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"Parole violente a destra", di Michele Ciliberto

Vale la pena fare un piccolo esercizio di lettura sui titoli dedicati dal Giornale e da Libero alla vittoria dell’Italia sulla Germania, e agli insulti in essi contenuti verso la cancelliera tedesca Angela Merkel. Italia – Germania è stata una bella partita di calcio. E, come tutti gli eventi sportivi, ha coinvolto passioni e sentimenti assai intensi.
In Italia migliaia di persone si sono raccolte in piazza per assistere alla partita, ma in Germania è accaduta la stessa cosa. E chi in questi giorni si fosse trovato a Berlino avrebbe potuto vedere molte macchine tedesche avvolte in piccole bandiere nazionali in segno di festa e di augurio.
Nihil sub sole novi. Nulla di nuovo sotto il sole. Si sa: lo sport, specie il calcio, ha un forte valore simbolico ed è un luogo privilegiato di espressione e di manifestazione delle identità culturali, religiose, nazionali.
Stanno qui le radici del suo valore e, al tempo stesso, del suo possibile, e tragico, degenerare. Una partita può essere infatti una festa e una manifestazione di libertà, ma può anche trasformarsi nel suo opposto, e diventare luogo, e strumento, di violenza e anche di sopraffazione.
Come avviene in ogni festa popolare, anche in una partita di calcio il crinale fra «natura» e «cultura» è infatti precario, e può spezzassi in ogni momento, non solo sul piano verbale. Del resto, è un copione che in Italia, negli ultimi tempi, abbiamo visto recitare più volte ad opera delle fasce più estremiste dei tifosi, che hanno trasformato una festa popolare in una sorta di sanguinario rito tribale.
La violenza e la volgarità dei titoli con cui i direttori del Giornale e di Libero hanno celebrato la vittoria italiana contro la Germania all’inizio non sono dunque originali; si tratta di un lessico di matrice «goliardica» (e so bene che dicendo questo offendo la goliardia) assai noto, contro cui non varrebbe la pena di polemizzare.
La novità sta nel fatto che questo lessico volgare e miserabile è utilizzato per insultare il capo del governo di un autorevole Stato europeo e per sviluppare, in questo modo, una violenta polemica politica contro l’idea di Europa e di unità europea, vista come l’origine di tutti i mali. E si fa questo cercando di sfruttare sentimenti anti-tedeschi oggi diffusi, e ulteriormente acuiti in questi giorni dalla partita con la Germania, con l’obiettivo politico di creare un senso comune di tipo nazionalistico contrapposto all’ethos europeo che si è cercato di costruire con fatica, ma con importanti risultati dalla fine della seconda guerra mondiale fino ad oggi; un ethos, lo sappiamo tutti, che attraversa oggi un momento di massima difficoltà.
Sta proprio qui la violenza e l’insidiosità di quell’attacco: le parole non sono mai indifferenti. Al suo livello di rozzezza e di volgarità, quel lessico pone infatti un problema politico ed etico-politico, ed è su questo terreno che esso va anzitutto contrastato, riaffermando con forza sia l’idea dell’Europa che quella della unità europea. Ma per poterlo fare in modo efficace, e rigettare ogni rigurgito nazionalista, occorre essere chiari su un punto essenziale.
L’Europa è senza alcun dubbio il comune destino di tutti i popoli europei. Lo è, oltre che per scelta, per necessità. Chi non capisce questo è fuori del mondo, oltre che della storia. Mentre l’Occidente si afferma e si espande, l’Europa rischia di tramontare; e tramonterà se non si ripensa, e si riafferra, in modi originali. Ma può farlo solo situandosi oltre il tradizionale orizzonte statale moderno; riuscendo ad intrecciare in nuove forme identità nazionali e «cosmopolitismo»; connettendo molteplicità e varietà delle tradizioni culturali, filosofiche e religiose e nuove forme di identità europea, liberamente condivise.
In altre parole, l’Europa può avere un futuro solo se riconosce le differenze di cui è fatta la sua storia, e che sono state, e sono, la radice della sua potenza e della sua libertà; se, cioè, non si riduce a un paradigma unico, a una dimensione unica. La vita, la storia si esprime, e vive, attraverso le differenze, a tutti i livelli: in politica come in economia e nella cultura; decade quando si risolve in grigia, indifferenziata, unità: il contrario esatto di ogni forma di vecchio e nuovo nazionalismo, anche di quello di rito berlusconiano, propagandato dai direttori del Giornale e di Libero.
E questo significa che in Europa non ci sono, e non possono esserci, Paesi guida e che l’Italia ha una sua parola da dire in questo grande continente. Non solo quando gioca a pallone.

L’Unità 30.06.12

"Don Puglisi e gli altri santi che vanno tolti alla mafia", di Francesco Merlo

Non basta fare santo un eroe dell’antimafia, la Chiesa deve adesso strappare tutti gli altri santi alla mafia, compreso Gesù Cristo che nella devozione malata dei criminali è reso pari ad ogni malacarne messo ai ceppi dagli sbirri. Don Puglisi rischia di sentirsi solo in un Paradiso affollato dalle troppe preghiere dei boss, dai ceri dei sicari, dai te deum degli estortori, dalle orazioni degli stragisti. E dalle devozioni lautamente finanziate, dai peccatori sanguinari che hanno fatto della Chiesa meridionale il loro covo, la banca dei loro sentimenti.
Di sicuro il processo di beatificazione di don Puglisi, avviato da Benedetto XVI, è il primo atto di potenza spirituale di questo Papa così teologico, così professore, così lontano dalla vox populi che è sempre vox dei.
E difatti il parroco di Brancaccio, che adesso è in attesa di diventare un’immaginetta della Chiesa, era già un’icona, una faccia molto amata e molto raffigurata, con pennellate naïf, sui cruscotti, sui carrettini, sui muri. E la gente assiste come ad una messa allo spettacolo bello e stralunato che Ficarra e Picone gli hanno dedicato: «E dire che noi glielo avevamo detto: “Zio Pino, con tutto quest’amore si dia una calmata, perché altrimenti a lei finisce male” ». Insomma, da molto tempo don Puglisi è chiamato «santo» nella Palermo profonda. Persino uno dei killer che gli ha sparato, disse: «Ho ucciso un santo». Che anche la Chiesa lo riconosca finalmente come santo è, al tempo stesso, un atto dovuto e la promessa di una svolta. Di certo è ancora troppo poco in un universo religioso che è dominato e pagato dal devoto violento, dal killer che prega e spara, dal mafioso che bacia il crocifisso e strangola, dal boss che domina il delitto e innalza altarini alla Madonna, legge e annota la Bibbia e allo stadio di Catania fa calare sulla curva sud un enorme striscione, venti metri per trenta, con l’immagine di Sant’Agata in carcere, il viso reclinato verso la finestra della prigione da cui arriva un fascio di luce divina.
Come si può santificare il martirio – la testimonianza – di don Puglisi e non sospendere, come primo atto di purificazione, le feste religiose che sono esplosioni collettive dell’anima antica e oscura per un tema liturgico, quello della Passione, in cui la mafia, bestemmiandolo, si riconosce, si specchia: il tradimento (Giuda), l’assassinio (Cristo), lo strazio della Madre Addolorata (la Madonna). Ed è vero che non esiste nulla di così affollato come le feste religiose della Sicilia spagnola e si capisce che la Chiesa, in crisi di vocazioni e di consenso, cerchi la folla. Ma le processioni sono le palestre del rancore popolare, un concentrato di antichissima ferocia pagana che i boss riciclano per riaffermare il controllo assoluto del territorio. E nel cappuccio sono depositate tutte le pratiche più lugubri, precristiane e anticristiane, un armamentario devozionale che è apparentato con le processioni sciite, con il peggio del fondamentalismo e del fanatismo di massa dell’Iran. Ma il cappuccio è anche il nascondersi che in latino si dice lateo, quindi latitare, quindi latitante, tra fucili e crocifissi, bombe a mano e immagini dei santi, di tutti i santi.
Ebbene don Puglisi è stato il solo che è riuscito a ribaltare persino la cupezza di queste processioni e a riportare al sorriso il tetro e lugubre Dio della mafia. Perciò è il modello vincente di quell’antimafia che non è fatta di catechismo e di retorica nelle scuole. Don Puglisi si misurava con la mafia, era cresciuto nella sua stessa tragedia sociale, si nutriva degli stessi miti ma, rovesciandoli in ogni centimetro del territorio e maneggiando le sue stesse armi, si riappropriava inesorabilmente del quartiere. E non è santo perché accolse sorridendo il suo sicario – «vi aspettavo» -, ma perché, capovolgendo i miti della mafia, convinse la gente del Brancaccio, la sua gente, a guardare all’incontrario il proprio mondo, la propria casa, la propria famiglia e anche la propria chiesa, e a scoprire che all’incontrario è meglio.
Molto più della causa di canonizzazione del giudice Rosario Livatino, introdotta lo scorso anno dall’arcivescovo di Agrigento, la scelta di beatificare don Puglisi è il primo vero tentativo di contrapporre all’universo del mafioso devoto quello dell’antimafioso devoto. Ecco perché è stato ucciso: stava togliendo alla mafia la sua ragione sociale
e cioè il territorio, i suoi miti, le sue processioni, i suoi santi, la sua religione.
E pensate al linguaggio che è sempre carne viva, pensate a quanto c’è di cattolico nelle parole e nel codice della mafia: cupola, papa, padrino, mammasan-tissima, e poi il bacio dell’anello, il rogo del santino nell’iniziazione … E a tutto i latitanti rinunziano ma non ai battesimi, alle cresime, alle processioni appunto. Tra i santuari più famosi della provincia di Reggio Calabria c’è quello di Polsi, con la sua Madonna della Montagna che tutti chiamano la Madonna della ‘ndrangheta perché ogni anno i mammasantissima si riuniscono per portare sulla spalla le statue dei santi. Ed è passato nella simbologia mafiosa l’intero sistema penale dell’Inquisizione, che in Sicilia fu uno stato nello Stato e faceva pagare il pizzo sulla fede, costringendo per esempio il non cattolico, soprattutto l’ebreo, a versare multe e a cedere parte del patrimonio. Ed è sorprendente ritrovare tutta la ferocia dell’Inquisizione nelle punizioni della mafia. La faccia tagliata, segno di indelebile infamia tra i mafiosi, era la tortura che la Chiesa infliggeva all’eretico. E il sasso in bocca è la variante mafiosa della mordacchia inquisitoriale, pena comminata al bestemmiatore… E si potrebbe continuare nell’illustrare il rapporto tra mafia e religione cattolica che è davvero molto stretto e molto inquietante e non solo perché Provenzano porta al collo tre crocifissi. Molto più della pedofilia, almeno in Italia, questo è il grumo oscuro della nostra Mater Purissima, l’oggetto dell’esame di coscienza e della guerra di liberazione che ora spetterebbe alla Chiesa. Altrimenti anche la beatificazione di don Puglisi rischia d’essere solo un tentativo di rifarsi la faccia: non martire ma marketing.

La Repubblica 30.06.12

"L'Italia può davvero cambiare?", di Massimo Gramellini

Gioisce la Borsa, guaisce lo spread, Mariochiaro batte i pugni a Bruxelles, Marioscuro sguaina i pettorali a Varsavia, la Nazionale di calcio schianta e incanta, e pare proprio che nel week-end scenderà di nuovo il prezzo della benzina. Ma cosa succede? Dov’è finita la raffica di cattive notizie con cui ero abituato a iniziare la giornata? I titoli dei giornali radio del mattino mi proiettano in un Paese sconosciuto e dentro un’atmosfera dimenticata: soddisfazione, orgoglio, speranza che per una volta la fetta non cada dalla parte della marmellata.

Non fosse per il cafone che mi taglia la strada al semaforo e ha ancora ragione lui, penserei di essere emigrato durante la notte a mia insaputa. Sono travolto da questa ondata di italiani anomali che in poche ore hanno deciso di smontare luoghi comuni coltivati nei secoli e a cui mi ero persino affezionato, come ci si affeziona a una zia bisbetica o a una malattia cronica. Furbizia e Vittimismo, dove siete? Catenaccio, non ti riconosco più. Da Bruxelles a Varsavia questa è un’Italia che se la gioca, impone il suo ritmo, smette di nascondersi. Forse perché ha finalmente voglia di farsi scoprire diversa da come l’hanno sempre raccontata. Dei simboli tricolori resiste solo la Mamma, però declinato in modo inedito: lo sguardo della signora Silvia mentre si avvinghia al suo Balotellino preferito e quella mano bianca che scende con amore sulla testa nera sono gesti che sembrano quadri e valgono poemi.

Stavolta i parallelismi fra politica e sport non sono nevrosi giornalistiche, ma slanci del cuore. Ne avevamo bisogno. Ho visto persone abbracciarsi dopo la vittoria contro la Germania, perfettamente consapevoli che non darà lavoro ai giovani né umanità ai banchieri, eppure fanciullescamente felici di riscoprire che si può essere felici anche solo per due ore e anche solo per due gol. Finché nella notte dei bagordi sobri è sobriamente affiorata la notizia del successo di Monti sullo scudo antispread, che detto così sembra un’arma da Guerre Stellari e in fondo lo è.

Monti che sovverte l’immagine dell’italiano sbruffone e traditore, sostituendola con quella del negoziatore duro, leale nel rispetto della parola data, ma inamovibile nella difesa degli interessi nazionali. Buffon che, invece di festeggiare, lascia il campo imbufalito con i compagni perché nel finale qualche loro sciatteria aveva rischiato di compromettere la vittoria. Comunque la pensiate su Monti e su Buffon, non sono atteggiamenti da italiani. O non lo erano? Mi sorge il dubbio che questo Paese stia cambiando più in fretta delle statistiche, dei sondaggi e dei corsivi di giornale arrotolati sui cliché.

Che, insieme con la corruzione, il familismo e l’insopportabile disprezzo per qualsiasi cosa assomigli a una regola collettiva convivano, spesso nella stessa persona, il senso della dignità e persino della comunità. E se anche non fosse così, questi sogni europei di mezza estate possono dettare la linea, lanciare una moda. Si può giocare contro la Germania come se i tedeschi fossimo noi, ma dei tedeschi più creativi. E si può trattare con la Germania come se i tedeschi fossimo noi, ma dei tedeschi più duttili. Si può cioè immaginare di essere diversi rimanendo uguali. Con un po’ di fatica, di fiducia, di disciplina. In fondo l’evoluzione è questa, e vale per i popoli come per i singoli umani.

La Stampa 30.06.12

"Il figlio straniero", di Gad Lerner

La costruzione dell’amore c’entra assai poco con la consanguineità. Lo sanno bene tante altre madri come Silvia Balotelli. Tu puoi amare in quanto figlio il figlio di un’altra. E al tempo stesso rispettare la complicata presenza di lei. Sapendo che la parentela si cementa con più fatica al di fuori dalle convenzioni, ma che del resto neppure una famiglia cosiddetta “naturale” può reggersi solo sui buoni sentimenti.
Bisognerà finalmente imparare dai Balotelli che lo stesso vale per la cittadinanza, un vincolo comunitario che nulla ha a che fare con il sangue o il colore della pelle: si può essere italiani a pieno titolo portandosi dentro la reminiscenza di un altrove, di uno sbarco, di una diaspora, di un’ombra lunga.
Povero Mario Balotelli, nostro goleador arrabbiato, risalito dalla polvere agli altari! Troppi potenti meccanismi di identificazione circondano la sua statuaria ma acerba figura, trasformandolo in simbolo a prescindere da ogni tormentata sua volontà. Che ne sappiamo di cosa vogliano dire i tuoi primi quattordici mesi di vita trascorsi in un ospedale pediatrico di Palermo, con tre operazioni all’addome e solo le infermiere accanto? Forse potrebbe spiegarcelo mamma Silvia, ma giustamente non lo farà mai. Perché quando all’età di cinque anni il ragazzino affidato ai Balotelli, famiglia bresciana con villino in quel di Concesio, sbalordiva tutti all’oratorio di Mompiano salendo e scendendo dai tavoli senza smettere di palleggiare, lei già s’era fatta esperta in ben altra corsa ad ostacoli: le file interminabili all’Ufficio stranieri della Questura per rinnovargli il permesso di soggiorno. Nato in Italia, affidato a una famiglia italiana, Mario Balotelli ha dovuto attendere il suo diciottesimo compleanno per conseguire l’agognata cittadinanza. Era il 13 agosto 2008, ormai da un anno faceva il goleador nerazzurro in prima squadra a San Siro, e già i più beceri fra le tifoserie avversarie lo assediavano col grido capace di farti impazzire: “Non ci sono negri italiani”.
Quel giorno tanto atteso, al municipio di Concesio, col suo accento inconfondibilmente lumbard, Mario Balotelli tentò di spiegarlo: “Da straniero in Italia la vita è molto più difficile che per un italiano. Potrei farvi numerosi esempi: come quando si è costretti a fare delle code interminabili per recarsi agli uffici della Questura. Io l’ho fatto insieme a mia madre una sola volta e mi è bastato, lei per me lo ha dovuto fare decine di volte. Sapendo che sono nato in Italia e non ho mai vissuto fuori dal-l’Italia non è certo una bella cosa. E questo è certamente uno dei disagi minori”. Gli altri, possiamo immaginare, sono troppo difficili da raccontare.
Guardiamola e riguardiamola la foto dell’abbraccio fra Mario e Silvia Balotelli nello stadio di Varsavia. Pensiamo a quelle madri col figlio straniero, in fila per giornate intere. Possiamo sperare che almeno in onore del capocannoniere della Nazionale di calcio italiana, il nostro Parlamento approvi prima delle ferie estive la semplice normativa di civiltà vigente in quasi tutte le democrazie occidentali? Chi è nato qui o è arrivato in Italia da bambino, e ha compiuto fra noi il suo percorso scolastico, ha automaticamente diritto alla cittadinanza della patria
adottiva. Il presidente Napolitano ha invano sollecitato che si colmi questa vergognosa lacuna di civiltà, ricevendo i promotori di una legge d’iniziativa popolare in tal senso. Le firme sono depositate in gran numero. Possibile che la destra resti così retrograda da opporvisi ancora? Possibile ignorare il significato delle lacrime di Mario Balotelli durante la visita degli azzurri a Auschwitz, lui che il razzismo lo assaggia di continuo sulla sua pelle?
Vietato farla facile. Lo stesso Balotelli non sembra avere nessuna voglia di fare l’eroe positivo; chissà, forse a uno come lui divenire il simbolo della seconda generazione d’immigrati pare una roba da “sfigato”. Se neanche il gol più strepitoso gli basta per appagarsi nell’esultanza (è una prova d’intelligenza sdegnare certe liturgie artefatte, non trovate?), e se l’istinto lo porta a strapparsi di dosso la maglia quando esplode un tumulto interiore, vorrà dire che la sua non è una bella favola, ma piuttosto un’immane fatica. Che neanche il gioco del calcio riesce a scaricare. Ci sono di mezzo quattro genitori e diversi fratelli, un equilibrio affettivo delicato, il vissuto difficile sempre in agguato, nessuna voglia di sopportare le provocazioni. Troppa roba, in neanche ventidue anni.
Però in quell’abbraccio multicolore di Varsavia tra un figlio e una madre che solo loro sanno davvero quel che hanno passato, in quella scelta di vita, in quell’amore, noi riconosciamo l’esistenza di un’Italia migliore, preziosa, dove padano fa rima con umano.

La Repubblica 30.06.12

"Come si costruisce la credibilità", di Mario Calabresi

Ogni passo, ogni frase, ogni decisione di Mario Monti negli ultimi sette mesi ha trovato finalmente il suo senso nella lunga notte del vertice europeo. Quel rispetto sempre esibito per le posizioni tedesche e per la cancelliera Merkel, quello sposare la linea del rigore e dell’austerità, quella volontà di non cedere mai alle sirene della spesa – anche quando potevano significare possibili semi di crescita – sono apparsi spesso eccessivi. Sicuramente faticosi.

Ma ora, dopo la conclusione positiva per l’Italia del vertice di Bruxelles e dopo aver visto il pressing senza sosta di Monti su Merkel, è chiaro che tutto era da leggere come costruzione lenta e scientifica di una credibilità. Il premier italiano ha accumulato un patrimonio di energie da spendere, con la stessa forza e la stessa ostinazione, nella volata finale. Monti si è comprato in questi mesi la possibilità di sedersi al tavolo delle decisioni e di poter pesare, convinto fin dall’inizio che la partita vera si sarebbe giocata nel quadro delle scelte europee, che solo avendo voce lassù ci saremmo salvati.

Quando a febbraio il premier è entrato nello Studio Ovale della Casa Bianca, Obama gli ha chiesto a bruciapelo come si fa a parlare con la Merkel, nel senso di come si fa a farsi ascoltare: se è possibile convincerla. Monti gli ha risposto che per farlo bisogna sapere che l’economia per i tedeschi è una «disciplina filosofico-morale»: bisogna rispettare certe rigidità che sono profonde, radicate e figlie della storia. A questa regola si è attenuto per mesi, per cancellare così pregiudizi e stereotipi sugli italiani, a questa regola si è ispirato quando – da queste colonne – si è rivolto idealmente al signor Müller, invitandolo a rilassarsi perché è falso che con i suoi soldi «sta mantenendo un eccessivo tenore di vita degli italiani».
Nel momento in cui la nostra affidabilità è stata riconosciuta, allora ha potuto puntare i piedi per ottenere un meccanismo di difesa del nostro debito. La caduta è stata stoppata, il naufragio scongiurato. Ora inizia un’altra partita, quella della ripresa. Per giocarla ci vuole una nuova strategia che sappia essere ugualmente convincente e che parli di futuro.

La Stampa 30.06.12

Franceschini: "Il centrodestra punta solo a far saltare il tavolo", di Carlo Bertini

Onorevole Franceschini, cosa succede sulle riforme? Napolitano bacchetta i partiti litigiosi e subito Alfano dice che se viene affossato il presidenzialismo, si torna allo schema “ABC”. Sembra un balletto. O no?
«Potevano telefonarsi con Berlusconi prima di dire cose diverse. I fatti parlano chiaro: si era costruita un’intesa tra i tre partiti su una riforma minimale, ma utile. Durante il percorso parlamentare, improvvisamente il Pdl ha cambiato idea facendo un’alleanza strumentale con la Lega, cambiando totalmente schema, con l’obiettivo di far saltare il tavolo. Nessuno può pensare di rovesciare come un calzino la forma di Stato e di governo con un emendamento che passa per pochi voti».
Perché hanno voluto far saltare il tavolo?
«Fosse stata solo una bandiera da piantare, potevano dire che loro sono per il semi-presidenzialismo. Ma se da una legittima bandiera, si passa ad un voto dirompente, vuol dire che lo scopo è far saltare tutto. Non voglio far dietrologia, ma penso che forse da parte loro non vi sia molta voglia di fare la riduzione dei parlamentari, nè la nuova legge elettorale, ma spero non sia così. Se interpreto bene le parole di Alfano sul fatto che la legge elettorale è libera dal resto delle riforme, ci leggo una voglia di andare avanti. Ma vedremo».
Si farà alla fine il taglio dei parlamentari?
«Mi pare che al di là di tutto, su quella scelta c’è una convinzione, è una cosa condivisa da tutti. Anche se naturalmente è una riforma parziale, perché la logica vorrebbe che si riducano i parlamentari per passare ad un sistema monocamerale. Non tenersi i difetti del monocameralismo, riducendo solo il numero degli eletti. Però meglio poco che niente. Il tempo c’è e anche in questo caso è questione di volontà. E registro che gli atti di questi giorni sono stati tutti ostacoli messi di traverso alla riforma della Costituzione».
La nuova legge elettorale come potrà essere?
«Intanto partiamo da un punto fermo: la legge elettorale si deve e può fare anche se si bloccasse il percorso delle riforme, non c’è nessun collegamento. Il secondo punto è superare le liste bloccate, per noi è insormontabile. Se noi avessimo i numeri per approvarla da sola, sceglieremo un sistema con tutti gli eletti nei collegi e il doppio turno. Ma siccome non li abbiamo e il principio che i sistemi di voto vanno approvati con un accordo largo lo vogliamo mantenere, bisogna procedere per mediazioni. E sicuramente meglio del porcellum, è l’introduzione di una parte più grande possibile di collegi uninominali dove far scegliere gli eletti ai cittadini. Mantenendo un vincolo di coalizione, alzando lo sbarramento per ridurre la frammentazione eccessiva».
Non si rischia il ritorno alle preferenze?
«L’ultima volta che si votò con le preferenze era il 1992 e tutti ricordano quali furono i costi delle campagne elettorali in quell’anno».
L’ingorgo causato da ben 13 decreti del governo da ratificare, consentirà l’esame della legge elettorale? Entro che tempi va approvata?
«Staremo qui fino a quando saranno convertiti tutti i decreti e aggiungo solo che non si può abusare troppo della decretazione d’urgenza. Ma la legge elettorale è una norma ordinaria e quindi c’è tempo per approvarla. Ma dico: il nostro impegno per cambiare il porcellum sulle liste bloccate sarà massimo. Poi, dopo tutte le parole che hanno speso gli altri, presentarsi alle elezioni con un sistema politico che non è stato capace di fare nè le riforme costituzionali nè il nuovo sistema di voto, potrebbe indurli a pensarci bene prima di intestarsi questo fallimento…».
Ma visti tutti questi segnali di rottura, lei pensa che il Pdl voglia davverofar cadere il governo?
«Tutti i comportamenti e gli atti delle ultime settimane dimostrano una volontà del Pdl di distaccarsi dal sostegno al governo Monti tenendosi le mani sempre più libere. Ma non penso che si prenderanno la responsabilità in piena crisi di fronte ai mercati e agli italiani di far cadere Monti. Il Pd sta facendo tutto il possibile per sostenere il governo e correggerne e migliorarne le scelte, ma non dipende tutto da noi…»

La Stampa 29.06.12

"Sentenza Pomigliano? Folklore locale", di Paolo Griseri

La sentenza del tribunale di Roma che impone alla Fiat di assumere 145 cassintegrati della Fiom per sanare la discriminazione messa in atto dall’azienda a Pomigliano (nessun iscritto alla Cgil su oltre 2.000 assunti nella nuova fabbrica) «è folklore locale». Di più, è la dimostrazione «delle difficoltà che incontrano gli imprenditori a investire in Italia» perché «questa legge non esiste in nessuna parte del mondo. E’ un evento unico che interessa un particolare paese che ha regole particolari che sono folcloristicamente locali». Così un irritato Sergio Marchionne commenta, dopo giorni di silenzio,
la sentenza su Pomigliano che conferma la discriminazione attuata dai dirigenti del Lingotto nei confronti della Cgil. L’ad del Lingotto parla dalla Cina, dove ieri ha inaugurato il nuovo stabilimento che produrrà la Viaggio, la nuova world car destinata a riportare a livelli accettabili la presenza dell’azienda di Torino nel paese.
E’ sull’Italia che si concentra il fuoco della polemica. Il ministero dello Sviluppo convoca il 16 luglio azienda e sindacati sul dossier Terimini Imerese. Ma sono le parole di Marchionne su Pomigliano ad accendere la miccia. Dopo aver definito «folklore» la sentenza di un tribunale della Repubblica, l’ad si corregge: «La Fiat rispetterà
comunque le sentenze». I diretti interessati, cioè i dirigenti della Fiom, reagiscono con qualche sarcasmo: «Vedo che Marchionne continua a portare in giro per il mondo un’idea folkloristica del-l’Italia di Pulcinella — dice Giorgio Airaudo — ma provi ad assumere in una fabbrica americana discriminando gli iscritti a un sindacato e poi vediamo se ci riesce».
Nel pomeriggio il braccio di ferro continua. Con un comunicato il Lingotto attacca l’organizzazione di Landini accusandola di aver indetto uno sciopero di quattro ore ieri sera alla Sevel di Val di Sangro «in concomitanza con la partita della nazionale». Immediata la replica della Fiom dello stabilimento: «La Fiat ha concesso
500 permessi su 2.000 addetti in concomitanza con la partita. Nessuno è così ingenuo da perdere sessanta euro con la giornata di sciopero per vedere una partita che l’azienda stessa consentiva di potersi godere in pace». La Fiat ha ulteriormente controreplicato che «in ogni caso anche lo sciopero indetto dalla Fiom è fallito». Landini ha ammesso che «proclamare uno sciopero in concomitanza con la partita è un errore». La guerra continua e promette nuove puntate a partire da domenica quando Marchionne parteciperà a Torino al lancio del nuovo Inveco Stralis. Quasi in concomitanza con la finale degli Europei.

la Repubblica 29.06.12