. D’altronde, la neo-capogruppo del Ncd alla Camera, Nunzia De Girolamo, ha ricordato proprio ieri alla Gelmini, in un tempo non lontano sua collega di partito, che ormai facciamo valere per legge la parità di genere nei consigli di amministrazione, sicché non si capisce perché per le Camere il principio non debba valere. Ed effettivamente: non si capisce. Il Pd in verità lo capisce il principio e lo adotta. Forza Italia no, non lo adotta e forse non lo capisce.

Si capisce invece quel che diceva Tina Anselmi, figura prestigiosa della politica italiana: «Nessuna vittoria è irreversibile. Dopo aver vinto possiamo anche perdere, se viene meno la nostra vigilanza». È giusto. Ma è vero pure che una legge può rendere un po’ meno reversibile l’incremento della rappresentanza femminile nel Parlamento italiano.

L’Unità 07.03.14

"La lite a colpi di tweet fa tremare il Tesoro", di Roberto Petrini

La scrivania che fu di Quintino Sella non è stata ancora completamente sgomberata dalle ultime carte dell’ex ministro del Tesoro Fabrizio Saccomanni. Il cambio della guardia è ancora fresco. In altri tempi il passaggio di consegne si sarebbe svolto in un clima di segreta e composta sobrietà. Invece il ciclone della nuova politica Speedy Gonzales, a colpi di sms, veloce come la luce, che ha nel mirino burocrazie e vecchi riti, coinvolge anche le austere stanze del palazzo umbertino di Via Venti Settembre. Dove la consegna del silenzio è cosa d’altri tempi.
E’ bastata l’accusa del presidente del Consiglio Matteo Renzi al suo predecessore, e ormai aperto nemico, Enrico Letta di non averla raccontata giusta sui conti pubblici, a seguito dell’ennesimo schiaffo di Bruxelles all’Italia, che è arrivato il botto. Chiamato in causa, come massimo responsabile del bilancio dello Stato, l’ex direttore generale della Banca d’Italia e ministro dell’Economia, ha rotto tradizioni e consuetudini: dal suo smatphone ha spedito cinque tweet (a Enrico Letta, ma erga omnes) per difendersi: commenti «immotivati e incomprensibili», quelle della Commissione sono solo stime, sul debito non considerano che abbiamo pagato i crediti delle aziende e che ci siamo sobbarcati i costi del salvataggio della Grecia. Non una parola a Renzi, ma non c’è dubbio che la polemica è indirizzata a Bruxelles, ma viene recapitata a Palazzo Chigi.
«Manca solo un hashtag: “contipubblicichecasino”, commenta un vecchio esperto di bilancio dello stato ormai fuori ruolo. Del resto il ciclone ha investito anche gli ampi e felpati corridoi da dove, in passato, venivano lesinate parole e comunicati. Un esempio? Mario Canzio, già per anni potente Ragioniere dello Stato ha pensato bene, appena fuori, di mettere insieme il suo cv, come un neolaureato, e spedirlo in Parlamento: vuole diventare il numero uno del nuovo Ufficio parlamentare di bilancio.
E che di dire di Vincenzo Fortunato: per anni è stato il capo di gabinetto di tutti i ministri del Tesoro, di destra e sinistra: non passava emendamento prima che lui non avesse dato il semaforo verde. Oggi è sotto il fuoco i fila delle interrogazioni parlamentari.
Ha ragione Saccomanni o la Ue? Pier Carlo Padoan, tradisce imbarazzo e tenta di gettare acqua sul fuoco: il monito di Bruxelles, sostiene, è «severo ma condivisibile». Nelle stanze delle tecnocrazie che osservano la spesa pubblica ci si sente sotto accusa. Sotto gli stucchi che sovrastano i terminali che segnano lo spread ci si sfoga.
Certo nel prevedere una crescita dell’1 per cento si è peccato di ottimismo. Del resto lo ha detto due settimane fa anche la Corte dei Conti, che è pur sempre l’alta magistratura contabile dello Stato. Ma qualche attenuante c’è: solo a gennaio si è saputo che le stime dell’Fmi sul commercio internazionale erano più basse del previsto e che l’euro continuava a rafforzarsi. Con meno export come si fa a crescere? Forse l’errore è stato quello di attribuire all’operazione da 20 miliardi di pagamento dei debiti della pubblica amministrazione un effetto di crescita sul Pil di uno 0,7 per cento. Forse un po’ troppo.
Sul debito invece nessuno è disposto a cedere all’accusa. Ma se è stata proprio Bruxelles a chiederci di pagare i conti alle aziende creditrici dello Stato e a darci il via libera sulla contabilizzazione? Altrimenti invece che al 132,8 per cento saremmo in discesa di due punti, rispetto al 2013, a quota 125,8 per cento del Pil. Ma i capi di accusa si moltiplicano: ad esempio l’aver ceduto al vento anti-austerità e aver rinviato il pareggio di bilancio al 2017. Certo si sono sempre quei 200 emendamenti passati in Parlamento che hanno gonfiato di 7,6 miliardi al legge di Stabilità. Ma il ricatto delle sentinelle delle tasse sull’Imu, costato 4 miliardi, dove lo mettiamo?

La Repubblica 07.03.14

"L'ultimatum della Ue per Pompei", di Francesco Prisco

Stavolta non ci saranno tempi supplementari. Il messaggio che arriva dalla Ue è inequivocabile: «Le deroghe non sono possibili. Invece di cercare le eccezioni, la cosa più importante è concentrarsi e lavorare». A parlare è il portavoce del commissario europeo per le politiche regionali Johannes Hahn che, all’indomani delle preoccupazioni espresse dal neo-soprintendente Massimo Osanna, sgombra il campo da qualsiasi ipotesi di richiesta di proroga.
I 105 milioni del Grande progetto Pompei cofinanziato dalla Ue dovranno essere spesi entro il 30 giugno 2015. «Faremo una check list – ha aggiunto – per monitorare da vicino l’avanzamento dei lavori e un punto della situazione pubblico prima della pausa estiva». Parole dopo le quali lo stesso Osanna ha calibrato il tiro, rileggendo a freddo quanto detto il giorno in cui s’è insediato: «Mi sono limitato a esprimere preoccupazione. Chiedere eventuali deroghe non spetterebbe neanche a me». Non sarà certo facile imprimere in poco più di un anno un’accelerazione a un piano d’intervento da 105 milioni che, per ora, vede un solo cantiere consegnato per un valore di appena 853mila euro, cinque cantieri aperti da complessivi 8,4 milioni, sette gare da 20,2 milioni chiuse e in corso d’aggiudicazione e una procedura concorsuale in corso.
Ma al ministero dei Beni culturali vogliono mettercela tutta. E soprattutto, dopo i tre crolli dello scorso fine settimana, dimostrare a Bruxelles che l’Italia si sta impegnando: ieri al Collegio Romano secondo incontro a tema in tre giorni, con il ministro Dario Franceschini, il direttore generale di progetto Giovanni Nistri, lo stesso soprintendente, il segretario generale del Mibact Antonia Pasqua Recchia e il capo di gabinetto Giampaolo D’Andrea.
Tra i temi affrontati, la prevenzione di eventuali nuove emergenze, soprattutto in vista delle piogge che dovrebbero abbattersi sull’area nelle prossime ore. Tra le misure allo studio, l’intensificazione del pattugliamento, anche di notte e nei fine settimana. In più sarà articolato un piano per conciliare conservazione e fruizione. «Da questo preciso momento in poi – ha detto Osanna a margine dell’incontro – lavoreremo alacremente sul versante del Grande progetto, come sulla manutenzione ordinaria. Siamo una squadra nuova, mi piacerebbe che venissimo giudicati per i fatti. Perché ci sono i presupposti per fare bene».
La manutenzione ordinaria, tema sul quale di recente è intervenuto il ministero sbloccando fondi a disposizione della soprintendenza per due milioni, a Pompei è un vecchio cavallo di battaglia del sindacato. «Ma le risorse – commenta Antonio Pepe di Cisl Beni culturali – contano fino a un certo punto. Per prevenire i crolli servono braccia: occorrerebbero squadre di operai, come quelle che c’erano fino a qualche anno fa, pronte a intervenire a seguito delle segnalazioni di pericolo».
Intanto le notizie riguardanti i nuovi crolli sono arrivate anche a Berlino, dov’è in corso l’Itb, fiera internazionale del turismo. «Molti buyer esteri – racconta Raffaele Ercolano di Incoming Italia, consorzio di promozione turistica che riunisce i principali operatori nazionali – hanno chiesto delucidazioni al nostro stand: temevano che i crolli avrebbero portato conseguenze sul piano della fruibilità del sito». Che sul fronte turistico rappresenta da sempre una nota dolente: «Per fortuna – continua Ercolano – la domanda di pacchetti comprendenti Pompei continua a crescere».
Tuttavia se i flussi internazionali arrivano, secondo Ettore Cucari di Fiavet Campania, «non è certo merito del lavoro compiuto dal sistema Italia, quanto piuttosto di operazioni concepite all’estero come la mostra del British Museum o il film “Pompei”. Il guaio è che, dopo le visite, gli utenti si lamentano per le case non visitabili e i servizi approssimativi». Pompei non è a Londra e nemmeno a Hollywood.

Il Sole 24 Ore 07.03.14