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"Patrimonio culturale: soldi da trovare perché la storia non ha prezzo", di Manuela Ghizzoni

Quello che è accaduto il 20 e il 29 maggio ha segnato le vite di chi vive nei comuni di Emilia, Lombardia e Veneto in modo indelebile. E lo dico per esperienza personale, vivendo a Carpi. In quelle scosse è andato tutto perduto. Tutto, ma non la determinazione e la dignità con la quale quelle persone chiedono alle Istituzioni, alla politica, di fare presto, di dare a queste comunità gli strumenti per una immediata ripartenza. Quindi bene il rigore, bene la revisione della spesa pubblica, bene il controllo dello spread, ma noi parliamo di case, di scuole, di ospedali e di imprese che occupano migliaia di lavoratori. In momenti straordinari, occorrono provvedimenti straordinari, non servono giri di parole, occorrono fatti. Il decreto in conversione è un primo passo per superare l’emergenza e cominciare ad impostare la ricostruzione. Molti altri ne restano da compiere, sebbene il testo sia stato integrato.

Bisogna dar merito alla Commissione Cultura, che presiedo, di aver trovato una sintesi unitaria per definire soluzioni ai problemi. Problemi che la Commissione ha potuto toccare con mano nella missione che ci ha portato a Cavezzo, a San Benedetto Po e Pegognaga. Un viaggio per acquisire la consapevolezza necessaria ad assumere decisioni che incideranno sulla vita delle persone che ora si attendono dallo Stato non miracoli, non regalie, ma strumenti per poter rendere esigibile il loro diritto alla casa, al lavoro, all’istruzione.

Nel parere unanime della VII Commissione vi erano le richieste di incrementare le risorse stanziate per l’edilizia scolastica, potenziare l’organico del personale, intervenire a favore del diritto allo studio; disporre un fondo per la messa in sicurezza del patrimonio culturale; aumentare il personale degli uffici periferici del Mibac; disporre, a fronte dell’inagibilità di teatri e cinema, misure per sostenere le imprese e tutelare i lavoratori del settore; prevedere interventi che consentano agli impianti sportivi, che oggi ospitano gli sfollati, di tornare alla loro funzionalità originaria.

Forse queste richieste appaiono non tutte prioritarie, ma vengono

dagli amministratori che stanno progettando strategicamente il futuro e sanno di non poterlo fare se non tenendo insieme le misure per contrastare il disagio con quelle per sostenere l’agio. Perché espressione di identità culturale significa socialità espressa nei luoghi della cultura, luoghi che parlano della idea di comunità. Di questo elenco di richieste un traguardo, non scontato, è stato raggiunto con due emendamenti. Il primo dispone che, per il ripristino e la messa in sicurezza delle scuole, venga assegnata alle province e ai comuni il 60% dello stanziamento di 200 milioni per l’edilizia scolastica del Paese. È congruo che parte delle risorse nazionali vada a quei territori dove i dati sulle scuole inagibili sono impressionanti.

Solo in Emilia sono 429 gli istituti colpiti, con oltre 770 classi inagibili, 18 mila studenti, che nel prossimo anno scolastico troveranno sede in moduli e scuole prefabbricate. Altrettanto importante il secondo emendamento approvato, che si compone di due commi. Il primo prevede, per il personale degli uffici periferici del Mibac che dal 20 maggio lavora 12 ore al giorno, il compenso per prestazioni di lavoro straordinario e il rimborso delle spese di missione. Il secondo dispone 20 ml di euro da mettere in capo alle direzioni regionali, per affrontare la messa in sicurezza degli immobili, il ricovero dei beni culturali mobili, la rimozione controllata delle macerie; interventi che riguarderanno, solo in Emilia, circa 1.335 strutture del patrimonio culturale Si tratta di interventi delicati e onerosi, che vanno affrontati anche per rimuovere i pericoli per l’incolumità dei cittadini e per l’agibilità di edifici privati che derivano, ad esempio, da una torre civica o da un campanile dissestati. Se il fondo di 20 ml non dovesse realizzarsi si condannerà alla definitiva chiusura i centri storici, al crollo edifici civici e religiosi, ma soprattutto si vanificheranno anche i finanziamenti disposti per l’edilizia scolastica e privata. Il Parlamento dovrà fare di tutto perché un terremoto non obliteri testimonianze altissime di civiltà. Un impegno che riguarda tutto il Paese, perché senza le province coinvolte dal sisma l’Italia non sarebbe tale e noi, senza il resto dell’Italia, non saremmo che antichi principati in cerca di identità.

* Presidente Commissione Cultura, scienza e istruzione

L’Unità 10.07.12

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«Per l’Emilia terremotata questi fondi non bastano» di Giulia Gentile

Al netto del «buon lavoro» già compiu- to, serviranno più soldi per ricostruire l’Emilia-Romagna martoriata dalle scosse di terremoto di fine maggio e inizio giugno. E occorrerà trovarli al più presto, per evitare che – fra decreti per il contenimento della spesa pubbli- ca ed altre manovre – ci si fermi a quei due miliardi che per molti rappresen- tano solo la metà dell’occorrente. Nel giorno in cui la Camera dei deputati inizia a discutere il decreto sulla ripar- tizione dei fondi per la ricostruzione post-sisma, varato la scorsa settimana dall’esecutivo Monti, parlamentari e mondo dell’economia ragionano su ciò che già è stato inserito nel docu- mento, e su cosa servirà invece per far sì che, dice il deputato ferrarese Pd Alessandro Bratti, «la nostra terra muoia dieci volte, invece di una».

OLTRE DUE MILIARDI ALL’EMILIA

Il testo firmato il 4 luglio prevede di destinare all’Emilia-Romagna il 95% dei due miliardi e mezzo già annuncia- ti per i lavori di ripristino nelle regioni

colpite, e il restante 5% a Lombardia e Veneto. Ma già, all’indomani del “sì” al provvedimento, il governatore e commissario straordinario per la rico- struzione dell’Emilia-Romagna, Va- sco Errani, aveva precisato che sareb- bero serviti «altri soldi. Anche se l’im- portante, adesso è partire».

Alla Camera «stimiamo che ne ser- viranno almeno il doppio» sottolinea Sandra Zampa, deputata Pd emilia- no-romagnola che da componente del- la Commissione parlamentare per l’In- fanzia e l’adolescenza precisa anche come «purtroppo siano triplicate le ri- chieste di assistenza ai reparti di Neu- ropsichiatria infantile nelle zone del “cratere”. Sarà importante, dunque, porre attenzione all’assistenza post-trauma per i bambini. E anche per questo, sarebbe bene che il mini- stro Andrea Riccardi contribuisse ad un piano ad hoc sull’infanzia e gli asi- li», da sommare a quanto già previsto per il ripristino e la ricostruzione delle scuole.

IMPRESE E DETASSAZIONE

Ma se, da parte degli imprenditori emiliani, prosegue il pressing sul go- verno perché metta al più presto a di- sposizione le risorse necessarie a ri-

partire («Non possiamo aspettare i fondi tre anni e mezzo come L’Aqui- la», l’appello del presidente di Confin- dustria Emilia-Romagna, Maurizio Marchesini), anche fra i deputati c’è chi sottolinea l’importanza di aggiun- gere al documento in discussione più misure per le aziende. «Se non si intro- ducono sgravi fiscali per far ripartire la produzione sarà l’intera economia nazionale a subire un ulteriore pesan- tissimo colpo», le parole in aula del parlamentare imolese Pd Massimo Marchignoli, che con la collega Dona- ta Lenzi ha presentato due emenda- menti al decreto 74, per far ottenere alle realtà che scelgono di assumere e di investire sul territorio incentivi e fondi. Mentre il leader Udc Pierferdi- nando Casini chiede lo «slittamento dei termini per il pagamento delle im- poste al 30 giugno 2013» e la «detra- zione del cinquanta per cento delle spese per la messa a norma antisismi- ca, per le strutture aziendali». Ma non bisogna dimenticare nemmeno gli aiu- ti agli enti locali e ai privati. «Bisogna lavorare all’allentamento del patto di stabilità – sottolinea Gianluca Benama- ti (Pd) – e far slittare ulteriormente la sospensione dei contributi per i citta- dini colpiti dal sisma».
Ieri intanto, una scossa di terremo- to è stata percepita distintamente an- che a Roma (magnitudo 3.5 della sca- la Richter, epicentro nella zona dei Ca- stelli), per gli esperti dell’Istituto na- zionale di geofisica e vulcanologia da spiegarsi con l’attività vulcaniche del- la struttura dei Colli Albani.

l’Unità 10.09.12

"Prof inidonei, tutti Ata da subito", di Nicola Mondelli

Doccia gelida sugli oltre tremilacinquecento docenti che prestano servizio nelle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, negli uffici scolastici territoriali e in quelli del ministero dell’istruzione svolgendo compiti diversi dall’insegnamento: diventeranno tutti assistenti amministrativi. Sono i docenti dichiarati permanentemente inidonei per motivi di salute a svolgere la funzione di insegnante, ma idonei appunto ad altri compiti quali, ad esempio, quelli elencati nel contratto collettivo nazionale integrativo del 2008: servizio di biblioteca e documentazione; organizzazione di laboratori; supporti didattici ed educativi; supporto nell’utilizzo di audiovisivi e delle nuove tecnologie informatiche e attività relative al funzionamento degli organi collegiali, dei servizi amministrativi e ogni altra attività deliberata nell’ambito del progetto d’istituto.

Per loro sembrerebbero infatti sfumate le residue speranze di poter continuare a prestare servizio nelle scuole e nelle sedi da anni occupate per lo svolgimento appunto di compiti diversi dall’insegnamento almeno fino a quando fosse stato loro consentito di partecipare alla mobilità intercompartimentale ovvero chiedere di essere dispensati dal servizio e collocati a riposo secondo le norme in vigore prima della riforma Fornero. Speranze che erano state alimentate dall’articolo 19 del decreto legge 98/2011, convertito nella legge 111/2011 e, soprattutto dalle disposizioni contenute nel decreto ministeriale n. 79 del 12 settembre 2011. I commi 13, 14 e 15 dell’articolo 14 del decreto legge 6 luglio 2012, contenente le disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini – spending review -, non lasciano spazio a interpretazione diversa. Entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legge e quindi entro il prossimo 6 agosto, con decreto del direttore generale dei competenti uffici scolastici regionali, gli inidonei saranno fatti transitare nei ruoli del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario con la qualifica di assistenti amministrativi o tecnici e saranno immessi in ruolo su tutti i posti vacanti e disponibili nella provincia di appartenenza, tenuto conto delle sedi indicate dal richiedente ovvero su posti di altra provincia a richiesta dell’interessato. Finora solo in 600 avevano optato per il trasferimento volontario nei ruoli Ata, ipotesi già prevista dal precedente governo. É stato sventato il rischio, che invece esisteva con la previgente normativa, che si applichi la mobilità intercompartimentale, con il trasferimento anche in altra regione. I docenti manterranno il maggiore trattamento stipendiale mediante assegno personale riassorbibile con i successivi miglioramenti economici a qualsiasi titolo conseguiti.

Entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge, i docenti già titolari delle cattedre di concorso C999, ex enti locali e C555, ex esercitazioni di pratica professionale, con decreto del direttore generale del competente ufficio scolastico regionale, transiteranno nei ruoli del personale non docente con la qualifica di assistente amministrativo, tecnico. Sono circa 600, spesso hanno il titolo di terza media. Se non possederanno il titolo di studio richiesto per accedere alla qualifica di assistente amministrativo o tecnico, saranno immessi, addirittura, nei ruoli dei collaboratori scolastici( ex bidelli). Una prospettiva di dubbia legittimità nei confronti di personale che ha svolto le funzioni di insegnante tecnico pratico per decine di anni.

Temporaneamente inidonei

Il predetto comma 13 stabilisce, inoltre, e questa è un’altra novità, che anche il personale docente dichiarato temporaneamente inidoneo alla propria funzione per motivi di salute, ma idoneo ad altri compiti dovrà essere utilizzato, entro 20 giorni dalla data di notifica del verbale della commissione medica, su posti anche di fatto disponibili di assistente amministrativo o tecnico, prioritariamente nella stessa scuola o comunque nella provincia di appartenenza.

Criteri, procedure e tempi

I criteri e le procedure per dare attuazione delle predette disposizioni dovranno essere emanate con apposito decreto del ministro dell’istruzione, di concerto con il ministro per la funzione pubblica e con quello dell’economia e delle finanze, entro il prossimo 26 luglio. Se i tempi saranno rispettati e se in sede di conversione in legge del decreto non interverranno delle modifiche, tutti gli ex docenti inidonei dovranno presumibilmente assumere servizio, con l’inizio del nuovo anno scolastico, nelle scuole loro assegnate.

Niente dispensa

Nei citati commi dell’articolo 14 del dl 95/2012 non c’è, invece, alcun richiamo all’art. 4 del dm 12/9/2011, n. 79 il quale disponeva, tra l’altro, che considerato che il passaggio in altro ruolo (da docente ad ata, n.d.r.) comportava il cambiamento di stato giuridico, il personale interessato poteva chiedere, in alternativa ai passaggi di ruolo, di essere dispensato dal servizio per motivi di salute, secondo le modalità previste dalla normativa vigente (prima dell’entrata in vigore della riforma Fornero, n.d.r.) al momento della domanda. Nei confronti degli inidonei non sembra neppure trovare applicazione alcuna delle deroghe alle norme in vigore in materia di accesso al trattamento pensionistico previste per i pubblici dipendenti individuati essere in esubero per effetto delle disposizioni contenute nell’art. 2 del decreto legge n. 95.

Gli effetti economici

Per effetto dell’inquadramento, senza alcuna alternativa, nei ruolo del personale amministrativo, tecnico e ausiliario dei tremilacinquecento docenti permanentemente inidonei, per il prossimo anno scolastico non ci potranno essere presumibilmente nuove immissioni in ruolo nelle qualifiche di assistenti con proporzionale riduzione del numero dei contratti a tempo determinato. Per il solo anno scolastico 2012/2013 i risparmi potrebbero a 55-60 milioni di euro.

La Stampa 10.07.12

La politica senza confini", di Luigi La Spina

L’ accusa, sostanzialmente con la stessa domanda, arriva sia da destra, sia da sinistra: perché non si può criticare Monti? Perché davanti a ogni giudizio negativo sull’operato del presidente del Consiglio e del suo governo si viene imputati non solo di «lesa maestà», ma addirittura di tradimento della patria? Da mesi questa domanda accompagna le osservazioni polemiche di Alfano sulla riforma del lavoro, quelle di Bersani e di Vendola sui tagli alle spese e, dopo le bombastiche definizioni del presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, a suon di «boiate» e «macelleria sociale», si è ripetuta con maggior insistenza e con indignato fastidio.

L’avvertimento di Monti sulle conseguenze per l’Italia, dall’andamento del famoso «spread» alle sorti del «salvaStati», delle critiche e dei distinguo che arrivano dal fronte interno, cioè dai partiti che lo sostengono in Parlamento e dalle rappresentanze sociali, non deriva, in realtà, dalla tipica insofferenza degli accademici nei confronti di chi osa mettere in dubbio le loro tesi. Nè dalle suscettibilità caratteriali di tecnici dalla pelle troppo tenera per sopportare le durezze della nostra vita pubblica. Ma dalla consapevolezza di un mutamento, profondo e importante, avvenuto negli ultimi tempi nel nostro continente: la politica europea è diventata una politica democratica. Una politica, cioè, in cui il consenso delle opinioni pubbliche è divenuto determinante. Ed è paradossale, ma significativo, che sia proprio un «tecnico», come il professor Monti, ad avvisare partiti, sindacati e imprenditori di questo fondamentale effetto della crisi finanziaria ed economica in Europa.

Fin dai primi vagiti delle istituzioni comunitarie, alla metà del secolo scorso, l’accusa nei loro confronti fu quella di un regime tecnocratico, governato da funzionari la cui legittimità non era legata al consenso popolare. Da qui, l’ostinata diffidenza per liturgie misteriche e per imperscrutabili decisioni di personaggi ciechi, sordi e muti, legati da solidarietà fondate su clan elitari e, magari, un poco inquietanti. La «burocrazia di Bruxelles» era la definizione di un potere sul quale, di volta in volta, si poteva ironizzare quando stabiliva le misure degli ortaggi, o di un potere che doveva essere a buon diritto truffato, quando pretendeva di imporre la quantità di latte che doveva essere munto dalle vacche nazionali.

Né l’elezione diretta del Parlamento europeo, a metà degli anni 70, né il progressivo allargamento, sia delle competenze comunitarie, sia dei confini della Ue, riuscirono a colmare, nell’opinione pubblica europea, quella diffidenza che si tramutava, nei casi migliori, in un diffuso disinteresse o, in quelli peggiori, in una profonda ostilità.

La vera svolta di questo atteggiamento popolare è avvenuta negli ultimi mesi. Da quando i cittadini europei si sono resi conto che le loro sorti non dipendevano più dai governanti dei loro Paesi, ma dai giudizi che prevalevano nelle opinioni pubbliche degli altri stati della Ue nei loro confronti. Perchè i leader eletti dai parlamenti nazionali non potevano, o non riuscivano, o non volevano disattenderne gli umori.

Questo mutamento ha sconvolto persino il tradizionale orientamento politico dei partiti europei. Significativo esempio di questo fenomeno è stato, nei giorni scorsi, quanto è avvenuto in Germania, dove la Merkel è stata accusata, dopo l’ultimo vertice di Bruxelles, di cedimento alle richieste di Spagna e Italia, appoggiate dal socialista francese Hollande, proprio dalla Spd, un partito socialdemocratico che, in teoria, dovrebbe essere meno severo sulla rigidità delle economie statali. Proprio perché è l’operaio tedesco, il signor Mueller citato da Monti nell’intervista ai principali quotidiani europei, che non sopporta di pagare i debiti delle cicale mediterranee nel nostro Continente.

Ecco perché è importante, di più, è determinante, far capire agli abitanti della Germania, dell’Olanda, della Finlandia che, questa volta, l’Italia i sacrifici li farà davvero, che le promesse di riduzione di spesa non verranno vanificate dalle proteste delle categorie, che gli italiani lavoreranno di più e più a lungo, che le prese di distanza dei partiti «di lotta e di governo», definizione quanto mai attuale per la strana maggioranza che dovrebbe sostenere Monti, non pregiudicheranno gli impegni annunciati a Bruxelles.

E’ vero che i mercati non hanno più confini e guardano sospettosi mosse e contromosse di quello che avviene nei singoli Stati, ma lo stesso sguardo sovrannazionale, ormai, è comune anche ai popoli dell’Europa. Poiché i leader politici di questo nostro continente all’inizio del nuovo secolo non sembrano possedere visioni lungimiranti, né l’autorevolezza per realizzarle, le opinioni pubbliche europee, con i loro giudizi fluttuanti, ma anche con i loro ostinati pregiudizi, diventano le padrone dei nostri destini. Si voleva un’Europa finalmente democratica? Ora l’abbiamo. Curioso che chi l’invocava, ora, abbia qualche dubbio.

La Stampa 10.07.12

"Più di 12 mesi per tornare al lavoro", di Francesco Mimmo

La crisi morde e crea disoccupazione. Oltre le stime delle grandi agenzie internazionali e della Ue che stanno rivedendo gli scenari – che pure erano solo cautamente ottimisti – di una ripresa nel medio termine. La disoccupazione, soprattutto quella giovanile, è già una vera e propria emergenza in Grecia e Spagna. Ma con fenomeni preoccupanti anche per l´Italia. Nel nostro Paese è la cosiddetta disoccupazione di “lunga durata” che spiazza gli analisti: oltre il 50% di chi ha perso il lavoro oltre un anno fa non ne ha più trovato un altro nei dodici mesi successivi, quota che sale al 30% se si sposta l´asticella agli ultimi due anni.
È un dato in aumento che ci fa avvicinare pericolosamente alle dinamiche dei Paesi dell´Unione maggiormente colpiti dalla recessione. E che aggiunge un mattone al muro di pessimismo che ormai ha infiltrato i palazzi del governo dell´Ue. La Commissione ha già dovuto rinunciare all´obiettivo di un´occupazione al 75% entro il 2020, attualmente infatti la percentuale media nell´Ue è al 68% e anche l´obiettivo – già ridimensionato – del 72% sembra lontano. Tanto che alla Commissione si parla apertamente di una “lost decade”: cioè dieci anni persi per il mercato del lavoro, a partire dall´inizio della crisi globale nel 2007. Ci vorranno almeno altri cinque anni per farlo ripartire.
La disoccupazione ha scavato un solco tra ricchi e poveri. Le statistiche Ue relative al 2011 passano dal 2,5% di senza lavoro del Tirolo al 30,4% dell´Andalucia. Con dinamiche differenti da Paese a Paese. Per l´Italia l´Ocse ha rivisto al ribasso le stime sulla crescita, con la prospettiva di un´economia con il segno meno nel 2012 e nel 2013. Il rischio di un impatto sul mondo del lavoro resta di conseguenza molto alto. Ad aprile, secondo i calcoli Ocse, la disoccupazione era all´11,1% nell´Eurozona e al 10,2% in Italia (già oltre il picco 2009/2010). La disoccupazione giovanile ha toccato in Italia il 36,2%, una quota alta, seppur lontana dal 50% di Spagna e Grecia. Ma l´Italia registra anche un 19,8% di giovani (tra i 15 e i 24 anni) che non hanno un lavoro, non lo cercano e risultano fuori dal processo formativo. In questo la Spagna sta meglio di noi (18%). Ma è la disoccupazione di lunga durata il tallone d´Achille italiano: è in aumento, era al 45% nel 2009, già sopra il 50% a fine 2011 (più di Spagna e Portogallo, quasi come la Grecia) e salirà ancora. Secondo gli ultimi dati Ocse, che saranno presentati oggi a Parigi nel Rapporto sull´occupazione dell´organizzazione, è ben oltre il 51% a un livello lievemente inferiore al 51,9% già stimato dall´Ue.
La situazione porta a «previsioni molto deboli – spiega Stefano Scarpetta, vicedirettore Ocse – in un quadro di pessimismo persistente. La disoccupazione aumenta, non solo per i giovani, e riconvertirsi è sempre più difficile».

La Repubblica 10.07.12

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“NELLA TERRA DEL NON-LAVORO UN GIOVANE SU DUE SCEGLIE LA FUGA”, di Roberto Mania

Dell´industria restano il cimitero di carcasse e un inquinamento da scorie di zinco. La riconversione è rimasta sulla carta L´eredità è un mega call center tra i 700 e gli 800 addetti. Un giovane su due a Crotone è disoccupato. Crotone è la terra del non-lavoro. È una Provincia condannata a morte dalla spending review e un territorio in decomposizione economica e sociale per tantissime altre ragioni. Crotone è la città dei record negativi: è in fondo alla classifica per qualità della vita, ha uno dei redditi pro capite più bassi della penisola, ha il 53,8 per cento dei giovani tra i quindici e i ventiquattro anni senza lavoro. Pure la ‘ndragheta, che tutto controlla, qui non è di prima qualità: è considerata “minore” dagli esperti. Da Crotone i giovani che possono scappano, gli altri pensano a come farlo. Anche se da qualche mese non c´è nemmeno un treno che porta direttamente al Nord. Soppressi. Per andarsene bisogna passare da Lamezia o Catanzaro, via pullman.
Entri a Crotone, dopo essere atterrato all´aeroporto Sant´Anna (un milione di euro di perdite l´anno) su uno dei pochissimi voli che ancora arrivano fin qui, e non vedi i giovani. «Sono al mare», ci dice Mimmo, pensionato statale, con due figli a carico (uno laureato, l´altro diplomato). «Oppure fanno i disoccupati a casa». Giovani invisibili, assistiti o sommersi.
Giusy ha 21 anni. È disoccupata. Figlia di un padroncino che ha lavorato con il suo camion nella zona torinese finché ha potuto. Sette anni fa decise di tornare a Crotone con la sua famiglia. Ora ha 50 anni e anche lui non ha lavoro. La mamma di Giusy è casalinga. Come vivete? «Con l´assegno di mia sorella – risponde – che è invalida al 100 per cento e l´indennità di accompagnamento che prende mia madre. Poi c´è mia nonna che ha la pensione di mio nonno». I giovani di Crotone sono disoccupati assistiti dalla catena del welfare familiare. Studiano e appena possono emigrano. Oltre il 60 per cento, stando ad alcune stime, se ne va dopo il diploma o la laurea. D´altra parte è da almeno un decennio che lo Svimez ha fotografato la nuova emigrazione sud-nord: seicentomila giovani tra l´inizio del nuovo secolo e il 2009. Non meno di 60 mila l´anno.
Qui c´era la classe operaia. Crotone era la Stalingrado del Sud. La zona industriale, ora, è un cimitero di carcasse, di sagome scomposte di vecchi capannoni. Negli anni si superarono anche i tremila addetti, compreso l´indotto. Ora restano gli scheletri arrugginiti dei grandi stabilimenti della chimica, Enichem, Montedison, di quelli metalmeccanici, come la Pertusola Sud che con le sue scorie di zinco, cadmio e nichel ha avvelenato la città, innalzato in maniera impressionate le morti per tumore (+ 10 per cento) anche tra i più giovani perché quei residui sono finiti nei pavimenti delle scuole. E ancora dell´industria delle piastrelle, la Kroton Gres, o della carta, la Cellulosa 2000. Piazzali desolatamente vuoti di prodotti e pieni solo di erbacce, rifiuti, detriti. Polvere. Lontano le pale mastodontiche del nuovo business dell´eolico al alta infiltrazione mafiosa. Di fronte i nuovi orribili centri commerciali, le cattedrali nel deserto del post-industriale. Perché qui c´è stata una deindustrializzazione violenta, radicale. La rivolta operaia di fine anni Ottanta finì sedata. E tradita. Crotone non è più operaia. E non ha più lavoro. Non c´è stata la promessa riconversione attraverso il contratto d´area. Si è visto un vero e proprio ratto dei fondi europei e di quelli della legge 488. L´eredità di quella stagione rimane un mega call center, l´Abramo Customer Care, tra i sette e gli ottocento addetti. Ci ha lavorato anche Giusy che ora è al terzo anno di economia aziendale a Catanzaro. Racconta che lavorava anche dieci ora al giorno al call center per 120-130 euro al mese frutto della percentuale per oggi nuovo contratto strappato al telefono. È un lavoro durissimo quello del contratto outbound (nella forma è un contratto a progetto) perché devi conquistarti nuovi clienti, farli emigrare da un gestore di telefonia a un altro. Solo chi ottiene ottimi risultati passa al contratto inbound che significa rispondere a un solo operatore, quasi una garanzia. Giusy, come tanti, ha gettato la spugna. Con il padre e il fidanzato hanno provato ad aprire una pizzeria al taglio. Si sono indebitati ma hanno retto pochissimi mesi e non per colpa del “pizzo” che non gli hanno mai chiesto. Ora vende torte via Facebook. Non è un lavoro. «Di sicuro me ne andrò al nord», dice.
Per capire la rete del non lavoro di Crotone bisogna passare anche qualche ora nell´ufficio di Armando Labonìa responsabile del mercato del lavoro alla Cgil. Qui arrivano i padri di Giusy e degli altri giovani disoccupati. La maggior parte è over quaranta. È una processione, ma nessuno – osserva Labonìa – viene per chiedere una tutela per un diritto violato. Qui si viene a chiedere l´apertura di una pratica per ottenere l´indennità di mobilità, a informarsi sulla propria indennità di disoccupazione, a capire perché la Regione Calabria paga con ritardi di sei e anche sette mesi gli assegni della cassa integrazione o mobilità in deroga. Ma questa è assistenza, non lavoro. Qui comincia la catena dell´ultima sopravvivenza che arriva fino ai più giovani.
Nunzio ha 23 anni, è nato a Milano da genitori crotonesi. Il padre era un metalmeccanico, a Crotone è diventato bidello precario. Poi si è separato dalla moglie. Nunzio ora vive con la mamma, casalinga, i nonni e la sorella. Si mantengono tutti e cinque con la pensione del nonno ex dipendente delle Poste. Il pubblico impiego è il perno della sussistenza meridionale. Nunzio ha fatto la scuola alberghiera. Prima della crisi si faceva la sua stagione estiva come cameriere: contratti a termine stagionali, un classico anche da queste parti. Ora i villaggi turistici di Isola di Capo Rizzuto, ma non solo, preferiscono i contratti job on call: ti chiamano intorno a metà settimana per dirti se c´è bisogno. «Meglio il nero – dice – , almeno arrivi a prendere anche mille euro. Ora con difficoltà sfioro i 600 euro al mese».
Nero, dunque. Che spiega tante cose, anche il fatto che a Crotone c´è un 20 per cento in più rispetto a Torino di immatricolazioni di auto di grossa cilindrata. Ci sono gruppi di giovani che raccolgono un po´ di soldi (almeno 500 euro) poi vanno a comprare vestiti con marchi contraffatti a Napoli nei capannoni della camorra. Tornano e li vendono nelle case private. C´è chi per trenta fino a cinquanta euro a morto è entrato a far parte di una squadra (bisogna essere più o meno della stessa stazza) per portare in spalla la bara nel corteo funebre. C´è chi si piazza con un “tre ruote” agli angoli delle strade e vende la frutta dopo averla comprata al mercato. C´è chi spaccia a Crotone, «città scassata», come scrisse Sandro Viola. Città del non lavoro

La Repubblica 10.07.12

Terremoto: l'emiliana Ghizzoni in aula con T-shirt "Teniamo Botta"

(Agenzia Adnkronos) – Manuela Ghizzoni, deputata emiliana
del Pd, si e’ presentata oggi in aula a Montecitorio, dove si sta
discutendo il decreto per l’emergenza terremoto, con una maglietta
particolare. C’e’ stampata sopra un’immagine della regione
Emilia-Romagna attraversata, al centro, da una scossa. Sotto la
scritta: ‘Teniamo botta’. La stessa presidente della commissione
Cultura della Camera ha spiegato il significato della t-shirt.
”Teniamo botta e’ la traduzione di un’espressione dialettale che
pero’ non significa solo ‘resistere’, ma ‘fare argine’, tutti
insieme”, non da soli.

Cinema: Ghizzoni, Commissione cultura ricorda talento e umanità Borgnine

“Esprimo il mio cordoglio per la scomparsa di Ernest Borgnine – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione cultura della Camera, nel messaggio inviato alla famiglia dell’attore deceduto – L’attore premio oscar non aveva mai dimenticato le sue origini carpigiane. A lui il comune di Carpi, nella primavera 2002, aveva dato tributo con la consegna del premio speciale ‘Carpi per la cultura’ e con una mostra che ne ripercorreva la carriera cinematografica, accompagnandola con un catalogo, curato da Roberto Teti e Odoardo Semellini, che ha rappresentato la prima pubblicazione monografica sull’attore.
A titolo personale e di tutta la commissione, il nostro cordoglio nel ricordo di un attore di riconosciuto talento e di un uomo di grande umanità.”

"La sanità italiana non regge davanti a nuovi tagli", di Carlo Buttaroni Presidente Tecné

Spending review. È questa la parola magica che esprime l’idea di tagli progressivi alla spesa pubblica, accusata di essere la principale responsabile del debito dello Stato e conseguentemente dell’aggravarsi della crisi finanziaria. Anche se, in realtà, la spesa pubblica è solo un mezzo il principale attraverso il quale la politica governa lo sviluppo e agisce per raggiungere obiettivi di equilibrio sociale, correggendo eventuali distorsioni e iniquità. Se utilizzata in modo inefficiente (com’è avvenuto, ad esempio nell’Italia degli anni ‘80) produce effetti negativi; al contrario, quando è usata in modo da favorire la crescita e il benessere, è in grado di attivare processi virtuosi, talmente potenti da riuscire a invertire il segno negativo degli eventi. Come nel ’29, quando gli Stati Uniti risposero alla grande crisi con altrettanti grandi investimenti pubblici. Una scelta che permise agli americani di diventare una potenza economica mondiale. La ripresa economica conseguente a quelle scelte, e ancor più le politiche d’intervento pubblico nell’economia e nel welfare in Europa, hanno assicurato all’occidente un lungo periodo di prosperità e crescita.
Oggi, i grandi accusatori della spesa pubblica sostengono che i debitori (cioè i mercati e i piccoli risparmiatori) devono essere rassicurati rispetto alla capacità di rimborso. Vero. Ma, anche rispetto a quest’accusa, si confonde il fine con i mezzi. È impossibile pensare di riuscire a pagare un debito crescente se le entrate rimangono le stesse che hanno costretto a contrarre i debiti (o se addirittura diminuiscono e si diventa più poveri). In Europa è passata, invece, l’idea che l’austerità possa essere “espansiva”. Molto più di una semplice contraddizione in termini. È evidente come si rileva dai dati economici dei paesi costretti all’austerità quanto queste scelte stiano peggiorando la situazione economica.
Negli Stati Uniti il presidente Obama ha attuato un piano di spesa pubblica nel tentativo di far ripartire l’economia, cercando di ridare equilibrio ed equità al sistema. Un approccio molto diverso da quello europeo e soprattutto italiano. Diversi economisti americani ritengono tale piano persino troppo timido rispetto alle reali necessità. Obama ha anche attuato una profonda riforma della sanità pubblica. Attualmente, quasi il 15% dei cittadini americani risulta fuori da ogni copertura in quanto non sufficientemente poveri da rientrare nell’assistenza pubblica e non sufficientemente ricchi da potersi permettere un’assicurazione sanitaria privata. Negli Stati Uniti, la quota pubblica della spesa sanitaria è pari al 46%, mentre in Europa è circa del 77%. Non è un caso che, proprio in concomitanza con la crisi, sia stata varata una riforma molto onerosa dal punto di vista dei conti pubblici, tesa a colmare tali ingiustizie e a recuperare il gap con l’Europa.
L’austerità, compresa quella che riguarda la spesa non direttamente produttiva, non è quindi l’unica ricetta per uscire dalla crisi. Se il problema è il debito pubblico, è possibile assumere come obiettivo vincolante la sua riduzione attraverso un piano di crescita guidata dalla domanda interna, anziché esclusivamente attraverso i “sacrifici”. Analizzando quanto il governo Monti sta portando avanti in questo momento, risulta chiaramente come la “spending review” occupi a pieno titolo lo spazio opposto alle riflessioni sinora fatte. Con l’obiettivo della lotta agli sprechi, la manovra del governo taglia drasticamente le risorse destinate agli enti locali, al sociale e alla sanità. Ma ci sono veramente sprechi su cui si può intervenire tagliando la spesa?
Prendiamo la sanità come esempio: nel 2011, la spesa sanitaria pubblica italiana è stata di circa 115 miliardi di euro, inferiore a quella di altri importanti paesi europei come Francia e Germania. Oltre un quinto della spesa sanitaria complessiva (cioè pubblica e privata), inoltre, è coperta direttamente dalle famiglie. Questo significa che c’è un bisogno sanitario dei cittadini solo in parte coperto dal pubbli co. Sempre nel 2011, le famiglie hanno speso per i farmaci 1,3 miliardi di euro, il 33% in più del 2010 e la spesa farmaceutica si è progressivamente spostata dalle casse dello Stato alle tasche dei cittadini. La spesa per medicinali a carico dello Stato lo scorso anno è diminuita dell’8%, grazie anche a un maggior ricorso ai farmaci generici, mentre la quota di partecipazione dei cittadini è passata dal 7,6% al 10,7%. Quando si parla di spesa sanitaria, bisogna fare molta attenzione ai dati e alle dinamiche complessive. Negli ultimi vent’anni, l’Italia ha contenuto i costi della sanità spendendo addirittura meno di quanto il suo livello di sviluppo economico, paragonato a quello di altri paesi europei, avrebbe suggerito. Basti pensare che tra il 2000 e il 2009 il tasso di crescita reale (depurato cioè dell’inflazione) della spesa sanitaria pro-capite è stato dell’1,6%, rispetto a una media Ocse pari al 4%. Più che tagli, quindi, vi sarebbero ragioni sufficienti a favorire nuovi in-vestimenti che favoriscano la crescita “fisiologica” del sistema, ribaltando la politica del sotto-finanziamento che ha contento la spesa negli anni passati, producendo, però, guasti e inefficienze.
Secondo uno studio dell’Università di Roma-Tor Vergata, altri tagli alla sanità non sono sostenibili anche perché, come ricorda lo stesso studio, il Governo Berlusconi era già intervenuto pesantemente in questo senso, nell’estate del 2011. Apparentemente, il finanziamento del SSN è cresciuto in termini nominali nell’ultimo quinquennio, ma, depurando il dato dalla variazione dei prezzi, si registra un decremento in termini reali pari a -0,9% nel 2008 e -0,6% nel 2010.
Nel complesso, in Italia, l’incidenza della spesa sanitaria pubblica sul PIL è di circa il 7%, quasi un punto in meno rispetto alla media dei paesi europei più avanzati. Il divario, però, è molto più sensibile se si considera la spesa pro-capite a parità di potere d’acquisto: la nostra, l’anno scorso, è stata inferiore del 20%, mentre nel 2001 la differenza era (solo!) del 12%. Il divario quindi è aumentato. E tutto questo solo per quanto riguarda la sola spesa corrente.
Nuovi tagli alla spesa sanitaria pubblica e agli enti locali non faranno che peggiorare le diseguaglianze, comprese quelle inter-regionali, senza però migliorare l’efficienza degli apparati e l’appropriatezza della spesa e dei servizi nelle regioni meno virtuose.
L’Italia ha bisogno di altro. Soprattutto di riprendere a crescere. Non c’è un paese che, nella dinamica di questa crisi, abbia migliorato i parametri economici con interventi recessivi. E per risolverla occorre più “politica”, per comprendere la differenza tra una linea tracciata per far quadrare i conti e quella degli orizzonti economici e sociali. Più che spending review, quindi, una “spending fast-forward”.

l’Unità 09.07.12