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"La sfida per chi vuole l’alternativa", di Claudio Sardo

L’Europa finalmente ha battuto un colpo. Il deficit politico accumulato dal vecchio Continente resta ancora tutto da ripianare, ma il risultato del summit di Bruxelles stavolta ha avuto un segno positivo, riconosciuto anche dai mercati. Pure l’Italia è tornata a giocare un ruolo importante dopo gli anni bui di Berlusconi. Per il premier Monti è stato un successo. Personale, e non solo. Alle spalle aveva un mandato ampio (rafforzato dalla convergenza di Pd e Udc su un documento parlamentare comune, a fronte dei distinguo del Pdl) e al fianco Monti ha avuto Hollande, il neopresidente socialista della Francia, l’uomo che ha cambiato gli equilibri dell’Unione.
L’Europa è il nostro destino. È la crisi politica dell’Europa che sta mettendo a rischio un modello sociale. Solo una reazione comunitaria può portarci fuori dalla depressione economica e dal declino. Ma intanto il declino favorisce le chiusure nazionaliste, gli egoismi di classe, il diffondersi dei populismi (purtroppo non solo a destra). C’è poco tempo per reagire.

Il recente Consiglio europeo ci ha dato un po’ di ossigeno: guai a sprecare l’occasione. Ci sarà bisogno di ridurre la spesa corrente per aumentare gli investimenti: l’Europa ha innanzitutto necessità di tornare a crescere. Di puntare sul lavoro, sui suoi giovani, sulle sue intelligenze. Ha bisogno di ridurre gli squilibri, cresciuti a dismisura nell’ultimo decennio. È per questo che occorre rimettere al centro la politica e le istituzioni, invece del mercato e della finanza. La svolta necessaria passa attraverso cessioni di sovranità, ma non è più tempo di riforme calate dall’alto: la politica tornerà a prevalere solo se avrà un forte contenuto sociale, se dimostrerà di ridurre le diseguaglianze, di aumentare le opportunità, di legare imprese e lavoro ad una stagione di crescita qualitativamente nuova.
L’esito incoraggiante del summit ci pone comunque sfide interne ed esterne. Una sfida decisiva riguarda il profilo dell’Europa. Non c’è alternativa ad una Unione politica e fiscale sempre più forte. Il percorso per arrivarci è però pieno di ostacoli e di trappole. È stata battuta a Bruxelles la resistenza di Angela Merkel, e in qualche modo la filosofia che ha ispirato l’egemonia del centrodestra franco-tedesco: ma sarebbe un grave errore intensificare ora il conflitto con la Germania, anziché attenuarlo per accorciare i tempi verso le necessarie riforme europee. Merkel dovrà vedersela in casa propria con le contraddizioni della sua maggioranza e, speriamo, con una coalizione rosso-verde capace di rilanciare con un programma europeista. Ma sono solo testimonianze di squallore e di degrado, come giustamente ha sottolineato ieri Michele Ciliberto, le frasi offensive rivolte contro la cancelliera da parti del centrodestra italiano, che prima si vantava di esserle alleato e ora la contesta con gli argomenti delle destre radicali.
La sfida interna più importante riguarda i contenuti della transizione italiana. Ora Monti si sente più forte per arrivare alla primavera del 2013. Non c’è dubbio che nel negoziato europeo ha dato il meglio di sè, rafforzando il valore delle scelte compiute dal Capo dello Stato. Ma la durata del governo non vale da sola a dare un senso positivo alla transizione. La missione del governo non è soltanto quella di guidare il Paese in un frangente burrascoso, riconquistando in Europa la credibilità perduta dai governi Berlusconi. La transizione, per essere fruttuosa, deve restituire agli italiani un sistema politico funzionante, deve farci uscire dalla Seconda Repubblica, deve soprattutto riportare equità laddove finora i sacrifici sono stati tutti a carico dei «soliti noti». Non basta, insomma, un segnale promettente in Europa per illuminare la strada fino a fine legislatura. Se torneremo a votare con il Porcellum, in virtù del boicottaggio Pdl sulle riforme, non si potrà non dire che la transizione sarà fallita. A maggior ragione il discorso vale per le questioni sociali: le misure di austerità, pur necessarie, hanno avuto un segno depressivo e gravano in modo insostenibile sui ceti sociali più deboli. È necessaria una doppia svolta: nel senso della crescita e nel senso della giustizia sociale. Non si tratta solo di porre rimedio ai casi di macroscopica ingiustizia come per gli esodati. Si tratta di avviare un piano per il lavoro e lo sviluppo, magari straordinario, magari finanziato con una patrimoniale, che sarà tanto più solido quanto diventerà bandiera comune dei progressisti europei.
Ma c’è ancora una sfida. Nella transizione occorre preparare una solida alternativa di governo. I «tecnici» sono, appunto, un passaggio. Se fossero un’emergenza continua, l’Italia andrebbe incontro ad un destino «greco». Compito del centrosinistra, in primo luogo del Pd, è costruire il progetto e la squadra di domani. Questo è oggi parte essenziale della sua funzione nazionale. Non si potrà costruire un progetto a dispetto dei contenuti. Non si dovrà ripercorrere la fallimentare strada dell’Unione. L’impegno per sostenere il governo Monti, per correggerne i contenuti sociali, per spingere sempre più l’Italia all’alleanza con i progressisti europei è parte del lavoro di costruzione dell’alternativa. Se Di Pietro pensa che può allegramente attaccare il presidente della Repubblica, inseguire il populismo anti-euro di Grillo, contrastare il governo Monti come se fosse la continuazione del governo Berlusconi, deve sapere che stavolta non ci sarà alleanza possibile.
Le stesse primarie del centrosinistra devono contenere gli antidoti all’Unione. Chi partecipa deve stringere un patto di programma così forte da prefigurare la convergenza, domani, in un solo partito. Una sfida che Vendola aveva lanciato per primo (mentre Di Pietro ha già tradito una volta la parola data, a Veltroni nel 2008). Le primarie come momento di sintesi e di rilancio: non solo per la scelta di un leader. Poi un partito rafforzato e coeso potrà utilmente allargare il consenso e le alleanze. A partire da quelle forze con cui si è condiviso prima l’opposizione a Berlusconi, poi il sostegno a Monti in chiave europeista.

l’Unità 01.06.12

"Condannati a leggere", di Lorenzo Mondo

Dove mai va a cacciarsi la filantropia, e il vagheggiato recupero degli erranti al vivere civile. Apprendo con divertito stupore che il governo brasiliano ha preso una singolare iniziativa a beneficio dei carcerati. Si chiama pomposamente «Redenzione attraverso la lettura» e appare così articolata: quattro penitenziari saranno dotati di mille libri ciascuno; ogni detenuto potrà prenderne in prestito uno al mese; sarà poi interpellato da una apposita commissione e, in caso di parere positivo, otterrà uno sconto di pena di quattro giorni, che diventeranno 48 in un anno. L’esperimento, promettono, potrebbe estendersi a tutte le carceri del Paese.

Scartiamo l’idea che il progetto possa servire allo sfoltimento dei detenuti o a qualche sostegno delle case editrici fornitrici della materia prima. Ma con quali criteri saranno scelti i libri da concedere in lettura? Si terrà conto del loro contenuto più o meno edificante e magari della loro taglia fisica? Applicarsi al Don Chisciotte conterà più, anche in termini di peso, che scorrere i salgariani Misteri della giungla nera? Altre tuttavia, e ben più severe, sono le obiezioni che si possono avanzare. Innanzitutto la discriminazione tra i carcerati che sanno leggere e gli analfabeti, compresi quelli di ritorno, che popolano presumibilmente in grande maggioranza gli istituti di pena.

Possibile che proprio il governo progressista di Dilma Rousseff si accolli questa macchia? Non sembra poi ragionevole assegnare al libro un carattere costrittivo (se leggi, ti premio) tale da compromettere l’eventuale riuscita pedagogica e il senso stesso dell’operazione. D’altra parte, la disposizione alla lettura non comporta di per sé redenzione. Esistono fior di lestofanti, e perfino criminali, che sanno leggere, e anche scrivere. Ne è buon esempio, e proprio nel Brasile che gli ha concesso asilo, il pluriomicida Cesare Battisti, autore, dicono, di apprezzabili romanzi polizieschi (che saranno offerti magari in lettura a malviventi di minor fortuna).

Questo non vuol dire che non sia auspicabile rifornire le prigioni di mille e mille volumi, offrendo una possibilità di svago e di crescita, intellettuale e morale. Per chi vuole approfittarne, senza che i libri siano ridotti a pretesto per una, comunque modesta, attenuazione della pena, a strumento di una indimostrabile espiazione. In fin dei conti, non solo le vie dell’inferno, ma anche quelle dell’improvvisazione volontaristica e ideologica, sono lastricate di buone intenzioni.

La Stampa 01.06.12

"Il piano del governo meno Iva nel 2013 e Fondo salva-debito", di Massimo Giannini

Il patto di Bruxelles, sottoscritto tra i leader europei per salvare la moneta unica, consente all’Italia di staccare un doppio «dividendo». Il primo è positivo per i contribuenti: la manovra sull’Iva, già congelata per il prossimo ottobre, nel 2013 sarà meno pesante del previsto. Lo consentiranno i risparmi sulla spesa corrente garantiti dal decreto sulla spending review, che il governo renderà più incisivo per dare subito un segnale forte all’Europa. Il secondo è positivo per il bilancio dello Stato: la manovra di abbattimento del debito pubblico con la costituzione di uno o di più Fondi «salva-Italia», già anticipata dal premier a Berlino il 14 giugno, sarà accelerata. Lo consentiranno i risparmi sulla spesa per interessi garantiti dallo scudo salva-spread. NEL governo tutti i ministri hanno tirato un sospiro di sollievo, dopo l’esito dello «storico » vertice di giovedì e venerdì. L’intesa tra i capi di Stato e di governo andrà tradotta in fatti concreti, soprattutto dall’eurogruppo del 7 luglio. Ma la svolta c’è stata. Corrado Passera, ministro dello Sviluppo, non ha dubbi: «Il passo politico è stato importantissimo, anche se andrà riempito di contenuto tecnico e realizzativo. E Monti è stato veramente grande…». Ma al di là dell’alto contenuto politico per l’Europa, il patto di Bruxelles per l’Italia riveste un significato economico altrettanto rilevante. Come dice Piero Giarda, ministro per i rapporti con il Parlamento, «c’è una spinta ancora più forte ad accelerare sulle riforme strutturali, che riguardano la spesa, le entrate e anche il debito pubblico ».
Sulla spesa, in queste ore tutti i ministri sono al lavoro per completare i tagli previsti dalla spending review. Il decreto ritarderà qualche giorno, ma solo perché il «target» fissato dal premier vuole essere più ambizioso del previsto. I risparmi che Monti vuole ottenere, e che Enrico Bondi ha ordinato nel suo piano, sono rinchiusi in una forchetta che oscilla tra i 7,5 e i 10 miliardi. Tutti i capitoli sono coinvolti: dalla sanità agli enti locali al pubblico impiego. I dicasteri e i sindacati si lamentano, ma Grilli non sente ragioni. C’è un motivo in tanta intransigenza, che a qualcuno fa addirittura rimpiangere i tagli lineari di Tremonti: e quel motivo si chiama Iva.
Sulle entrate, infatti, il piano di Monti è non solo quello di evitare l’aumento dell’imposta sul valore aggiunto che doveva scattare a ottobre. Ma grazie ai maggiori risparmi della spending review e alla buona tenuta del gettito dell’Imu (finora sono stati incassati circa 9 dei 9,7 miliardi previsti per la prima rata) il premier vuole attenuare l’urto degli aumenti già previsti dal primo gennaio 2013. Se il quadro contabile non peggiora, le due aliquote Iva del 10 e del 21%, che dovevano aumentare rispettivamente di 2 punti dall’anno prossimo, aumenteranno solo di 1 punto. Non è manna dal cielo per i contribuenti, ma è comunque il segnale di un’inversione di tendenza. Giarda ha già fatto i suoi calcoli: «I due punti di aumento del-l’Iva valgono 13 miliardi. Il costo di 1 punto per ciascuna delle due aliquote è di circa 6,8 miliardi. Se la spending review funziona, ce la possiamo fare».
La sfida più impegnativa, e se vogliamo più innovativa, riguarda il debito pubblico. Anche qui, il vertice europeo è uno stimolo fondamentale, per accelerare sul progetto che Monti ha già anticipato due settimane fa dopo il bilaterale con la
Merkel. Si tratta di aggredire il Moloch di un debito che sfiora i 2 mila miliardi di euro, e che supera il 120% del Pil, non a colpi di manovre lacrime e sangue, che stanno uccidendo l’economia reale, ma con un’operazione strutturale sul patrimonio. Il «firewall» è la creazione di uno o di più Fondi «Salva Italia», ai quali conferire quote di patrimonio pubblico, mobiliare e immobiliare. Dagli asset dello Stato a quelli degli enti locali, dalle partecipazioni strategiche come Eni Enel e Finmeccanica alle municipalizzate.
Il modello è quello indicato in questi mesi in varie proposte, da quella di Andrea Monorchio a quella di Pellegrino Capaldo, e rilanciato nei giorni scorsi da Giuliano Amato: questo Fondo, o questi Fondi, dovrebbero valorizzare e vendere quote di patrimonio ai risparmiatori italiani, sottoscrivendo «o quote (redditizie) dello stesso patrimonio, o titoli speciali del debito pubblico, a tassi di interesse inferiori a quelli che ci potrebbe dettare il mercato». Il ricavato andrebbe ad abbattere il debito pubblico, che potrebbe scendere al 100% nel giro di pochi anni. Persino l’ex ministro Renato Brunetta, “falco” del Pdl, ha dato via libera a questo progetto. Ma per far funzionare l’operazione, occorrono due requisiti. Il primo sono le condizioni della liquidità, e su questo dovrebbe supplire la Cassa depositi e prestiti. Il secondo sono le condizioni di mercato, e su questo dovrebbe aiutare il risultato del patto di Bruxelles. È ancora Giarda a spiegarlo: «Finchè i rendimenti dei nostri titoli pubblici oscillano intorno al 6% sarà molto difficile convincere gli italiani a comprare i titoli emessi dal nuovo Fondo Salva Italia a tassi che non superano il 2%. Ma se lo scudo antispread deciso al vertice funzionerà davvero, allora i tassi di interesse possono finalmente scendere in modo strutturale, e allora diventerà finalmente possibile collocare i nuovi titoli che ci consentiranno di abbattere il nostro debito pubblico, senza martoriare di sacrifici i cittadini e senza soffocare l’economia del Paese». È una scommessa. Ma mai come adesso vale la pena di giocarla.

La Repubblica 01.07.12

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“SUPERMARIO HA VINTO MA LA MERKEL NON HA PERSO”, di EUGENIO SCALFARI

L’ANDAMENTO del vertice di Bruxelles, i provvedimenti presi e immediatamente esecutivi, gli obiettivi di fondo per la costruzione di un nucleo politico di Stato federale europeo, sono stati già ampiamente illustrati. I protagonisti hanno parlato e commentato. I mercati hanno risposto in modo estremamente positivo. Le Borse — specialmente quelle italiane spagnole francesi e Wall Street — hanno segnato i massimi di tutto l’anno; lo “spread” italiano è diminuito di 50 punti-base, il tasso di cambio euro-dollaro è aumentato di 2 punti-base.
Ma sono gli effetti politici e le aspettative gli elementi più importanti del quadro che si è delineato venerdì scorso a Bruxelles, con conseguenze sull’Europa, in Usa e nei Paesi membri dell’Unione. Riassumiamoli per comodità di esposizione.
1. L’asse tra Germania e Francia con l’evidente egemonia tedesca ha ceduto il posto ad una direzione collettiva i cui pilastri di sostegno sono la Germania, la Francia, l’Italia, la Spagna.
2. L’accordo si basa su uno scambio storico che ha come protagonisti la Merkel e Hollande: cessione di sovranità degli Stati membri dell’Unione (per quanto riguarda l’eurozona) e interventi immediati sul rilancio della domanda e sulla messa in sicurezza del sistema bancario, degli “spread” e dei debiti sovrani.
Tre. È un errore sostenere che la Merkel sia stata sconfitta a Bruxelles; la cancelliera ha ottenuto quello che è il destino della Germania: la nascita dell’economia federale dell’eurozona con i tempi che essa richiede ma con l’adesione della Francia, la più difficile da ottenere. Hollande dal canto suo ha anche lui ottenuto ciò che voleva: porta a casa provvedimenti di crescita e di difesa dell’euro. Cessione di sovranità a medio termine, solidarietà economica in tempo immediato.
4. Mario Monti è stato il protagonista numero uno. Forse il paragone calcistico è irriverente ma di questi tempi aiuta a capire meglio: Hollande – come Cassano – ha fornito gli “assist”; Monti – come Balotelli – ha messo la palla in rete. Non a caso i mercati italiani in Borsa e nelle quotazioni dello “spread” sono stati in testa a tutti gli altri.
5. Ripercussioni molto rilevanti e positive si sono verificate anche in Usa a favore di Obama. Giovedì il presidente aveva incassato una sentenza della Corte suprema che approvava e rendeva esecutiva la riforma sanitaria varata dallo stesso Obama nel 2010, ma che era stata bloccata dai repubblicani. Il giorno dopo il vertice di Bruxelles ha raggiunto risultati che Obama aveva più volte auspicato e che rafforzeranno la ripresa economica americana.
Questa è la sostanza politica di quanto è accaduto. Ad alcuni piacerà molto, ad altri molto meno, sia in Usa sia nell’eurozona sia nell’Unione dei 27 sia nei singoli Paesi. Non piacerà ai repubblicani americani, non piacerà alla Bundesbank, non piacerà all’estrema destra francese. Non dovrebbe dispiacere a Cameron e neppure alla City di Londra ma questo dipende dalla loro maggiore o minore saggezza.
In Italia la situazione è complessa
ma ormai chiarissima nelle sue linee essenziali.
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Un articolo sulla prima pagina del “New York Times” di ieri racconta con dovizia di particolari il vertice di Bruxelles concludendo col dire che il vero protagonista, quello che è riuscito a impedire un finale generico e senza risultati come molti prevedevano sarebbe avvenuto, è stato Monti.
È andata esattamente così. Il nostro premier ha portato a casa quanto aveva promesso, non soltanto per far fronte alle necessità impellenti del nostro Paese ma anche per rafforzare l’Europa modificandone il quadro generale e le prospettive di fondo. Sarà molto difficile ora mettere il governo in difficoltà e paralizzarne l’azione. Della debolezza italiana Monti ha fatto una forza: questo è stato il fatto sorprendente che prende ora in contropiede i “berluscones” che puntavano su elezioni anticipate per riportare in proscenio forze e personaggi che ormai ne sono definitivamente e meritatamente usciti.
Resta il tema della recessione, che infuria non solo in Italia ma in tutto il mondo e che richiede un tempo tecnico e appropriate politiche concertate a livello internazionale per esser trainata e poi invertita in ripresa produttiva e occupazionale.
L’alternarsi di crescita e di recessione è il modo d’essere del capitalismo, il famoso calabrone che continua a volare nonostante che il suo peso e la sua velocità farebbero presumere che debba cadere a terra.
Supporre che fosse questo il tema sul tavolo dei 27 e dei 17 Paesi riuniti a Bruxelles l’altro ieri dimostra una dose di ignoranza teorica e politica del problema che può essere comprensibile in chi è del tutto estraneo alla storia economica, ma è stupefacente in chi invece dovrebbe essere esperto di come procedono i cicli congiunturali e come se ne possano correggere gli andamenti, stimolare i risparmi, moderare i debiti, adottare politiche appropriate della spesa pubblica, degli investimenti e dell’occupazione.
La recessione europea e italiana è cominciata un anno fa, non è quindi quella novità di cui la Confindustria si accorge oggi. Purtroppo tenderà a durare e addirittura ad aggravarsi fino al prossimo autunno; poi, se le politiche anticicliche prenderanno corpo in Italia e in Europa, potrà rallentare nell’ultimo trimestre dell’anno e iniziare un’inversione di tendenza ancora tenue ma significativa fin dal primo semestre del 2013.
Nel frattempo bisognava garantire alcuni “fondamentali”: il rapporto tra rendimento dei titoli pubblici, consistenza del fabbisogno, deficit e prodotto interno lordo, saldo della spesa corrente, lotta all’evasione fiscale.
Queste sono le condizioni necessarie per render possibile la politica anticiclica e il recupero della produttività e della competitività. E proprio a realizzarle è servita l’azione di Monti e di Hollande al “meeting” di Bruxelles.
Pensare che un percorso così complesso e la logica che lo sorregge attenui la rabbia di chi deve sopportare i sacrifici è illusorio. La rabbia c’è e probabilmente crescerà ancora. Spetta al governo, alle forze politiche e a tutta la classe dirigente del Paese canalizzarla, spiegarne i passaggi, intervenire e mobilitare risorse aggiuntive per garantire tutela ai più deboli, attuando ora più che mai la politica contro le rendite e gli oligopoli e predisponendo ammortizzatori sociali che accompagnino il Paese soprattutto nella fase recessiva fino a quando il corso ne sarà invertito.
Poi, fra dieci mesi, si aprirà il tema assai spinoso del dopo Monti e quello altrettanto importante del dopo Napolitano il quale – sia detto perché è una realtà oggettiva – è stato insieme a Monti l’artefice del successo che ha coronato una stagione di sforzi, di difficoltà e di tempesta congiunturale.
Mi vien fatto di pensare che cosa sarebbe accaduto se in questa circostanza non ci fossero stati Napolitano al Quirinale, Monti a Palazzo Chigi e Draghi alla Banca centrale europea.
Concludo con due battute e le riferisco per chiudere in allegria un periodo assai tormentato: un tempo c’erano i Tre-monti, adesso ci sono i Tre-Mario (il terzo è Balotelli). E poi: forse le cose sarebbero andate ancora meglio se al posto di Monti a Bruxelles ci fosse andato Renzi. Absit iniuria.

La Repubblica 01.07.12

"Dieci imprenditori e il patto nella tenda", di Francesco Alberti

La normalità, per ora, è una luce molto fioca a Cavezzo, nel modenese, uno dei comuni più colpiti dal terremoto del 29 maggio. Ma la data della svolta c’è: giovedì 28 giugno, ore 15.30. Sotto un tendone bianco, con un caldo feroce, i principali imprenditori della zona si sono riuniti con un intento comune: ripartire. Al bar «Luna e Sole» del cinese Du Jinmin, il tifo è rigorosamente antisismico e ai gol di Balotelli si esulta sottovoce: «Sai mai che venga giù qualcos’altro…».
La sera di Italia-Germania hanno messo la televisione sotto il portico («Metti che arrivi una scossa a tradimento…») con il risultato, affascinante e grottesco, di avere un occhio sui ragazzi di Prandelli e l’altro sulle macerie di quello che è stato un supermercato e su una piazza, piazza Martiri, che sembra il set di un film di guerra. «Tengono botta», qui a Cavezzo, nel senso tutto modenese di gente che non si rassegna e non si rassegnerà mai. Ma, accidenti, se sono messi male. Dei 7 mila e rotti abitanti, «più della metà», parole del sindaco Stefano Draghetti, non dormono in casa dalla botta del 29 maggio (5.8 di magnitudo), che qui ha avuto l’epicentro e ha fatto 4 morti.
Non è stato praticamente spostato un mattone da quel drammatico martedì, ma c’è comunque un ordine in tanta devastazione: attorno agli edifici crollati hanno alzato recinzioni, le strade sono state ripulite, la viabilità adeguata ai morsi del sisma.
Anche la gente ha come interiorizzato il terremoto. «Non c’è più bisogno di ricordare agli abitanti di camminare lontano dai muri e da qualsiasi cosa possa crollare» dicono i vigili del fuoco. E soprattutto tra i giovani sta crescendo una nuova leva di esperti in crepe: «Quelle a croce sono le più pericolose perché hanno intaccato le strutture portanti» racconta Lucrezia, 21 anni, che ha seguito passo per passo la verifica d’agibilità dei tecnici nella sua abitazione («Com’è andata? Inagibile»). E all’ingresso del paese, tra due casolari azzerati e un pezzo di strada sfregiato da un’enorme crepa, hanno messo un cartello per gli automobilisti dall’acceleratore facile: «Ragazzi, andate piano, che siamo già abbastanza scossi…».
La normalità, per ora, è una luce molto fioca. Incerta e tremolante come quelle poche che di notte balenano in qualche vicolo del centro storico a segnalare le rare presenze umane che sfidano la paura del sisma e i divieti della zona rossa. «Però il cammino verso la normalità è iniziato» dice il sindaco Draghetti, 43 anni, pd al secondo mandato, nell’altra vita consulente legale di una grande azienda. E di questo inizio, che fino a qualche giorno fa non era per niente scontato (tante le Cassandre che parlano di «desertificazione industriale») ora si può con esattezza fissare il luogo e il momento: giovedì 28 giugno, ore 15,30.
Un tendone bianco, un caldo assassino, una decina di presenti e un tavolo di relatori che qui a Cavezzo nessuno avrebbe mai sognato di mettere insieme. Tutti imprenditori. E che imprenditori. «È come avere a tavola l’intero Pil della zona» gonfia il petto il sindaco. C’è Wainer Marchesini, presidente della Wam Group (meccanica, 57 filiali, 1800 dipendenti, 700 in Italia). Alberto Mantovani della Mantovanibenne (produce cesoie per abbattere gli edifici pericolanti), 60 dipendenti, stabilimenti in Brasile, Cina e Francia. E poi Roberto Casari, presidente del colosso cooperativo Cpl. E Rodolfo Barbieri di Menù (alimentari), 250 dipendenti, 30 mila clienti. E Marco Bombarda di Acetum. Tutta gente che ha lo stabilimento in zona e che in questo pomeriggio di afa e macerie è venuta qui per dire: «Noi non andiamo via, non delocalizziamo: rimettiamo in sesto le cose e ripartiamo». Lo sanno cosa li aspetta: «Una botta del genere fa invecchiare di colpo… — sospira Casari — Mi chiedo: se a Cavezzo ci sono voluti 20 anni per 7 chilometri di tangenziale, quanto ci vorrà ora per ripartire?». Ma non vogliono alzare bandiera bianca. Barbieri, titolare di Menù, ha 30 mila metri quadrati di capannoni da rifare, la produzione ferma e «la concorrenza che mi morde i piedi», ma è pronto a metterci una camionata di milioni «pur di ripartire in ottobre». Certo, lo Stato.
Come dice Draghetti, «2,5 miliardi in tre anni non bastano: ci vogliono incentivi, sconti sull’Iva, ben altro: bisogna soprattutto far capire a Roma che un euro investito da noi renderà il doppio, anche se siamo consapevoli che il piatto piange…». Lo interrompe Marchesini: «Alla fine comunque faremo da soli. Tre giorni dopo la scossa, avevamo già scoperchiato i capannoni lesionati e messo al lavoro 100 persone e 8 gru: a settembre si parte».
Ci vorrà un po’ di più per riaccendere i motori del paese. Dalle recinzioni che delimitano piazza Matteotti e la zona rossa penzolano messaggi, biglietti e lenzuola colorate da graffiti. Non esistendo più edicole, in paese si comunica così. C’è l’elenco delle poche botteghe aperte («Presenza frammentarie e isolate» dice l’assessore Cristina Ferraguti). C’è l’appello del pensionato che cerca il cane scappato durante il sisma. E quello della signora che protesta contro il Comune, reo di averle abbattuto la casa «senza avvertirmi». Il vecchio centro storico è ostaggio della chiesa e del campanile, entrambi pericolanti. Fuori uso 4 delle 5 scuole (due elementari, una materna e una media) e il sindaco Draghetti deve avventurarsi in una sorta di puzzle per incastrare tutto: «Dunque, il Municipio sarebbe agibile se non fosse per una torre civica che rischia di crollare: se demoliamo la torre, riacquisto il Municipio, attualmente spostato nell’unica scuola materna rimasta intatta, e così mi si liberano alcuni locali…». Poi c’è da trovare un posto per lo storico mercatino domenicale, che risale al 700 e richiama una media di 8-10 mila presenze. Funzionano a pieno ritmo le due tendopoli ufficiali, ma il grosso degli sfollati si è organizzato autonomamente nei giardini, nei parchi, nei campi. «Siamo arrivati a preparare anche 4000 pasti al giorno. Non sarà semplice convincerli ad andarsene» sospira Draghetti. Lunedì le ruspe tireranno giù un condominio di tre piani. E dall’altra parte della strada, la gente già prepara la fila di sedie. Cinema Cavezzo. Sperando nel lieto fine.
Francesco Alberti

"Bersani: basta polemiche, pensiamo al Paese", di Simone Collini

Bersani non si farà tirare dentro il dibattito che si è aperto attorno alle primarie. Né, dopo l’apertura di Casini a un patto per governare tra progressisti e moderati, vuole entrare nella polemica sulle alleanze. «In momenti così importanti ci sarebbe la necessità di stare un po’ più tranquilli», si è sfogato ieri con i suoi quando gli sono stati riferiti i contenuti della conferenza stampa di Vendola e Di Pietro. «Il punto vero è se siamo in grado di costruire un centrosinistra di governo che si allea con un centro moderato per ricostruire il Paese. Bisogna essere all’altezza del compito, e mostrarlo in modo chiaro». Quanto al lamentato veto su Di Pietro, Bersani nega che sia questa l’intenzione del Pd, però ha già avuto modo di far filtrare che non potranno essere siglati accordi né con chi attacca le istituzioni (e gli auguri dell’ex pm a Napolitano non cancellano le bordate dei giorni scorsi) né con chi polemizza con gli alleati per ottenere qualche consenso in più: «Serve una coalizione stabile, non la riedizione degli errori passati».
Ma sono appunto sfoghi che Bersani cerca di mantenere all’interno della sfera privata, perché non intende farsi trascinare in una discussione che a questo punto sarebbe veramente incomprensibile. Il leader del Pd ieri ha focalizzato l’attenzione soprattutto sul Consiglio europeo (e twittato «l’Italia ha giocato bene anche a Bruxelles. Ma la partita non è finita») prima di partecipare in serata a un incontro promosso a Milano da Libertà e Giustizia (e parlare con Sandra Bonsanti e Gustavo Zagrebelsky dei rapporti con la società civile e di come il Pd intenda «aprirsi»). E oggi sarà nel capoluogo lombardo per un’iniziativa del Pd sul Nord e su come far ripartire l’economia italiana.
Questa sarà la prima tappa di una serie di appuntamenti che Bersani ha fissato in agenda per le prossime settimane lungo tutta la penisola. «Pensiamo al Paese, adesso, non alle primarie» è il monito che ha consegnato sabato scorso ai segretari di circolo del Pd, riuniti a Roma per l’assemblea nazionale.
Le primarie per Bersani vanno affrontate al termine di un percorso che prevede prima la definizione di una «carta di intenti» (il leader del Pd presenterà la sua proposta di documento nella seconda metà di luglio, dopo che l’assemblea nazionale di metà mese avrà inserito una deroga allo statuto che consentirà a Renzi di correre): chi la siglerà potrà partecipare alla sfida per la candidatura a Palazzo Chigi. Non solo Bersani e Renzi, dunque, anche se dopo che Vendola ha fatto sapere di non essere interessato alla partita se le primarie dovessero essere un congresso interno al Pd, Salvatore Vassallo ha detto che a questo punto bisogna indire «primarie interne, cioè un congresso secondo le nostre regole», mentre il sindaco di Firenze ha twittato: «Vendola dice che io sono un estremista e quindi niente primarie. Accordo o solo scherzi del caldo?».
Bersani non entra nella discussione, e intanto archivia un sondaggio realizzato dalla Swg per “Agorà”: è dato primo alle primarie col 32%. Seguono Vendola col 23% e Renzi col 15%. Dietro, alla voce «altri», il premier Monti e il ministro Passera.

l’Unità 30.06.12

"La nuova stabilità del premier", di Stefano Folli

Da Bruxelles il presidente del Consiglio porta a casa la ricetta di una discreta stabilità politica. All’improvviso tutte le discussioni, peraltro fuorvianti e mediatiche, sulle elezioni anticipate in autunno vanno fuori corso come la vecchia moneta. Era abbastanza ovvio e il capo dello Stato aveva già chiarito il punto prima del vertice europeo.
Ma tant’è: le nevrosi politiche si auto-alimentano finché un evento spezza il cortocircuito.
Questa volta gli eventi sono due, legati insieme dal filo misterioso delle coincidenze. La vittoria della nazionale di calcio contro la Germania e subito dopo il successo personale di Monti nel definire l’intesa europea hanno creato quella speciale miscela che si realizza in certi frangenti storici e determina svolte significative. I fautori del rovesciamento del tavolo governativo e della corsa al voto si sono fatti silenziosi. Come dice Giuliano Cazzola, «nel Pdl alla fine hanno avuto ragione i pro-Monti».

Quei pro-Monti, si potrebbe aggiungere, che per giorni avevano dovuto subìre la dura offensiva interna dei falchi anti-governo. Con Berlusconi ambiguo fra le due posizioni, finché all’ultimo, con quell’intuito realistico che è una delle sue caratteristiche, ha lasciato pendere la bilancia dalla parte dei pro-Monti. Ma in forme tali da non scontentare il fronte degli intransigenti, appagati con le arringhe contro l’euro e le bizzarre promesse di tornare in campo come ministro dell’Economia.
Ora dunque si volta pagina. La legislatura farà il suo corso fino alla primavera del 2013 e si apre uno spazio di manovra per il premier. Il quale non è «debolissimo», come sostiene Roberto Maroni, un altro che desiderava ben altro esito per l’incontro di Bruxelles. Sotto certi aspetti si potrebbe dire che da oggi nasce un nuovo governo Monti, senza bisogno di «rimpasti» o di ritocchi. Nasce grazie alle circostanze, dal momento che la prospettiva di avere davanti alcuni mesi di lavoro si traduce di per sé in un elemento di forza e non certo di debolezza dell’esecutivo. E poi perché i partiti, tutti, devono rivedere i loro conti.

Il risultato di Bruxelles impone all’esecutivo di accelerare sulla via delle riforme strutturali interne. Si potrebbe dire che Monti è stato «rilegittimato» dall’Europa e questo equivale a un’iniezione di fiducia che dovrebbe imprimere alla sua azione lo stesso slancio dei primi mesi, quelli a cavallo fra 2011 e ’12, i migliori.
È, come si dice, una finestra di opportunità per il presidente del Consiglio. Ma è soprattutto un’occasione, forse l’ultima, per le forze politiche. Ora che i giochi sono fatti e che nulla impedirà al governo di coprire i prossimi otto-nove mesi, i partiti della non-maggioranza possono scegliere se dedicarsi alla mini-guerriglia parlamentare ovvero costruire due schieramenti capaci di definire la propria identità intorno al programma europeo. Lo stesso sulla base del quale Monti ha riottenuto la fiducia dei partner.

Sia il Pdl sia il centro-sinistra sono in ritardo rispetto a questo obiettivo, l’unico che permetterebbe alle forze politiche di presentarsi di fronte all’elettorato, nel 2013, con un profilo rinnovato e una proposta convincente. Il che naturalmente ci porta nel cuore della questione politica dei prossimi mesi: come dare continuità all’esperienza di Monti senza disperderla nel pantano di un dibattito provinciale? A parole sia Alfano sia Bersani, per non parlare di Casini, si dimostrano consapevoli della posta in gioco. In realtà davanti a loro la strada è in salita perché è stato perso troppo tempo. Ma il 29 giugno è forse una linea discriminante oltre la quale anche la politica non potrà più essere quella di prima.

Il Sole 24 Ore 30.06.12

"L’Europa riparte da qui", di Raffaella Cascioli

Una vittoria di squadra per il futuro dell’Europa. Una vittoria in cui sarebbe sbagliato stilare una classifica, sebbene a imporsi siano stati due fuoriclasse italiani del calibro di Mario Monti e Mario Draghi. È principalmente a loro che si deve il primo, concreto e compatto, passo in avanti compiuto da tutti i partner europei verso una nuova idea di integrazione comunitaria che non dimentica la solidarietà, stimola la crescita e premia il rigore. Un risultato raggiunto dopo sette mesi e mezzo di duro lavoro, di mediazioni e di compromessi, di proposte concrete e di sangue freddo.
Sempre con un passo nell’abisso. Ma, in fondo, questa è stata da sempre l’Europa. Un’Unione in grado di reagire, anche con fermezza, con uno scatto in avanti solo quando sotto i piedi si allarga il baratro. E, ogni volta, ci sono sempre stati gli italiani, decisivi con la loro capacità di mediare, di far vedere ai francesi il bicchiere mezzo pieno e ai tedeschi quello mezzo vuoto. A far intravedere a tutti gli altri che in fondo, anche con i problemi di un paese con un forte debito pubblico sulle spalle, si può contribuire a un processo di integrazione in grado di far progredire l’idea stessa di un’Unione nata per garantire benessere e pace agli europei.
Quello che si raccoglie ora, con i mercati euforici pronti a festeggiare e lo spread sceso se non in cantina almeno al pianoterra, è il frutto di un lavoro certosino che i due Supermario hanno svolto da novembre scorso in Europa: l’uno alla guida della Bce e l’altro alla presidenza del consiglio italiano. Hanno lavorato per l’Europa e, in quest’ambito, anche per l’Italia: è questa la differenza tra loro e tutti gli altri. Hanno mostrato con le misure prese nei rispettivi ambiti che gli obiettivi europei possono essere utili e condivisibili per tutti i partner comunitari. Il primo con l’autorevolezza del banchiere centrale che gli veniva dall’aver guidato per anni, soprattutto quelli più drammatici della crisi finanziaria americana, il Financial Stability Forum e per aver rivoluzionato dalla Banca d’Italia il volto del sistema creditizio italiano. Il secondo in virtù, almeno all’inizio, più del passato da eurocommissario prima al mercato interno e poi alla concorrenza, che non da presidente del consiglio italiano. Eppure è proprio l’approfondita conoscenza dei meccanismi comunitari che è valsa a Monti da subito una capacità di mediazione tra la Germania della Merkel e la Francia di Sarkozy.
Nei mesi più duri dello scorso inverno, ci pensa Draghi ad interpretare la politica monetaria in modo diverso. L’idea è che di fronte alla crisi dei debiti sovrani, più finanziaria che di fondamentali, occorrano nuovi strumenti. E allora le iniezioni di liquidità della Bce a un sistema bancario europeo che non si fida più di se stesso. Misure poi prese in prestito da una Federal Reserve a corto di idee. Poco importa che nei paesi a forte debito quella liquidità non si trasferisca subito all’economia reale ma serva a disinnescare il rischio di mancati collocamenti dei titoli di stato che, in modo massiccio, diversi paesi europei, prima fra tutti l’Italia, nei primi quattro mesi dell’anno sono costretti a vendere.
Poi, è Monti che consente all’Italia di riallacciare legami con la Germania, considerata monolite del rigore, e nel contempo di mitigare le insofferenze di tanti paesi dell’Est Europa, stufi del direttorio franco-tedesco e di far incontrare le speranze degli inglesi di risolvere i loro problemi in una maggiore apertura del mercato unico con quelle dei paesi del Mediterraneo alle prese con una vera e propria recessione. L’incontro di più interessi con la volontà di includere e non di escludere: è questo il senso della lettera dei dodici capi di stato e di governo per la crescita voluta da Monti e firmata a marzo, tra gli altri, dal premier britannico e da quello polacco. È quello il secondo segnale che in Europa è cambiato il vento. Tanto più che l’Italia si presenta all’appuntamento con alle spalle misure draconiane, in grado di far dire a Monti che il Belpaese ha il diritto di parlare perché ha fatto i compiti a casa. Poi il vertice a tre a Strasburgo, la vittoria di Hollande, il G7 negli Usa.
Con un lavoro congiunto dei due Supermario presso i banchieri tedeschi e presso la coppia Merkel-Schauble, senza dimenticare Bruxelles dove la Commissione, ma soprattutto l’Europarlamento, sono stati informati passo passo. Un Europarlamento che ha tifato Monti fin dalle prime battute, consapevole di poter assumere quel ruolo chiave che pure i trattati gli riconoscono rispetto ai governi, solo ed unicamente se l’Europa imbocca definitivamente la strada del governo politico dell’economia.
Il resto è storia delle ultime settimane. Il G20 in Messico è stato decisivo, la chiave di volta del processo che ha portato il consiglio europeo di ieri ad adottare misure di breve e medio termine di portata storica. La Cancelliera non solo non ha detto no allo scudo antispread all’italiana, ma si è mostrata possibilista anche a quella che è di fatto un’unione bancaria europea. È stato lì che i due supermario hanno capito che la vittoria era vicina, che sui dettagli si poteva trattare ma che anche la locomotiva tedesca aveva iniziato a soffrire la crisi del sud d’Europa con le aspettative delle imprese germaniche scese sotto le previsioni degli analisti. A Roma c’è stato il grande palcoscenico della crescita con la grandeur francese di Hollande che ha potuto mostrare i suoi progressi, mentre i contatti di Draghi con francesi e tedeschi continuavano ad essere serrati.
Nei ultimi due giorni, il risultato: via libera al piano per la crescita e l’occupazione da 120 miliardi di euro, accelerazione sull’unione bancaria strenuamente voluta dalla Bce di Draghi, intesa sui meccanismi anti-spread proposti da Monti, accordo sugli aiuti diretti alle banche spagnole. Il tutto rassicurando i partner che per il momento non ci sarà cessione di sovranità, nonostante la Bce avrà la sorveglianza unica sugli istituti di credito mentre il fondo salvastati potrà procedere direttamente alla ricapitalizzazione delle banche. E sempre i due fondi potranno garantire la stabilità finanziaria della zona euro riducendo gli spread troppo elevati senza che i paesi virtuosi debbano essere sottoposti a ulteriori particolari condizioni, ovvero l’arrivo della famigerata troika (Fmi, Bce e Commissione Ue). La speculazione, d’ora in poi, è avvertita. Certo spetterà all’eurogruppo del 9 luglio stabilire le munizioni dei fondi salva-stati e definire i dettagli.
Non a caso la prossima settimana la cancelliera Merkel e metà governo tedesco saranno ricevuti a Roma da Monti. Ma questa è un’altra storia. Da oggi l’Europa riparte.

da Europa Quotidiano 30.06.12