Latest Posts

"Un miliardo di danni ai beni artistici. E gli ispettori si pagano i sopralluoghi", di Paolo Conti

Cifre dettagliate ancora non esistono, ma al ministero per i Beni e le attività culturali il terremoto emiliano si sta lentamente traducendo in euro. E sono in tanti a scommettere che, tra qualche settimana, il costo dei danni legati al patrimonio culturale sarà prossimo al miliardo di euro, calcolando interventi di restauro, ricostruzione, o consolidamento a seconda dell’entità del crollo. Pochi giorni l’Unità di crisi e la direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici dell’Emilia Romagna, affidate entrambe a Carla Di Francesco, ha inviato una memoria informativa alla commissione Cultura della Camera dei Deputati.
L’analisi è dettagliata, la relazione porta la data del 21 maggio: sono lontani i tempi in cui la burocrazia culturale si muoveva come un elefante. Eccole, le cifre: 1335 segnalazioni di danni a beni culturali, 332 sopralluoghi già effettuati in complessi di vario tipo. Tra le segnalazioni, 239 riguardano complessi storico-artistici di proprietà pubblica, 382 complessi di proprietà ecclesiastica (in questa cifra rientrano 147 campanili segnalati come pericolanti in un incontro operativo tra direzione regionale dei Beni culturali e Conferenza Episcopale), 90 complessi di proprietà privata, 25 archivi pubblici, 807 beni mobili (opere d’arte) recuperati e messi in sicurezza, soprattutto al palazzo Ducale di Sassuolo ma anche in molti depositi sicuri di proprietà ecclesiastica. Attenzione, chiarisce la relazione: l’espressione ufficiale «complesso architettonico» indica appunto più edifici separati e autonomi tra loro (nel caso ecclesiastico chiesa/canonica/campanile/convento, nel caso privato villa/cappella/edificio padronale). Dunque i numeri indicano sinteticamente una realtà assai più ampia.
Una situazione gravissima, e bastano i numeri a dimostrarlo. Ma nella relazione appare, nero su bianco, il forte disagio del personale utilizzato nell’opera di ispezione, catalogazione e schedatura affidata a 31 architetti, 20 storici dell’arte, 4 archeologi, 9 assistenti tecnici, 2 fotografi, in organico agli uffici emiliano-romagnoli dei Beni Culturali. Un lavoro straordinario, e non solo nell’accezione burocratica della parola. Ma per ora del tutto gratuito, affidato quasi a una forma di volontariato in attesa che il governo si decida a permettere al ministero di utilizzare non fondi straordinari ma quelli già a disposizione autorizzando semplicemente una rimodulazione di spesa.
Si legge così nella relazione affidata alla commissione Cultura della Camera: «Non si può non segnalare che dal 20 maggio, giorno della prima scossa, dirigenti e tecnici del ministero sono accorsi per esaminare, capire, constatare, far fronte alle emergenze. Ma a tutt’oggi, impegnandosi anche di sabato e domenica, non hanno alcuna certezza di pagamento di missioni e straordinari. Lavorano anticipando le somme necessarie. Il confronto con il personale della Protezione civile è palesemente punitivo per quello di un settore, i Beni culturali, evidentemente considerato accessorio o inutile». In sostanza storici dell’arte, tecnici, archeologici raggiungono il luogo da ispezionare con la propria auto (la burocrazia ministeriale imporrebbe l’uso dei mezzi pubblici, impensabile in questo caso) pagando di tasca propria la benzina. Lavorano per intere giornate fino a sera, inclusi sabato e domenica. Ma al momento non ci sono fondi nemmeno per compensare professionisti che stanno tentando di salvare una parte importante del nostro patrimonio culturale. E cioè della nostra identità nazionale. Al ministero dei Beni culturali hanno visto sparire improvvisamente, nel decreto legge 74 del 6 giugno scorso e dedicato proprio ai primi interventi sul terremoto, la possibilità di convogliare energie economiche già esistenti e a disposizione su questo capitolo di spesa.
Altro appunto nella relazione: «Le strutture del ministero non dispongono di dotazione economica per prima sicurezza (a parte quelli già impegnati, equivalenti a 500 mila euro) né vedono prospettive per gli ulteriori interventi di ricostruzione. Il decreto legge 74 assegna alla Regione tutti i fondi: e l’accordo ministero-Regione è ancora da studiare. Non è chiaro se si potrà procedere condividendo piani, priorità, progetti né come saranno erogati i fondi per i Beni culturali…»
Il pericolo è quello di sempre: che il patrimonio storico-artistico resti il fanalino di cosa. Persino nell’elenco di priorità legato al terremoto emiliano, che ha invece colpito al cuore i simboli architettonici di intere collettività.

Il Corriere della Sera 02.07.12

"Non serve la scure per riformare lo Stato", di Patrizio Bianchi

Di ritorno da Bruxelles via Kiev, Monti deve affrontare decisamente il cuore della Fase Due, dimostrando che la Spending review non è una nuova formula per nascondere i vecchi tagli lineari ma un ridisegno della macchina dello Stato, per generare più efficienza per tutti e non più iniquità diffusa. Questi interventi sulla pubblica amministrazione del resto avvengono dopo do- dici anni dalla approvazione della varia- zione del Titolo V della Costituzione, che ha segnato un percorso, finora di- satteso, di riorganizzazione dello Stato in senso federalista. Dopo anni di fatuo chiacchiericcio sulla riforma dello Stato bisogna decidere se questa Spending review vuole rimanere alla superficie della questione, tagliando qua e la, in ragione della minore o maggiore resistenza dei corpi sociali colpiti, oppure se questa diviene l occasione per un ridisegno della organizzazione dell’ amministrazione di un Paese, che ha bisogno piu che mai di servizi pubblici efficienti nella’ gestione ed efficaci nel rispondere ai bisogni di una popolazione molto diversa dal passato. L’intervent0 di taglio delle province richiede una profonda riflessione sulla organizzazione del territorio: non basta infatti usare come parametro i risparmi di spesa, derivabili da eliminazione di giunte e consiglieri, ma bisogna cogliere l’occasi0ne per riporre al centro della vita collettiva le amministrazioni locali, come riferimento di una organizzazione sociale che vuole il piu vicino possibile ai cittadini la gestione dei loro servizi essenziali; qui bisogna ripensare al ruolo delle regioni proprio in quella prospettiva del Titolo V, di cui finalmente bisogna dare coerente soluzioni, ad esempio in tutta la gestione della scuola, oggi appesa ancora fra governo nazionale e obblighi locali. Il prolungarsi della crisi impone del resto di affrontare il tema di un nuovo welfare, in cui sanità e servizi sociali non possono essere considerati solo come materia di costo, con riduzioni negli acquisti o taglio delle attività considerate marginali, ma debbono essere considerati ambito di ridefinizione di prestazioni inclusive per una struttura sociale in rapido cambiamento, con la possibilità di creare nuove attività, che possono generare una occupazione qualificata ed un protagonismo sociale, necessario per un effettivo rilancio del paese. Egualmente se si mette mano agli acquisti bisogna ricordare che proprio la qualificazione della spesa pubblica è oggi considerata una delle principali leve di politica industriale, per sviluppare una domanda pubblica che deve poter essere di indirizzo per una offerta privata dinamica ed intelligente. La sanità è il luogo necessario di questo ripensamento del Public Procurement, anche perché in questo settore abbiamo imprese sia farmaceutiche, che biomedicali, che di servizi che potrebbero proiettarsi ancor più a livello internazionale, se disponessero di una prospettiva di stabilizzazione sul mercato interno, per la quale però è necessario che i tempi di pagamento siano ridotti e sicuri. Se questa deve essere la manovra chiave della Fase 2, sia servita da sola che impacchettata in un contesto di azioni per il 2013, bisogna che le prospettive di intervento non possano essere solo imposte dal Ministero dell’Economia, ma debbano essere fortemente definite in una “Prospettiva di crescita”, come con insistente enfasi si continua a ripetere. Questo implica che con la Spending review si acquisisca anche la scelta di una decisa azione sul ruolo di una nuova pubblica amministrazione per la crescita del Paese. Una decisa scelta riformista, che questo governo non può che iniziare, ma che deve divenire da subito uno dei pilastri del programma che le forze progressiste debbono scrivere per la prossima legislatura.

l’Unità 02.07.12

"Euro, il pericolo scampato", di Tito Boeri

Il Consiglio dei ministri per fortuna ieri non c´è stato. Sarebbe stato una specie di gabinetto di guerra, con misure draconiane da adottare per rassicurare i mercati in caso di fallimento del vertice europeo. In questo pericolo scampato, il principale risultato raggiunto a Bruxelles. C´è stato un accordo, che fa un primo passo nel separare la crisi bancaria dalla crisi dei debiti pubblici. Questo ci fa guadagnare tempo perché il fronte oggi è in Spagna dove l´intreccio fra i due problemi stava aprendo una voragine. Guai a non sfruttare questa breve pausa. La riunione dell´eurogruppo del 9-10 luglio prossimi dovrà perfezionare l´accordo, mentre in Italia deve riprendere subito un´agenda di riforme che si è interrotta negli ultimi mesi.
L´emergenza continua anche perché lo scudo anti-spread non c´è. Le linee guida dei due fondi salva-stati sono rimaste le stesse di prima: il nuovo fondo, l´Esm, potrà come già previsto intervenire direttamente all´emissione di titoli di Stato (la Bce e il fondo attuale, l´Efsf, possono comprare titoli solo sul mercato secondario) permettendo in linea di principio a un Paese in difficoltà di non doversi finanziare alle condizioni di mercato quando i tassi sono troppo alti. Ma non ci sarà alcun automatismo nell´intervento dell´Esm. Il Paese interessato dovrà formulare richiesta d´aiuto, ci sarà una procedura formale da avviare, un Memorandum d´Intesa da sottoscrivere, dunque un´umiliazione politica e forse anche una stigmatizzazione economica per il Paese che richiede l´intervento. Certo, non è più contemplato il coinvolgimento del Fondo monetario internazionale, non ci sarà più la temibile troika (Fmi, Commissione e Bce) e le sue pesanti condizioni, ma ci sarà pur sempre una doika di istituzioni europee cui sottostare. Per questo Monti si è affrettato a sottolineare che l´Italia non intende avvalersi dell´aiuto del fondo: un commissario non può essere, a sua volta, commissariato. Inoltre il nuovo fondo avrà una potenza di fuoco limitata: 80 miliardi in dotazione, con la possibilità di finanziarsi sui mercati fino a 500 miliardi. Ma l´esperienza dell´Efsf ci dimostra come sia facile perdere la tripla A non appena ci si indebita per finanziare i Paesi in crisi. Inoltre, 100 miliardi verranno presumibilmente destinati alla ricapitalizzazione delle banche spagnole e altri 100 serviranno a permettere a Irlanda e Portogallo di non andare sui mercati nel 2013. Tenendo poi conto degli impegni già presi dal vecchio fondo, che in parte ricadranno sull´Esm, e delle richieste che verranno da Cipro (si parla di 10 miliardi) e Slovenia (5), ci si accorge che lo scudo è davvero molto sottile, quasi trasparente. Speriamo che i mercati non vogliano testare la sua capacità di resistenza.
I veri passi in avanti del vertice riguardano la cosiddetta unione bancaria europea. La Bce potrà esercitare la supervisione sulle banche della zona Euro. E il fondo salva-stati potrà intervenire direttamente per ricapitalizzare quelle banche che verranno identificate dalla Bce, senza dover passare necessariamente attraverso i governi nazionali. Questo permetterà a istituzioni pan-europee di esercitare condizionalità, imponendo ad esempio l´azzeramento del management delle banche mal gestite e facendo pagare ai loro azionisti il costo del salvataggio. Ci vorrà comunque del tempo dato che il nuovo ruolo del fondo potrà essere esercitato non prima del trasferimento delle funzioni di sorveglianza alla Bce, presumibilmente non prima di un anno.
Parecchi dettagli sul pacchetto per la crescita da 120-130 miliardi devono ancora essere chiariti. In base ai documenti disponibili, sembra uno specchietto per allodole. Questo spiegherebbe perché è stato abilmente utilizzato dalla delegazione italiana come ostaggio nel dividere il fronte franco tedesco, nonostante il nostro Paese sia quello maggiormente interessato alle politiche per la crescita. Potevamo permetterci il lusso di bloccare questo pacchetto di misure perché non è certo da questi interventi che dipende la crescita europea. Poche le risorse aggiuntive ed eroiche le ipotesi sull´effetto leva che dovrebbe moltiplicarle. Il finanziamento di 10 miliardi alla Bei permetterà di portare fuori bilancio fino a 60 miliardi di spesa per investimenti che miracolosamente dovrebbero attivare 180 miliardi di investimenti privati. Poi ci sono altri 55 miliardi di fondi strutturali rimessi in circuito, ma comunque già stanziati. Infine, ci sono 230 milioni destinati a project bonds che potrebbero (con una leva a 17!) arrivare a finanziare fino a 4 miliardi di investimenti. È quest´ultima la vera dimensione degli eurobond allo stato attuale: 4 miliardi su un debito totale dell´eurozona di più di 8000 miliardi.
Il vertice è servito a chiarire su quale asse sarà possibile fare ulteriori passi in avanti nella gestione comune della crisi del debito: la Germania è disposta a condividere l´onere del debito solo a fronte di tangibili cessioni di sovranità. I salvataggi bancari diretti saranno possibili solo quando si potranno saltare i governi nazionali e imporre direttamente condizioni al management delle banche coinvolte. Gli acquisti di titoli sul mercato primario saranno possibili solo quando i Paesi che ne fanno richiesta accettano di sottostare alle condizioni imposte dalla Commissione. Di qui al farsi scrivere i bilanci dalla Commissione e a farli votare dal Parlamento europeo il passo è relativamente breve. È una posizione, quella tedesca, non priva di legittimità. Ci dice, dopotutto, che non ci può essere più forte integrazione economica senza più forte integrazione politica. Nel progredire in questa direzione è fondamentale assicurarsi che la cessione di sovranità avvenga solo a istituzioni veramente sovranazionali. Ad esempio, il nuovo ruolo della Bce dovrebbe essere accompagnato dallo smantellamento delle banche centrali nazionali, che continuano a condizionare fortemente l´operato dell´Eurotower (è stata la Bundesbank a bloccare il programma di acquisti di titoli di Stato della Bce).
Il nostro Paese può giocare un ruolo importante in questo processo, l´unico che può davvero metterci al riparo da chi scommette sulla fine dell´Euro. Sarà un cammino lungo dato che il comunicato finale del vertice non fa alcun riferimento al documento dei quattro presidenti (Van Rompuy, Barroso, Juncker e Draghi) che proponeva molto timidamente una maggiore integrazione delle politiche fiscali. Al di là delle abilità negoziali e della credibilità personale del nostro Presidente del Consiglio, conteranno i progressi compiuti in Italia nell´attuazione di quelle riforme che servono per tornare a crescere. Per questo non sono ammessi ulteriori ritardi nella spending review. Bisogna costruire una constituency a favore dei tagli alla spesa pubblica, condizionando a questi non solo il mancato aumento dell´Iva a settembre, ma soprattutto una riduzione della pressione fiscale sul lavoro, fondamentale per arrestare la crescita della disoccupazione e renderci più competitivi nel raggiungere le parti del mondo che continuano a crescere. Abbiamo anche bisogno di sapere qual è l´agenda di riforme da qui alla fine della legislatura. Importante che questa affronti anche i nodi irrisolti del nostro sistema creditizio, che dovrà sottostare a una sorveglianza europea più severa di quella attuale: le ricapitalizzazioni operate svenando le fondazioni bancarie, dunque risorse pubbliche, anziché mettendo le mani in tasca agli azionisti, come nel caso del Monte Paschi di Siena, difficilmente possono passare indenni allo scrutinio di istituzioni così lontane dagli interessi locali.

La Repubblica 02.07.12

"Medolla riparte dalle sue scuole. Rinforzi e nuove lavagne", di Giusi Fasano

L’appello ai genitori: mandate i bambini, è tutto a posto
«Partiamo dalle cose che vanno meglio». C’è tutto lo spirito emiliano nelle parole del sindaco di Medolla Filippo Molinari. Se proprio deve descrivere a che punto è la situazione post-sisma nel suo Comune, perché partire dalle difficoltà più grandi? Nel bicchiere mezzo pieno di Medolla ci sono le scuole, tanto per cominciare, la priorità delle priorità negli interventi di ricostruzione. Sono cinque. Quattro saranno «perfettamente utilizzabili e sicure, secondo le nuove direttive antisismiche, già a settembre» anticipa Molinari. E poi ce n’è una «completamente fuori gioco». È la scuola comunale per l’infanzia, due sezioni per 53 bambini e danni così gravi da renderla irrecuperabile. Per quei bimbetti i pessimisti avevano messo in conto anni di container. Invece no. I tempi di riapertura, salvo gravi imprevisti, si preannunciano decisamente brevi. I bimbi si adatteranno nei moduli per tre-quattro mesi al massimo: quanto serve per costruire la nuova scuola seguendo «un progetto già definito — spiega il vicesindaco Giuseppe Ganzerli — al quale sta lavorando un team di architetti e che avrà il sostegno finanziario della onlus locale Rock no war».
L’apertura delle nuove aule è in programma entro la fine di dicembre e se tutto andrà come previsto Medolla sarà il primo Comune (fra quelli più colpiti dal sisma) ad avere in così breve tempo tutte le scuole funzionanti, definitive e in regola con le nuove indicazioni antisismiche. «Il vero problema, già lo vedo all’orizzonte, sarà far tornare i bambini nelle classi» immagina Molinari. «E parlo delle quattro scuole che riapriranno a settembre. L’impatto con il terremoto è stato così forte che sarà faticoso e difficilissimo gestire le paure delle famiglie. Le terze medie stavano preparando gli esami quando è arrivata la seconda scossa. Le scuole hanno tenuto bene, solo danni lievi, i ragazzini sono stati evacuati, nessuno si è fatto male ma noi abbiamo rischiato il linciaggio per averli fatti entrare lì dentro. Ora di settembre quattro cantieri metteranno tutto più che a norma: interventi di rinforzi, fissaggi di contropareti, pannelli, risistemazioni di intonaci, scaffali e lavagne… le strutture sono in cemento armato, io sono tranquillo ma sarà davvero difficile farli rientrare ed è per smorzare le paure che vorrei aprirle ai genitori prima dell’avvio dell’anno scolastico. Speriamo si convincano…».
Medolla è il Comune di un altro primato, a parte quello sulle scuole: la biblioteca. È praticamente l’unica della Bassa modenese che sia in piedi e funzionante anche se non è aperta al pubblico perché nelle sue sale sono ancora per terra scaffali e cumuli di libri. In pratica le impiegate comunali fanno la spola fra la biblioteca e la tenda del Comune per soddisfare le richieste di chi arriva a prendere volumi in prestito non avendo la disponibilità dei propri nelle case danneggiate. Di più. Quella di Medolla è diventata una specie di deposito per libri che arrivano dalle biblioteche danneggiate di altri Comuni.
Si legge, in questo angolo d’Emilia. 6.300 persone spaventate da un terremoto che sembra non finire mai (anche in queste ultime ore i sismologi hanno registrato scosse di piccola entità) provano a cercare il ritorno alla vita di sempre anche con la lettura di un libro, magari all’ombra di qualche pianta, accanto alle tende infuocate dal caldo umido di Caronte. Voglia di normalità. Con i bambini chiassosi da tenere a bada nei centri estivi comunali (più di 200 invece dei soliti 150), magari con il cinema all’aperto, organizzato nonostante tutto anche quest’anno. Voluto per sfidare l’idea stessa della resa, proprio come la Fiera di Bruino, festa paesana millenaria che per la prima volta nella storia di Medolla si è tenuta per un solo giorno (ieri) anziché una settimana intera. Con i volontari a distribuire ciambelle dolci tipiche (balsòn) e lambrusco: per dare il benvenuto al tempo che verrà, malgrado il terremoto.
Ma Medolla non è soltanto determinazione e ripresa. Ci sono, com’è ovvio, anche mille difficoltà da affrontare ogni santo giorno. È l’ora del bicchiere mezzo vuoto, per seguire la metafora del sindaco. Dei sei morti sotto le macerie. Delle attività produttive spostate (quando va bene) sotto le tende o nei container in attesa di rimettere in piedi i capannoni. C’è il settore biomedicale in ginocchio o costretto a cambiare territorio almeno per un paio d’anni per poter sopravvivere. Ci sono i commercianti sfrattati da palazzi inagibili…
Se la rinascita delle scuole è il primo passo verso la nuova Medolla, crepe e macerie da un lembo all’altro del suo territorio sono lì a ricordare che il post-terremoto è tutt’altro che risolto. «Cerchiamo di fare il possibile ma davanti alla parola ricostruzione — dice il vicesindaco Ganzerli — quello che si può dire adesso è che siamo ai preliminari, stiamo finendo il censimento dei danni. Ci sono arrivate circa 2000 segnalazioni di edifici lesionati». 375 sono inagibili in «classe E», cioè difficilmente recuperabili. Altri 300 danneggiati in modo più o meno grave. Nella zona rossa il campanile è così malmesso che sembra poter venir giù con un soffio di vento. E poi, per dirla con il sindaco, «non c’è un edificio pubblico che sia agibile». Municipio, teatro, centro diurno per anziani, magazzini comunali, tutte le chiese e tutti e tre i cimiteri… «Abbiamo danni per milioni di euro» considera Molinari. «C’è ancora molto, molto da fare e nessuno si illude che sia facile né veloce. Eppure, un passo alla volta, dobbiamo uscirne».

Il Corriere della Sera 02.07.12

"Il fantasma della severità si aggira nelle scuole", di Mariapia Veladiano

Una piccola inquietudine da notizia può venire: i giornali raccontano che la scuola ricomincia a bocciare i bambini di prima elementare, che l´Invalsi propone prove difficili di matematica in terza media, che all´esame di maturità arriva un Aristotele spiazzante. Ci si chiede se sia l´effetto di una qualche maggiore severità, promessa o minacciata a seconda del proprio vedere.
Certo che no. Il ministero dell´Istruzione attraverso il suo rapporto annuale “La scuola in cifre” ci dice che negli ultimi due anni scolastici monitorati (2009/2010 e 2010/2011) sono aumentati sia gli studenti ammessi all´esame di terza media (dal 95,4 al 95,9 per cento) sia gli studenti poi diplomati (dal 99,5 al 99,6 per cento). Un aumento si è verificato anche per la maturità (dal 94,1 al 94,4 per cento di ammessi e dal 98,1 al 98,3 di diplomati). In entrambi i casi poi sono aumentate considerevolmente le votazioni alte (+1,4 per cento sia i nove che i dieci) e l´esito finale con la lode (+0,8 per cento). Negli anni intermedi di entrambi i cicli sono diminuite le bocciature e diminuiti anche, per le superiori, i ragazzi con “giudizio sospeso”, ovvero quelli che devono a fine estate superare una prova di recupero in alcune discipline. Poiché i dati delle medie riportano un´inversione di tendenza netta rispetto ai cinque anni precedenti, quando le ammissioni all´esame erano in costante calo (-2,2 per cento dal 2005), vien chiedersi cosa sia rimasto del più imponente tentativo di “ritornare alla scuola del merito” che ha occupato per mesi i giornali e le televisioni durante il precedente governo. I cambiamenti sono stati presentati come l´azione salvifica di fronte al baratro in cui la scuola era scivolata con un impatto demagogico contundente: il voto di condotta entrava a far parte della media complessiva dei voti dello studente, e l´accesso agli esami di Stato (medie e superiori) veniva consentito solo a chi avesse la sufficienza in tutte le discipline. La prima norma ha ottenuto il risultato, scontato, di alzare la media di gran parte degli studenti perché, grazie al cielo, in generale gli studenti corretti sono ben più di quelli indisciplinati e se un ragazzo non disturba, segue moderatamente le lezioni e un po´ interviene, un otto o un nove in condotta lo prende.

La Repubblica 02.07.12

******

“Ripetere l´anno è una rarità e secondo l´Ocse non serve”, di SALVO INTRAVAIA

La bocciatura di cinque bambini di prima elementare a Pontremoli (Massa Carrara) ha fatto ricadere la scuola italiana nell´incubo severità. Gli insegnanti, come aveva sperato invano – al punto di taroccare i numeri – la Gelmini, stanno diventando davvero più severi, bocciando “senza pietà” piccoli di sei anni? E, numeri alla mano, quanto è rigorosa la scuola italiana? Ma bocciare serve davvero? Per comprenderlo basta affidarsi ai dati. Nella scuola primaria la bocciatura è cosa davvero rara: nel 2007/2008, quando a viale Trastevere salì Mariastella Gelmini, in prima elementare si contavano 8 bocciati su mille: lo 0,8 per cento. L´anno dopo, nel 2008/2009, il dato calò allo 0,6 per cento per restare stabile fino all´anno scorso. Anche il computo dei bocciati su tutti e 5 gli anni ha seguito lo stesso trend: 0,4 per cento nel 2007/2008 e 0,3 l´anno scorso. Insomma, nell´ultimo quinquennio si boccia di meno.
Per avere un´idea di cosa fosse la scuola elementare alcuni decenni fa, basta guardare le statistiche dell´anno 1952/53. Sessant´anni fa, i ripetenti in prima elementare erano un numero 33 volte maggiore di oggi: il 19,78 per cento. In pratica, un bambino su 5. Altalenante il termometro della severità nella scuola media. Nel 2007/2008, i bocciati in prima media furono 3,8 su cento, due anni dopo, nel 2009/2010, schizzarono al 5,5 per cento. Ma l´anno scorso si sono ridimensionati al 5,2 per cento. Agli esami le cose cambiano: tra non ammessi e bocciati agli esami, nel 2010/2011, sono stati fermati 4,5 ragazzi su cento. Un anno prima, superavano il 5 per cento. Ma è in calo il numero dei promossi con punteggio minimo, che molti esperti considerano “analfabeti funzionali”. Nel 2006/2007, più di un terzo dei diplomati (il 37,1 per cento) conseguì la licenza media con “sufficiente”. L´anno scorso, la schiera dei licenziati per il rotto della cuffia si è assottigliata al 28,8 per cento. Alla maturità, da quando Giuseppe Fioroni reintrodusse l´ammissione agli esami, il numero dei non ammessi incrementò dal 4 per cento, dell´estate 2007, al 5,9 del 2010. Con una lieve flessione al 5,6 per cento l´anno successivo. Tra non ammessi e bocciati agli esami passiamo dal 6,6 del 2007 al 7,7 per cento del 2010, per scendere di mezzo punto nel 2011.
Per i primi quattro anni del superiore occorre partire dal 2007/2008, quando Fioroni – sottoforma di “sospensione del giudizio” – ripristinò le rimandature a settembre. Quell´anno, i “rimandati” ammontarono al 26,8 per cento, tre anni dopo salirono al 27,4 per cento. Ma a settembre 2011, complessivamente, i bocciati ammontavano al 15,1 per cento, facendo registrare un calo superiore ad un punto rispetto al settembre di tre anni prima. Quella sulle bocciature sembra una discussione che appassiona soltanto noi italiani. In Germania si parla di abolirle addirittura e non per eccesso di buonismo. L´Ocse, approfondendo l´indagine sulle competenze in lettura dei quindicenni, ha recentemente dimostrato che bocciare serve a poco. «Nei paesi in cui la percentuale di studenti che ripetono gli anni è elevata – spiegano da Parigi – le prestazioni complessive tendono ad essere inferiori».

La Repubblica 02.07.12

"Il Nord padano si scopre il Sud della Germania", di Ilvo Diamanti

Ieri la Lega ha celebrato la successione. Da Bossi a Maroni. Si è trattato di un congresso difficile, perché la Lega, in due anni, è passata dal successo alla crisi. Alle Regionali del 2010 aveva ottenuto circa il 12% ed eletto i presidenti di Veneto e Piemonte. Inoltre, aveva allargato il confine padano, penetrando nelle zone rosse. Emilia Romagna, Toscana e Marche, sopra tutte.
Due anni dopo, ha subito un pesante ridimensionamento. Alle elezioni amministrative di maggio, fra i 12 sindaci leghisti dei Comuni sopra i 15mila abitanti dove si votava, ne sono stati rieletti solo due. Uniche città dove la Lega abbia vinto, in questa occasione. A Verona e Cittadella. Inoltre, i sondaggi la stimano fra il 4 e il 5%. In pratica, meno della metà rispetto alle Regionali. Bisogna fare attenzione, comunque, prima di dare la Lega per finita. L´ho già scritto qualche tempo fa. Non ho cambiato idea. La stima elettorale che le viene attribuita oggi, in fondo, non è diversa dal risultato ottenuto alle elezioni politiche del 2006. Superiore a quello conseguito alle elezioni fra il 1999 e il 2005. Peraltro, è possibile che il dato attuale sia sottostimato dai sondaggi, per il disagio di molti elettori nel dichiararsi a favore della Lega, dopo gli scandali dei mesi scorsi. In fondo, avveniva lo stesso negli anni Novanta, quando puntualmente la Lega, alle elezioni, otteneva risultati molto più elevati rispetto ai pronostici.
D´altronde, la Lega ha sempre seguito un andamento elettorale oscillante. In alcuni momenti e in alcune fasi, ha allargato la sua base “fedele”, intorno al 4%, a settori di elettorato deluso degli altri partiti, soprattutto di centrodestra. Oppure intenzionato a far sentire la propria insoddisfazione, nei confronti dello Stato centrale. Oppure ancora, attratto dalle principali “politiche” annunciate dalla Lega. Il federalismo e il controllo (meglio: la chiusura, nei confronti) dell´immigrazione. La Lega ha, cioè, agito come un imprenditore politico flessibile, in grado di captare i principali motivi di malessere degli elettori del Nord e, sempre più, del Centro Italia. Ora, però, questa impresa le riesce difficile. Per motivi interni ed esterni, piuttosto evidenti.
Sul piano interno, è profondamente divisa. Il Congresso invece di sancire l´alleanza e il passaggio fra i due leader, Bossi e Maroni, ne ha evidenziato la distanza. Anzi, il distacco. Bossi, in particolare, non pare disposto a fare il “padre nobile” (dopo le vicende che hanno coinvolto i suoi familiari sarebbe difficile). Chiede poteri reali, posti sicuri per i “suoi” nelle liste, alle prossime elezioni. Peraltro, i congressi territoriali non hanno determinato la vittoria schiacciante della corrente di Maroni. Hanno, al contrario, confermato come il partito sia spaccato in due. Maroni per primo, d´altronde, è consapevole come non sia possibile una Lega “senza” o peggio “contro” Bossi. Al quale egli stesso è legato, personalmente, per ragioni di biografia personale e politica. Tuttavia, al congresso, ieri, ha sentito il bisogno di sottolineare che governerà la Lega “senza tutele”.
Né vi sono altri leader che possano subentrare, al posto loro. I Presidenti, Zaia e Cota, contano e pesano solo nelle loro Regioni. Tosi, il sindaco di Verona, è certamente visibile e riconosciuto, mediaticamente. Ma non riflette la tradizione leghista. Come la sua città, che ha, semmai, un retroterra di destra e si è avvicinata alla Lega solo negli ultimi anni. Dopo l´avvento di Tosi.
Ma i problemi maggiori, per la Lega, vengono dall´esterno. Dalla difficoltà di recitare il ruolo e il copione che le hanno garantito il successo.
Quanto alla protesta contro i partiti “nazionali”, la Lega, in questa fase, deve fare i conti con un concorrente temibile. Il M5S ispirato da Beppe Grillo. Tra il 20% e il 30% degli elettori leghisti, alle regionali del 2010, alle elezioni amministrative di maggio, nelle principali città del Nord dove si è votato, ha scelto il candidato del M5S (come mostrano i flussi dell´Istituto Cattaneo). Mentre, nel Nordest, patria storica del leghismo, il 25% di coloro che oggi voterebbero per il M5S nel 2008 aveva votato per la Lega (stime dell´Osservatorio Elettorale del LaPolis su dati Demos, giugno 2012). Il M5S, d´altronde, può gestire in modo flessibile le sue strategie. Non è vincolato ad alleanze. Non deve vincere le elezioni e neppure governare. (Se gli capitasse sarebbe un problema…). Mentre la Lega ha il problema contrario. Oggi è “sola contro tutti”. Lega di opposizione. Ma non può permettersi di restare troppo a lungo in questa posizione. Rischierebbe, altrimenti, di risultare “inutile” agli occhi degli elettori “tattici”, che la votano per ottenere risultati concreti. Per “premere su Roma”. Non solo per protestare.
Ma la Lega, oggi, incontra grandi difficoltà nel perseguire, in modo convincente, i progetti che ne hanno caratterizzato l´azione e l´identità nel passato (non solo) prossimo.
Gli scandali recenti ne hanno eroso l´immagine della “diversità”. Il partito puro e duro, senza compromessi. Oggi appare assai meno puro e più compromesso di ieri. Così resta sospesa, come in Lombardia. Dove continua a sostenere la giunta Formigoni. E minacciare di uscire. Una Lega di governo e di opposizione. A disagio in entrambi i ruoli.
La “paura dell´altro”, la protesta contro l´immigrazione e l´integrazione (un tema, peraltro, accarezzato anche da Grillo), in questa fase, appare oscurata da altre paure. Dettate dalla crisi economica, dalla disoccupazione, dalla condizione di vita delle persone. Oggi incombono anche nelle aree dove la Lega è più forte.
Il federalismo: dieci anni al governo, insieme al centrodestra, non sono serviti ad affermarlo. Ne hanno, semmai, mostrato la faccia meno attraente. Costringendo gli amministratori locali a chiedere ai cittadini più tributi senza produrre più servizi. Semmai, il contrario.
Ma, soprattutto, si sta assistendo all´eclissi, se non al declino, della “questione territoriale”. Per prima: la “questione settentrionale”, a cui la Lega ha dato visibilità e voce, fino ad oggi. Perché, forse, è vero che “Non c´è Nord senza Sud”, come titola un bel saggio di Carlo Trigilia (appena pubblicato dal Mulino). Ma oggi entrambi, il Nord e il Sud, sembrano svanire, risucchiati nella crisi europea. Insieme all´Italia, tutta insieme, senza distinzioni. In tempi nei quali la politica è affidata ai tecnici. Per tutti: Mario Monti. Unico garante di fronte ai mercati e ai grandi del mondo.
Così diventa difficile fare la Lega padana, il sindacato del Nord. Quando il Nord non è solo a Nord del Sud. Ma (come ha suggerito Lucio Caracciolo) è, a sua volta, a Sud dell´euro – una moneta senza Stato. Il Nord padano: a Sud della Germania. Una periferia americana. All´estremo occidente della Cina e dell´India.

La Repubblica 02.07.12

******

“Nasce la Lega di Maroni Bossi gli rovina la festa”, di CURZIO MALTESE

MUOIA Bossi con tutti i filistei del nuovo corso leghista. L´affascinante suicidio della Lega Nord, in corso ormai da mesi, è precipitato in uno psicodramma collettivo, con tanto di scena madre.
Proprio nel giorno dell´atteso congresso che doveva segnare la rinascita dal fango degli scandali. Si doveva celebrare l´incoronazione di Bobo Maroni, con la benedizione di Bossi. Ma in tre minuti il Senatur ha fatto il presepe allestito dai maroniani e ha trasformato il Maroni day in un personale “Vaffa-day” ai successori, un addio amaro e polemico.
Due schiaffoni del fondatore hanno preceduto e seguito il discorso d´insediamento di Maroni, molto programmatico, piuttosto lungo, un po´ noioso. Il vecchio leone invece ha dato spettacolo. Nel primo intervento Bossi ha distribuito una serie di pesanti messaggi alla nuova reggenza leghista. Un misto di accuse dirette e allusive, ironie sui moralizzatori con la scopa in mano, sospetti feroci di complotto ordito all´interno della Lega, perfino minacce di scissione («se non ci fosse più questa Lega, ci sarebbe un altro movimento»), i cui bersagli mai nominati ma evidentissimi erano Maroni e i suoi grandi elettori veneti, Zaia e Tosi. Tanto che Zaia è intervenuto per fermarlo, ricordando che il nuovo statuto è stato approvato all´unanimità. E qui Bossi ha tirato il primo schiaffo: «Vado a vedere se mi avete imbrogliato». Gli ha voltato le spalle e se n´è andato. Dopo l´arringa di Maroni, il Senatur è tornato sul palco per prendersi l´ultima parola e raccontare la famosa storia delle due madri davanti al re Salomone. Metafora chiarissima, dove la madre buona (Bossi), pur di salvare la vita del bambino conteso (la Lega), lo cede alla madre usurpatrice (Maroni). Due belle mazzate, non c´è che dire.
Ora, il passaggio di consegne fra Bossi e Maroni sarebbe stato arduo anche con alle spalle un partito unito e solidale, ma così diventa un suicidio politico. Perché la Lega è stato il più personale dei partiti, il più dipendente dalla figura del capo e fondatore, dal quale discendeva la stessa identità del movimento. Più delle idee, dei progetti e dei sogni, più del federalismo e della secessione, del mito Padania e di «Roma ladrona», la Lega è stata per vent´anni l´immagine riflessa di Umberto Bossi. Un uomo delle valli con una canottiera azzurra, il sigaro appeso al sorriso strafottente, e sullo sfondo le villone di Berlusconi e i palazzi del potere. Prima di ieri, era problematico sostituire questa immagine rozza e potente con quella di un avvocato della Varese bene, simpaticamente innocuo, con l´hobby del sax e una collezione di vezzosi occhialini colorati. Ma dopo la maledizione del fondatore, diventa impossibile.
Nella migliore delle ipotesi, la Lega di Maroni può provare a blindarsi nelle roccaforti locali, diventando una filiale provinciale del berlusconismo. Sembra più o meno questo il progetto del nuovo direttorio composto da Maroni, Zaia, Tosi e Salvini. Se Berlusconi accetta di mollare Formigoni, nella primavera prossima Bobo Maroni si candiderà alla successione del governatore in Lombardia per il centrodestra. L´elezione non è affatto scontata, ma la Lega punta sul solito masochismo del centrosinistra e sull´aiuto esterno di Grillo, che potrebbe abbassare di molto la quota necessaria per vincere. Con il governo delle regioni dove si producono due terzi del Pil nazionale, la Lega di Maroni potrebbe quindi garantirsi un altro decennio di potere. Niente più sogni di gloria e miraggi rivoluzionari, s´intende, ma ancora posti, soldi, poltrone importanti, sia pure nella ridotta, ma comoda dimensione di un partito «catalano». Stare al governo in Lombardia e in Veneto, ma all´opposizione a Roma, sarebbe la condizione ideale per proseguire anche nella stagione maroniana il gioco fortunato della Lega di lotta e di governo, un piede dentro e uno fuori le istituzioni. Il punto debole di questo progetto è che si fonda sull´alleanza con Berlusconi, al quale della sopravvivenza della Lega e perfino del Pdl, non frega nulla. A Berlusconi interessa non far fallire le proprie aziende e quindi stare al governo, con chiunque.
Nella peggiore delle ipotesi, la nuova Lega rischia di implodere in una guerra per bande locali e di consegnare altre quote di voti a Beppe Grillo, fino alla completa estinzione. I segnali ci sono già. La minaccia di Bossi di fondare un nuovo movimento non è affatto campata in aria. Il Senatur tiene famiglia, com´è noto, e controlla ancora un pezzo del movimento. Se i successori non gli daranno una quota di nomine, lui ha chiesto il 20 per cento, è pronto a chiamare le truppe alla rivolta.
Nel caos dei prossimi mesi, è difficile prevedere come e dove andrà a finire la Lega. Conta anche la sorte e Maroni finora non è stato un principe fortunato. Ha lanciato la candidatura alla vigilia di una tremenda batosta elettorale, si insedia nel fuoco delle polemiche. Perfino il giorno del congresso, deciso da mesi, coincide con una giornata storta per la Lega, quella della finale di calcio, col Paese imbandierato di tricolori.

La Repubblica 02.07.12