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"La strada obbligata dell’ultimo azzardo", di Claudio Tito

A questo punto i passi indietro non sono più consentiti. La soluzione adottata ieri per la riforma elettorale segna infatti una strada obbligata. Che per Matteo Renzi prevede due soli esiti: il successo con l’abolizione del Senato o il fallimento. Si tratta di una nuova scommessa in cui si vince o si perde tutto. on c’è dubbio che l’intesa raggiunta ieri in extremis con Silvio Berlusconi presenti degli aspetti di indeterminatezza e di confusione istituzionale consistenti. Si cambia il sistema per l’elezione dei deputati con l’introduzione del ballottaggio al secondo turno. Ci sarà insomma un vincitore certo. A urne chiuse, gli elettori sapranno chi governerà e chi starà all’opposizione. Si supera il vizio italico della indefinitezza post-elettorale. Soprattutto si annienta il rischio di ripresentare al Paese un governo di larghe intese come accaduto in questa legislatura. Nello stesso tempo, però, si lascia inalterata la legge elettorale del Senato. Resta quella modificata a dicembre scorso dalla Corte costituzionale. Una proporzionale pura corretta solo dalla soglia di sbarramento. I vantaggi della prima legge sono totalmente neutralizzati dalla seconda. Due sistemi chiaramente incompatibili. E che possono trovare una composizione solo ad una condizione: se si cancella l’aula di palazzo Madama. Se si instaura finalmente un modello monocamerale.
Ed è questa la scommessa che ieri il premier ha accettato. Riuscire in questa impresa prima che si torni al voto. Si gioca tutto anche questa volta. È come se dicesse al suo partito — non pienamente convinto della strada imboccata — e anche agli alleati: «Se non ce la faccio, vado a casa».
Un azzardo, però, che viene mitigato dalla constatazione che in assenza di un accordo — seppure confuso — tutto sarebbe saltato. Non tra qualche mese ma immediatamente. Renzi ottiene nella sostanza la possibilità di andare avanti, di provarci. Senza la riformulazione del patto con il Cavaliere, sarebbe invece sprofondato in una palude. Il perno su cui ha costruito la “staffetta” con Enrico Letta, sarebbe stato distrutto dopo solo una settimana di lavoro a Palazzo Chigi. E ottiene questa sorta di rinnovata linea di credito imponendo a Berlusconi una soluzione che lo stato maggiore di Forza Italia non apprezza.
Certo il leader democratico sa di dover pagare in cambio dei prezzi politici. L’idea della “doppia maggioranza”, una per il governo e l’altra per le riforme, da ieri è nella sostanza evaporata. Si sono, per così dire, sovrapposte. Agli alleati “governativi” concede una sorta di golden share.
Alfano può elevare il livello delle sue richieste nella certezza che da qui all’abolizione del Senato non si può riportare il Paese alle urne. L’arma nelle mani del premier, quella di sciogliere il Parlamento e rivotare, si è improvvisamente scaricata. Anzi, adesso è il premier a esporsi ai ricatti. Anche all’interno del suo partito, dove molti sono pronti a fargli pagare il blitz contro Letta e dove quasi tutti adesso credono di poter fare la voce grossa sugli emendamenti da presentare all’Italicum nella speranza adesso di poterlo piegare. Questo potrebbe avere conseguenze anche sul resto del programma di governo. A cominciare dalla politica economica.
La stessa fiche può essere giocata anche dal leader forzista. Una volta scontata la condanna per il processo Mediaset, all’inizio del 2015 può rimettere in discussione il patto puntando proprio sulla legge elettorale. Senza la “grande riforma” infatti il sistema di voto mostrerà inesorabilmente tutti i suoi limiti e il suo carattere di “ibrido”. È vero che già i costituenti del 1948 avevano voluto differenziare la natura delle due Camere (solo nel 1963 venne equiparata la loro durata, fino a quel momento la legislatura senatoriale era di sei anni) e Costantino Mortati precisava nei lavori dell’Assemblea che proprio il «metodo delle elezioni» doveva essere uno degli elementi di distinzione tra Montecitorio e Palazzo Madama. Ma in questo caso emerge non un elemento di distinzione ma di contrapposizione: i due sistemi si qualificano naturalmente come opposti. Ed è chiaro che con il proporzionale puro nessuno avrebbe la maggioranza al Senato e l’esito finale sarebbe scontato: la riedizione delle larghe intese.
Il presidente del Consiglio a questo punto non ha alternative. Il suo è un volo senza paracadute. Non può fare altro che accelerare e puntare tutto sulla “revisione storica” della Costituzione. Ma probabilmente dovrà modificare la sua tattica. Sarà costretto a cambiare pelle e sostituire la politica del “tutto e subito” con quella di “un passo alla volta”. Forse dovrà fare suo quel che diceva il generale cinese Sun Tzu: «Chi è prudente ed aspetta con pazienza, sarà vittorioso». La sua strategia, del resto, a questo punto può richiedere molto più tempo del previsto. Abolendo il bicameralismo perfetto, sarà necessario correggere molte parti della Costituzione e diverse leggi ordinarie. Complicato realizzare tutto in un solo anno. Molti puntano alla scorciatoia della urne e per Berlusconi sarà ancora più complicato aspettare che il tempo passi inesorabilmente. «Ma il mio obiettivo — ripete il premier — è arrivare ad una riforma storica ». Che ora è diventata anche
una strada obbligata.

La Repubblica 05.03.14

"Decreto ripristino scatti: la Commissione approva e lo invia all'aula", di R.P.

Brusca accelerata sulla conversione in legge del decreto n. 3 in materia di automatismi stipendiali del personale della scuola. Fino a ieri pareva che la Commissione Cultura avrebbe impiegato ancora un paio di giorni per chiudere i lavori e inviare il testo emendato all’aula e invece nella mattina di martedì 4 c’è stata la svolta: la maggioranza ha trovato un accordo e il provvedimento è stato approvato, con una piccola sorpresa (positiva) per il personale Ata.
Il decreto interviene sulla questione del blocco degli scatti stipendiali per i dipendenti pubblici negli anni 2010, 2011 e 2012, disposto dal decreto n. 78 del 2010, prorogato però di un ulteriore anno con il DPR 122 del 4 settembre 2013.
In Commissione Cultura è stato più volte sottolineato che quest’ultimo decreto risulta particolarmente iniquo per il personale della scuola al quale, a causa dell’ effetto retroattivo delle norme in esso contenute, il MEF ha intimato di restituire gli scatti percepiti legittimamente nel corso dell’anno 2013.
Nel pomeriggio di martedì il provvedimento è arrivato in aula dove è stato presentato dalla senatrice del PD Francesca Puglisi.
In base all’articolo 1 del provvedimento in esame le che percepite non devono essere restituite, ma vanno a compensazione di quanto sarà recuperato per gli scatti 2012 a conclusione della sessione negoziale. La copertura sarà trovata anzitutto dai residui del Fondo relativo al 30 per cento dei risparmi derivanti dal Piano programmatico varato da Tremonti e Gelmini nel 2008; laddove tale fondo non sia sufficiente le risorse saranno sottratte ai 463 milioni di euro accantonati dal Fondo per il miglioramento dell’offerta formativa nell’anno scolastico 2013-2014.
La Commissione istruzione ha approvato anche un emendamento che riguarda le somme percepite dal personale ATA destinatario delle cosiddette posizioni economiche. Il personale non dovrà restituire quanto percepito finora; la copertura (17milioni di euro) arriverà dal taglio del fondo per l’autonomia della legge 440/97 confluito da qualche anno nel fondo per il funzionamento amministrativo e didattico delle scuole. Nella mattinata del 5 marzo il decreto proseguirà il suo percorso in aula che potrebbe votarlo già nella stessa giornata.

Da La Tecnica della Scuola 05.03.14

"Il buon senso nel cestino", di Michele Ainis

Nel 1978 la legge Basaglia ha chiuso i manicomi. Riapriteli di corsa: c’è un matto pericoloso da internare. È il legislatore schizofrenico, l’essere che comprende in sé il non essere, la volontà che vuole e disvuole. In passato ne avevamo avuto già il sospetto, dinanzi a certe leggi strampalate, a certe norme subnormali. Adesso c’è un certificato medico, la prova che il seme della follia ha ormai attecchito nelle meningi dei nostri parlamentari. Come? Con un doppio emendamento alla legge elettorale, da quest’oggi all’esame della Camera.
Proviamo allora a raccontarla, questa «Storia della follia» che meriterebbe la penna di Foucault. Tutto comincia con l’accordo Renzi-Berlusconi sul doppio turno eventuale: se superi un determinato tetto incassi il premio di maggioranza, altrimenti ballottaggio fra le due coalizioni più votate. È l’Italicum, ed è un sistema — almeno sulla carta — ragionevole. Perché taglia le unghie ai piccoli partiti, contemplando una soglia minima per guadagnare seggi. E perché lega la governabilità al consenso (implicito o esplicito) degli stessi governati.
Sennonché il diavolo s’annida nei dettagli. In questo caso i dettagli sono numeri, e numeri impazziti. Un premio troppo basso (52% con il 37% dei suffragi), che lascia l’esecutivo in balia di 6 deputati. Tre soglie diverse (12%, 8%, 4,5%) per le coalizioni, per le liste coalizzate, per i partiti che corrono da soli. Deroghe per le minoranze linguistiche, deroghe per la Lega Nord, però nessuna deroga se il voto si spalma sulle schede come una marmellata elettorale. Può ben succedere, in fondo è già successo: siamo l’Italia dei mille campanili. E dunque se il fronte di minoranza conterà un solo partito in grado di superare la boa dell’8%, quest’ultimo intascherà il 48% dei seggi: tombola! Se il fronte di maggioranza verrà presidiato da una coalizione di 11 partiti (quanti ne imbarcò l’Unione di Romano Prodi nel 2006), se nessuno degli 11 sforerà il 4,5%, mentre tutti insieme sommeranno il 37%, il risultato in seggi sarà zero tagliato. E, via via, potremmo esercitarci a lungo su questo manicomio elettorale.
T’aspetteresti che l’esercizio lo svolgano pure lorsignori, invece no: discettano, rimuginano, almanaccano su come scrivere la legge elettorale senza scriverla. Da qui l’emendamento Lauricella, che ne subordina l’entrata in vigore alla riforma (ipotetica e futura) del Senato. Più che una legge, una promessa di matrimonio; vatti a fidare. Da qui — ed è storia di ieri — l’emendamento D’Attorre, che circoscrive l’Italicum alla sola elezione della Camera. E il Senato? Lì rimarrebbero in vigore le regole di adesso: un proporzionale puro. Siccome su quest’emendamento la maggioranza è già andata in solluchero, siccome a quanto pare offrirà l’inchiostro della nuova legge elettorale, sarà il caso di ragionarci su. Anche se è complicato ragionare con i pazzi.
Domanda: ma sarebbe incostituzionale stabilire regole diverse fra Camera e Senato? Niente affatto. In primo luogo, la Costituzione stessa differenzia le due assemblee legislative, collegandole a elettorati differenti (18 e 25 anni). In secondo luogo, in origine ne aveva differenziato pure la durata (5 e 6 anni). In terzo luogo, già il Porcellum confezionava un premio nazionale per la Camera, e al Senato 20 premi regionali. Però, attenzione: proprio questa disarmonia ha alimentato una censura d’incostituzionalità. Scrive infatti la Consulta (sentenza n. 1 del 2014, punto 4 della motivazione): il Porcellum «favorisce la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea»; sicché viola, in conclusione, «i principi di proporzionalità e ragionevolezza».
Morale della favola: è ragionevole diversificare, è irragionevole contraddire. Si può adottare, per esempio, un maggioritario con sistemi differenti: alla Camera con il premio, al Senato con i collegi uninominali. Si può scegliere un proporzionale variando le soglie minime d’accesso nelle assemblee legislative. Ma non si può decidere per un «maggiorzionale», non si possono trattare le due Camere come se appartenessero a due Stati lontani. Per rispetto del buon senso, se non anche del buon senno.

La Stampa 04.03.13

"Scienza quando il biologo fa ricerca nel garage", di Massimiano Bucchi

Nel 2008, un gruppo di celebrità si ritrovò a New York su invito di grandi imprenditori dei media come Rupert Murdoch e Harry Weinstein per uno “spit party”. Gli ospiti della serata, che le testate giornalistiche battezzarono ironicamente “Spitterati”, ricevettero un kit per raccogliere la propria saliva, destinata a test genetici personalizzati. Il servizio era offerto da una nuova azienda nel settore delle biotecnologie, 23andMe. Fondata due anni prima da Linda Avey e Anne Wojcicki (moglie di Sergei Brin, co-fondatore di Google), l’azienda si proponeva come «la fonte attendibile di informazioni genetiche personalizzate su scala globale» e già all’epoca offriva direttamente dal proprio sito web, per soli 399 dollari, un’analisi di 580mila marcatori o variazioni genetiche che promettevano al cliente di sapere, tra l’altro, con quale probabilità avrebbe potuto sviluppare un centinaio di patologie, la predisposizione a un quoziente di intelligenza elevato, se un bambino fosse effettivamente figlio di un certo padre.
Time la mise al primo posto delle innovazioni di quell’anno, e i media previdero che il servizio di 23andMe sarebbe diventato il prossimo status symbol;
al World Economic Forum di Davos l’azienda distribuì mille kit per raccogliere la saliva dell’élite economica mondiale.
Già allora il mondo iniziò a rendersi conto di quale fulmineo sviluppo avesse avuto la tecnologia del settore, mettendo alla portata del singolo paziente dati ed analisi che prima erano accessibili solo ai principali enti di ricerca e istituzioni sanitarie. Ma è di questi giorni l’annuncio dell’azienda californiana Illumina di essere in grado di sequenziare un intero genoma umano per meno di 1000 dollari. Una soglia che all’inizio degli anni Duemila era stata ipotizzata come scenario futuribile, al punto che Craig Venter aveva offerto con la propria fondazione 500 mila dollari a chi l’avesse raggiunto. In pochi anni il costo del sequenziamento è sceso, dai 3 miliardi di dollari investiti per completare il primo, ad un ritmo da far impallidire perfino le “leggi di Moore” sullo sviluppo esponenziale della microelettronica e la riduzione dei suoi costi unitari. Bastano 599 dollari per portarsi a casa OpenPCR, l’Ikea della biologia molecolare: una scatola di montaggio per assemblare da sé la rivoluzionaria tecnica che valse a Kary Mullis il premio Nobel per la chimica, e tutti i disegni e le istruzioni sul web per chi volesse modificare o sviluppare l’attrezzatura. Secondo lo studioso di tecnologia Marcus Wohlsen, «il prossimo Bill Gates della biotecnologia potrebbe sviluppare una cura per il cancro nel suo garage».
Attorno a questi strumenti “low cost”, come spiega Alessandro Delfanti in un suo libro recente, fiorisce non di rado una controcultura che si ispira alle pratiche hacker in campo informatico, in polemica con l’establishment della ricerca biologica ufficiale. DIYbio, ad esempio, è un’attivissima comunità di biologi “fai da te” che offre ai suoi membri supporto informativo, istruzioni per costruire apparecchiature e una micronewsletter formato cartolina, perfetta per chi non vuole dare troppo nell’occhio con i condomini, avendo magari allestito un discreto laboratorio nel sottoscala.
Da un lato, si può guardare a questi fenomeni come a un ritorno della biologia alla dimensione che le era propria sino a buona parte del secolo scorso. I biografi ci raccontano con dovizia di particolari pittoreschi gli esperimenti di Pasteur in un vecchio caffè abbandonato di Arbois, durante la stagione estiva, con un assistente che gli portava acqua dalla fontana e «goffi apparecchi usciti dalle inesperte mani del fabbro e del falegname del villaggio». Gli stessi Watson e Crick condussero le ricerche che li portarono nel 1953 alla scoperta della struttura del Dna in un minuscolo ufficio del Cavendish Laboratory; alcuni anni dopo la scoperta, Crick aveva ancora la propria base operativa in un capannone per le biciclette. Fu solo nel corso degli anni Ottanta che la biologia intravide la possibilità di compiere un salto di scala, intraprendendo progetti ambiziosi anche dal punto di vista delle risorse e dell’organizzazione, sul modello di quelli divenuti comuni in campo fisico sin dal periodo bellico.
D’altra parte, secondo alcuni commentatori, il “genoma da
mille dollari” non avrà, almeno nel breve periodo, impatto sui singoli pazienti, e nemmeno sui medici. La novità, infatti, è rilevante per ora soprattutto per i ricercatori i cui studi coinvolgono numeri elevati di pazienti. Per progetti come quello annunciato lo scorso anno dal premier britannico David Cameron, che ambisce a sequenziare il genoma di centomila pazienti, ridurre il costo unitario di ciascun sequenziamento è fondamentale. Insomma, una scienza low cost, ma non ancora alla portata di tutti, anche tenuto conto del fatto che le apparecchiature Illumina sono vendute in blocchi da dieci per una spesa minima di dieci milioni di dollari.
Ancora più incerto pare il futuro del business “direct to consumer”. Dopo un avvio promettente, 23andMe era arrivata ad offrire test per 99 dollari, con l’obiettivo di raggiungere un milione di consumatori entro fine 2013. Poi sono iniziati i problemi: una causa per pubblicità ingannevole da parte di una cittadina californiana, un giornalista che ha reso note tre contraddittorie diagnosi ricevute per il rischio di infarto (una da 23and-Me, due da aziende concorrenti); il sospetto che la vendita di test sottocosto sia solo un pretesto per ottenere preziosi dati dalla clientela, alimentato da un membro del consiglio d’amministrazione che definì 23andMe «la Google dell’assistenza sanitaria personalizzata». In novembre, dopo una minacciosa richiesta della Food and Drug Administration di documentare l’efficacia dei propri test, l’azienda ne ha parzialmente sospeso la vendita online.
Insomma, il genoma da 1000 dollari che pareva un miraggio una decina di anni fa è arrivato, ma per il resto non è facile prevedere se e quando veramente questa tecnologia diverrà effettivamente di uso comune, e soprattutto quali saranno le implicazioni per l’organizzazione sanitaria e per gli stessi pazienti (o consumatori?). Più facile farsi prendere la mano dall’entusiasmo, e perfino dall’ottimismo, come fece quel senatore che nel 2007 annunciò che «nessuna area di ricerca è promettente come la medicina personalizzata ». Chi era? Lo conoscete: Barack Obama.

La Repubblica 04.03.14

"Pil, siamo tornati al 2000 Draghi: «La gente soffre», di Laura Matteucci

Il Pil italiano è sceso sotto i livelli del 2000 con una flessione dell’1,9%, men- tre il debito pubblico è volato al suo re- cord storico. L’Istat fotografa la situazione dei conti pubblici al 2013, confrontandola con quella dell’anno precedente: certifica che il rapporto tra deficit e Pil è stato del 3% (47,3 miliardi), stesso livello del 2012, mentre l’avanzo primario è passato dal 2,5% al 2,2%. Il calo del Pil è stato superiore alle previsioni del governo (-1,7%), ma almeno inferiore rispetto all’anno prima (-2,4%, mentre dal 2007 la flessione è dell’8,5%). Per il debito è record: 132,6% del Pil, il massimo dal 1990, anno d’inizio delle serie storiche (127% l’anno prima). In calo la pressione fiscale complessiva: 43,8%, in diminuzio- ne di 0,2 punti. E in calo anche i consumi, con una caduta in volume del 2,2% e del 4,7% degli investimenti fissi lordi. La spesa delle famiglie è diminuita del 2,6%, dopo il crollo del 4% del 2012. La spesa per gli alimentari è caduta del 3,1%, e così i consumi per alimentari e bevande non alcoliche toccano il livello più basso di sempre. In termini assoluti, l’anno scorso sono stati spesi 114 miliardi e 297 milioni (-3,6 miliardi rispetto al 2012). In termini di funzioni di consumo, le contrazioni più accentuate sono state quelle per sanità (-5,7%) e per vestiario e calzature (-5,2%). Le esportazioni di beni e servizi hanno registrato un lieve aumento (0,1%), le importazioni sono diminuite del 2,8%.

«EVITATO IL PEGGIO»

Una situazione, quella descritta dai dati Istat, di piena crisi per l’Italia e per tutta Europa, oggi solo lievemente mutata. Ma già abbastanza per far dire al presi- dente della Bce Mario Draghi, davanti al Parlamento europeo, che «l’eurozona si sta chiaramente muovendo nella giusta direzione». «Il bicchiere è almeno mezzo pieno», ha poi aggiunto, puntualizzando che però «la disoccupazione resta ancora inaccettabilmente alta (a gennaio era al 12%, ndr)» e che «la gente nella zona euro sta ancora soffrendo per il pro- cesso di aggiustamento, processo inevitabile dopo anni di squilibri accumulati». Insomma, «è presto per dichiarare missione compiuta», ma alcuni obiettivi sono già stati raggiunti: «Oggi possiamo affermare con sicurezza che il peggio è stato evitato», ha ripreso Draghi. «Molti avevano sottovalutato la volontà di difendere l’euro», e dopo questa crisi l’area «sarà meglio preparata» per affrontare eventuali ricadute.

Per Draghi i cittadini giudicheranno l’Europa «in base alla sua capacità di offrire posti di lavoro e una crescita sostenibile», gli anni a venire dovranno quindi «essere dedicati alla creazione di un’unione più perfetta che si rivolga a questi obiettivi». Questo significa «soprattutto» che bisogna «portare a termine gli impegni presi in passato», e che «gli Stati membri devono mantenere le loro promesse di correggere gli squilibri e di riformare la struttura delle loro economie». In questo senso per Draghi «le politiche fiscali devono essere portate in linea con le disposizioni del Patto di stabilità e crescita e del Fiscal Compact», ma tenendo presente che «il consolidamento fiscale deve essere progettato in una maniera compatibile con la crescita e le riforme strutturali devono stimolare la crescita potenziale». L’obiettivo delle politiche economiche e fiscali dev’esse- re quello di «ricostruire l’Unione e l’area euro come isola di prosperità, di crescita, di creazione di lavoro, di speranze e di libertà. Un posto dove è bello stare». Torniamo ancora sui dati Istat a consuntivo 2013: a livello settoriale, il valore aggiunto ha registrato un calo in volume in tutti i principali comparti, a eccezione dell’agricoltura, silvicoltura e pesca (+0,3%). Cali del 3,2% nell’industria in senso stretto, del 5,9% nelle costruzioni e dello 0,9% nei servizi.

In calo anche l’occupazione nelle grandi imprese (-1,3% al lordo e -1,2% al netto dei dipendenti in cig nel 2013). Quanto ai redditi da lavoro dipendente, insieme alle retribuzioni lorde sono diminuiti dello 0,5%; le retribuzioni lorde pro capite hanno registrato un incremento dello 2,6% nel settore agricolo, del 2% nell’industria in senso stretto, dell’1,8% nelle costruzioni e dello 0,9% nei servizi; nel totale dell’economia l’au- mento è stato dell’1,4%.

L’Unità

"Dagli alunni ai prof in crisi, vademecum per Renzi e Giannini sui mali della scuola", di Salvo Intravaia

Matteo Renzi ha messo al centro del suo mandato la scuola, come leva strategica per fare ripartire il Paese. Nel corso dei due discorsi alla Camera e al Senato in occasione del voto di fiducia al nuovo governo, il premier ha più volte citato la scuola e gli insegnanti. E, qualche ora dopo l suo incarico, anche la neoministra Stefania Giannini ha fatto sentire la sua voce con diversi interventi. Ma quale scuola ereditano Renzi e il suo governo? Cosa sarà realmente possibile fare per migliorare la situazione in cui operano insegnanti e alunni?

Edilizia scolastica. Il primo punto che intende toccare il nuovo governo è quello dell’edilizia scolastica: 36mila edifici scolastici mezzi sgarrupati e con incidenti, anche di una certa gravità, quotidiani. Il Piano prevede di spendere almeno i 2,5 miliardi di euro già stanziati dal 2004 ma non ancora spesi. E, secondo la Giannini, si potrebbe arrivare anche a 4 miliardi sfruttando i fondi già disponibili, ma bloccati dal patto di stabilità, in tantissimi comuni.

Dispersione scolastica. E’ una delle emergenze più gravi del sistema scolastico italiano. L’Italia è uno dei paesi europei con la maggiore dispersione scolastica. I cosiddetti early school leavers (i ragazzi tra i 18 e i 24 anni con al massimo la licenza media) rappresentano nel nostro Paese il 17,6 per cento. Soltanto Spagna, Malta e Portogallo fanno peggio di noi in Europa, il cui dato nel 2012 si attesta al 12,8 per cento.

Competenze dei quindicenni. Nonostante un certo recupero negli ultimi anni, le performance dei quindicenni italiani restano ancora lontane dai coetanei della maggior parte dei paesi Ocse ed Europei. I dati delle competenze in Lettura, Matematica e Scienze ci collocano al di sotto della media dei paesi industrializzati. I 485 punti racimolati dagli studenti italiani nel 2012 ci piazzano al 32° posto, dopo Germania, Francia e perfino il Portogallo. Vanno meglio le cose per i bambini della scuola elementare. Nei test Timss di Scienze e Matematica i bambini della quarta elementare italiani si piazzano al di sopra della media internazionale. Stesso discorso in Lettura, dove ci piazziamo abbondantemente sopra la media dei 45 paesi che hanno partecipato all’indagine nel 2011.

Passaggio dalla scuola all’università. Nel corso degli ultimi anni, in Italia, il tasso di passaggio dalla scuola superiore all’università è sceso di 14 punti percentuali. Dal 70 per cento del 2001/2002 si è passati al 56 per cento del 2013/2014. Nel Belpaese, soltanto poco più di metà dei diplomati proseguono gli studi all’università.
Laureati. Sono considerati strategici per lo sviluppo di un paese ma in Italia i giovani 30/34enni in possesso di una laurea sono davvero pochi. Con il 21,7 per cento siamo in fondo alla classifica dei 27 paesi dell’Unione europea, dove se ne contano quasi 36 su cento. E alcuni paesi ci doppiano. E’ il caso della Finlandia dove 46 giovani su cento hanno già una laurea. Percentuali di giovani laureati al di sopra del 40 per cento anche per Regno Unito, Francia e Svezia.

Spesa pubblica per l’istruzione. Stando ai dati forniti dall’Istat, il nostro Paese è uno degli ultimi nella lista europea: appena il 4,2 per cento del Pil destinato all’istruzione, contro il 5,3 dei paesi Ue, al 6 per cento della Francia e al 7,8 per cento della Danimarca.

Spesa per alunno. Con 8.690 dollari equivalenti per alunno/studente all’anno, secondo l’Ocse l’Italia si piazza abbondantemente sotto la media dei paesi europei che spendono 9.208 dollari per alunno o studente dalla scuola all’università. L’Italia spende un 4 per cento in più della media Ue per i bambini della scuola dell’infanzia e della primaria, ma meno per i ragazzi della scuola media e superiore e parecchio meno per gli studenti universitari.

Alunni per classe. Stando ai dati forniti dall’Ocse, le classi italiane sono ancora meno affollate della maggior parte di quelle dei paesi europei. In media, un alunno in meno per classe alla primaria e gli stessi alunni per classe alla media rispetto ai paesi Ue.

Alunni stranieri. La popolazione scolastica straniera in Italia sta crescendo a ritmi incalzanti. Inn appena 8 anni – dal 2006 al 2014 – si è passati da 430mila a 830mila alunni con genitori nati fuori dai confini italiani.

Alunni nelle scuole private. Le scuole private, nel nostro Paese, stanno perdendo appeal. Nell’anno scolastico appena trascorso il numero di alunni che frequentano le scuole non statali è poco superiore al milione. Poco più di uno su dieci rispetto al totale degli alunni – 8 milioni e 800mila – tra scuole pubbliche e private. In Germanie, il 93 per cento degli studenti frequenta scuole pubbliche, in Francia le scuole di stato sono frequente dal 78 per cento degli alunni. La media europea si attesta all’82 per cento.

Ore di lavoro degli insegnanti. Il carico di lavoro degli insegnanti italiani è in linea con quello dei colleghi europei. Con le 25 ore settimanali delle maestre della scuola dell’infanzia, le 22 settimanali per i maestri della primaria e le 18 ore di insegnamento dei professori della scuole medie e superiori, più annessi a connessi, siamo in linea all’elementare e poco sotto (2 per cento in meno) alla media e al superiore.

Stipendi insegnanti. I docenti italiani sono tra i meno pagati d’Europa. Un docente di scuola primaria italiano con 15 anni di carriera guadagna il 15 per cento in meno della media Ue e il 23 per cento in meno rispetto ai paesi dell’Europa occidentale.

Età dei docenti. Dietro le cattedre delle scuole italiane siedono i docenti più vecchi d’Europa. Con il 62 per cento di docenti over 50 e appena 27 su mille under 30 possiamo vantare la classe docente meno giovane al mondo. E’ l’Ocse a fornire i dati sull’età dei docenti. Nei paesi Ocse, in media i docenti giovani under 30 sono dieci su cento.

Merito e carriera per i docenti. E’ uno dei punti di maggiore contrasto in Italia. Nel nostro Paese non è previsto nessun meccanismo premiale per i docenti “migliori”, né una carriera nel vero senso della parola.

Tecnologie a scuola. Il nostro Paese non sembra messo bene neppure sul fronte delle tecnologie a scuola. Per numero di computer siamo agli ultimi posti: appena 6 computer per alunni in quarta elementare. Contro una media europea di 16 computer per alunno e 32 della Spagna e i 33 della Danimarca, sempre ogni cento alunni.

La Repubblica 04.03.14

"Sbaglia chi pensa di essersi finalmente liberato del trio Tremonti, Gelmini, Sacconi", di Fabrizio Dacrema

Sbaglia chi pensa di essersi finalmente liberato del trio Tremonti, Gelmini, Sacconi. Se i primi due, almeno per il momento, sono fuori dalla maggioranza di governo, l’ex ministro del lavoro invece è transitato nel raggruppamento di Alfano e dalla presidenza della commissione lavoro del Senato cercherà di influire sui provvedimenti del nuovo governo della cui maggioranza fa parte a pieno titolo.

A questo fine ha raccolto in un disegno di legge un concentrato delle ricette ideologiche del governo Berlusconi in tema di lavoro e formazione. In materia di lavoro l’obiettivo principale è la demolizione del contratto nazionale di lavoro attraverso la sua derogabilita’ anche individuale. In materia di formazione si propone il contratto di apprendistato a partire da quattordici anni e l’abrogazione della norme sul diritto all’apprendimento permanente.
Il centro destra italiano ritiene sia inutile (e forse anche politicamente dannoso) innalzare il livello di istruzione del paese (obiettivo UE di almeno il 40% di laureati nella fascia di età 25-34 anni entro il 2020) perché il nostro sistema produttivo (95% di piccole imprese) domanda poche competenze alte. Anche per questo hanno tagliato oltre 8 miliardi a scuola e università e puntano a spostare fasce della popolazione scolastica verso i percorsi formativi brevi, meglio ancora se in apprendistato. Non pago di aver già abbassato l’età di accesso al lavoro a 15 anni per favorire l’adempimento dell’obbligo di istruzione attraverso l’apprendistato, ora la proposta di Sacconi è di abbassarla ulteriormente a 14 anni in modo che si possa andare a lavorare subito dopo la licenza media. Eppure dovrebbe aver preso del fallimento del suo precedente tentativo attivato solo in pochissimi casi: non si sono, infatti, trovati imprenditori con così poco buon senso da assumere quindicenni. Ora non si capisce perché la cosa dovrebbe funzionare con i quattordicenni. Questa idea di fare dell’apprendistato un canale alternativo alla scuola è sbagliata e perdente anche perché il sistema produttivo italiano è povero di capacità formativa. Le attività di formazione continua dei lavoratori sono infatti molto sotto la media dei paesi sviluppati (vedi anche ultimo rapporto Isfol), così come le assunzioni delle alte qualifiche e gli investimenti in ricerca e sviluppo. La realtà è questa. Queste proposte, spesso ammantate da pelosi buoni propositi di contrasto alla dispersione scolastica, non possono che tradursi nella rinuncia a priori ad assicurare a tutti i giovani l’apprendimento di quel bagaglio culturale essenziale per essere cittadini, consapevoli e lavoratori occupabili e persone capaci di apprendere lungo tutto il corso della vita.
Decisamente più intelligente la sperimentazione dell’apprendistato in alternanza introdotta dal decreto Carrozza (art.8 bis). Già accolta in un accordo sindacale all’Enel, diventerà operativa una volata emanato il decreto ministeriale cui è affidato il compito di regolare l’esperienza. Studenti dell’ultimo biennio della scuola secondaria superiore potranno essere assunti con un contratto di apprendistato e diplomarsi attraverso un percorso formativo in alternanza in cui all’apprendimento si realizza in parte nel contesto scolastico e in parte nel contesto lavorativo. Il percorso è co-progettato, la scuola garantisce il raggiungimento di tutte le competenze previste in uscita dal percorso di istruzione, l’impresa mette a disposizione un contesto di apprendimento che facilita e migliora l’acquisizione delle competenze connesse al processo lavorativo. Gli studenti coinvolti in questa esperienza, oltre a una retribuzione commisurata all’impegno lavorativo a tempo parziale e all’opportunità di imparare facendo, miglioreranno le proprie possibilità di entrare nel mercato del lavoro grazie a un profilo di competenze più allineato alle effettive esigenze delle imprese. Nel caso dell’accordo Enel si prevede la possibilità, una volta conseguito il titolo di studio, di una conferma dell’assunzione attraverso un ulteriore contratto di apprendistato di un anno finalizzato al conseguimento delle competenze previste dalla qualifica contrattuale che dovranno ricoprire con l’assunzione a tempo indeterminato. In alternativa i giovani potranno proseguire gli studi nei percorsi universitari o di istruzione tecnica superiore. Le imprese, attraverso questi percorsi formativi integrati, sono stimolate a non considerare l’apprendistato come uno dei modi per ridurre il costo del lavoro, facendo diventare prioritario l’interesse per la qualità del lavoro e per le competenze necessarie a promuovere l’innovazione. Inoltre attraverso la sperimentazione si sviluppano le capacità delle imprese a progettare e gestire processi di apprendimento sul lavoro e attraverso il lavoro e così si pongono le basi anche per qualificare tutti i percorsi formativi in apprendistato. L’enfasi diffusa sull’apprendimento “on the job” è aria fritta se non si promuove concretamente la capacità formativa dell’impresa, a partire dallo sviluppo di professionalità specifiche interne alle imprese capaci di accompagnare studenti nei percorsi di apprendimento attraverso il lavoro.
L’altra “perla” del disegno di legge Sacconi è l’abrogazione delle norme contenute nella legge 92 sull’apprendimento permanente, per il quale si prevede, non senza senso dell’umorismo, il ritorno alla normativa previgente, cioè il nulla. Difficile comprendere le ragioni dell’accanimento di Sacconi contro norme che con un ritardo più che decennale allineano il nostro paese, agli ultimi posti per il livello delle competenze della popolazione, alle indicazioni e alle pratiche dell’Unione Europea. Già Confindustria ne aveva chiesto lo stralcio, timorosa delle possibili possibili ricadute contrattuali della certificazione pubblica delle competenze acquisite dai lavoratori attraverso il lavoro e/o altri percorsi di apprendimento non formali e informali. Di certo l’azzeramento delle norme sull’apprendimento permanente farebbe perdere al paese un’altra occasione per mettere in atto una delle condizioni essenziali per uscire dalla crisi e tornare a crescere.
Due recentissime indagini (ISFOL sulla formazione continua e CENSIS sulla valorizzazione delle competenze da parte delle imprese) evidenziano la stessa semplice realtà: le imprese, poche purtroppo, che hanno messo in atto processi di innovazione oggi sono quelle che crescono economicamente, aumentano l’occupazione, domandano nuove competenze. Una politica economica e industriale che intenda promuovere e sostenere i processi di innovazione deve quindi essere in grado di rispondere alla nuova domanda di competenze proveniente dalle imprese che si riposizionano per fronteggiare la crisi e al bisogno dei lavoratori di valorizzazione e sviluppare le proprie competenze per rafforzare la propria posizione nel posto e nel mercato del lavoro.
Con buona pace del senatore Sacconi, non possiamo allora permetterci di perdere l’opportunità di costruire un sistema integrato dell’apprendimento permanete. Il sistema pubblico nazionale della certificazione delle competenze e le reti territoriali dell’apprendimento permanente – il cui compito è realizzare una programmazione integrata delle risorse, dell’offerta e dei servizi dell’apprendimento permanente – sono infatti gli strumenti indispensabili per realizzare concretamente una strategia di innalzamento delle competenze coerente con lo sviluppo dell’innovazione e dell’occupazione.

da ItaliaOggi 04.03.14