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"Tre scenari per un conflitto", di Bernardo Valli

I Russi applicano la tattica dell’elettroshock, con scariche sempre più intense e pause sempre più brevi. Le convulsioni dovrebbero quietare, rendere più arrendevole il paziente, cioè l’Ucraina. Basta ripercorrere la cronaca recente. Sono avvistati mezzi blindati russi in prossimità di Kerch nel Sud del paese. A Kiev ci si chiede se non stia per scattare l’invasione delle province sud-orientali. LA TENSIONE fa galoppare l’immaginazione. La Crimea è già in mano russa, ma quelle unità sono abbastanza vistose da far pensare a un’operazione più vasta. Neppure un’ora dopo arrivano da Mosca le parole rassicuranti del presidente della Duma. No, almeno per ora, non si prevede un’invasione. Più tardi, nel corso della giornata, un’agenzia russa informa che il comando della Flotta russa sul Mar Nero di Sebastopoli ha lanciato un ultimatum alle forze ucraine di Crimea, accerchiate nelle loro basi. Entro domattina devono consegnare le armi. Un’altra mazzata. Poco dopo il Ministero degli affari Esteri precisa tuttavia da Mosca che la flotta russa del Mar nero non è coinvolta nella faccenda. Si incute paura, si rassicura, e si ricomincia.
Gli stranieri in visita a Kiev, Jan Eliasson, l’inviato dell’Onu, William Hague, il ministro degli Esteri britannico, gli esperti del Fondo monetario internazionale, tutti gli stranieri venuti a esprimere solidarietà o a promettere soldi invitano il governo ucraino a mantenere la calma, a non rispondere alle intimidazione russe. Oggi è atteso John Kerry, il segretario di Stato, e anche lui con l’amicizia americana porterà gli stessi consigli. Non bisogna offrire pretesti a Mosca. Nel ruolo di grande mediatore di questa crisi, Angela Merkel non perde occasione, anche tramite il suo ministro degli esteri, Frank Walter Steinmeier, per suggerire agli ucraini di seguire le vie diplomatiche. Putin ha accettato di formare un “gruppo di contatto”, nell’ambito dell’Osce, la riesumata Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, ed è in quel quadro che bisogna agire. Anche se richiede tempo e nervi saldi.
Le pressioni russe si appesantiscono. Sergeij Lavrov, il ministro degli Esteri in visita a Ginevra, ribadisce la
teoria che a suo avviso giustifica l’intervento per ora limitato alla Crimea. Sembra che si eserciti nella prospettiva del discorso che dovrà pronunciare al Consiglio di Sicurezza, nel caso le truppe in stato d’allerta alla frontiera occidentale (orientale per l’Ucraina) dovessero violare la sovranità della nazione, più sorellastra che sorella. La teoria non è nuova, si basa sulle vessazioni inferte alla popolazione russofona, le quali avrebbero raggiunto un punto intollerabile. L’accusa è infondata, nulla prova le angherie denunciate, anche se ha colpito l’abrogazione della legge che favoriva le lingue secondarie, e tra queste il russo. Come non lascia indifferenti la presenza nel governo di Kiev di esponenti del partito ultranazionalista Svoboda, distintosi per aver chiesto con insistenza, nel 2009, la riabilitazione della divisione SSGalizia, e per avere diffuso slogan antisemiti e anti russi.
E’ comunque la generica denuncia del carattere anti russo del neo governo, nato dalla rivoluzione della Majdan, a suscitare le manifestazioni nelle province sud—orientali, dove larga parte della popolazione ha origini russe e dove c’è l’essenziale dell’attività industriale e mineraria. In quella parte dell’Ucraina i russi o i loro rappresentanti locali hanno esasperato, secondo i responsabili di Kiev, vecchi o antichi sentimenti. Non tanto favorevoli a una secessione, a un abbandono della nazione ucraina, quanto a un’affermazione più incisiva dei diritti della minoranza di origine russa in quanto tale. Le manifestazioni, preparate in precedenza e organizzate da gruppi militanti, si moltiplicano a Kharkiv, ex capitale e seconda città ucraina, dove la bandiera russa sventola spesso sulla piazza principale. A Donetsk, ricco centro minerario, è stato occupato il municipio. Un po’ dovunque, nei piccoli e medi centri, c’è’ un’agitazione giudicata dai più allarmisti come un segno dell’imminente arrivo delle unità militari russe in stato d’allerta, appena al di là del confine. Appena a trenta chilometri da Karkhiv.
Un intervento militare limitato alle province orientali, «per rispondere agli inviti della popolazione sottoposta a vessazioni», è il primo scenario prospettato a Kiev. In quella regione la gente accoglierebbe con i fiori gli invasori e la folla sulle piazze renderebbe difficile, nel caso dovesse manifestarsi, la resistenza dell’esercito ucraino. Il quale è del resto, pur essendo efficiente e ben armato, di gran lunga inferiore per numero a quello russo. Con i suoi circa centotrentamila uomini in totale non raggiunge neppure in centocinquantamila impegnati nelle manovre al di là del confine, con adeguati mezzi aerei e unità corazzate. Nell’insieme l’esercito russo conta circa ottocentocinquantamila uomini. La popolazione favorevole agli invasori ridurrebbe il rischio, nelle province orientali, di una resistenza di gruppi armati autonomi. Insomma di formazioni partigiane, che invece potrebbero nascere nelle province occidentali, considerate russofobe, nel caso l’invasione fosse totale. Lo scenario immagina un intervento temporaneo, il tempo di “normalizzare la situazione”, e giustificato, oltre che dalla necessità di proteggere la popolazione di origine russa, anche da un’eventuale provocazione. Magari creata ad arte.
Ho l’impressione di essere passato dalla cronaca alla fiction. E penso che lo scenario appena tratteggiato rimarrà nell’immaginazione. A Kiev non lo si esclude del tutto anche se si conta sul prezzo che Putin dovrebbe pagare. Un prezzo non tanto alto, tuttavia, quanto la morale occidentale lascia intravedere. L’isolamento politico non potrebbe durare a lungo, anche perché le sanzioni economiche sarebbero difficilmente applicabili, e questo attenuerebbe di fatto la quarantena politica. E’ vero che l’energia (petrolio e gas) è la principale risorsa russa, ma l’energia esportata è essenziale ai paesi europei, in particolare alla Germania. Con grande senso pratico il governo di Kiev non ha mandato truppe supplementari nelle province orientali irrequiete. Ha mandato degli oligarchi, dei miliardari: Sergei Taruta a Donetsk, dove la gente occupa il municipio, e Ihor Kolomoysky a Dnipropetrosks, dove sventolano bandiere russe. Con i loro soldi Taruta e Kolomoyski possono garantire gli investimenti finora fatti dai russi. Sono entrambi popolari tra gli operai e non sono estranei alla regione.
Un altro scenario sarebbe un’implosione dell’Ucraina simile a quello che ha mandato in frantumi la Jugoslavia. La tensione prolungata tra le comunità filo e antirusse, attizzata dalle plateali intimidazioni di Mosca, potrebbe portare a quella conclusione. Ma non è immaginabile la spaccatura, nel cuore dell’Europa, di un paese più esteso della Francia e della Germania, e con quarantasei milioni di abitanti. Anche perché le rivalità tra le correnti culturali, storiche, etniche non escludono spesso un comune spirito nazionale.
Il terzo scenario, il più plausibile, è che avviato un difficile dialogo l’Ucraina si “finlandizzi”: stia lontano dalla Nato, si ammanti di una neutralità inattaccabile, stabilisca relazioni ragionevoli con l’Europa, garantendo rapporti dignitosi con la prepotente sorellastra russa. Tanto da rassicurarla. Da placarla. Tra i numerosi demoni che si aggirano in questo cuore geografico dell’Europa ce n’è forse uno, lo si spera, capace di realizzare questo scenario.

La Repubblica 04.03.14

"Ai beni culturali occorrono specialisti più che manager", di Vittorio Emiliani

Caro Giuliano Amato, la tua affermazione, contenuta nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera del 24 febbraio, “I nostri beni culturali hanno un bisogno spaventoso di manager” ha lasciato me e non pochi altri increduli. Possibile che un intellettuale raffinato come te, politico di lungo corso, a capo o membro di governi (che peraltro ai beni culturali hanno purtroppo guardato, soprattutto sul piano dei finanziamenti e degli incentivi, come all’ultima ruota del carro), non capisca che i beni culturali e paesaggistici hanno un bisogno «spaventoso» (e urgente, l’età media dei funzionari è sui 55 anni) di nuovi tecnici qualificati, storici dell’arte, archeologi, architetti, archivisti, bibliotecari? E che semmai è il turismo mosso dalla cultura ad avere un bisogno «spaventoso» di manager? La nostra promozione turistica è tragicamente frammentata e inadeguata, i nostri aeroporti fanno spesso pena, le nostre ferrovie, a parte l’Alta Velocità Milano-Roma-Napoli, fanno viaggiare malissimo, nel Sud ma pure in Umbria o nelle Marche interne, italiani e stranieri, strade e autostrade sono invase da Tir, camion, autobotti, la nostra rete alberghiera quota tariffe spesso elevate rispetto ai servizi che dà, la ristorazione di base è scaduta, per non parlare dell’involgarimento catastrofico di bancarelle e negozi per souvenir.

Il turismo, non te lo devo spiegare io, è una attività economica «indotta» della bellezza, in senso generale, di un Paese e se quella bellezza data dai paesaggi, agrari e naturali, marini e montani, dai centri storici, dalle abbazie e dalle pievi, dalla rete dei siti archeologici, delle chiese e dei musei, se tutto questo strepitoso patrimonio deperisce per mancanza di fondi (più che dimezzati nell’ultimo decennio!) e di cure, o viene intaccato dall’abusivismo, dalla speculazione edilizia, dagli inquinamenti, che cosa «vende» poi il turismo? Il Pantheon «assediato» dai camion dei rifornimenti alimentari, dai gladiatori e dai bancarellari? Nelle graduatorie di agenzie come «Future Brand» siamo ancora primi o secondi per le città d’arte, ma al 15°, 25° posto e peggio per natura e spiagge.

E poi, per favore, non diciamo più che questo è «il nostro petrolio»: è uno slogan sbagliato e frusto (Pedini-De Michelis, anni 80). Vuol dire che i beni culturali devono «rendere»? Che i musei devo- no dare profitti ed essere gestiti da manager? Oltre tutto, i veri musei, in tante città, sono le chiese… All’estero sorridono di queste ubbie: il museo che più si è attrezzato di servizi turistici di ogni tipo per attrarre visitatori (e infatti ne ha circa nove milioni, con seri problemi, anche di sicurezza) il Louvre, riceve ogni anno dal- lo Stato poderose sovvenzioni per coprire una metà almeno dei costi, ma comunque è stato creato e gestito da storici dell’arte come Michel Laclotte e Pierre Rosemberg ed ora Catherine Loisel (agli archeologi Amato nega la possibilità, chissà perché, di essere «buoni manager» e agli storici dell’arte? Chissà).

Si riportino i finanziamenti alle Soprintendenze a livelli decenti, si eliminino o si riducano bardature rivelatesi negative come le Direzioni generali regionali, si potenzino i quadri tecnici di settore, a cominciare dai poveri architetti che devono fronteggiare centinaia di migliaia di pratiche edilizie e urbanistiche che, presidente Renzi, non possono venire troppo «semplificate» in un Paese decisamente complesso e fragile, di speculatori rapaci, come il nostro. Altrimenti, addio Belpaese, con tanti saluti ai famosi «manager» e al non meno famoso «petrolio».

L’Unità 04.03.14

"Renzi chiede ai sindaci info che il Miur ha già", di Emanuela Micucci

​L’edilizia scolastica passa attraverso lo scambio epistolare tra il presidente del consiglio Matteo Renzi e gli 8 mila tra sindaci e presidenti delle province, a cui il premier ha scritto per conoscere le condizioni dell’edilizia scolatica. Ma le informazioni che si cercano a mezzo lettera, il Miur già le possiede, anche se a volte incomplete. L’anagrafe dell’edilizia scolastica, nata nel 1996, proprio censire il patrimonio scolastico e il suo stato di conservazione utilizza i dati forniti da comuni e province a cui ora Renzi chiede le stesse informazioni. Non solo. Il mese scorso l’ex ministro dell’istruzione Maria Chiara Carrozza ha dato il via alla riforma dell’anagrafe creando il Sistema nazionale delle anagrafi dell’edilizia scolastica (Snaes), costruito sulla base delle anagrafi regionali, quelle che 11 regioni già si erano date. Un’esigenza nata perché l’anagrafe nazionale non decollava, tanto che l’assenza di dati ufficiali e completi determinava balletti di cifre anche sul numero degli edifici scolastici: per l’Istat 49.990, mentre la commissione cultura della Camera ne conta 42mila. O discrepanze tra i 10mila edifici che andrebbero abbattuti e le circa 7.000 richieste di messa in sicurezza immediata per situazioni di pericolo accertato individuate, nel 2012, dalla commissione tecnica Miur-Mit-Anci-Unce a seguito di 43mila sopralluoghi.​

da ItaliaOggi 04.03.14

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“Il gran ginepraio della sicurezza”, di Alessandra Ricciardi

Procedure lente, competenze non chiare, fondi che prima si annunciano e poi, fatta la programmazione dell’intervento, si scopre non esistono più. Questo ed altro è quanto succede per gli interventi per la messa in sicurezza degli edifici scolastici. Una situazione talmente caotica che non esistono neanche stime univoche sul numero di interventi di fare e sui fondi necessari.

Il dossier con cui il premier Matteo Renzi ha deciso di inaugurare il suo mandato è un vero ginepraio: ad oggi manca anche l’anagrafe completa degli edifici e del loro stato di salute. «Vogliamo che il 2014 segni l’investimento più significativo mai fatto sull’edilizia scolastica», ha scritto Renzi nella lettera ai sindaci d’Italia, invitati a scegliere un edificio scolastico del proprio comune da salvare e a segnalarlo al governo entro il 15 marzo. «Noi cercheremo nei successivi quindici giorni di individuare le strade per semplificare le procedure di gara e per liberare fondi dal computo del patto di stabilità interna», assicura Renzi. Intanto il consiglio dei ministri ha varato, nel primo decreto legge omnibus dell’esecutivo Renzi, due proroghe per la scuola: quella per i lavoratori socialmente utili a cui sono assegnati i contratti di pulizie degli istituti: prorogati di un mese, il Miur ha già comunicato, con una nota del 28 febbraio, alle direzioni scolastiche regionali l’invio dei finanziamenti necessari prelevati dal fondo per il funzionamento scolastico. In attesa di trovare una soluzione a regime sul fronte delle esternalizzazioni dei servizi, una soluzione che vede in questi giorni al lavoro gli staff dei dicasteri dell’Istruzione e del Lavoro e che dovrebbe essere articolata attraverso attività di riqualificazione e ricollocazione dei lavoratori in esubero. E poi la proroga per gli appalti per la messa in sicurezza degli edifici scolastici sul fronte del rischio amianto: le gare potranno tenersi entro fine aprile, 150 i milioni di euro disponibili, al 27 febbraio risultavano affidati soltanto 207 interventi per un totale di 35,7 milioni di euro.

Anche questa una misura tampone in attesa del gran piano per l’edilizia. La protezione civile di Guido Bertolaso, su richiesta del parlamento, stimò in 13 miliardi lo stanziamento minimo necessario per rendere sicure le 43 mila sedi scolastiche. Di queste, il 70% ha più di 30 anni di vita. Il sottosegretario alle infrastrutture, Erasmo D’Angelis, nel corso dell’indagine alla camera dei deputati di questa legislatura ha indicato in 100 anni il tempo necessario per realizzare, con l’attuale ritmo, tutti gli interventi necessari.

Ora il ministro dell’istruzione, Stefania Giannini, parla di un piano straordinario di 4 miliardi, realizzato agendo sul fronte dei mutui garantiti da cassa depositi e prestiti e lo sblocco dei fondi disponibili nelle casse di alcuni enti locali. Sarebbero 5 i miliardi di euro, secondo l’Ance, resi inservibili dai paletti del patto di Stabilità interno. Ma al di là del canale di finanziamento, andrà disboscata la selva di norme che spesso ha reso difficile l’accesso ai finanziamenti. Oltre, ovviamente, a dare certezza alle coperture finanziarie, vista l’esperienza del governo Berlusconi.

da ItaliaOggi 04.03.14

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«Sindaci, segnalate una scuola da riparare»
Nella lettera, inviata a tutti i sindaci d’Italia, si utilizza un linguaggio diretto:

Matteo Renzi è convinto che la risposta alla crisi che sta vivendo il Paese passi per «l’educazione». E, da presidente del Consiglio che viene da un’esperienza di primo cittadino, sceglie di non rivolgersi ai presidi o ai direttori didattici bensì ai sindaci perché segnalino a Palazzo Chigi gli edifici scolastici da ristrutturare.
Nella lettera, inviata a tutti i sindaci d’Italia, si utilizza un linguaggio diretto: «Stiamo affrontando il momento più duro della crisi economica. Il più difficile dal punto di vista occupazionale. E un sindaco lo sa. Perché il disoccupato, il cassintegrato, il giovane rassegnato, il cinquantenne scoraggiato non si lamentano davanti a Palazzo Chigi: bussano alla porta del Comune. Voi sindaci siete stati e siete sulla frontiera e paradossalmente lo avete fatto in un tempo di tagli senza precedenti. Grazie, a nome del governo».
Ma dalla crisi, continua Renzi, «si esce con una scommessa sul valore più grande che un Paese può incentivare: educazione, educazione, educazione. Investire sull’educazione necessita naturalmente di un progetto ad ampio raggio, che parta dal recupero della dignità sociale delle insegnanti e degli insegnanti. Ci sarà modo per parlarne nel corso dei prossimi mesi».
Ora però, avverte il premier, «la vostra e nostra priorità è l’edilizia scolastica. Nessun ragionamento sarà credibile finché la stabilità delle aule in cui i nostri figli passano tante ore della loro giornata non sarà considerata il cuore dell’azione amministrativa e di governo». Ed ecco la proposta: «Vi chiedo di scegliere all’interno del vostro Comune un edificio scolastico». La segnalazione dovrà arrivare entro il 15 marzo in modo «sintetico»: «Non vi chiediamo progetti esecutivi o dettagliati: ci occorre — per il momento — l’indicazione della scuola, il valore dell’intervento, le modalità di finanziamento che avete previsto, la tempistica di realizzazione». Palazzo Chigi promette di intervenire «nei successivi quindici giorni» individuando «le strade per semplificare le procedure di gara, che come sapete sono spesso causa di lunghe attese burocratiche, e per liberare fondi dal computo del patto di stabilità interna».

Corriere della Sera 04.03.14

Tullio De Mauro ricorda Mario Lodi: "Addio al maestro che giocava"

Il bambino impara giocando da quando nasce”, scriveva Mario Lodi, il maestro elementare, che ieri si è spento a 92 anni. “I suoi strumenti sono i sensi e la mente”, proseguiva introducendo, con molta semplicità, in una rivista per insegnanti, un bell’articolo di Luciana Bertinato sull’apprendimento di concetti scientifici nella scuola elementare. “Con i primi raccoglie i dati della realtà: i rumori, le forme, il tepore del seno materno, il sapore del latte, gli odori della casa, i colori, le voci. Con la mente confronta, riflette, ricorda. Conserva le sensazioni in ripostigli segreti dove possono restare per tutta la vita. Il suo metodo è corretto perché raccoglie dati, li confronta, li seleziona, formula ipotesi, le verifica, ricava sintesi. Restituiamo ai bambini la possibilità e il piacere di scoprire – giocando – concetti scientifici e abilità tecniche che li aiutino ad ampliare la loro cultura”.

La sua meta è indubbia: aiutare i bambini e le bambine a conquistare i concetti più astratti e potenti. La via però non è quella, ancora non scomparsa, di un insegnamento fondato sulla memorizzazione e ripetizione di formule. Una via migliore è passare ad apprendimenti attraverso il gioco, attraverso le “sensate esperienze” (diceva Galilei) e le conseguenti riflessioni cui i giochi danno luogo, anche grazie a chi insegna. A chi sa sostituire il ripetere con una ricerca sempre nuova. E questo dovrebbe valere ben oltre la prima scuola.
Ho incontrato la prima volta Mario Lodi nel 1967 a Urbino e nel 1968 a Pordenone per i seminari estivi del Movimento di Cooperazione Educativa. Ma come un babbeo non me n’ero accorto. Devo a Giorgio Pecorini il primo incontro consapevole con Lodi e con l’editore Luciano Manzuoli. Nel 1970 Pecorini curava una serie di trasmissioni televisive intitolate “Processo a…”. E come imputato scelse una volta i libri di testo. Si scatenarono discussioni infuocate.

Eravamo seduti in un emiciclo a gradinate. In alto, quasi in disparte, se ne stava Lodi. Non partecipava al trambusto e tuttavia seguiva con attenzione. Parlò poco, molto tranquillo. Non propose tesi. Senza enfasi raccontò che cosa faceva, come partiva con le sue allieve e i suoi allievi da ricerche in tante direzioni, coinvolgendo nella vita della classe di volta in volta altri che avessero più esperienze e conoscenze e costruendo con loro e con gli alunni i materiali scritti, i testi da ricordare e rimeditare. Non disse che quella fosse la via unica e più giusta, disse che a Vho di Piadena seguivano quella via, che era una via possibile e che a percorrerla si arricchivano di esperienze vive e di conoscenze vissute sia il maestro sia gli alunni.
Una grande forza di Lodi è stata anche saper raccontare. Raccontare le cose concrete, precise, puntuali che ha fatto con le alunne e gli alunni nelle sue classi, dalla prima alla quinta, tante volte negli anni. Ci mostra una via. È questa la enorme forza dei suoi diari didattici e dei giornalini dei suoi alunni, dal Paese sbagliato a Il mondo. Ed è stata la forza dei libretti della “Biblioteca di lavoro” che ha pubblicato con Luciano Manzuoli, uno di quei gloriosi fallimenti che costellano la storia dei testi per la nostra scuola.

Talvolta qualcuno è riuscito a costringerlo a dichiararsi, a mettere in tavola le carte del suo pensiero, dei principi cui si ispira nella sua pratica. Sono nati così due libri anch’essi preziosi: per Einaudi, Cominciare dal bambino (1977), e, per i Libri di base degli Editori Riuniti, Guida al mestiere di maestro (1982). Ma anche in questi Lodi affida il meglio delle sue idee a presentare casi concreti e procedimenti didattici. Anche se si costringe a rivelare tante sue fonti, Bruno Ciari, Santoni Rugiu, Piaget, Bruner, Vygotskij, Rodari, Freinet, le fonti maggiori restano da un lato un’acuta, attenta rilettura della nostra Costituzione e dall’altra l’osservazione e rendicontazione delle sue esperienze didattiche.

Da queste Lodi non ha mai voluto staccarsi. Dall’università, che pure gli ha dato qualche riconoscimento, non è mai stato tentato. Ha preferito, come quel personaggio della favola antica che era invincibile finché poggiava i piedi sul suolo, restare con i piedi sulla terra di Piadena. Quando è andato in pensione ha investito i suoi risparmi e un premio per trasformare una cascina in un grande, luminoso laboratorio didattico. Là l’ho visto l’ultima volta e là anzitutto il suo lavoro continua.

La Repubblica 04.03.14

"Mamme fuori dal mercato del lavoro: una su quattro lo perde entro due anni", di Laura Preite

Donne che rinunciano al lavoro per la maternità, donne che rinunciano alla maternità per il lavoro. Da dove la si guardi la condizione delle donne “fertili” è sempre più difficile. Tasso di natalità tra i più bassi del mondo occidentale, tasso di occupazione femminile ugualmente fra i più bassi, che continua a scendere come confermano gli ultimi dati dell’Istat, siamo arrivati al 46,4%.

I dati resi noti dalla Cgil fotografano un piccolo pezzo d’Italia ma significativo: le Marche. Nella regione sono 573 le madri nel 2013 che si sono dimesse nel primo anno di vita del figlio, durante la gravidanza o dopo la nascita. Si tratta di dimissioni volontarie, convalidate dalle direzioni provinciali del lavoro, come obbliga la legge Fornero. Alle madri si aggiungono 70 padri. In tutto 643 lavoratori. Nel quinquennio 2009 e 2013 sono stati 2.980 di padri e madri che hanno perso il lavoro. A questo numero se ne aggiunge un altro, difficile da quantificare, di mamme con contratti precari (che non devono convalidare alle direzioni provinciali). Un 18% trova un altro lavoro, il resto no. Le motivazioni dell’abbandono? Per il 22% non c’è un parente a cui affidare il bambino, il 18% non ha ottenuto l’iscrizione al nido, l’8% si lamenta degli elevati costi dei servizi nido e baby sitter. Il 2% si dimette per mancata concessione del part-time. Il 58% è al primo figlio, nel 70% dei casi si tratta di Pmi con meno di 15 dipendenti. Le Marche sono solo un pezzo d’Italia, con 1 milione e mezzo di abitanti e la Cgil sta raccogliendo in questi giorni anche i dati delle altre regioni che al momento mancano.

Ma a fare un quadro completo del fenomeno maternità e lavoro ci ha pensato l’Istat, che nel 2012 ha pubblicato gli ultimi dati. Nel 2010 erano occupate il 64,7% delle donne incinta, diventano il 53,6% due anni dopo la nascita del bambino. Quelle che sono state licenziate sono il 23,8%, quelle il cui contratto non è stato rinnovato o l’azienda ha chiuso sono il 15,6%, quelle che dichiarano di essersi licenziate sono il 56,1%. Il dato che preoccupa è che in dieci anni, dal 2002 al 2012 le donne che hanno perso il lavoro sono aumentate del 40%. Nel 2012 quasi una madre su quattro a distanza di due anni dalla nascita del figlio non ha più un lavoro, un dato stabile nel tempo.

«E’ un dato pesante, strutturale che si trascina negli anni, si evidenzia che c’è un problema serio nel rapporto maternità-lavoro -commenta Linda Laura Sabbadini direttrice dipartimento Statistiche sociali dell’Istat – . È un problema che si ritrova anche in altri paesi europei, il tasso di occupazione cala da donne senza figli a donne con figli, ma non nella dimensione che assume in Italia. Questo è dovuto al combinarsi di una serie di motivazioni, quella fondamentale è la conciliazione dei tempi di vita delle persone, ovvero l’organizzazione dei tempi per sé stessi, la famiglia, il lavoro. Siamo una società rigida, e la conciliazione non è mai stata perseguita con forza mentre nei paesi nordici l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro fin dagli anni 50 ha visto un impegno forte nelle politiche sociali e dei servizi. Noi abbiamo avuto la legge sui congedi parentali e sui servizi innovativi dell’infanzia solo nel 2000, un momento particolarmente effervescente che non ha avuto un’adeguata continuità».

A frenare l’occupazione femminile e anche la natalità per Sabbadini è anche «una rigidità di ruoli all’interno della coppia rispetto ad altri paesi, il sovraccarico dei compiti domestici e di cura sulle donne è maggiore. La rigidità c’è nella famiglia e nell’organizzazione del lavoro a parte nel settore della pubblica amministrazione».

Quante donne invece rinunciano alla maternità per non perdere il lavoro? «Sappiano che il numero ideale di figli è lontano da quello reale, sia uomini che donne desiderano 2 figli, mentre il tasso di fecondità è di 1,3 figli per donna. In questi anni di crisi la fecondità si sta abbassando tra le italiane e le straniere che l’hanno tenuta alta, anche loro cominciano ad avere problemi di conciliazione non indifferenti perché manca una rete di supporto famigliare».

Un dato forse positivo c’è: a mantenere il lavoro sono soprattutto le laureate che lo lasciano o perdono ’solo’ nel 12,2% dei casi. « Ci dice che il maggior investimento in cultura e informazione le protegge di più, sono inserite in mansioni in cui sono meno ricattabili o sottoposte, in famiglie di status sociale più elevato in cui ci si può permettere il pagamento anche di servizi privati o sono in posizioni che permettono una maggior conciliazione di tempi di vita come è per le insegnanti o nella Pa. Inoltre, le laureate hanno il vantaggio che hanno una divisione dei ruoli nella coppia migliore delle operaie o delle lavoratrici in proprio». Però la «strozzatura c’è – conclude Sabbadini – c’è un clima sociale assolutamente sfavorevole alla maternità e alla paternità, niente va incontro alle esigenze di chi vuole avere figli. Non c’è una causa, ma un complesso di fattori che scoraggiano».

La Stampa 04.03.14

"Ci disegnano così", di Massimo Gramellini

Ma ti pare possibile, sospirava al telefono un amico dopo l’Oscar a «La Grande Bellezza», che per gli altri noi siamo sempre e soltanto la nostalgia del passato, la decadenza infinita, i monumenti che cadono, i mosaici che si scrostano, l’antica Roma e la Roma dei papi, entrambe manipolate nel ricordo e inscatolate dagli stranieri dentro una sequela di luoghi comuni? Ti pare possibile che di un’Italia senza gladiatori, pizzaioli, pittori, mandolinisti, tenori, sarti, ruffiani, avvelenatori rinascimentali e playboy della mutua non interessi niente a nessuno? Ti rassicura questo rinchiuderci in un eterno cliché per compiacere i pregiudizi degli altri nei nostri confronti?

A tutte e tre le domande di quell’italiano riluttante ho risposto con un semplice monosillabo. Sì. L’autorevolezza in certi ruoli non si improvvisa. Noi per gli altri siamo ciò che venticinque secoli di storia hanno stabilito che fossimo: depositari distratti della grande bellezza e custodi approssimativi della memoria universale. Quando ci riusciamo, anche costruttori di benessere. Anni fa, alla delegazione tricolore che durante la visita a un importante organismo internazionale si lamentava perché nella struttura lavoravano dirigenti di ogni nazionalità tranne che della nostra, il direttore generale replicò sorpreso: «Vi sbagliate. Agli italiani abbiamo affidato un settore assolutamente cruciale: il catering».

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Il premio come avvertimento”, di GIANNI RIOTTA

Il cinema italiano ha vinto dodici Oscar prima del trionfo di domenica con Paolo Sorrentino e «La Grande Bellezza». Vittorio De Sica e Federico Fellini da soli ottengono sette statuette (più l’Oscar alla carriera per Fellini).

E d è «Sciuscià» di De Sica, vincitore nel 1948 di quello che allora si chiamava «Oscar Speciale», a metter le basi per il futuro «Premio al miglior film straniero». Prima di De Sica Hollywood guardava e premiava se stessa, indifferente a quanto accadeva lontano da Los Angeles e dalla scritta immensa sulla collina franosa, un tempo «Hollywoodland», poi orgogliosamente solo “Hollywood”.

Il cinema che l’America premia nel dopoguerra è il cinema italiano della realtà. De Sica vince nel 1948 con il bianco e nero tragico di «Sciuscià», neologismo italo-americano per «lustrascarpe», in un Paese che dal ’43 al ’45 conosce l’umiliazione della prostituzione, gli stupri di massa delle truppe coloniali. Nel 1950 De Sica rivince con «Ladri di biciclette», l’Italia che lo studioso Edward Banfield disprezza in un celebre saggio per il «familismo amorale», trova invece nella famiglia il riscatto, quando lo Stato crolla.

Hollywood premia l’Italia che eravamo davvero, e i critici nostrani parrucconi contestano il neorealismo, vergognandosi che i panni non vengano lavati in casa. De Sica rivince nel 1965 con «Ieri, oggi, domani», e già l’Italia della povera contrabbandiera Adelina – Sofia Loren -, costretta a restare sempre incinta per non andare in galera (personaggio ispirato dalla cronaca, con le 19 gravidanze di Concetta Muccardi, venditrice di Marlboro illegali) incontra il boom. Lo spogliarello sexy-ironico della Loren davanti all’incantato Marcello Mastroianni strega gli americani, sulle note di Abat-Jour di Henry Wright.

Anche l’Italia di Fellini oscilla tra realtà e fantasia, da «La strada» e «Le notti di Cabiria», premiati nel 1957 e 1958, alla nostalgia di «Amarcord», premio 1975, passando per il capolavoro «8 ½» statuetta 1965. È l’Italia del miracolo economico, in 15 anni passata da appena 7 case su 100 con acqua corrente, fognature e elettricità all’Oscar della valuta per la Lira, concesso nel 1960 dal Financial Times al Governatore di Bankitalia Menichella, da 430.000 automobili a 5 milioni di utilitarie e spider a scorrazzare in autostrada. Un’Italia ricca, che non lucida più scarpe o ruba biciclette, sensuale, ma incerta sul futuro, Dio, la politica, la propria identità. L’Italia senza Oscar di Antonioni.

La nostalgia per il Paese perduto rimpianto da Pasolini, commuoverà gli Usa con «Nuovo Cinema Paradiso» di Tornatore nel 1990, e l’ambiguità dell’italiano mandolinaro, eterno vitellone che non fa la guerra ma gli amorazzi ed elogia la vita come fuga da se stessi, colpisce Hollywood nel 1992 con «Mediterraneo» di Salvatores. Benigni, con la favola «La vita è bella», fa storia a sé.

L’America applaude quando ricordiamo ai membri dell’Academy il Paese che eravamo e più non siamo, o quando ci lanciamo nel Carnevale infingardo da Arlecchino e Pulcinella, pasticcioni, eleganti, sexy, pronti alla risata ma se c’è da fare sul serio, impegnarsi per un ideale, scappiamo con un flirt, un Gin Tonic, una bella pensione. In villa se va bene, altrimenti ci si accontenta della panchina. E gli intellettuali? Sproloquiano tronfi, dalla «Terrazza» di Ettore Scola con Gassman, a «La Grande Bellezza» di Sorrentino (guardate le perfette facce dell’editor Severino Cesari, che debutta come attore interpretando il marito della Direttrice nana).

Film italiani «duri», «La battaglia di Algeri» di Pontecorvo, «Gomorra» di Garrone, «Il generale Della Rovere» di De Sica, «Salvatore Giuliano» di Rosi, «Baaria» o «La migliore offerta» di Tornatore, dove la realtà prevale sulla malinconia, non persuadono l’Academy. L’Italia deve avere sapore di «Eataly», essere commestibile, Doc, a chilometro 0, ruspante e chic, piccante e senza colesterolo, colta e divertente, come i siti web delle agenzie turistiche propongono al viaggiatore Business Class.

Paolo Sorrentino – cui vanno vive congratulazioni per la vittoria, che speriamo riporti un po’ di ottimismo in giro da noi – firma il film dell’Italia rassegnata a non avere credibilità: le grandi aziende fuggono, i fondi di Borsa non investono, i laureati emigrano. Il suo è un apologo – giornalisti con attico sul Colosseo e feste da Grande Gatsby non ce ne sono più -, per mostrare il Paese com’era, vedi la cartolina dei primi 20, calligrafici, minuti. Il resto sono pasticci, smorfie, battute grevi alla «Jep» Servillo. La sua maschera, contrapposta da Sorrentino all’eleganza del Mastroianni di Fellini in «8 ½», ricorda un dribbling di Rivera davanti a un tackle di Gattuso, il design di un computer Olivetti di Sottsass contrapposto al piatto di «cacio e pepe» ammannito nei ristoranti trappola per turisti oggi. Il Paese che sperava e cresceva del 6% e il Paese che non sogna e cresce, dopo una generazione di stagno, dello 0,1%.

La nobildonna di Sorrentino guarda affranta la culla nella vecchia casa diventata Museo e noi siamo come lei. Mentre il Paese manda al governo con Renzi il leader più giovane da sempre, «La Grande Bellezza» è un monito: continuiamo così e finiamo eleganti straccioni a guardare il passato, vincendo magari un sacco di Oscar, ma senza un domani dignitoso.

La stampa 04.03.14

"Quante mani sulla statuetta", di Natalia Aspesi

Non perché tricolore, ma perché immaginato, voluto, scritto, diretto, da un giovane uomo colto, geniale, di grande capacità visionaria, napoletano e romano, in grado di uscire dal provincialismo di cui è affetto il nostro cinema, di raccontare i nostri guasti e la nostra disperazione, le nostre bellezze e le nostre brutture, con lo sguardo e il talento di chi sa incantare e rendere comprensibile oltre i nostri angusti confini, la confusione che preme sul nostro Paese: anche citando, nel momento dell’Oscar, come suoi “maestri”, Fellini e Scorsese, i Talking Heads e Maradona, le figure colte e popolari che lui condivide col mondo.
Se per 15 anni, dopo ben tre Oscar a Roberto Benigni e al suo
La vita è bella,
il cinema italiano, per decenni il più importante e venerato, non è più nemmeno riuscito a entrare nella rosa dei 5 finalisti (tranne
La bestia nel cuore
di Cristina Comencini, nel 2006), è dipeso spesso dal fatto che la commissione italiana sceglieva per gli Oscar un film per ragioni diverse dal suo valore; troppo mestamente italiano, poco stimolante per gli stranieri, mal distribuito all’estero, o anche davvero di gran lunga inferiore agli altri venuti dall’Iran o dalla Francia o dalla Russia.
Di questo Oscar molto sorrentiniano, si sta impossessando tutta l’Italia, come fosse una benedizione, arrivata a promuovere e incoraggiare l’ancora nebuloso cambiamento in atto nel Paese: e il premiato, conoscendo l’abitudine italiana di arrogarsi patriotticamente i meriti di altri, con la sua ironica flemma si è detto speranzoso che la sua vittoria e il nuovo governo «di cui non sappiamo ancora nulla della forza e del valore, marcino insieme: noi stiamo marciando bene, vediamo come marciano loro». Una specie di fraterno e dubbioso avvertimento, cui è ovviamente seguito una pioggia benedicente di twitter governativi, quelli del premier Renzi all’alba, inneggianti «all’iniezione di fiducia» che l’Oscar potrebbe
portare al Paese e magari anche a lui stesso, mentre Franceschini, appena insediato alla scrivania dei Beni culturali, argomento tra i più trascurati del Paese, ha twittato calorose felicitazioni.
La gente del cinema poi, ancora frastornata per un premio cui si era disabituata, si è sentita tutta premiata e riconosciuta, e c’è chi come Roberto Ciccutto, amministratore delegato di Istituto Luce e Cinecittà, ha definito la vittoria della
Grande bellezza
«un punto di non ritorno». Come se da oggi i produttori italiani dovessero diventare più ambiziosi, non affidandosi solo a cose ridanciane di pronto e solo italico incasso. O i finanziatori smettessero di darsela a gambe appena gli propongono del cinema intelligente, e i bravi registi che ci sono e che negli ultimi tempi hanno anche fatto buoni film, avessero il coraggio di pensarla più in grande, per gli spettatori del mondo.
Certo, il cinema in generale non se la passa benissimo, ma per esempio americani e francesi stanno puntando mucchi di denaro su buoni film; da noi manca questo coraggio, si stanno a contare gli euro soppesandone il rendimento, e anche
La Grande Bellezzacon
tutta la sua grandiosità e profondità, è costato tanto meno di qualsiasi filmetto americano a chi l’ha finanziato, cioè Medusa, cioè Berlusconi. Ma bisognerebbe anche che la gente tornasse ad andare nelle sale cinematografiche anche per evitare la barba dei talkshow e la soap della fiction. Poi, certo, passata la fase di orgoglio tricolore, dell’Oscar a Sorrentino, italiano però per conto suo e non di tutti, chi è impegnato politicamente, in pratica contro tutto e tutti, potrebbe finalmente accettare il fatto, per molti impossibile, che la cultura paga, e che siamo all’ennesimo fallimento se a Hollywood un nostro grande regista della nuova generazione al potere, vince un riconoscimento internazionale, e poi a Pompei crolla un’altra meraviglia; e per forza poi l’informazione straniera continua a considerarci con desolata sufficienza.

La Repubblica 04.03.14

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La bellezza dell’Oscar.Sorrentino: “Ripagato di 15 anni di fatiche ma ora provo a ripartire da zero”, di CURZIO MALTESE

SI FA in fretta una tazza di caffè Kimbo portato da casa e corre con il figlio Carlo, il produttore Nicola Giuliano e un amico di Napoli al bar italiano di Rodeo Drive, dove trasmettono la diretta di Livorno-Napoli. Impreca all’autorete del portiere Reina, sotto lo sguardo interrogativo degli avventori, e commenta alla fine con Nicola: «Speriamo che stasera vada meglio». Tanto per non dimenticare che anche il cinema è un gioco, uno dei più belli inventati dagli uomini, magari. È lo stesso Sorrentino che quando all’Academy annunciano la vittoria del suo film, assiste con calma olimpica all’assalto tifoso di mezza Hollywood che lo adora, Leonardo DiCaprio che davanti a lui stringe i pugni urlando «Italian movie! Italian movie!», Martin Scorsese che sbuca da dietro e lo abbraccia, Spike Lee che arriva da sotto e gli salta al collo e grida «Italy! Rome! Napoli! Paolo!», mentre più in là Cate Blanchett fa un mezzo inchino a Toni Servillo. Poi con passo timido sale sul palco ed è l’unico fra i cento nominati a non aver in tasca o in memoria il discorso scritto, perché è napoletano tendenza Eduardo, così che gli esce dal cuore pure il grazie ai Talking Heads e a Maradona. «Mannaggia, nell’emozione mi sono pure dimenticato di ricordare i due amici cui è dedicato il film, Maurizio Ricci, mio compagno d’infanzia, e Peppe D’Avanzo».
Un Oscar non cambia la vita, la stravolge. Alle nove del mattino dopo, nella casa dell’amico Thomas a Muholland Drive dove la famiglia Sorrentino aveva già festeggiato il Golden Globe, con la tazzina di caffè in mano e l’Oscar che ci guarda dalla mensola della cucina, gli domando se capiterà anche a lui. «E chi può sapere? Io ancora non mi rendo conto. Cerco di non farmela stravolgere. No, non penso di venire a lavorare qui. Non ne ho l’ambizione, o forse il coraggio, come l’ha avuto Muccino. Questo premio mi ripaga di quindici anni di fatica, di lavoro duro, ma ora provo a ripartire da zero. Non penso di dover fare subito un filmone. Voglio al contrario ricominciare con un film piccolo, intimo. L’ho già scritto. È una storia di amicizia fra due vecchi. Le riprese inizieranno a maggio, Michael Caine protagonista».
Per ora, la gloria di Hollywood, la pioggia di premi nel mondo, non l’ha cambiato. È come l’ho conosciuto quindici anni fa, al principio dell’avventura, a Napoli, primavera del ’99, curiosamente di ritorno in Italia dagli Oscar di Benigni. Grazie alla moglie Daniela D’Antonio, collega di
Repubblica, che nella notte ha incantato in mondovisione con un sorriso da star e un rosso Armani «terrific». Era allora un giovane di una timidezza d’altri tempi, squarciata da lampi di humour, grande ascoltatore, come capita a quelli molto intelligenti, interessato alla mia amicizia con Agostino Di Bartolomei, leggendario capitano della Roma di Liedholm. Aveva appena finito di scrivere la sceneggiatura del primo film L’uomo in più, che si chiude intorno al suicidio di un ex calciatore in mezzo a un campo di pallone deserto, come finì per il grande Ago. L’aveva capito meglio di chi l’aveva conosciuto. Le sceneggiature, anche quelle destinate a diventare buoni film, sono spesso avvincenti come un rapporto di polizia. La sua era scritta come un romanzo. «È una cosa che ho imparato, anzi diciamola tutta, ho copiato da Antonio Capuano, col quale avevo appena collaborato. Molti registi scrivono per poter poi girare. Io quasi giro film per poter prima scrivere. È il momento più bello. Forse perché non sono tanto capace di condividere le emozioni, sono più a mio agio nell’emozionarmi da solo, a commuovermi e a ridere nella scrittura, piuttosto che in mezzo agli altri. A parte questo, allora per me l’idea di trovare qualcuno disposto a investire un miliardo per il film di uno sconosciuto di 28 anni mi pareva un miracolo impossibile. Ma se la sceneggiatura fosse stata bella da leggere, la cosa avrebbe aiutato. Ero in ogni caso pronto ad aspettare anni per girare il primo film». E invece in soli quindici anni è arrivato al red carpet di Hollywood. Può servire a qualche giovane sfiduciato del Sud una storia come questa. «Il cinema a casa era una passione solo mia, come la letteratura. Mio padre lavorava al Banco di Napoli, la mamma casalinga. Una famiglia piccolo borghese dove in casa tenevamo soltanto qualche bestseller e l’ultimo vincitore dello Strega. Giusto mio fratello maggiore Marco ogni tanto portava a casa un VHS di Sergio Leone o David Lynch. Ma quando all’ultimo anno di liceo ho detto a casa che volevo fare lettere all’università, i miei genitori mi hanno guardato come se avessi appena confessato di farmi d’eroina. Non ho retto e ho detto subito che scherzavo, avrei fatto economia e commercio, come poi fu».
Subito dopo la vita gli è cambiata per sempre. A 17 anni, tornando un giorno da scuola, ha trovato la casa esplosa e mamma e papà uccisi dallo scoppio di una bombola. Pen-
sarci sempre, parlarne mai. Ed è questa la storia che sta dietro all’ultima frase detta dal palco dell’Academy, sollevando l’Oscar: «Sasà e Tina, this is for you». «Non è che non voglio parlarne, è che ancora non ci riesco. Per fortuna avevo i miei fratelli, Marco e Daniela. E poi passano gli anni, arriva l’amore, i figli, anche i riconoscimenti al tuo lavoro e tutto aiuta a voltare pagina. Ma a quell’età sembrava che fosse finita lì».
A volte squilla un telefonino al momento giusto. «È il presidente, devo rispondere». Giorgio Napolitano lo invita al Quirinale appena torna a Roma. Matteo Renzi pure «per una chiacchierata a tutto campo», linguaggio pop. «Eravamo rimasti all’Uomo in più?». Sì, la critica italiana l’accolse così così, invece gli americani se ne innamorarono subito, già allora, e il primo film di Sorrentino sbarcò a New York al Tribeca Festival di Robert De Niro. Stessa storia per Le conseguenze dell’amore.
«Tutti i miei film sono stati più amati più qui che in Italia. Tranne quello che avevo pensato per l’America ( This must be the place) e che fu naturalmente un flop. Con Toni Servillo ci dicevamo ieri che è andata bene così alla fine, è stato più bello conquistare l’Oscar con un film italianissimo». Però fa riflettere che il film italianissimo più premiato degli ultimi decenni, osannato dal New York Times alla stampa tedesca o britannica, abbia ricevuto stroncature in un solo paese del mondo, ovviamente l’Italia. «Che vogliamo farci? Siamo un grande paese, ma guardiamo a tutto con troppi pregiudizi. Io degli americani amo questo sguardo ingenuo, senza pregiudizi. Non è vero che amano i luoghi comuni sull’Italia, non l’hanno visto come un film su Roma o sul berlusconismo. Si sono abbandonati alle immagini, alle storie e ai sentimenti, alla pena e all’insensatezza della vita dei personaggi, si sono magari riconosciuti senza rabbia o offesa. Ho fatto molte proiezioni qui e a volte certe signore alla fine mi abbracciavano in lacrime, come avessi fatto Voglia di tenerezza.
Non è un caso che il film sia molto piaciuto qui a Los Angeles, un posto che pullula di party, feste, incontri che sembrano promettere chissà quali futuri radiosi e invece evaporano nello spazio di una notte. In Italia siamo dietrologi, si studiano le intenzioni che magari non ci sono».
Nel film non c’è alcun moralismo, nessuna condanna, semmai uno sguardo pietoso sulla mediocrità di certe vite, forse di tutte. Eppure deve aver toccato nervi scoperti per evocare reazioni d’insulto o dileggio. «È un film che emoziona e provoca anche disagio, qualcosa che un certo moralismo italiano non tollera. Poiché ormai sono condannato ogni giorno a un imbarazzante e improponibile paragone con Fellini, mi arrendo e cito Calvino su La dolce vita: il film di cui c’illudevamo di essere spettatori era in realtà la nostra vita». In compenso è arrivato l’entusiasmo non soltanto della critica mondiale, ma di tutti i registi che Sorrentino (e non solo) ama di più: Polanski, Scorsese, Allen, Cuaròn, i fratelli Coen. «Mi ha colpito quanto siano tutti attenti al cinema italiano. Non è vero che sono rimasti a De Sica e Fellini. Molti mi hanno citato Garrone, Guadagnino. Scorsese ha voluto a tutti i costi che gli mandassi la ripresa di Sabato, domenica e lunedì di Toni e io gli ho chiesto: ma come l’hai saputo? Sono informatissimi su quanto accade in Italia, in Europa. E del resto la forza del cinema americano più bello di questi decenni, quello degli italo americani, da Coppola a Scorsese, nasce proprio da quando muoversi fra vecchio e nuovo mondo, prendere il meglio del cinema europeo ai ritmi narrativi americani».
E comunque eccolo qui con la statuetta, nonostante l’eterno odio fra italiani, i governi che «con la cultura non si mangia». Il nostro ha investito 120 mila euro nella promozione di La grande bellezza a Hollywood. Il piccolo Belgio, due milioni. Comunque il pezzo d’Italia che ha accompagnato l’avventura di Paolo apre il cuore. Grandi attori come Herlitzka, Popolizio, Verdone e Ferilli e altri pronti a mettersi in gioco in ruoli inediti. Il grande fotografo Luca Bigazzi che nella notte degli Oscar è finito in piccionaia, con la sua aria da professore di Stanford, urlando come un matto. Lo scrittore Umberto Contarello, che nella tensione ha agguantato per dieci minuti la mano dello sconosciuto vicino, un venditore d’auto dell’Oklahoma grande due metri e due quintali. Il musicista Lele Marchitelli che all’annuncio, nella casa del console a Los Angeles, è scattato come all’ultimo rigore di Italia-Francia, insieme ai figli di Paolo e Daniela, Anna e Carlo, ai tanti amici, collaboratori, belle persone che hanno vinto con lui. E mentre scorrono i titoli di coda, arriva il messaggio più bello per Paolo. La chiamata e l’invito di DAM, Diego Armando Maradona, che lo ringrazia commosso. Qui tocca lasciarlo solo col mito e lo saluto, con un ultimo sguardo allo zio Oscar sulla mensola. Erano quindici anni che non lo guardavo da vicino, dal tavolino del terrazzo di Nicoletta e Roberto su Sunset Boulevard. Corrono troppo gli anni, ma ancora la vita è bella, una grande bellezza.

La Repubblica 04.03.14