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“Il papà gira in Ferrari, ma per l’università è povera”, di Massimo Lugli

La studentessa col papà che gira in Ferrari ma dichiara 19mila euro di reddito lordo. La ragazza che “dimentica” un tesoretto familiare da 600mila euro e ne denuncia appena 14 mila all’anno. La laureanda con villa e piscina annessa (tra l’altro: non risultava neanche al catasto) che si fa passare per indigente e presenta una dichiarazione da circa 5mila euro. Sono soltanto i casi più eclatanti ma la bugia, tra gli universitari romani, sembra diventata la regola. Tutti a mentire, nascondere, ridimensionare proprietà e conti in banca per accaparrarsi borse di studio, alloggi, mensa e trasporti gratuiti o facilitati e altre agevolazioni. Furbetti di oggi che rischiano di diventare i grandi evasori di domani. Un malcostume purtroppo dilagante, stando ai controlli delle Fiamme Gialle in collaborazione con gli atenei romani e la regione Lazio. I dati sono sconcertanti: il 62 per cento delle autocertificazioni Isee (Indicatore della situazione economica equivalente) sono bugiarde.
Qualcuno si è aggiudicato un taglio della retta fino a 1.700 euro, qualcun altro una borsa di studio di 26mila euro. Falsi poveri con la laurea in frode fiscale. E qualcuno ha indetto addirittura uno sciopero della fame contro le
multe da 5mila euro che sarebbero state inflitte per un errore del sistema elettronico.
Cifre che fanno riflettere. Nel 2013 i militari del generale Ivano Maccani, comandante provinciale della Guardia di finanza, hanno passato al setaccio 546 fascicoli scoprendo ben 340 irregolarità. Su un totale di quasi 196mila iscritti ai tre atenei capitolini, l’83 per cento ha presentato la richiesta per le facilitazioni (corredata di una documentazione che, spesso, è stata smentita dagli accertamenti) e, di questi, il 16 per cento è stato inserito nelle prime tre fasce di reddito «protette ». Tanto per dare un’idea, la studentessa con villa è piscina si è trovata catapultata, dopo le verifiche delle Fiamme Gialle, dalla prima alla sessantesima fascia.
«Chi si appropria di benefici a cui non ha diritto ruba gli aiuti a chi ne ha bisogno», ricorda Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio. «I dati sono sconcertanti ma dimostrano che qualcosa si può fare. Viviamo in una regione che, negli ultimi anni, ha ridotto il diritto allo studio: a giugno non erano state neanche state saldate le borse di studio del 2009, ma nel 2014 saremo in pari coi tempi».
Ai controlli non sfuggono gli studenti stranieri: su circa 7mila iscritti, il 90 per cento ha fatto richiesta dei benefici e, tra questi, il 15 per cento ha dichiarato un reddito inferiore ai mille euro. Luigi Frati, il rettore della Sapienza, delinea uno squarcio di speranza: «Nel 2009 alla nostra università c’era il 25 per cento di evasione. Ora su 20mila controlli effettuati nel 2012, sono saltati fuori appena 114 casi, meno dell’uno per mille. Le sanzioni sono salate e voglio che sia chiara una cosa: non ci saranno condoni».
I controlli della Finanza non sono casuali ma mirati e scattano dopo un lavoro di verifiche incrociate sulle banche dati: università, catasto, anagrafe tributaria. I “furbetti” sono avvertiti. E, nel frattempo, le Fiamme gialle continuano a lavorare anche sugli affitti per studenti in nero. Tra pochi giorni un camper delle Fiamme gialle inizierà a girare negli atenei per raccogliere le denunce. Chi smaschera un padrone di casa disonesto verrà premiato: potrà pagare un canone basato sulla reddita catastale e risparmiare il 60 per cento della spesa.

La Repubblica 29.11.13

La lettera delle Donne del Pd ai candidati alle primarie

Le coordinatrici regionali e delle grandi città delle donne Partito Democratico con la coordinatrice nazionale, Roberta Agostini, scrivono ai tre candidati alla Segreteria Nazionale per promuovere una discussione su temi importanti durante l’ultima fase della campagna congressuale e per chiedere alcuni impegni.

Le donne del Pd vogliono che “l’aumento del tasso di occupazione femminile, il rilancio di politiche per l’infanzia, per la non autosufficienza, per il sostegno alla maternità e contro la povertà siano priorità del Pd e del governo che sosteniamo perché sono politiche che non servono solo alle donne, ma rappresentano un passo avanti verso una nuova crescita democratica”.

Inoltre, “il tema dei diritti è sempre più centrale in una moderna società civile. Per questo – continuano – è necessario dare piena attuazione alla legge 194, cambiare la legge 40, rilanciare politiche pubbliche contro la violenza ed il femminicidio, affermare l’universalità dei diritti delle donne come diritti umani, a partire da quelli delle migranti”.

Le Democratiche pongono ai candidati alla segreteria questi temi convinte che senza un’assunzione del punto di vista delle donne non ci potrà essere cambiamento. “La condivisione della responsabilità dello spazio pubblico è condizione essenziale per rivolgere proposte moderne ed avanzate alla società italiana”. Per questo, scrivono le coordinatrici Democratiche, “dobbiamo cambiare leggi elettorali, regole, statuti, nel senso di una piena attuazione della parità di genere e, per quanto riguarda il nostro Partito, applicare le regole che ci siamo dati: parità di genere nelle liste per l’assemblea nazionale, nella scelta dei capilista e in tutti in tutti gli organismi di direzione politica, sia a livello nazionale che nei territori”.

“Vogliamo che sia rilanciata”, scrivono ancora, “la Conferenza delle donne del PD come luogo importante non solo per l’elaborazione di idee e proposte, ma anche per consolidare e valorizzare una classe dirigente di donne democratiche”.

www.partito democratico.it

«Grazie ai nuovi interventi aiutiamo 400mila poveri», di Bianca Di Giovanni

C’è chi avverte che non si può parlare di reddito minimo, chi sottolinea che si tratta della vecchia social card targata Tremonti-Sacconi (in realtà già superata dal governo Monti con una misura completamente ristrutturata di inclusione sociale). Come stanno davvero le cose sul welfare nell’ultima versione della legge di Stabilità? Lo chiediamo a Maria Cecilia Guerra, sottosegretario al lavoro con delega alle politiche sociali. Sacconi attacca dicendo che non si tratta di reddito minimo, quindi nessuna novità.
«Qui ci stiamo perdendo sulle definizioni, dimenticando la sostanza. Posso dire che con l’emendamento Pd inserito in Senato le risorse per la lotta alla povertà nel 2014 sfiorano i 500 milioni. Grazie a questo possiamo essere sicuri che entro la fine dell’ anno prossimo avremo a disposizione una misura di contrasto alla povertà su tutto il territorio nazionale. Un passo avanti rispetto alle sperimentazioni avviate finora, relative alle 12 città con oltre 250mila abitanti e alle 8 Regioni del Sud. Il prossimo obiettivo sarà estendere la misura anche agli anni successivi».

A chi si rivolge l’intervento?

«Con la nuova misura potremo raggiungere circa 400mila persone che si trovano sotto la soglia di povertà. Purtroppo si tratta ancora di meno del 10% delle persone povere italiane censite dall’Istat. In ogni caso lo strumento è rivolto alle famiglie con almeno un minore e in cui gli adulti hanno perso il lavoro. Ricordo che gli ultimi dati sulla povertà rilevano il fenomeno in forte crescita tra i nuclei con uno o due minori, la cui incidenza sull’intera platea di poveri è salita dal 5,8% all’11%. Questo ci conferma che dobbiamo agire nelle realtà dove ci sono i bambini».

Perché si insiste sul fatto che non si tratta di un semplice reddito minimo? «Perchè non è automatico. È uno strumento di inclusione sociale, nel senso che al sostegno economico si affiancano misure di accompagnamento: c’è una presa in carico da parte dei servizi sociali che chiede impegni precisi come l’inclusione scolastica dei bambini, le cure sanitarie, corsi di formazione per gli adulti. È chiaro che stiamo parlando di risorse ancora insufficienti per un sostegno universale. In ogni caso questa versione non provoca la cosiddetta trappola della povertà, ma produce inclusione proprio per gli impegni che richiede attraverso un piano personalizzato disegnato sulle esigenze della famiglia presa in carico».
Si può dire che con questa misura si esce dalla «lista nera» dell’Europa, dove siamo gli unici con la Grecia a non avere uno strumento contro la povertà?
«Possiamo dire che è il primo passo, e aggiungo che finalmente la legge di Stabilità non si occupa solo del lavoro, ma anche del disagio sociale. Questa è la novità. Non si tratta solo di assistenza, ma di inclusione attiva. Un nuovo modo di risolvere i problemi sociali».
Come arriva a parlare di 500 milioni?
«Erano già stanziati 250 milioni per la sperimentazione della nuova social card. Poi ci sono 167 milioni per le Regioni del Sud, infine 50 milioni per la sperimentazione nelle 12 città di più di 250mila abitanti, e infine l’emendamento del Senato ha aggiunto 40 milioni per ciascun anno nel triennio 2014-16. La cosa più importante è la programmazione triennale: non ci si ferma al primo anno».

Che altro c’è sul fronte del welfare?

«Molto importante è il rifinanziamento dei fondi per le politiche sociali e per la non autosufficienza. Quest’ultimo è arrivato in Senato con una dote di 250 milioni e ne è uscito con 350 milioni, con una sezione dedicata ai casi gravissimi. Con le Regioni si dovranno decidere gli obiettivi da raggiungere, che dovranno essere monitorati. Tra questi, c’è l’avvio degli aiuti a domicilio per i casi gravi».

Cosa c’è ancora da fare?

«Purtroppo sono rimasti scoperti due aspetti. Il primo riguarda il ripristino del fondo per l’infanzia, che si è fermato a 20 milioni rispetto ai 40 necessari. L’altro capitolo è quello dei minori stranieri non accompagnati, la cui cura è affidata ai Comuni. Ci sono alcune città in cui il problema è molto forte, in altre invece non esiste. Bisogna fare qualcosa per i Comuni più esposti. Alla Camera farò di tutto perché questo avvenga: è un segnale che va dato. Ma il senato ha introdotto anche un’altra misura». Quale?

«Il riconoscimento ai fini della pensione anticipata dei congedi presi per la legge 104».

L’Unità 28.11.13

“Povera scienza”, di Giulio Azzolini

«I problemi che affliggono la ricerca scientifica in Italia sono complessi. Faccia caso a quanto è marginale il dibattito scientifico nel nostro discorso pubblico, pensi alla sua subordinazione nei confronti della cultura umanistica e, soprattutto, tenga conto della cronica mancanza di fondi». Vincenzo Balzani, professore emerito all’Università di Bologna e chimico apprezzato in tutto il mondo per le ricerche sul fotochimico inorganico, guarda in prospettiva alle polemiche che negli ultimi giorni hanno acceso la comunità scientifica italiana. A scatenarle il Consiglio dei ministri di giovedì scorso con l’approvazione in via preliminare di una legge contraria alla sperimentazione animale. Ieri, su queste pagine, la neosenatrice a vita Elena Cattaneo si rivolgeva direttamente a Napolitano e a Letta, paventando il rischio capitale che quella norma rappresenterebbe per lo sviluppo della ricerca biomedica.
Professore, cosa pensa della legge 96?
«Non è il mio campo, ma mi sembrerebbe ragionevole tornare alla posizione stabilita nella normativa europea, che è meno restrittiva della legge approvata dal Parlamento italiano».
Ritiene che questo caso sia emblematico per giudicare grave la condizione della ricerca in Italia come ha fatto
Nature Neuroscience?
«Non si può dire che goda di buona salute. Ma la vera ragione sono i tagli che da vent’anni intaccano continuamente non solo i fondi alla ricerca, ma anche quelli all’istruzione, che ne è la base. Naturalmente, alla fine in Italia ci si arrangia. Si finisce per specializzarsi negli aspetti della ricerca che costano di meno. Per esempio, noi a Bologna abbiamo fatto delle scoperte chimiche straordinarie lavorando direttamente sulle molecole, perché i grandi macchinari costano troppo. Ma, certo, l’alta ricerca scientifica in Italia resta appannaggio di piccole nicchie».
Lunedì, insieme al fisico Giorgio Parisi e alla biologa Michela Matteoli, lei è stato premiato con il Nature Award for Mentoring in Science 2013 dalla rivista Nature. Ma allora qual è il livello degli scienziati italiani?
«I nostri ricercatori non hanno niente da invidiare a quelli stranieri. Se si analizza la produttività degli scienziati italiani per unità di spesa, si scopre che è tra le più alte d’Europa. E inoltre io ho un sacco di allievi che hanno fatto carriere brillanti all’estero, anche perché l’università italiana prepara ancora abbastanza bene i suoi studenti. I problemi riguardano la ricerca. Concretamente, i fondi per i dottorandi e per i ricercatori sono davvero scarsi».
Se siamo arrivati a questo punto, non pensa che parte della responsabilità gravi anche sui professori e sul sistema accademico?
«In Italia le raccomandazioni valgono in ogni settore. Ma è vero che fino a qualche anno fa i soldi erano distribuiti in modo clientelare. Oggi, grazie ai sorteggi nelle commissioni e soprattutto grazie al fatto che cominciano a sparire i vecchi baroni, le cose stanno un po’ migliorando. Con il nuovo metodo di valutazione che assegna i fondi sulla base della produttività, le università forse hanno capito che se assumono persone di scarso valore finiscono per darsi la zappa sui piedi».
Come si esce da questo stallo?
«Restituendo presto un po’ di soldi alla ricerca, ce la caveremmo benissimo. Siamo in crisi, ma per uscire dalla crisi non si possono ridurre i finanziamenti all’istruzione e alla ricerca. Anzi, quanto più un Paese è in crisi tanto più deve potenziare l’istruzione e la ricerca scientifica. Così fanno tutte le grandi nazioni. La verità è che negli ultimi anni la ricerca in Italia è stata tenuta a galla dai fondi comunitari. Perché l’Unione Europea, a differenza dei governi che si sono succeduti in Italia negli ultimi vent’anni, ha dimostrato una strategia. Da noi non solo si taglia, ma è totalmente assente un indirizzo politico generale. Pensi al settore energetico. L’Italia non ha carbone, non ha petrolio, non ha metano, e qualche tempo fa il ministro Zanonato diceva ancora che si sarebbe dovuto parlare di nucleare. Ma sa che nel 2011 il fotovoltaico montato sui tetti italiani ha prodotto una quantità di energia pari a quella che produrrebbe una centrale nucleare»?
Su quali settori dovremmo investire?
«Sulle energie rinnovabili, ovviamente. Ma anche sulle nanotecnologie e sulla filiera del cibo. E poi c’è la questione culturale: i mezzi di informazione devono aiutare a diffondere la scienza. Bisogna far capire alla gente che sarà inevitabile consumare di meno».
Tanto più che gli italiani, diceva, sanno arrangiarsi…
«Appunto. Altro che trivellare l’Adriatico per trovare una goccia di petrolio…».
Quanto pesa culturalmente e politicamente la Chiesa cattolica sulla ricerca scientifica?
«Non direi che la Chiesa oggi ostacoli la ricerca. È chiaro che nel campo della biologia e della medicina, possono sorgere dei problemi, ma si tratta di questioni di natura bioetica. Quando si toccano i principi della vita, questo lo sanno gli stessi scienziati, ci vuole molta prudenza. La Chiesa, che spesso viene identificata con le sue frange più retrograde, è invece molto avanti negli altri settori della scienza e non li ostacola affatto. Perché tra scienza e fede non c’è contrapposizione. Riguardano entrambe l’uomo, ma occupano piani diversi».

La Repubblica 28.11.13

“Il duce semidio e l’amnesia italiana”, di Franco Cordero

Giovedì 10 aprile 1930, nella Casa del Fascio sulla milanese piazza Belgioioso, l’arcivescovo cardinale Ildefonso Schuster benedice l’ivi fondata Scuola di mistica fascista. L’insegna antirazionalistica è esplicita nell’aggettivo: i discenti s’immergono nel «pensiero del Duce»; al quale debbono una «fede intransigente», ribadita nel triplice imperativo «credere, ubbidire, combattere». Ormai ha uno status metaumano l’ex socialista anarcoide: dirigeva l’Avanti; improvvisamente bellicoso contro i reazionari Imperi centrali, s’era guadagnata l’espulsione dal partito antimilitarista. Post vittoria mutilata (così la deplora D’Annunzio) scompare al primo vaglio elettorale: nemmeno un seggio, ma riapparso come mano armata delle classi padronali nel velleitario biennio rosso, non ancora quarantenne, dal 31 ottobre 1922 guida un lunghissimo governo (20 anni,8 mesi, 25 giorni) nella girandola dei ministri, finché i carabinieri l’arrestano a Villa Savoia, domenica 25 luglio. Sapeva gestire l’anima collettiva e se avesse l’astuzia cautelosa dell’allievo dittatore spagnolo, Francisco Franco y Bahamonde, invecchierebbe tra Villa Torlonia e Sala del Mappamondo, magari entrando in guerra dalla parte vincente contro lo psicotico caporale austriaco. Ha tre doti utili nell’Italia ancora controriformista: parla e scrive in battute imperiose; fiuta gli umori della folla; intende la politica come teatro. Tra i difetti è un macigno l’Io ipertrofico i cui rumori gli confondono la mente, sicché stravede, sordo ai fatti: crede d’avere forgiato una razza guerriera, munendola d’armi formidabili; l’applaudono generali, ammiragli, industriali. L’assurda avventura abissina incantava gl’italiani, inclusi eminenti antifascisti quali Benedetto Croce o Vittorio Emanuele Orlando. Secondo lui, Francia e democrazie anglosassoni sono biologicamente condannate, quindi salta sul carro hitleriano, 10 giugno 1940 (illo tempore malediceva gli Unni): con mille o duemila morti vuol farsi un secondo impero mediterraneo; ha gran paura che Berlino e Londra transigano. Non gli dicono niente l’offensiva aerea fallita nel cielo inglese e il mancato «Leone marino». Churchill manda in Egitto parte dei pochi carri armati disponibili, avendo individuato nell’Italia il «ventre molle dell’Asse». Metafora perfetta. Era una partita intellettuale: l’empirista britanno combina cervello freddo e fantasia strategica; l’oratore romagnolo declama ruotando gli occhi, mani sui fianchi, mascella in fuori. Siccome Hitler s’è preso il petrolio rumeno, lui vuol restituirgli il colpo invadendo la Grecia nell’anniversario della Marcia su Roma, 28 ottobre: atto allucinatorio, sul presupposto che l’assalita non resista; invece combatte; manca poco che perdiamo l’Albania, appendice sabauda, mentre gl’inglesi in Libia sbaragliano un piagnucoloso Rodolfo Graziani, già eroe sanguinario contro gl’inermi. A parte qualche illusione presto spenta in Egitto e sul Don, il séguito porta sventure. Finché nella notte da sabato a domenica 25 luglio 1943 il Gran Consiglio restituisce i poteri a Sua Maestà: l’odg era «tradimento dell’idea»; conia questo singolare nomen delictiun Tribunale costituito ad hoccomminando condanne a morte; uno dei fucilati nella schiena è Galeazzo Ciano, vanesio ex ministro degli Esteri, genero-delfino, odiato dagli squadristi (non gli perdonano la carriera fulminea).
I cinque traditori muoiono nel poligono veronese l’11 gennaio 1944. Torniamo indietro d’un mese, e chiedo scusa se i verbi saltano alla prima persona. Siamo ricaduti in mano fascista. Domenica 12 settembre reparti della divisione SS Leibstandarte occupavano Cuneo: sette giorni dopo, Joachim Peiper massacra e incendia Boves; dispersi della IV Armata resistono. Sotto mano nazista nasce una Repubblica cosiddetta sociale. Le scuole riaprono tardi, lunedì 15 novembre, mentre i revenants neri tengono congresso a Verona. Siamo in quinta ginnasio. L’indomani nevica. Lunedì 6 dicembre nel sobborgo sulla riva destra del Gesso qualcuno visita Edoardo Cumar, fattorino del Fascio, nonché pugile, ora adibito alle sevizie: vengono a prenderlo partigiani scesi dalla Bisalta, ma il nome non circola ancora; li chiamano ribelli o patrioti. L’indomani sera, vigilia dell’Immacolata, tripodi accesi e guardia armata segnalano una camera ardente aperta al pubblico; vi metto piede, mosso da incauta curiosità. L’estinto giace in alta uniforme. Ai vecchi tempi passava pedalando, chino sul manubrio, e qualcuno gridava «ciao Cumar». Dev’essere forestiero un tale ben vestito in borghese, che racconta a due signore d’analoga figura come l’abbiano rinvenuto. La conclusione suona commiserante: «finiremo tutti così, l’hanno ucciso perché stava con noi»; le madame ascoltano compunte. Ipocriti, penso: sanno benissimo perché sia morto; la fede fascista non c’entra; i padroni gli affidavano lavori sporchi e li riteneva importanti, orgoglioso della promozione; abitava fuori città sentendosi sicuro. L’epopea repubblichina dura 19 mesi, squallida: gli esteti guerrieri della bella morte spariscono; a Cuneo, domenica 29 aprile non ne resta uno. Viene comodo pensare che i vent’anni fossero un incubo svanito al mattino, e così, senza dolorose autoanalisi, chiude i contiBenedetto Croce.

La Repubblica 28.11.13

“Staminali, ascoltate i nostri ricercatori”, di Carlo Flamigni

I malati e i parenti dei malati che protestano davanti ai palazzi del potere perché esigono (non chiedono, esigono) di poter utilizzare cure sperimentali sono, in ultima analisi, le stesse persone che esigevano di aver accesso alle cure anti-tumorali di un medico di Modena.
Quel medico che proponeva loro e che oggi sappiamo essere del tutto prive di effetti terapeutici. Queste persone chiedono che sia lo Stato a farsi carico di queste terapie, il che significa che esiste, a questo proposito, un coinvolgimento collettivo: se non fosse così, credo che non interverrei sul merito del problema. Queste persone sono certe di essere nel giusto e di chiedere cose che hanno il diritto di ottenere. Sono in buona fede e hanno tutti i motivi del mondo per battersi per le proprie ragioni. Credo che sia giusto discutere con loro i motivi che inducono molti di noi a ritenere che siano invece nel torto, con la premessa che il verbo discutere implica il dovere di entrambe le parti di ascoltare (non fingere di ascoltare ) l’altra, disponibili sempre a considerare con grande attenzione le sue ragioni e anche (soprattutto) a cambiare idea.
Debbo cominciare con una premessa, banale, ma necessaria: la medicina non è una scienza e non possiede verità assolute, è invece una disciplina empirica che vive sui consensi. I medici si confrontano continuamente con una serie di perplessità, molte delle quali prospettano soluzioni multiple e pertanto hanno bisogno di una selezione razionale: è utile un certo farmaco? Quando si deve considerare irreversibile uno stato comatoso? Quando considerare terminato uno studio sperimentale? Qual è la miglior definizione di un certo evento biologico? In questi casi è prassi affidare la soluzione del problema alle persone considerate più esperte e competenti, le quali decidono tenendo conto di alcune regole considerate adatte a quel particolare dilemma e scelte sulla base del principio di razionalità.
Tutti i medici sono consapevoli del fatto che un consenso comincia a morire dal momento stesso in cui è stato formulato: nuove conoscenze, migliori interpretazioni delle conoscenze in nostro possesso, ci costringeranno in tempi più o meno brevi a modificare la maggior parte dei consensi, qualche volta in modo clamoroso, qualche volta in modo impercettibile. Ma fino a quando il nuovo consenso non verrà formulato, l’esistente è la nostra verità, l’unica alla quale possiamo ispirare le nostre scelte. Perché, questo è un altro problema fondamentale, il percorso del medico non è illuminato da una luce che arriva dall’alto e, quando va bene, tutto dipende dalla fiaccola che gli hanno messo in mano quando ha iniziato il suo cammino.
I consensi non servono solo per stabilire se un determinato farmaco è utile o se invece i suoi effetti collaterali sono superiori a quelli ritenuti terapeutici, hanno anche altre finalità: ad esempio regolano la significatività delle esperienze e stabiliscono, solo per fare un esempio, che nessuna sperimentazione ha valore se non viene confermata, elencano le modalità necessarie per considerare utile e onesto uno studio clinico e via dicendo. Non accettare questa serie di regole è, ancor prima che stupido, disonesto: è disonesto affermare che la cosiddetta pillola del giorno dopo è embrionicida, perché l’Organizzazione Mondiale della Sanità, basandosi sui consensi dei suoi ricercatori, ha detto che non è così; è disonesto affermare che la gravidanza comincia dal concepimento, perché la stessa organizzazione ha stabilito che l’inizio della gestazione coincide con l’impianto dell’embrione in utero; è disonesto (ma anche molto stupido) affermare che i maschi della nostra specie diventano sterili perché le femmine della nostra specie prendono la pillola e poi riversano tonnellate di questi potenti ormoni nell’ambiente (insomma, fanno la pipi nei prati) e lo inquinano. Bisognerebbe tener conto di queste regole (e anche del fatto che una medicina senza regole certe si preannuncia come un vero disastro) quando si ragiona sulle medicine alternative, un’analisi che dovrebbe richiedere maggiore attenzione da entrambe le parti: perché è vero che alcune di queste medicine non riescono a dare alcuna prova della propria efficacia, ma è anche vero che alcune di esse (ad esempio le fitoterapie) ce le siamo dimenticate noi, posso stilare un elenco di molte pagine citando erbe che potrebbero avere capacità terapeutiche e che non sono mai state sperimentate. Ma lasciatemi dire alcune cose anche sulle cellule staminali: in questo Paese (e non accade purtroppo per tutti i possibili temi di ricerca) abbiano la fortuna di avere alcuni esperti considerati con grande rispetto da tutti gli scienziati del mondo. Ebbene questi esperti concordano nel dichiarare che non esistono prove dell’efficacia delle cellule staminali nella cura di alcune patologie, che non esiste a tutt’oggi una documentazione credibile della loro efficacia e che non è nemmeno possibile dichiarare che sono prive di effetti negativi. Per giustificare gli apparenti miglioramenti che sarebbero stati osservati nel corso di questi terapie sperimentali si possono elencare molte possibili cause, nessuna delle quali ha veramente a che fare col risultato di un effetto positivo delle cure.
Ho letto, con molto dispiacere, che i nostri scienziati sono stati accusati delle cose più sgradevoli e strane, e lo trovo profondamente ingiusto. Sarei veramente stupito se scoprissi che qualcuno di loro ha interessi personali e trova vantaggio nel prendere un partito piuttosto che un altro: ne conosco più d’uno (ad esempio ho lavorato a lungo nel Comitato di Bioetica con la professoressa Cattaneo) e ho per loro rispetto e ammirazione. Non ho alcun dovere nei loro confronti e non credo di essere conosciuto come persona dal giudizio facile, per cui vi prego di credermi se dico che si tratta di ricercatori pieni di umanità, dotati di una grande capacità di compassione, cittadini esemplari e trasparenti. Per favore, ascoltateli.

L’Unità 28.11.13

“Quegli insulti a Piano e Rubbia”, di Curzio Maltese

«Vergogna!». L’urlo dei senatori di Forza Italia contro Renzo Piano, Carlo Rubbia ed Elena Cattaneo riassume da solo il senso di vent’anni all’insegna del rovesciamento d’ogni valore. È la frase storica di una giornata che non ne ha prodotta nessuna. Proviamo a guardarla, la scena, con occhi stranieri. Come la vedono nel resto del mondo civile, non assuefatti come i nostri da decenni di talk show dove tutto è uguale a tutto. Da una parte stanno un genio dell’architettura, il “Brunelleschi del ventesimo secolo” (New York Times), un premio Nobel per la fisica degno erede della tradizione di Enrico Fermi e una ricercatrice stimata nei circoli scientifici internazionali. Dall’altra un pugno di cortigiani miracolati senza un mestiere, ben rappresentati da Bondi e Gasparri, felici di riverire un padrone già piduista, datore di lavoro di boss mafiosi, ora condannato in via definitiva per frode fiscale, in primo grado per prostituzione minorile, sotto processo per corruzione di giudici e po-litici, considerato un «clown» da mezza stampa mondiale. E questi dicono a quelli «vergognatevi!». «Sublime» l’ha definito Piano, a ragione.
Nella logica sotto-culturale del berlusconismo il tutto, s’intende, non fa una piega. Se Berlusconi vincerà ancora, probabilmente avremo una via di Palermo intitolata a Vittorio Mangano, eroe. E se il capo mandamento di Porta Nuova e killer della mafia è un eroe, ne consegue che un premio Nobel debba vergognarsi, e noi con lui. L’odio viscerale dei berluscones per chiunque si ostini a onorare il nome dell’Italia nel mondo è del resto antico quanto il berlusconismo. Prima di Rubbia e Piano, il bersaglio preferito degli strali dei cortigiani di re Silvio era Rita Levi Montalcini, anche lei macchiata da un premio Nobel. «Una vecchia rimbambita », «le porteremo le stampelle a casa » (Storace), «è molto meglio Scilipoti di quella là» (Bossi). La gloria scientifica, in effetti, rischia di rovinare all’estero la solida fama degli italiani come puttanieri, mafiosi, frodatori del fisco e corrotti, che per fortuna altri personaggi pubblici continuano a tenere ben alta e con malcelata fierezza.
È questo disprezzo per l’eccellenza ad animare il livore sempiterno dei berluscones.
Naturalmente poi bisogna cercare un pretesto. In questo caso si sono scagliati contro le troppe assenze dei senatori a vita, che pure in media sono stati presenti alle votazioni del Senato molto più del loro beneamato leader Berlusconi. Il quale, peraltro, non ha neppure l’alibi di essere impegnato in studi cruciali per il futuro dell’umanità come Rubbia, o di avere una dozzina di cantieri aperti in tre o quattro continenti, come Piano. Per quanto, certo, il bunga bunga prenda un sacco di tempo e di energie.
Il rovesciamento della realtà e dei valori è del resto tanto più efficace quanto più è radicale e insistito. Con l’aiuto dei talk show siamo, infatti, l’unica nazione nella storia della democrazia che sta discutendo da mesi se è proprio il caso di interdire dalle cariche pubbliche un delinquente. Si tratta del capolavoro finale dell’egemonia culturale berlusconiana di un intero ventennio. La totale perdita di senso delle parole.
“Vergogna”, secondo il dizionario italiano, “è il turbamento o il timore che si provano per azioni sconvenienti, indecenti, indecorose che sono o possono essere causa di disonore e rimprovero”. Ma è evidente che ormai lo Zingarelli, così come la Costituzione, è vecchio e va riscritto.

La Repubblica 28.11.13