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"134 femminicidi nel 2013: vittime ancora in aumento", di Chiara Affronte

Centotrentaquattro donne uccise da uomini nel 2013, erano 129 nel 2012. Cresce il numero delle vittime di omicidi dovuti a motivi di genere (i cosiddetti «femmicidi », come li chiamano i centri antiviolenza italiani).E aumenta anche il numero dei bambini rimasti soli per aver perso la mamma, e spesso insieme il papà che l’ha uccisa, visto che otto volte su 10 l’assassino è proprio il loro padre. Una stima ne conta almeno 1.500, dal 2000.
Sono dati che fanno rabbrividire, ancor di più se li si associa a quelli fatti circolare due giorni fa dalla Ue che conta nove milioni di donne vittime di violenze. E che purtroppo non sono precisi, visto che ogni anno il numero viene elaborato sulla base di faticose ricerche che la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna compie a partire dagli articoli usciti sulla stampa.
E proprio da questa constatazione emerge la «grave mancanza» del nostro paese:«Non ci sono informazioni approfondite sul femminicidio, ancora lasciate all’iniziativa della società civile, e non esiste un piano d’azione nazionale a contrasto della violenza di genere», denuncia il centro antiviolenza bolognese. Che scandisce una nuova preoccupazione: «Il governo Renzi non ha nemmeno attribuito la delega alle Pari opportunità e la nostra preoccupazione è enorme, anche perché temiamo che vada perso o si interrompa il lavoro che aveva iniziato il ministro precedente», fa sapere Angela Romanin.
Le donne però hanno immenso bisogno di aiuto: solo a Bologna quasi 800 si sono rivolte al centro antiviolenza bolognese nel 2013. I 3 rifugi segreti e i minialloggi “di transizione” ne hanno ospitate quasi 40.Maad un certo punto da lì devono uscire, affrontare la vita “vera” con tutte le difficoltà che conseguono. Perché nel frattempo spesso devono lasciare il lavoro, per scappare dal loro probabile assassino e si ritrovano vive sì, ma senza sapere come andare avanti. La ricerca elaborata dal centro bolognese rivela un altro dato importante: le donne scampate ad un tentato omicidio di genere sono un centinaio. Mogli o ex compagne di uomini che vogliono possederle, che le considerano oggetti di cui disporre, anche quando dicono di amarle. «Non esistono i femminicidi “passionali”, dobbiamo uscire da questo convincimento – scandisce Romanin – Non ha niente a che vedere con l’amore l’impeto che porta un uomo ad uccidere la sua compagna, neanche con la malattia: è senso del possesso e considerazione della donna come oggetto».
A confermare questa posizione anche l’omicidio di donne costrette a prostituirsi: 13 nel 2013, altro numero in crescita dal 2005 se si esclude il dato del 2012 quando ne sono state ammazzate 14. Anche in questo caso, spiegano dalla Casa delle donne, «la violenza di genere si esplica come strumento di affermazione del potere maschile, è espressione di un desiderio di controllo e possesso dell’uomo sulla donna, tanto nelle relazioni intime, quanto nell’ambito della prostituzione». Un fenomeno anche questo sottovalutato, e spesso relegato al livello di vendette legate alla criminalità organizzata. Altra “credenza” da sfatare, messa in luce dalla ricerca elaborata dal centro antiviolenza, quella legata alla nazionalità delle donne vittime di femminicidio: la prevalenza delle italiane è netta, sono il 67% del totale. Così come gli autori delle violenza non sono “gli stranieri” ma italiani, proprio perché gli omicidi avvengono all’interno del nucleo familiare. Lo stesso di cui sono vittime indirette quei 1.500 bambini le cui mamme sono state uccise, e che vivono una sofferenza atroce. Anche a loro è doveroso pensare, ribadiscono alla Casa delle donne: il progetto Daphne cerca di occuparsene. Ma ancora una volta a farlo non è il governo ma la società civile, il dipartimento di Psicologia dell’Università di Napoli con la coordinatrice Anna Costanza Baldry, consulente Onu.

L’Unità 07.03.14

"Il talento (all’estero)", di Federico Rampini

Dietro il caso di Luca Maestri balzato al vertice di Apple c’è un esercito di top manager italiani che hanno successo negli Stati Uniti… più che in Italia. Cosa ha di speciale il “modo di operare” americano, che attira e promuove l’élite dei nostri dirigenti d’azienda? Un’inchiesta in questo mondo mette in luce gli ingredienti chiave. La meritocrazia, certo, con quel che ne consegue: assenza di nepotismi, familismi, raccomandazioni, obbedienze politiche. Ma anche l’immunità verso quella “sindrome dell’invidia” che in Italia penalizza chi ha successo. E poi: pensiero positivo, “cultura del fare”, emulazione benefica che fa convergere gli sforzi perché l’innovatore, il pioniere, sia premiato dal successo. Lo raccontano i protagonisti, talenti italiani che qui hanno avuto più fortuna che in patria.
Ha fatto scalpore la nomina di Maestri, 50 anni e una laurea alla Luiss di Roma, come direttore finanziario del colosso digitale fondato da Steve Jobs: tocca a Maestri gestire una liquidità-record, 160 miliardi di dollari disponibili per investimenti e acquisizioni. Ma la parabola di Maestri, che già aveva lavorato per Xerox, General Motors e Nokia, è tutt’altro che anomala. Segnala un fenomeno ben distinto dalla “fuga di cervelli”, con cause e spiegazioni che vanno cercate altrove. Qui non si tratta di giovani neolaureati costretti a venire in America per trovare più opportunità e risorse nella ricerca universitaria. La categoria a cui appartiene Maestri è quella dei manager già affermati. Include un vasto arco di generazioni, dai 30 ai 60 anni. Abbraccia tutti i settori dell’economia. Per restare sulla West Coast o nell’economia digitale, spiccano personaggi che nel mondo del business americano sono celebri. Guerrino De Luca, romano anche lui, con laurea in Ingegneria nella capitale, dopo un passaggio da Apple
è da 15 anni il numero uno della Logitech, l’azienda leader nei mouse e nelle webcam. Diego Piacentini a 52 anni è il vicepresidente di Amazon e secondo alcune classifiche interne top-secret sarebbe anche il top manager più pagato dell’azienda di Seattle. Gianfranco Lanci, ingegnere del Politecnico di Torino, dopo una carriera da Texas Instruments e Acer ha conquistato la direzione generale di Lenovo, il gruppo cinese- americano (proprietà a Pechino e Hong Kong, management strategico negli Usa) che ha assorbito la divisione personal computer Ibm. E non è solo l’industria tecnologica che fa incetta di manager italiani. La vicenda di Fabrizio Freda abbraccia l’industria di largo consumo e quella del lusso: prima ai vertici di Procter & Gamble, ora chief executive e presidente di Estée Lauder. A Wall Street un gigante della finanza come Citigroup ha un vicepresidente italiano, Alberto Cribiore, nella divisione Institutional Clients che serve grandi imprese e governi, e il chief executive Francesco Vanni D’Archirafi alla Citi Holdings.
La buona notizia è questa: l’Italia continua a sfornare talenti anche nel top management, molti di questi dirigenti hanno ricevuto la prima formazione nelle università del nostro paese, evidentemente meno scadenti di quanto a volte si creda. Più inquietante, è un’analogia con l’India. Un altro caso recente di top manager straniero catapultato ai vertici di un colosso Usa, è l’indiano Satya Nadella nominato chief executive di Microsoft. In quell’occasione abbiamo ricostruito la geografia del “potere indiano” ai vertici di tante multinazionali Usa. Il raffronto è motivo di allarme: l’India è un gigante economico malato di burocrazia e corruzione, celebre per gli ostacoli che dissemina sulla strada dei suoi imprenditori, una “selezione al contrario” fa approdare i più brillanti di loro in California o a New York. E’ una patologia simile quella che colpisce il management italiano?
«Ciò che colpisce se lavori qui in California — mi dice Guerrino De Luca — è l’assenza di quel bagaglio fatto di relazioni familiari, di fedeltà di clan. Gli americani eccellono nel networking, che è la versione positiva e benefica delle raccomandazioni all’italiana:
networking vuol dire investire nelle conoscenze, nelle relazioni, ma senza essere prigioniero di una logica subordinata all’appartenenza di gruppo. Tra noi top manager italiani che abbiamo avuto successo qui, le qualità e i talenti sono gli stessi che portano al successo nella Silicon Valley dei colleghi francesi o tedeschi. Salvo che, in alcuni altri paesi, c’è meno bisogno di emigrare per veder riconosciute le proprie capacità… In Italia è decisivo sapere chi conosci, chi hai dietro di te, con chi sei affiliato, secondo logiche che possono essere dinastiche o politiche. La raccomandazione esiste anche qui, eccome, ma con la “r” minuscola: vieni raccomandato, se sei bravo, da chi ti ha visto all’opera e ha imparato a stimarti». A proposito di raccomandazioni, con minuscola, un tema centrale riguarda il modo in cui le aziende americane valorizzano i dirigenti. In Italia esistono capi che si circondano di “yes-men”, collaboratori la cui dote principale deve essere la fedeltà, l’obbedienza, ai limiti del servilismo. Nella Silicon Valley californiana viene premiato, al contrario, il pensiero trasgressivo: i grandi creativi da Steve Jobs in giù sono stati dei ribelli. Ma perfino in un establishment aziendale più antico e tradizionale, l’America ha metodi che premiano il leader capace di promuovere talenti veri attorno a sé. E’ quello che mi descrive Fernando Napolitano, presidente dell’Italian Business & Investment Initiative, che una settimana fa qui a New York ha organizzato un convegno per attirare nuovi investimenti americani nel nostro paese. Napolitano ha lavorato per Booz Allen, McKinsey e Goldman Sachs. E distilla questo condensato dalle sue esperienze: «La differenza con l’Italia è che i chief executive delle grandi imprese americane vogliono davvero promuovere la crescita dei loro collaboratori. E per i direttori delle risorse umane questa è la missione numero uno: far progredire le carriere dei dipendenti.
Un top manager qui in America è valutato anche per la sua capacità di trovare persone brave, e poi consentire che queste crescano. La competizione nel reclutare e allevare talenti è uno dei metri di misura della vera leadership. E non perché gli americani siano più virtuosi di noi: hanno semplicemente capito che è nel loro interesse». Dietro il comportamento che prevale ai vertici del capitalismo italiano, Napolitano vede un «rintanarsi nella propria nicchia, senza mettersi in gioco, per timore di rischiare, mentre è solo rischiando se stessi che si cresce».
Le storie più recenti di successo italiano in America hanno diversi elementi in comune. La sindrome di “invidia del successo” consente di osare meno in Italia che negli Stati Uniti. Compresa la variante che è la cultura del sospetto: “cosa c’è dietro” (il successo). Una pressione costante spinge a “pensare in grande” chi sbarca qui. In queste tipologie rientrano le storie più disparate. C’è “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, dapprima accolta tiepidamente in patria, ora in trionfo dopo l’Oscar. Ci sono storie di marchi storici della ristorazione, come il Sant’Ambroeus milanese o la Bottega del Vino veronese, che appena arrivati a Manhattan si allargano e si moltiplicano in quattro o in cinque. Perché qui, se sei molto bravo nel tuo mestiere, “devi” puntare a crescere sempre di più. E se non hai i capitali, qualcuno verrà a proporsi come socio per darti la forza finanziaria che meriti.
Una storia emblematica del divario Italia-Usa l’ha vissuta Fabrizio Freda. Ormai da anni al comando della multinazionale Estée Lauder, il gigante dei prodotti di bellezza con una capitalizzazione di Borsa oltre i 28 miliardi di dollari, Freda non ha mai smesso di sentirsi italiano. Qualche anno fa raccontò di aver tentato una “mission impossible”: di fronte allo stillicidio di acquisizioni straniere dei marchi di lusso made in Italy, Freda fece il giro di alcuni tra i più grandi imprenditori del settore provando a immaginare una grande alleanza che costituisse il polo italiano del lusso. Ma dovette scontrarsi con i tipici vizi italici: individualismi, personalismi, rivalità inconciliabili. Questo introduce l’ultimo ingrediente del successo americano che i nostri top manager incontrano arrivando qui. E’ quel “pensiero positivo”, spesso irriso o ridotto a una caricatura nel cinismo italico. Se lanci un’idea molto originale, radicalmente innovativa, a un tavolo di riunione dentro un’azienda o un’istituzione americana, la reazione prevalente tra gli altri seduti attorno al tavolo è una gara a migliorarla, a contribuire al suo successo. Lo stesso innovatore che lancia la sua proposta rivoluzionaria a un tavolo di italiani, diventa il tiro al bersaglio in una gara diversa: la corsa a chi trova difetti, per demolire il rivale potenziale e affondare la proposta troppo nuova.

La Repubblica 07.03.14

Lenzi (Pd): “Soddisfatti per ok a risoluzione, occorre attualizzare la 194”

“Siamo molto soddisfatti del lavoro svolto in Commissione che ha portato al voto di una equilibrata e completa relazione in merito alla 194. Il punto centrale sottolineato dal documento è quello di rendere attuale questa legge fondamentale, garantendone l’applicazione in tutte Regioni dove è necessaria una puntuale informazione, affinché le donne sappiano ovunque a chi rivolgersi”. Così Donata Lenzi, capogruppo Pd nella commissione Affari sociali della Camera.

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Relazione sullo stato di attuazione della legge n. 194 del 1978, concernente norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, contenente i dati preliminari dell’anno 2012 e i dati definitivi dell’anno 2011. Doc. XXXVII, n. 1.
RISOLUZIONE APPROVATA DALLA COMMISSIONE
   La XII Commissione Affari sociali,
   premesso che:
    ha proceduto, ai sensi dell’articolo 124 del regolamento, all’esame della Relazione sullo stato di attuazione delle norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria della gravidanza, contenente i dati preliminari dell’anno 2012 ed i dati definitivi dell’anno 2011, presentata ai sensi dell’articolo 16 della legge n. 194 del 1978;
    la predetta Relazione è stata oggetto di un ampio dibattito svoltosi presso la medesima Commissione a partire dall’11 febbraio 2014;
    i dati di riferimento (consuntivi 2011 e preventivi 2012) presentano comunque un limite di analisi dello stato reale a cui si aggiungono le difficoltà, rappresentate da molti referenti regionali, nel ricevere i dati dalle strutture dove vengono effettuate le IVG e la chiusura di alcuni servizi IVG, tanto che in alcune regioni (Abruzzo, Campania, Puglia, Sicilia e Sardegna) è stato necessario integrare le informazioni ottenute dal Sistema di sorveglianza con le schede di dimissioni ospedaliere (SDO);
   osservato nel merito della Relazione che:
    i dati forniti sono stati raccolti dal Sistema di sorveglianza epidemiologica delle IVG, attivato nel 1980, che vede impegnati l’Istituto superiore di sanità (ISS), il Ministero della salute e l’Istat da una parte, le regioni e le province autonome dall’altra;
    i dati più significativi sono costituiti da:
   il tasso di abortività (numero delle IVG per 1000 donne in età feconda tra 15-49 anni), che, con i valori più bassi tra i paesi industrializzati, nel 2012 è risultato pari a 7,8 per 1000, con un decremento dell’1,8 per cento rispetto al 2011 e un decremento del 54,7 per cento rispetto al 1982, anno in cui il tasso era del 17,2 per 1000; il tasso di abortività è diminuito in tutti i gruppi di età e che tra le minorenni nel 2011 è risultato pari a 4,5 per 1000, con livelli più elevati nell’Italia settentrionale e centrale; anche i dati relativi al ricorso all’IVG delle ragazze di età inferiore a 18 anni, pari a 3.008 nel 2011, e delle ragazze straniere, pari a 586, confermano il minore ricorso all’aborto tra le giovani in Italia rispetto a quanto registrato negli altri Paesi dell’Europa occidentale;
   il rapporto di abortività (numero delle IVG per 1000 nati vivi), che nel 2012 è risultato pari a 200,8 per 1000 – con un decremento del 2,5 per cento rispetto al 2011 e un decremento del 47,2 per cento rispetto al 1982, anno in cui il rapporto è stato del 380,2 per 1000- , e che un terzo del fenomeno è costituito da donne con cittadinanza estera;

  considerato che:
   nel 2009 il tasso di abortività per le italiane è risultato pari a 6,7 per 1000 per le donne di età 15-49 anni, a 11,5 per 1000 nelle cittadine di Paesi a sviluppo avanzato e a 23,8 per 1000 in quelle di Paesi a forte pressione migratoria (valore pari a 40,7 nel 2003), cosa che indica come, nonostante la diminuzione negli anni, quest’ultimo gruppo di donne ha ancora livelli di abortività molto più elevati delle italiane;
   con riferimento all’uso della RU486, secondo i dati forniti nella Relazione, questa metodica è stata usata nel 2010 in 3.836 casi (3,3 per cento del totale delle IVG) e in 7.432 casi nel 2011 (7,3 per cento del totale). La metodica non è stata utilizzata nel 2010 in Abruzzo e in Calabria, mentre nel 2011 nelle sole Marche. La sua diffusione è comunque percentualmente disomogenea considerando la popolazione delle varie regioni;
   le prescrizioni per l’utilizzo di questa metodica con limiti entro la settima settimana e l’indicazione di ricovero per 3 giorni possono risultare disincentivanti rispetto alla richiesta di tale opzione, che negli altri Paesi europei avviene con modalità di trattamento ambulatoriale o domiciliare. La relazione evidenzia come nel 76 per cento dei casi le donne hanno richiesto la dimissione volontaria dopo la somministrazione di Mifeprostone o prima della fase espulsiva. Nel 96 per cento dei casi non c’è stata nessuna complicazione immediata e la necessità di ricorrere all’intervento chirurgico si è presentata nel 5,3 per cento dei casi; per tali ragioni potrebbe essere utile acquisire una valutazione dell’AIFA e del Consiglio superiore di sanità;
   la quasi totalità degli interventi chirurgici, più precisamente il 90,3 per cento, avviene in day hospital e l’isterosuzione, in particolare con la metodica secondo Karman, rappresenta la tecnica più utilizzata (79,4 per cento), in quanto comporta rischi minori di complicanze per la salute della donna;
   la percentuale di aborti ripetuti riscontrata in Italia è tra le più basse a livello internazionale (19 per cento di IVG con almeno 1 aborto alle spalle e 8 per cento con almeno 2) ma ancora rilevante nella popolazione straniera;
   non appare giustificato, inoltre, il ricorso all’anestesia generale (82,1 per cento), così elevato da porsi in netto contrasto con le indicazioni formulate a livello internazionale che raccomandano invece il ricorso all’anestesia locale per minori rischi per la salute della donna, questione sulla quale si evidenzia la necessità di procedere ad ulteriori verifiche;
   in relazione ai tempi di attesa tra rilascio della certificazione e intervento (indicatore di efficienza dei servizi) la percentuale di IVG effettuate entro 14 giorni dal rilascio del documento è leggermente aumentata rispetto a quella riscontrata nel 2010 ed è diminuita la percentuale di IVG effettuate oltre 3 settimane, persistendo tuttavia una non trascurabile variabilità tra regioni;
   la relazione sottolinea che la diffusione dell’approccio farmacologico del Mifepristone e prostaglandine (RU486) potrebbe aver determinato l’aumento della percentuale di interventi effettuati entro le 8 settimane di gestazione;
   dalla Relazione non emergono dati riguardanti i tempi di attesa per la certificazione;
   la percentuale degli obiettori di coscienza, specie fra i ginecologi, mantiene livelli elevati, più di due su tre, passando dal 58,7 per cento del 2005 al 71,5 per cento del 2008, per ridiscendere al 70,7 per cento nel 2009 e al 69,3 per cento nel 2010 e nel 2011;
   percentuali superiori all’80 per cento tra i ginecologi sono presenti principalmente al sud, con punte che toccano l’88,4 per cento in Campania e in Molise;
   l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza ha riguardato elevate percentuali di ginecologi fin dall’inizio dell’applicazione della legge n. 194, con un aumento percentuale del 17,3 per cento in trenta anni, a fronte di un dimezzamento delle IVG nello stesso periodo;
   secondo la relazione i numeri complessivi del personale non obiettore sono considerati comunque congrui rispetto al numero complessivo degli interventi di IVG e che eventuali difficoltà nell’accesso ai percorsi IVG sembrano quindi dovute a una distribuzione inadeguata del personale fra le strutture sanitarie all’interno di ciascuna regione;
   risulta necessaria una verifica considerando che i dati relativi al numero dei non obiettori potrebbero risultare sovrastimati rispetto alla realtà, poiché, non essendo obbligatorio comunicare all’azienda sanitaria di competenza la scelta di obiezione di coscienza, potrebbero essere considerati non obiettori tutti i ginecologi che non hanno mai espresso obiezione semplicemente in quanto la loro attività istituzionale non prevede la pratica delle IVG; va considerato che nel 2011 il carico di lavoro è di 1,7 IVG a settimana;
   proprio allo scopo di avviare un monitoraggio relativo alle singole strutture ospedaliere e ai consultori e di individuare eventuali criticità nell’applicazione della legge, con particolare riferimento all’aspetto riguardante l’obiezione di coscienza, è stato attivato nel 2013, presso il Ministero della salute, un «Tavolo tecnico» a cui sono stati invitati gli assessori regionali;
   una prima proposta di scheda per la raccolta dati è già stata inviata ai referenti regionali e che i risultati di tale monitoraggio saranno presentati nella prossima Relazione al Parlamento;
   la Relazione è sicuramente carente per quanto riguarda la quantificazione degli aborti clandestini nel nostro Paese;
   con riferimento ai consultori familiari, dalla Relazione si evince chiaramente come negli ultimi anni si sia assistito ad un progressivo decremento dei consultori familiari pubblici, che avrebbero dovuto, invece, essere l’asse portante degli interventi preventivi nell’ambito dell’aborto volontario;
   nel 2011 il rapporto tra consultori familiari pubblici e abitanti è pari allo 0,7 per 20.000 abitanti (come nel 2006-2010), valore inferiore a quanto previsto dalla legge n. 34 del 1996, di conversione in legge del decreto-legge 1 dicembre 1995, n. 509, recante «Disposizioni urgenti in materia di strutture e di spese del Servizio sanitario nazionale», pari a 1 ogni 20.000 abitanti e per altro distribuiti in modo disorganico sul territorio nazionale;
   il ricorso al consultorio familiare è basso anche per la documentazione/certificazione (40,7 per cento nel 2011), specialmente al Sud e nelle Isole, anche se in aumento principalmente per il maggior ricorso ad esso da parte delle donne straniere (vi ricorre il 54,2 per cento rispetto al 33,9 per cento delle italiane);
   risulta, dunque, confermata la necessità di una maggiore valorizzazione dei consultori familiari quali servizi primari di prevenzione del fenomeno abortivo e di una effettiva loro integrazione con i centri in cui si effettua l’IVG;
   considerati positivamente i risultati raggiunti dopo oltre trent’anni dall’approvazione della legge n. 194 come strumento per la riduzione e il controllo del ricorso dell’IVG;

impegna il Governo:

   nell’attesa dei risultati del citato «Tavolo tecnico» avviato dal Ministero della salute con gli assessori regionali per il monitoraggio sullo stato di attuazione delle norme per la tutela della maternità e per l’IVG, a riferire alle Commissioni parlamentari competenti sulle iniziative adottate dal Ministero medesimo in attuazione degli impegni assunti l’11 giugno 2013 alla Camera e contenuti nelle mozioni approvate, ed a predisporre, nei limiti delle proprie competenze, tutte le inizitive necessarie affinchè nell’organizzazione dei sistemi sanitari regionali si attui il quarto comma dell’articolo 9 della legge n. 194 del 1978, nella parte in cui si prevede l’obbligo di controllare e garantire l’attuazione del diritto della donna alla scelta libera e consapevole anche attraverso una diversa mobilità del personale, garantendo la presenza di un’adeguata rete dei servizi sul territorio in ogni regione;
   a fornire informazioni e a riferire alle Commissioni parlamentari competenti in ordine allo stato di attuazione dell’Accordo Stato-regioni del 16 dicembre 2010 «Linee di indirizzo per la promozione ed il miglioramento della qualità, dell’assistenza e dell’appropriatezza degli interventi assistenziali nel percorso nascita e per la riduzione del taglio cesareo»;
   a porre in essere tutte le azioni necessarie per un monitoraggio più puntuale, aggiornato, analitico e coerente rispetto alle criticità indicate in premessa;
   a sensibilizzare le regioni affinché siano promosse, dalle istituzioni scolastiche in collaborazione con le associazioni dei genitori e con i consultori territoriali, attività di informazione ed educazione alla salute sessuale e riproduttiva, all’affettività, alla maternità e paternità consapevole;
   per quanto riguarda l’aspetto della tutela sociale della maternità, a dare piena attuazione agli articoli 2 e 5 della legge n. 194 del 1978, nel rispetto della titolarità decisionale della donna;
   a prevedere che le Regioni debbano rendere noto, usando tutti gli strumenti informativi necessari compresi i siti istituzionali, il percorso di accesso al servizio da parte dell’utente e i presidi ospedalieri nei quali viene effettuata l’IVG, determinando un bacino di utenza ragionevole;
   ad assumere iniziative per valorizzare e ridare piena centralità ai consultori familiari, istituiti ai sensi della legge n. 405 del 1975, a promuoverne un’equa diffusione sul territorio nazionale e a favorirne l’integrazione con le strutture ospedaliere, rappresentando il consultorio uno strumento essenziale per le politiche di prevenzione e promozione della maternità e della paternità libera e consapevole;
   ad attivarsi affinché su tutto il territorio nazionale l’interruzione di gravidanza farmacologica sia garantita omogeneamente, nell’appropriatezza clinica;
   ad estendere a tutto il territorio nazionale il progetto coordinato dalla regione Toscana, in accordo con altre 10 regioni, riguardante la prevenzione delle IVG tra le donne straniere, promosso in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità e l’Università degli studi La Sapienza;
   a valorizzare la visita post-IVG, da effettuarsi preferibilmente presso il consultorio nella sua funzione di counselling per la procreazione responsabile ed a prevenzione degli aborti ripetuti.
(8-00038)
«Carnevali, Lenzi, Cecconi, Rondini, Fucci, Monchiero, Binetti, Casati, Roccella, Paola Bragantini, Lorefice, Piccione, Patriarca, Iori, Baroni, Capone, Miotto, Mantero, Amato, Sbrollini, Scuvera, Vargiu».

Ue, ecco le mosse del governo «Nessuna manovra, solo crescita», da unita.it

Nessuna manovra correttiva: all’indomani dell’avvertimento della Commissione europea, che ha rilevato «eccessivi squilibri» nella situazione economica italiana, fonti di governo riferiscono che Matteo Renzi starebbe puntando tutto su misure economiche che permetterebbero di evitare una sanzione europea ad aprile. Le misure in questione sono quelle al quale l’esecutivo lavora da settimane e che il presidente del Consiglio presenterà mercoledì. Si parte dalla riforma del mercato del lavoro, passando per il piano di edilizia scolastica fino ad arrivare allo sblocco dei debiti della Pubblica Amministrazione. La
priorità è tornare a far crescere il prodotto interno lordo. «Non ci sembra sia nell’aria una nuova manovra», hanno inoltre confermato fonti del Pd.

Certo, le parole del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, voluto dal presidente della Repubblica proprio per rassicurare i mercati e le istituzioni europee, sono state ieri sera molto distensive: «Il monito è severo ma è anche in linea con quello che pensiamo noi», ha replicato il ministro alle critiche piovute ieri sull’Italia da Bruxelles. La Commissione Ue, aggiunge il titolare di Via XX Settembre, «mette in evidenza problemi strutturali che conosciamo da tempo, ci incita a far ripartire la crescita e l’occupazione e in questo modo correggere gli squilibri».

«Il governo ha una strategia ambiziosa di crescita, riforme e risanamento della finanza pubblica in un arco di tempo di medio termine e ci accingiamo a vararla e poi a implementarla». Padoan riconosce nelle parole dure della Ue le stesse che usava lui quando era all’Ocse. «Non nego che più o meno sono le stesse cose», ammette. «Non siamo soli – dice il ministro a chi gli ricorda che Bruxelles ha ammonito anche Francia e Germania – ma il mal comune non è mezzo gaudio. Dobbiamo tutti avviare politiche che rilancino la crescita e l’occupazione. Questa sicuramente è l’intenzione del governo italiano, in modo che andando in Europa come presidenti del prossimo semestre possiamo auspicabilmente rilanciare la crescita in tutto il continente e non solo da noi».

Per il governo, comunque, la sanzione da parte di Bruxelles può essere evitata. Appare, infatti, ottimista il portavoce della segretaria Pd, Lorenzo Guerini, che, arrivando al Nazareno stamattina per la riunione della Direzione Pd, convocata da Renzi alle 7.30, ha spiegato: «Ci sono le condizioni per rilanciare la crescita e i consumi». Per quanto riguarda, poi, la manovra varata dal governo Letta – anch’essa finita nel mirino di Bruxelles, Guerini ha aggiunto: «Non facciamo polemiche, in questo momento dobbiamo essere molto seri», e passa ad elencare i temi su cui il governo cercherà di fare leva per raggiungere i propri obiettivi: «Riforma del lavoro, sblocco dei debiti della Pubblica Amministrazione e un quadro di cambiamenti in linea con quello chiesto dall’Europa, ma che rappresenta veramente una necessità italiana».

Quella della Commissione europea, certo, è stata una bocciatura severa. Secondo il rapporto di Bruxelles, l’Italia è un paese con «squilibri macro-economici eccessivi». In pratica una vera e propria retrocessione da Paese con semplici squilibri macroeconomici a paese con squilibri eccessivi. Solo Croazia e Slovenia sono considerati, insieme all’Italia, Paesi con squilibri eccessivi, mentre la Spagna torna a far parte del club dei virtuosi. Da precisare che Grecia, Portogallo, Cipro e Romania, in quanto paesi sotto programma di aiuti, non sono stati presi in considerazione nell’analisi.

Tra i motivi della retrocessione, la limitata produttività del lavoro, ritenuta una delle cause principali dell’alto debito pubblico e la scarsa competitività. «L’Italia deve correggere l’alto livello di debito pubblico e la debole competitività», si legge nella nota dell’Esecutivo Ue con le raccomandazioni all’Italia. «Entrambi derivano in ultima istanza dalla perdurante lenta crescita della produttività e richiedono urgenti interventi», continua la nota. Per porre il debito pubblico in un percorso di regolare riduzione, l’Italia ha bisogno di «surplus primari molto alti, e al di sopra dei livelli storici», e «di una crescita robusta del Pil per un periodo prolungato». Bruxelles riconosce che raggiungere questi obiettivi «sarà una sfida molto difficile» per l’Italia. E non finisce qui. Secondo la Ue, nonostante nel 2013 l’Italia «abbia fatto progressi verso il raggiungimento dell’obiettivo di bilancio di medio termine», la manovra strutturale 2014 «in base alle stime correnti, appare insufficiente» per «ridurre l’elevato debito pubblico a un tasso adeguato».

Per la Commissione quindi l’Italia deve correggere gli squilibri anche «per ridurre il rischio di effetti negativi sull’economia dell’Eurozona». Deciso, inoltre, un monitoraggio specifico delle politiche raccomandate all’Italia. Il commissario Ue all’Economia, Olli Rehn, «incoraggia il nuovo governo italiano a portare avanti urgentemente le riforme per rafforzare la crescita e la creazione di posti di lavoro».

Immediata la risposta del Capo dello Stato. Secondo Giorgio Napolitano la crescita e l’equilibrio dei conti pubblici sono compatibili e una politica in questo senso è indispensabile per ricreare fiducia nell’Europa. «Una nuova stagione di crescita economica sostenibile e compatibile con l’equilibrio dei conti pubblici è indispensabile per ricreare fiducia – ha affermato – ma deve essere accompagnata da nuovi sviluppi istituzionali e politici nel senso di una maggiore integrazione e di una piu» netta legittimazione democratica dell’Unione«.

Napolitano ha proseguito spiegando che »l’impegno della presidenza italiana della Ue sarà volto anzitutto ad individuare una risposta comune, in termini di crescita mirata all’occupazione specialmente giovanile, alla crisi che attanaglia l’economia europea dal 2008 e che costituisce la causa piu« immediatamente riconoscibile del difficile momento attraversato dall’Europa».

Secondo il premier Matteo Renzi si tratta di «numeri molto duri. Spero che sia chiaro perchè dobbiamo cambiare verso». Sulla stessa linea anche il ministro dell’Economia . «La Commissione, ha detto, «mette in evidenza problemi strutturali che conosciamo da tempo, ci incita a far ripartire la crescita e l’occupazione e in questo modo correggere gli squilibri».

L’Unità 06.03.14

"Perché serve il reato di autoriciclaggio", di Angelo De Mattia

Il decreto legge per il rientro dei capitali illegittimamente esportati, del quale è in corso la conversione, non contiene, come in un primo momento era stato indicato, la previsione del reato di autoriciclaggio riguardante l’autonoma configurazione dell’illecito compiuto da chi impiega i proventi derivanti dalla commissione di un reato, insomma l’autoreimpiego del denaro conseguito con un illecito. Ancorché sia impossibile parlare di un condono vero e proprio, innanzitutto perché il rientro dei capitali deve avvenire non in forma anonima, bensì nominativa, la voluntary disclosure, e previo pagamento di tutte le tasse evase nonché di determinate sanzioni pecuniarie scontate, la mancanza nella relativa normativa dell’introduzione del reato in questione è stata vista da qualcuno come una tenaglia che nasce monca. E si sono accentuate le critiche di coloro che hanno parlato di nuova sanatoria, dopo lo scudo fiscale di tremontiana fattura. Si fa ora l’ipotesi che l’introduzione della descritta fattispecie possa avvenire nell’ambito del «decreto sicurezza».
Negli ultimi approfondimenti dalla proposta sarebbe stato espunto l’autoreimpiego del denaro ottenuto con evasione fiscale, con un approccio che è stato definito soft dal momento che una diversa scelta avrebbe avuto «effetti deflagranti sul sistema del nero di imprese e professionisti», secondo quanto ha detto il procuratore aggiunto di Milano, Francesco Greco, presidente della Commissione ministeriale che ha elaborato il progetto concernente tale ipotesi delittuosa. Piuttosto che pensare ad altri veicoli legislativi, sarebbe, invece, opportuno valutare se cogliere la fase della riconversione del predetto decreto per introdurvi la nuova previsione, prima ancora che lo sviluppo delle discussioni arrivi a depotenziarne ulteriormente la struttura e i contenuti.
Il recente gravissimo episodio della “banca delle ‘ndrine” di Desio, smascherata da una importante operazione della Dda milanese e della polizia, rafforza l’esigenza dell’introduzione del reato di autoriciclaggio. Il gip, Simone Luerti, che ha autorizzato l’arresto di 34 persone, ha messo in evidenza come tutti i reati commessi da costoro erano finalizzati al riciclaggio, mentre il procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, nel sottolineare il ruolo avuto dalle operazioni svolte agli sportelli postali presso i quali l’associazione a delinquere di stampo mafioso si provvedeva di ingenti somme, ha osservato come sia urgente un intervento del legislatore, considerata la trasformazione che Poste ha subìto in una sorta di banca. Questa vicenda suona un campanello di allarme che dovrebbe indurre a rivedere l’intera normativa di prevenzione e di contrasto del riciclaggio di danaro sporco: si deve arricchire di uno strumento fondamentale come la sanzionabilità dell’autoreimpiego di danaro che recherebbe con sé anche un significativo effetto di annuncio, ma ciò non basta. Intanto, all’esigenza più volte rappresentata, pure su queste colonne e in occasione del lancio della privatizzazione, di un chiarimento sulla missione di Poste e Bancoposta stante l’evoluzione dei compiti che ha proiettato questa Spa pubblica in attività bancarie, finanziarie e assicurative, mentre è passata in secondo piano l’operatività nei recapiti, si aggiunge la necessità giustamente prospettata dal procuratore aggiunto Boccassini di rafforzare l’azione di contrasto di attività illecite, il cui compimento, da parte di terzi, potrebbe trovare anche nelle conseguenze di un mandato non ben definito per la Spa il varco per strumentalizzarne, pure nell’inconsapevolezza dei dipendenti, l’operatività per finalità illegittime.
Ma poi, è l’intera materia dell’antiriciclaggio che andrebbe sottoposta a riflessione. Resta un perno la segnalazione delle operazioni sospette da parte delle banche e degli altri intermediari che vi sono tenuti, insieme con gli obblighi di identificazione e registrazione di tutte le operazioni eccedenti il limite di legge. Tuttavia, da un lato occorrerebbe sapere di più delle decine di migliaia di segnalazioni che vengono effettuate annualmente agli organi competenti e, dall’altro, chiedersi se proprio nella mole delle segnalazioni non si nasconda il virus della ininfluenza che, nell’affermativa, dovrebbe indurre a progettare misure integrative e selezioni delle segnalazioni stesse, alcune delle quali possono essere effettuate solo per il classico intento di discarico di responsabilità senza che esistano minimi elementi a fondamento. Sul versante della collaborazione attiva del sistema bancario e finanziario si può fare di più, sempre sulla base del principio che enunciò l’allora Governatore Carlo Azeglio Ciampi secondo il quale la dotazione di strutture organizzative e di procedure da parte degli intermediari per collaborare all’azione di prevenzione e di contrasto di questi illeciti deve essere intesa come investimento per la stabilità dell’intermediario, per poter competere in reputazione. Una convention per mettere a punto una rivisitazione, a distanza di oltre venti anni dalla prima normativa antiriciclaggio, che veda tutte le parti interessate, sarebbe importante. In altri momenti della storia recente in questo campo sono stati compiuti significativi progressi, a partire alla progettazione e dalle iniziative pionieristiche dell’allora Ufficio italiano dei Cambi. Ora ci si può basare anche sull’estesa collaborazione internazionale per combattere, non isolati, una battaglia che richiede una estesa interdisciplinarità.

L’Unità 06.03.14

"Gli ultimi ultras dell’austerity", di Paolo Soldini

Perchè proprio ora e perchè con tanta forza? La Commissione europea ha messo l’Italia sul banco degli accusati proprio nel momento in cui, si poteva sperare, avrebbe potuto anche decidere di aspettare e vedere che cosa verrà fuori dal cilindro del nuovo governo in fatto di misure per la crescita. E lo ha fatto mettendoci in una compagnia non proprio commendevole: insieme con un Paese in difficoltà serissime come la Slovenia e con uno, come la Croazia, in fase di assestamento dopo la recentissima adesione alla Ue.

E nello stesso rapporto, c’è da aggiungere (e non è per niente irrilevante), in cui vengono invece molto stemperate le critiche al Paese che in fatto di competitività sta al polo opposto al nostro: la Germania. Qualche tempo fa pareva che la Commissione avesse quasi dichiarato guerra all’esuberanza dell’export tedesco, accusato di aggravare scientemente il gap esaltando lo squilibrio con i partner. Ora invece la critica resta, ma molto smussata, e soprattutto non più accompagnata da minacce di sanzioni. Ed è chiaro che l’ammorbidimento verso lo squilibrio indotto da Berlino rende ancora più evidente e «colpevole» quello provocato da Roma.

Certo, al perché proprio ora si potrebbe dare una risposta piuttosto banale: il rapporto era pronto, circolavano già indiscrezioni, e sarebbe stato complicato accedere alla richiesta, che probabilmente è venuta (almeno informalmente) da Roma, di rinviarne la pubblicazione a dopo il Consiglio dei ministri che, si ritiene, metterà nero su bianco la strategia del governo in fatto di creazione di lavoro e abbassamento del suo costo. Può darsi che sia così, ma resta il fatto che il tono è comunque piuttosto intimativo. Non che ci siano novità sconvolgenti, giacché il campo delle richieste che Bruxelles rivolge all’Italia è sostanzialmente sempre lo stesso fin dai tempi della celeberrima lettera di Trichet e Draghi al moribondo governo Berlusconi, ma, insomma, un po’ più di implicita concessione di credito a Renzi & com- pany a poche settimane dal suo insediamento ce la si poteva aspettare. Tanto più che nei giorni scorsi non debbono essere mancati a Bruxelles segnali dall’Italia sul fatto che a Ro-

ma si sta lavorando proprio sui dossier evocati dal rapporto e ribaditi ieri da Olli Rehn: la riforma del mercato dell’occupazione e la riduzione delle tasse sul lavoro con il già annunciato intervento per ridurre il cuneo fiscale.

Qual è il problema, allora? Forse il ministro Padoan ha preso tempo e non ha risposto alle richiste di chiarimenti sulle intenzioni del suo governo? Forse i dettagli delle misure italiane che sono stati anticipati a Bruxelles non sono stati apprezzati o non vengono giudicati sufficienti? Forse la Commissione, che si sente già vicina alla fine del proprio mandato, ha voluto semplicemente marcare una posizione a futura memoria? Forse si è trattato di un avvertimento a mettersi più seriamente al lavoro per la preparazione della presidenza italiana? Poiché nessuno lo preciserà mai, ogni illazione è possibile. L’unica cosa certa è l’esperienza del passato e l’esperienza dice che qualche motivo per non fidarsi dei «faremo» italiani a Bruxelles lo hanno. In particolare ce l’ha il commissario agli Affari economici, il quale si sarebbe legato al dito lo sgarbo del precedente governo italiano che mentre lui, in buona compagnia con il Fmi e l’Ocse, invitava l’Italia a concentrare gli sforzi sulla detassazione del lavoro si vi- de rispondere con l’abolizione dell’Imu (e tutti i pasticci che ne sono derivati).

Comunque stiano le cose, è chiaro che la collocazione dell’Italia tra i reprobi rende ancora più tenui le speranze di poter aprire nei prossimi mesi una discussione sul tetto del 3% e sui criteri di computo del deficit. E, per tornare al capitolo delle ipotesi, anche questa potrebbe essere una spiegazione: una cannonata di avvertimento per segnalare come il discorso sia bell’e chiuso. Almeno con questa Commissione, perché con la prossima (specie se il presidente dovesse essere il socialista Schulz) si aprirebbero forse altre prospettive. Magari già avviate nel Consiglio europeo di ottobre in cui, con l’esecutivo attuale ancora in carica ma sapendo già chi gli elettori europei avranno scelto per guidare il prossimo, si dovrebbero discutere i «partenariati per la crescita», ovvero le eventuali sistemazioni dei deficit e dei rientri alla luce delle riforme avviate dai vari Paesi.

Insomma, la reprimenda all’Italia potrebbe essere nella chiave della sorda lotta che si sta giocando sui tavoli europei tra chi pensa sia arrivato il momento di concentrarsi su crescita e investimenti e chi resta ancorato alla religione dell’austerità.

L’Unità 06.03.15

"Rapporto Ue, la violenza colpisce una donna su tre" di Sonia Renzini

Picchiate, minacciate, offese e violentate. In Europa non esistono isole felici per le donne e la parità dei sessi è un mito da sfatare a ogni latitudine. Una donna su tre nell’Unione Europea ha subito abusi fisici o psichici dall’età di 15 anni, percentuale che tradotta in numeri corrisponde a qualcosa come 62 milioni di cittadine europee. A sorpresa, il tasso di violenza si impenna a latitudini insospettabili, non nel profondo Sud come ci aspetteremmo, ma nel lontano Nord dove le donne hanno raggiunto da tempo un alto livello di occupazione: Danimarca (52% di abusi subiti), Finlandia (47%) e Svezia (46%). L’Olanda è al quarto posto con il 45%, seguita da Francia e Gran Bretagna, entrambe al 44%. L’Italia, dove pure le donne che lavorano sono a livelli imbarazzanti, si colloca con il 27% nel settore medio-basso della classifica delle violenze, ma non c’è da esultare.
Secondo gli esperti esiste un diverso livello di consapevolezza di quel che costituisce un abuso a seconda dei diversi Paesi e le italiane sono al terzo posto, in compagnia delle inglesi, a pensare che la violenza sia comune nel loro Paese. La fotografia impietosa è stata scattata dall’Agenzia europea per i diritti fondamentali (Fra) al termine di un’imponente indagine: intervistate 42mila donne di età compresa tra i 18 e 74 anni, 1550 per ognuno dei 28 stati membri.
POCA PREVENZIONE. Il risultato non lascia margini a facili ottimismi: al lavoro, in casa, in pubblico, perfino online, insomma in ogni sfera della loro vita le donne, vedono quotidianamente calpestati i loro diritti. In particolare, il 18% ha dichiarato di essere stata vittima di stalking dall’età di 15 anni, il 55% di essere stata molestata, spesso nei luoghi di lavoro, l’11% di avere ricevuto avance inappropriate su web.
Una donna su 10 ha subito una qualche forma di violenza da un adulto prima dei 15 anni, il 5% è stata vittima di stupro. Nel 22 per cento dei casi è stato il partner l’autore della violenza, spesso causata dal troppo alcol. Ma solo il 14 per cento ha denunciato alla polizia la violenza subita in casa, il 13% nel caso di abusi subiti da altri.
Fatti i dovuti conti questo significa che il 67% delle donne non ha mai sporto denuncia ed è un dato clamoroso. «Ciò che emerge è una situazione di abusi molto estesa che danneggia le vite di molte donne, ma è sistematicamente poco denunciata alle autorità», conferma il direttore dell’Agenzia, Morten Kjaerum.
E qui si arriva al nodo centrale della questione, quello che spiega la predominanza nella classifica nera delle violenze dalle donne di Paesi tradizionalmente ritenuti più rispettosi dei diritti femminili come quelli scandinavi a dispetto di altri come l’Italia dove le cronache ci regalano casi di femminicidio ogni pochi giorni. La responsabile del network di assistenza alle donne Roks a Stoccolma, ha detto che il dato della Svezia è dovuto al fatto che lì le donne sono molto più attente ai loro diritti legali e sanno come farsi aiutare. Ma nel complesso le donne vittime di abusi sono isolate e questo significa per lo più impotenza. Il 19 per cento delle intervistate sostiene che non saprebbe dove cercare aiuto in caso aggressione sessuale o fisica. Mentre gli effetti della violenza fisica e sessuale «possono essere duraturi e sedimentarsi pesantemente ». Dalla ricerca emerge che «oltre un quinto delle vittime di violenza sessuale ha avuto attacchi di panico, più di un terzo si è depressa e la metà ha avuto successivamente difficoltà nelle relazioni ». Urge che la politica introduca al più presto misure di prevenzione alla violenza contro le donne e in particolare si cominci a trattare la violenza domestica come una questione di interesse pubblico. Tra le prime cose da fare, secondo la Fra, è la ratifica della convenzione del Consiglio d’Europa. È la cosiddetta Convenzione di Istanbul che definisce la violenza contro le donne come una violazione dei diritti umani e stabilisce l’obbligo legale di agire contro il problema e perseguire gli aggressori. Anche se il documento è pronto dal 2011, solo tre paesi finora (Italia, Austria e Portogallo) lo hanno ratificato. Sarebbe un primo passo, altri riguardano un approccio che si concentri sulle vittime e sui loro diritti e una vigilanza attenta sul linguaggio usato nei mezzi di comunicazioni o nelle reti sociali.

L’Unità 06.03.14