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Il Pdl e il virus del «listismo», di Michele Prospero

Si è aperta a destra una discussione esplicita tra due linee politiche piuttosto differenziate nelle loro prospettive.Da una parte c’è chi (Schifani, Alfano) propone uno sbocco politico all’esaurimento del partito personale. E lo fa proponendo uno sbocco politico all’esaurimento del partito personale, con la costruzione di un soggetto organizzato che tronchi con i richiami della foresta del populismo. Dall’altra si collocano le suggestioni di chi (Berlusconi) suggerisce ancora di giocare la carta dell’irregolarità permanente, con l’immaginario dell’antipolitica a cementare la proliferazione di liste civiche a conduzione personale-carismatica.
È evidente che l’ipotesi di schivare le difficoltà strutturali dell’appannamento del capo con una alluvionale offerta di liste micropersonali nasce all’insegna della stanca conservazione dello schema di un duello tra due capi che si contendono il premio di maggioranza. Il «listismo» che oggi imperversa è un fenomeno scivoloso di autorappresentazione di ogni istanza (territoriale, culturale, economica) che può distruggere qualsiasi velleità di ricostruire un sistema politico di tipo europeo.
La considerazione del vantaggio tattico, che potrebbe apportare l’apparentamento con un grappolo di liste civiche, andrebbe sempre congiunta alla valutazione del risvolto sistemico dell’accorgimento preso. L’inconveniente principale del «listismo» è quello di incoraggiare uno smembramento dal basso della funzionalità del governo parlamentare, di per sé malandato.
Il listismo dal basso (dei beni comuni, della legalità, dei sindaci etc.) accentua la deflagrazione del Parlamento e quindi coopera con il listismo dall’alto sognato da Berlusconi per l’evocazione magica di una qualche soluzione presidenziale al disordine organico delle Camere. Se il Parlamento non raffredda l’autorappresentazione di ogni credenza con dei grandi soggetti politici organizzati, sfuma rapidamente la sua centralità sistemica. Una deriva assembleare con sigle monotematiche e cartelli personali è la morte sicura della rappresentanza.
O il Parlamento trova da sé un ordine, e quindi ricostruisce attorno a grandi partiti le differenze di cultura esistenti nella società, oppure alla sua irrimediabile decadenza non c’è altra cura che il capo carismatico. Su questo gioco al deconsolidamento democratico punta il cavaliere. Il regime parlamentare non può convivere con la frantumazione, il sistema presidenziale invece (in apparenza) sì, perché soffoca la babele della rappresentanza con i muscoli della carica monocratica.
La proliferazione di liste civiche auspicata da Berlusconi significa soltanto attestare che i partiti non riescono a contenere le spinte culturali nuove e quindi sono costretti ad appaltare ad altri soggetti l’intercettazione delle istanze di innovazione (di persone, di idee, di metodi, di obiettivi). Un listone unico (e non un partito grande) è nella cattiva tradizione del ventennio. Questa minestra riscaldata (tutti insieme in uno stesso simbolo al voto e poi subito in ordine sparso in aula) non introduce alcun antidoto ai fallimenti delle coalizioni spurie della seconda Repubblica.
Un partito che si lascia affiancare da liste civiche amiche, e si rassegna a una cura dimagrante, introduce un elemento di criticità nella ineludibile ristrutturazione del sistema politico e non dà risposte credibili al timore che una coalizione di microliste eterogenee non sappia poi garantire la governabilità. Un partito più piccolo, attorno al quale ruota un arco ampio di alleati e di liste civiche d’area, vince (nel senso però che il voto elegge un qualche sindaco d’Italia) ma non risolve affatto l’enigma del ventennio, che reclama una trasparente spinta aggregativa sorretta da grandi partiti rinnovati.
Regredire dallo stato di (potenziale) grande partito a quello di una lista (unica) o di collante di un drappello di liste civiche coordinate alla rinfusa rallenterebbe la ricostruzione di un sistema politico dal profilo europeo.
Quale che sia la tecnica elettorale, un grande partito non deve mai rinunciare alla vocazione maggioritaria (ovviamente bene intesa, che non rinuncia ad alleanze credibili se necessarie) e al ripristino di legami vitali con specifiche porzioni della società. Ma a destra ci sono davvero le forze culturali per sorreggere un partito vero e per accantonare le sirene del populismo che preferisce estrarre dal cilindro delle offerte simboliche sempre ritoccate?

l’Unità 08.06.12

"Che cosa significa l'eccellenza a scuola", di Michela Marzano

Che la promozione del merito sia importante nelle scuole, nelle università e nella ricerca siamo tutti d´accordo. Almeno in teoria. Perché poi, quando dalla teoria si passa alla pratica, tutto diventa molto più complicato, più difficile, più inestricabile. Anche solo perché non esiste una definizione oggettiva e universalmente condivisa del merito. E anche quando si tratta di valutare il lavoro universitario di un collega, non si sa mai bene se si deve privilegiare l´aspetto qualitativo o quello quantitativo, il numero di articoli scritti o l´interesse del loro contenuto. Quanto agli studenti, sembra più facile valutarne il merito. Ma anche lì… Merita ad esempio di più chi si impegna senza grandi risultati o chi riesce facilmente senza impegnarsi?
Certo, bisogna stare attenti a non fare l´elogio della mediocrità o del «tutto si equivale». Nonostante queste perplessità, infatti, sempre meglio il merito che il nepotismo. Sempre meglio il merito che le raccomandazioni. Soprattutto in un Paese come l´Italia in cui, in questi ultimi anni, si è assistito ad una tale confusione dei ruoli che i giovani non sanno veramente più a che santo votarsi per capire come fare per avere un lavoro o perché le proprie competenze siano riconosciute, prese in considerazione, valorizzate.
Meglio il merito, quindi. Tranne quando dal merito si glissa progressivamente verso la nozione di eccellenza, di cui oggi tanti responsabili politici, economici e culturali si riempiono la bocca. Perché allora cominciano (o continuano) i veri problemi. Visto che l´eccellenza, a differenza del merito, rinvia non solo al valore individuale o collettivo dell´educazione e della ricerca, ma anche e soprattutto alla competizione, alla lotta, alla gerarchia, alla dominazione. È il modello dello sforzo e del sacrificio: fin dalla più tenera età si deve tendere alla perfezione. A qualunque costo. Poco importa le conseguenze. Perché prima o poi lo sforzo sarà ricompensato e poi, in questo mondo competitivo e senza pietà, solo i migliori possono sopravvivere.
È in fondo il modello dell´homo homini lupus, anche se la guerra permanente non è più la caratteristica di uno stato di natura da cui si deve uscire grazie al contratto sociale, ma la proprietà stessa del contratto che gli adulti devono firmare con i giovani fin dall´inizio: se vuoi essere amato devi sforzarti! Vi siete mai chiesti che fine hanno fatto i famosi “primi della classe”? Quanti di loro, oggi, occupano veramente posizioni di responsabilità? Quanti sono sopravvissuti e a quale prezzo?
In fondo, tra l´eccellenza scolastica e la performance aziendale non c´è poi molta differenza. Anche se citare l´eccellenza sembra più appropriato quando si parla di educazione, di scuola, di ricerca. Anche se l´eccellenza sembra meno egocentrica e meno individualistica della performance. Anche se l´eccellenza non sembra in contraddizione con la fiducia e la cooperazione. Eppure è proprio così. Perché per eccellere non bisogna fidarsi di nessuno. Per eccellere non bisogna mai abbassare la guardia o cedere alle lusinghe della collaborazione. Ma come può avanzare la ricerca senza cooperazione? Come si può anche solo sperare di trasmettere il sapere quando si cerca di mettere tutti in competizione contro tutti per nominare lo “studente dell´anno”?
Questo tentativo di spingere anche l´università e la ricerca verso la «competitività e l´eccellenza» mostra bene che l´ideologia dominante resta quella manageriale e aziendale degli ultimi anni. L´ideologia della perfezione e della performance. Un´ideologia che, nonostante tutto, non è riuscita ad evitare la crisi profonda di cui oggi stiamo pagando le conseguenze. Anzi. Forse è solo uscendo da questa ossessione dell´eccellenza che si potranno poi ripensare le basi di nuovo vivere-insieme.

La Repubblica 08.06.12

"Profumo: in autunno il concorso per 12mila cattedre", di Alessandro Giuliani

Lo ha detto il Ministro a “La Tecnica della Scuola”, a margine di una premiazione svolta il 7 giugno al Miur: il bando uscirà dopo l’estate e sarà riservato agli abilitati. Le selezioni finalmente riguarderanno anche scuola d’infanzia e primaria, che assorbiranno oltre 5mila posti: si svolgeranno in prevalenza al Nord e solo per le classi di concorso che presentano posti liberi. Il maxi-concorso riservato al personale docente già abilitato si farà: il bando uscirà subito dopo l’estate, probabilmente nel mese di ottobre, riguarderà tutti gli ordini di scuola, compreso l’insegnamento nella scuola d’infanzia e primaria, per complessivi 11.895 posti. A dichiararlo a “La Tecnica della Scuola” è stato il ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, a margine della premiazione dei 58 progetti vincitori del bando Social Innovation dedicato ad under 30 anni provenienti dalle Regioni della Convergenza (Campania, Puglia, Calabria e Sicilia) e per i quali sono stati stanziati 40 milioni di euro.
I posti che il Miur metterà a concorso riguarderanno solo le discipline che presentano vacanze sicure di posti. Ed in prevalenza le selezioni riguarderanno regioni del Nord Italia (dove c’è la maggiore carenza di docenti titolari di cattedra). Il numero sarà comunque sufficientemente ripartito: all’infanzia andranno meno di 2.000 posti, alla primaria tra i 2.000 e i 3.000. Alla secondaria, tra primo e secondo grado, l’altra fetta di contingente che porterà il numero complessivo di vincitori a quasi 12.000 unità.
È intenzione del Ministro assegnare il ruolo ai vincitori di questo concorso già nell’estate del 2013. Altrettanti, probabilmente qualcosa di più, verrebbero assunti attraverso le graduatorie ad esaurimento (dove sono oggi collocati oltre 230.000 supplenti abilitati).
Si tratterà dell’ultimo concorso pubblico organizzato sulla base dell’attuale regolamento (inglobato nella Legge 124/1999), su cui viale Trastevere sta lavorando per apportarvi sostanziali modifiche: il Miur, infatti, ha intenzione di rendere operativo il comma 416 della Legge 244 del 2007, approvata durante la gestione Fioroni, in base al quale era prevista l’introduzione di procedure concorsuali pubbliche con cadenza biennale. Al termine di ogni sessione, in pratica, se il piano del Miur dovesse andare in porto, chi non dovesse entrare in ruolo dovrebbe perdere i requisiti d’accesso. E ripresentarsi daccapo ai nastri di partenza della nuova selezione. Una “mossa” che nei piani alti del dicastero di viale Trastevere reputano indispensabile per mettere un freno ad un’espansione di docenti precari.

La Tecnica della Scuola 08.06.12

"Meriti ed eccellenze", di Giancarlo Cavinato

Vostra eccellenza che mi sta in cagnesco…’ ( G.Giusti)
MERITO = azione o qualità che rende degno di lode; diritto alla lode, alla stima, dovuto alle qualità di una persona o cosa; valore, pregio; riconoscerlo apertamente; ricompensa, premio ( ‘Dio ve ne renda merito!’).
ECCELLENZA = condizione e qualità di eccellente, persona che ha titolo di eccellenza, titolo dato anticamente a imperatori, re, pontefici e oggi a ministri, alti funzionari e simili.
( Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana)
Un genitore a un ragazzo che sta partendo con un gruppo come rappresentanti di una intera scuola vincitrice di un concorso: ‘Sei stato scelto perché sei the best, the winner, il migliore, vai avanti così e fatti strada!’

Ogni Ministro dell’Istruzione si vuole distinguere per una sua missione che viene propugnata come salvifica.. Lombardi fece una convenzione con la Confcooperative e per qualche anno vennero istituite le ‘cooperative di classe’. Poi i fondi vennero meno e il tutto fu dimenticato. D’Onofrio introdusse il sistema dei crediti e dei debiti ma fu soprattutto la campagna dello zainetto a immortalarne l’opera.
Berlinguer istituì la commissione dei saggi invitata a indicare i ‘saperi essenziali’ e volle ristrutturare la scuola invece che su un sei più sei su un più arduo sette più cinque (e si incagliò sull’onda anomala). Ma più ancora segnò il suo ministero l’equiparazione pubblico-privato con la legge di parità che però non vide mai sancito il dovere delle scuole paritarie di uniformarsi alle modalità di reclutamento e all’organizzazione della scuola statale. Il coronamento del suo mandato fu l’autonomia scolastica. De Mauro si cimentò nella commissione per i curricoli ma le consorterie universitarie si impegnarono in una guerra di rivendicazioni di spazi cattedre poteri. Ambedue valorizzarono i ‘gioielli di famiglia’, in particolare la scuola dell’infanzia e la primaria proponedo quali modelli pedagogico-didattici Lodi e don Milani.
La Moratti ammantò la sua destrutturazione della scuola statale con fumosi e improbabili pedagogismi misticheggianti sui ‘talenti’, stravolgendo l’aspirazione che fu di don Milani per ‘una scuola per tutti e per ciascuno’ divenuta ‘una scuola per ciascuno e per tutti’. Volle introdurre, nel mentre eliminava le condizioni operative per una scuola inclusiva, i ‘piani personalizzati’, le ‘équipes pedagogiche’, il portfolio e, avvalendosi di nomi quali quello di Hillmann, e del più modesto Bertagna, accreditare in grandi conventions le scuole paritarie come grandi comunità. Il suo modello, più che liberista, era la pedagogia dell’Opus Dei e di San Patrignano. Con le Indicazioni nazionali del 2004 abrogò i programmi preesistenti, fingendo di ignorare quelli De Mauro.
Fioroni volle agire, da gentleman, ‘di cacciavite’, non smantellò la ‘riforma’ Moratti come lei aveva fatto di quella Berlinguer-De Mauro, ma volle ridare credibilità e dignità ai percorsi scolastici istituendo fondi per il benessere e le attività extracurricolari. Si fissò su episodi di bullismo presentando come compito precipuo della scuola la sconfitta di tali forme di anomia e trasgressione, plaudito da una campagna mediatica senza precedenti su allagamenti di scuole e persecuzione di indifesi disabili, su spogliarelli e procaci professoresse . Volle ridare ‘severità’ e con ciò dignità alla scuola reintroducendo norme e sanzioni e sovraccaricando all’inverosimile gli esami di terza media e reintroducendo un peso decisivo attribuito al voto di condotta quale ‘rimedio’ contro atti trasgressivi.
Emanò le Indicazioni per il curricolo, in parte migliori e più aperte, in parte ricalcanti, fatte salve le splendide premesse, quelle Moratti nelle parti più ‘tecniche’.
Gelmini… che dire di Gelmini? Basti una parola: ‘voti numerici’., perché il resto lo hanno imposto Tremonti e Brunetta. Tagli, tagli, ancora tagli. E una grande incompetenza, da tutti riconosciutale.
Al suo confronto, i ministri Bodrato, Malfatti, Falcucci, Galloni, perfino la Russo Jervolino, sembrano luminari della pedagogia.
Ora il ministro Profumo, che sta rimettendo mano alle Indicazioni, chiedendo anche un parere alle associazioni professionali e lanciando i ‘focus group’ nelle scuole, dà già un segnale diverso.
Ma poi arriva come una doccia fredda la ‘novità’ della valorizzazione del merito, del premio alle eccellenze. Davvero il ministro ritiene che, con tutti i mali antichi e recenti della scuola italiana, ben evidenziati da Alba Sasso nell’articolo sul Manifesto del 5/06, sia questo il toccasana che fa fare un balzo in avanti alla scuola italiana, che induce tutti all’emulazione, che riduce abbandoni e disaffezione, che fa iscrivere all’Università più di oggi? Don Milani si rivolterà nella tomba.
Cos’è, il merito, in definitiva, se non la conferma che Pierino, il figlio del dottore, è proprio come vorremmo noi lo studente modello ( contratto formativo, effetto Pigmalione) mentre Gianni, figlio di un esodato o di un lavoratore a contratto a termine, vive in un ambiente che non ne stimola l’affezione alla cultura e la docilità a un sistema di regole vissute come esterne?
E la scuola che è passata attraverso tutti i ribaltoni su descritti, siamo sicuri che grazie a questo ‘supercredito’ possa tornare indietro e ridivenire quella ‘comunità di pratiche’ e di apprendimenti di cui parlavano le Indicazioni Fioroni?
Non è forse suo compito seguire tutti, occuparsi maggiormente ‘dei malati, non dei sani’ ( ‘Lettera a una professoressa’), operare in trasparenza cercando per tutti le strategie migliori, facendo emergere le potenzialità nascoste, intervenendo a colmare differenze ( la Costituzione), evitando rischi di demotivazione, saturazione, autoattribuzione di insuccesso?
Il merito dovrebbe essere di stimolo al demerito, in una scuola che è ridotta a un deserto di opportunità differenziate. Siamo sicuri che si manterrà così un livello di stima reciproca, di relazione di aiuto,di ‘peer education’, di co-costruzione di conoscenze, o non si alimenteranno invece rivalità, gelosie, distanze?
Si parla, ovviamente, di scuola secondaria e,nelle intenzioni del ministro, di facilitazioni ai ‘meritevoli’ per l’accesso all’Università. Ma sappiamo bene che, lanciato il sasso, questo propaga onde a cerchi concentrici nello stagno e, a cascata, la ‘buona pratica’ dell’incentivazione dei ‘migliori’ si diffonde a catena dalla secondaria superiore a quella di primo grado e, chissà forse anche alla primaria. Un esercito di piccoli eroi, tamburini sardi e sangui romagnoli del dovere si profila all’orizzonte. Le conseguenze possono essere gratificanti per qualche docente, ma molto preoccupanti per l’insieme del delicato sistema scolastico dove, oggi più che mai, non si può procedere per ‘spiritose invenzioni’ e ‘pazze idee’. L’’eccellenza’ può rivelarsi una patacca, perché i ragazzi sono complessi come noi adulti e, spesso, imprevedibili. Noi dobbiamo ricondurli a una forma di condivisione empatica, di reciprocità, di assunzione di responsabilità. Questa è la formazione alla cittadinanza che vogliamo, ministro. Non i palchi dei ‘migliori’. Lo dica, per favore, alle scuole, che anche Lei la pensa così. Non si accodi a madama Letizia e a madamigella Maria Stella. Non si fidi troppo dell’INVALSI. Non sempre le ‘eccellenze’ sono quelle che emergono dai dati quantitativi.

G. Cavinato (M.C,E., dirigente scolastico)

da ScuolaOggi 08.06.12

"Autorizzazioni provvisorie per riaprire subito i capannoni", di Lorenzo Salvia

Non c’è solo l’aumento della benzina tra le voci che serviranno per gli interventi in Emilia. L’articolo 2 del decreto legge firmato mercoledì sera da Giorgio Napolitano stabilisce che il «fondo per la ricostruzione delle aree terremotate» sarà alimentato anche «con le somme derivanti dalla riduzione dei contributi pubblici in favore dei partiti politici e dei movimenti politici». Un lavoro ancora in corso, quello dei tagli al finanziamento pubblico. Ma che, in base ai calcoli fatti dopo il primo sì della Camera, dovrebbe fruttare 160 milioni di euro. Una somma non risolutiva per rimettere in piedi quelle terre, dove le prime stime parlavano di almeno 5 miliardi di danni. Ma che, visti i tempi, ha un valore simbolico.
Avrà invece effetti concreti il cosiddetto «accertamento di stabilità temporaneo». Ne ha parlato lo stesso Napolitano, lasciando intendere che c’è stato un certo pressing di Confindustria. Si tratta del meccanismo pensato per far ripartire il prima possibile l’attività delle imprese, «immaginando un percorso in due tappe» come spiega Gian Carlo Muzzarelli, assessore alle Attività produttive della regione. I capannoni danneggiati potranno aprire di nuovo dopo aver adottato, entro sei mesi, tre misure di sicurezza minime. E cioè il collegamento fra pilastri (verticali) e travi (orizzontali), l’ancoraggio dei pannelli prefabbricati alla struttura e la controventatura delle scaffalature. Accorgimenti spesso assenti nei capannoni costruiti prima del 2004, quando quel pezzo di Emilia non era ancora considerato a rischio. «Si tratta di dare un’imbullonatura alle strutture per ripartire subito in sicurezza» dice l’assessore regionale. Una volta ottenuto il certificato che attesta il rispetto di questi tre requisiti, le aziende potranno tornare a produrre. Ma la loro sarà un’autorizzazione provvisoria perché entro 18 mesi dovranno ottenere la «certificazione di agibilità sismica»: e a questo punto non basteranno solo quei tre accorgimenti ma dovranno rispettare tutte le norme antisismiche.
Ma perché è stato aggiunta quella tappa intermedia? La prima ordinanza firmata dal capo dello Protezione civile Franco Gabrielli era stata molto criticata dagli imprenditori. Quel documento stabiliva che si potesse tornare nei capannoni solo con la certificazione definitiva, quella che adesso si dovrà avere entro 18 mesi. Prevedeva sì controlli accelerati, visto che poteva essere l’imprenditore a chiedere il certificato ad un libero professionista senza aspettare le ispezioni dei tecnici comunali. Ma per i vecchi capannoni ottenere l’autorizzazione sarebbe stato impossibile. Da qui la richiesta degli imprenditori per avere procedure più elastiche. Un pressing al quale il capo della Protezione civile ha reagito con un certo fastidio: «Mi accusano di eccesso di zelo? Posto di fronte all’alternativa di salvare una vita o salvare lo spread io non ho nessun tipo di indecisione», aveva detto Gabrielli. Il decreto firmato due giorni fa da Napolitano cerca una mediazione, difficile, tra quelle due esigenze.
Nei 20 articoli del decreto c’è anche un’altra modifica importante. La fine dello stato d’emergenza viene rinviata dal 21 luglio di quest’anno al 31 maggio del 2013. Salta così il limite dei 100 giorni appena introdotto dal governo con la riforma della Protezione civile per mettere un freno alle procedure speciali possibili in questo periodo anche per le spese. È vero che la legge prevede la deroga in casi eccezionali. Ma alla prima vera applicazione la riforma ha perso un pezzo.

Il Corriere della Sera 08.06.12

"Le scuole con mille alunni sono fuori legge", di Mario Piemontese

La Corte Costituzionale, in seguito al ricorso presentato da diverse Regioni, con la sentenza n. 147 del 7 giugno 2012 ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’articolo 19, comma 4, del d.l. n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011 “. Ecco il testo della norma incostituzionale: “Per garantire un processo di continuità didattica nell’ambito dello stesso ciclo di istruzione, a decorrere dall’anno scolastico 2011-2012 la scuola dell’infanzia, la scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado sono aggregate in istituti comprensivi, con la conseguente soppressione delle istituzioni scolastiche autonome costituite separatamente da direzioni didattiche e scuole secondarie di I grado; gli istituti comprensivi per acquisire l’autonomia devono essere costituiti con almeno 1.000 alunni, ridotti a 500 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani, nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche.”

Le Regioni hanno approvato piani di dimensionamento per l’a.s. 2012/2013 nel rispetto di quanto previsto dalla norma appena citata: 1.082 circoli didattici sono stati accorpati con 592 scuole secondarie di I grado, per formare 731 istituti comprensivi. Il numero di istituzioni scolastiche autonome è diminuito di 943 unità, cioè circa del10%.

La sentenza della Corte Costituzionale chiarisce definitivamente che la norma da rispettare, e che le Regioni avrebbero dovuto rispettare, è quella prevista dal comma 2, dell’art. 2, del DPR n. 233/1998 :
“Ai fini indicati al comma 1, per acquisire o mantenere la personalità giuridica gli istituti di istruzione devono avere, di norma, una popolazione, consolidata e prevedibilmente stabile almeno per un quinquennio, compresa tra 500 e 900 alunni; tali indici sono assunti come termini di riferimento per assicurare l’ottimale impiego delle risorse professionali e strumentali.”

Quindi le scuole con 1.000 alunni sono palesemente fuori legge.

Cosa potrebbe accadere adesso?

Tutti i lavoratori della scuola che per effetto del dimensionamento hanno perso il posto, se in grado di dimostrare, cosa estremamente facile, di avere subito un danno, potrebbero ricorrere contro le Regioni e chiedere che la loro attuale posizione venga ricondotta alla precedente.

Allo stesso modo i genitori, in nome dei loro figli, dimostrando di avere subito un danno potrebbero allo stesso modo ricorrere contro le Regioni e formulare una richiesta del tutto analogo a quella dei lavoratori.

Paradossalmente lo Stato potrebbe ricorrere contro le Regioni perché non hanno rispettato il comma 2, dell’art. 2 del DPR n. 233/1998.

Cosa accadrà il prossimo anno scolastico?

Rispetto al dimensionamento sono stati individuati i lavoratori perdenti posto, le iscrizioni sono state fatte rispetto alla costituzione delle nuove istituzioni scolastiche e i lavoratori hanno partecipato alla mobilità volontaria indicando come future sedi di servizio scuole nate per effetto del dimensionamento.
L’organico per il personale docente della scuola dell’infanzia e di quella primaria è già stato assegnato ad ogni singola istituzione. I trasferimenti dei docenti sempre della scuola dell’infanzia e di quella primaria sono già stati pubblicati. In poche parole la macchina è partita e difficilmente potrà essere arrestata, a meno che la Scuola non decida di prendersi un anno sabbatico per rimettere un po’ insieme i suoi pezzi.

Quasi certamente però la Scuola non si fermerà, andrà avanti, e andrà avanti, come è accaduto in più occasioni negli ultimi anni, senza rispettare la Legge.

Possiamo solo augurarci che le amministrazioni, tipo il Comune di Milano, che hanno rimandato di un anno il dimensionamento, buttino via i loro piani e li riformulino nel rispetto della legge, ma di quella che non ha mai smesso di valere anche prima della sentenza della Corte Costituzionale n. 147 del 2012.

da Rete Scuole 08.06.12

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Salve le scuole sotto i seicento alunni la Consulta boccia gli accorpamenti”, di ELSA VINCI e CORRADO ZUNINO

Gli accorpamenti scolastici sono illegittimi. Lo ha detto ieri, dettando la sentenza numero 147, la Corte costituzionale. Lo Stato non doveva entrare in un dettaglio amministrativo: il numero degli studenti che in ogni “plesso scolastico” non deve essere inferiore a seicento e superiore a mille. Questa è materia nel potere delle Regioni. È tutto da rifare, quindi, per gli accorpamenti, la questione che più ha impegnato l´amministrazione scolastica e più agitato maestri, professori, genitori.
L´accorpamento scolastico era nato, per volontà di Giulio Tremonti, il 6 luglio 2011: si volevamo risparmiare 63 milioni di euro. La legge, quindi, è stata realizzata dal governo Monti. Lungo il suo cammino, e vista la dialettica cresciuta tra comuni, province e regioni, l´accorpamento è diventato un ridimensionamento tout court con la soppressione di istituti (a partire dal prossimo settembre nella gran parte dei casi) e la fusione di scuole dell´infanzia con scuole medie, licei scientifici con istituti per l´agricoltura. In un processo caotico e conflittuale la Regione Lazio, per dire, ha tagliato 109 autonomie: ha accorpato cioè, offrendo un unico preside e un´unica segreteria, 109 scuole. Solo a Milano le fusioni sono state 77. A Castelfiorentino, provincia di Firenze, si è ipotizzato un unico istituto con 1800 studenti stipati. In Sardegna e Sicilia una scuola su cinque, sulla carta, è stata cancellata.
Sette Regioni hanno fatto proprio il malessere crescente – professori spostati, palestre trasformate in nuove aule e aule in mense – e sono ricorsi alla Corte costituzionale appellandosi ai loro poteri schiacciati dallo Stato. Ieri la Consulta ha dato loro ragione sul punto “dimensionamento”, comma IV dell´articolo 19 del decreto legge numero 98 (2011). «La norma è illegittima in quanto si tratta di una materia di competenza regionale», ha detto. E poi: «L´aggregazione negli istituti comprensivi, unitamente alla fissazione della soglia rigida di mille alunni, conduce al risultato di ridurre le strutture amministrative scolastiche e il personale operante all´interno delle medesime, con evidenti obiettivi di risparmio, ma si risolve in un intervento di dettaglio da parte dello Stato in una sfera che, viceversa, deve rimanere affidata alla competenza regionale». La Consulta ha salvato invece il successivo comma 5, quello che consente di tagliare presidi e personale amministrativo (il ministero dell´Istruzione ha ipotizzato di prepensionarne 3180). «Rientra nelle prerogative del governo decidere la riduzione dei dirigenti scolastici», hanno scritto i quattordici giudici dell´Alta corte. «Questa previsione», si legge ancora, «incide in modo significativo sulla condizione della rete scolastica, ma la norma non sopprime i posti di dirigente limitandosi a stabilirne un diverso modo di copertura e tenendo presente che i dirigenti scolastici sono dipendenti pubblici statali, non regionali».
È interessante notare come l´Alta Corte abbia sottolineato l´ambiguità di una legge che da una parte impone l´aggregazione tra elementari, medie e superiori e dall´altra «non esclude la possibilità di soppressioni pure e semplici». I giudici hanno censurato il fatto che lo Stato abbia stabilito «soglie rigide» che «escludono le Regioni da qualsiasi possibilità di decisione». Ecco, il Titolo V «consente allo Stato di dettare principi fondamentali e non norme di dettagli».
Il ministero della Pubblica istruzione è stato preso in contropiede dalla sentenza. A tarda ora, i responsabili tecnici, assunta la notizia, hanno parlato di «un bel guaio» sottolineando come non sia più gestibile una situazione in cui «lo Stato mette i soldi e le Regioni decidono cosa fare». Saranno le Regioni, ora, a dover rimettere mano alla partita dell´accorpamento scolastico.

La Repubblica 08.06.12

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Incostituzionale la nuove rete scolastica. Tutto da rifare?
Con la sentenza n. 147 la Consulta ha bocciato la riforma della rete scolastica

La Corte costituzionale ha accolto, se pur in parte, il ricorso di sette Regioni (Toscana, Emilia-Romagna, Liguria, Umbria, Puglia, Basilicata e Regione Sicilia) che avevano impugnato l’art. 19 della legge 111/2011, relativa al nuovo dimensionamento delle istituzioni scolastica (del primo ciclo in particolare).

La sentenza n. 147 ha giudicato illegittimo soltanto il comma 4 dell’art. 19 della legge – quello sulla dimensione minima di mille alunni dei nuovi istituti comprensivi – ma ha ritenuto non fondato il ricorso contro il comma 5 dello stesso art. 19 – quello sulla esclusione di dirigenti scolastici titolari nelle istituzioni sotto i 600 alunni.

Secondo la Consulta, i nuovi parametri (almeno mille alunni) per costituire un istituto comprensivo non sono norme generali né principi fondamentali (di competenza dello Stato), ma sono, piuttosto, norme di dettaglio che, dunque, avrebbero dovuto essere concertati con le Regioni in quanto rientranti nella legislazione concorrente.

A dir la verità il Miur, a cose fatte, ha avviato rapporti con le Regioni attraverso la Conferenza unificata, convenendo sulla non rigidità del limite di mille (assunto come media regionale) e convenendo sul mantenimento di istituzioni scolastiche già dimensionate, anche se non trasformate in istituti comprensivi. Ma era ormai troppo tardi e i ricorsi (tutti delle Regioni politicamente all’opposizione del Governo pro- tempore) erano già partiti.

Come si sa, in sede di attuazione della norma, le Regioni hanno ridefinito la rete scolastica regionale, secondo scelte proprie che, in taluni casi, hanno rispettato alla lettera (e oltre) le norme generali della legge n. 111, mentre in altri casi hanno deliberato piani con il freno tirato, dando attuazione graduale alla disposizione (gradualità non prevista) e applicando i nuovi parametri con una certa discrezionalità.

E adesso? Cosa succederà?

Non dovrebbero esserci effetti negativi nell’immediato, visto che ormai i piani regionali sono stati approvati e, soprattutto, applicati.

Probabilmente ci sarà un “chi ha avuto ha avuto” e un “chi ha dato ha dato”: i piani che prevedono in futuro l’adeguamento alle norme della legge 111 potrebbero rimanere inapplicati, senza nuove modifiche territoriali rispetto a quanto già avvenuto.

da Tuttoscuola 08.06.12

"Il futuro conteso da mercati e Stati-nazione", di Zygmunt Bauman

Se il dibattito sul modello di una società giusta ha perso gran parte del suo fervore e del suo slancio, è soprattutto per la mancanza di un soggetto credibile in grado di agire con la volontà e la capacità di portare avanti un tale progetto. Tutto nasce dal divorzio sempre più evidente tra il potere – la facoltà di porre in atto un progetto – e la politica – la capacità di decidere che cosa fare o non fare. In conseguenza della globalizzazione, queste due facoltà, congiunte per alcuni secoli nello Stato-nazione, hanno oggi due sedi diverse: per usare i termini di Manuel Castell, «lo spazio dei flussi» e quello «dei luoghi». Il potere è trasmigrato in buona parte dallo Stato-nazione a uno spazio globale sopranazionale. Mentre la politica è tuttora locale, relegata entro i confini della sovranità territoriale degli Stati. Siamo di fronte a due tipi di potere: da un lato il primo, libero e fluttuante, al di fuori di ogni guida o supervisione politica, e dall´altro quello degli organismi politici, limitati e legati al territorio, mortificati oltre tutto da un permanente deficit di potere. I primi, i «poteri forti», hanno, come sospettiamo, le loro buone ragioni per non essere interessati né intenzionati riformare lo statu quo. Mentre i secondi sarebbero incapaci di intraprendere, e meno ancora di portare a buon fine una riforma, per quanto fortemente desiderata. Nessuno degli organismi politici esistenti, ereditati dal passato e creati in origine al servizio di una società integrata a livello di Stato-nazione, avrebbe la capacità e le risorse necessarie per affrontare un compito di così grande portata e gravità. In molti Paesi, persino in quelli meglio attrezzati, i cittadini sono esposti giorno dopo giorno allo spettacolo poco edificante di governi che guardano ai mercati per ottenere il permesso di fare ciò che vorrebbero. Quando si tratta di negoziare sulla linea di confine tra ciò che è realistico e ciò che non lo è, oggi sono «i mercati» ad aver usurpato (non senza la connivenza, e magari il tacito o esplicito avallo e sostegno di governi inetti e sfortunati) il diritto alla prima e all´ultima parola. Ma il termine «mercati» sussume un coacervo di forze anonime, senza volto né indirizzo, che nessuno mai ha eletto né delegato a richiamarci all´ordine o a impedirci di combinare guai. E che nessuno è in grado di coartare, controllare e guidare. A livello popolare si sta diffondendo l´impressione, peraltro ben fondata e sempre più condivisa dagli esperti, che oggi tanto i governi quanto i parlamenti eletti siano incapaci di far bene il loro lavoro. E neppure i partiti politici tradizionali sembrano all´altezza: è ben nota infatti la loro tendenza ad accantonare ogni poetica promessa elettorale nel momento stesso in cui i loro leader entrano in carica negli uffici ministeriali, e si trovano a confronto con la prosaica realtà delle forze evanescenti ma preponderanti del mercato e delle borse valori. Da qui la crisi di fiducia, che si approfondisce sempre più. L´era della fiducia nelle istituzioni degli Stati-nazione sta cedendo il passo a un´era di discredito di quelle stesse istituzioni, ormai prive di fiducia in se stesse, e di scetticismo dei cittadini, che non credono più nella capacità d´azione dei governi. L´Onu, un´istituzione sorta come reazione alla guerra scatenata dall´aggressione di alcuni Stati-nazione sovrani contro la sovranità di altri Stati-nazione, è l´istituzione che più si avvicina all´idea di un organismo politico globale. L´impegno a difendere a oltranza, con le unghie e con i denti, i princìpi del Trattato di Westfalia da cui nacquero gli Stati-nazione è scritto nella Carta delle Nazioni Unite. Il tipo di politica «internazionale» (leggi: inter-statale, inter-governativa, inter-ministeriale) che è tenuta a portare avanti, la sola che l´Onu sia autorizzata e in grado di promuovere e praticare, non può farci fare alcun passo in avanti sulla via di un´autentica politica globale; ma al contrario, costituirebbe un grandissimo ostacolo se mai si decidesse di avanzare su questa strada.
Vediamo ora la situazione dell´euro: l´assurdità di una moneta comune servita/sostenuta da diciassette ministri delle finanze, ciascuno dei quali è peraltro tenuto a rappresentare e difendere i diritti sovrani del proprio Paese. L´euro è condannato ad essere esposto alle vicende ondivaghe delle politiche locali, a loro volta soggette alle pressioni provenienti da due fonti distinte, del tutto eterogenee, non coordinate e quindi assai difficilmente conciliabili (l´elettorato entro i confini nazionali, e le istituzioni sopranazionali europee, troppo spesso condizionate ad agire in maniera contraddittoria): e questa è solo una delle molte manifestazioni di un duplice vincolo, paralizzante come una morsa: da un lato il fantasma del Trattato di Westfalia col suo principio di sovranità degli Stati, dall´altro la realtà della dipendenza a livello globale, o anche solo sopranazionale.
Per dirla in due parole: non abbiamo ancora l´equivalente, l´omologo globale delle istituzioni inventate, progettate e poste in essere dai nostri nonni e bisnonni a livello territoriale di Stato-nazione, per suggellare il matrimonio tra potere e politica: istituzioni nate per servire la coesione e il coordinamento di opinioni e interessi diffusi e garantire una loro adeguata rappresentanza, riflessa in una legislazione vincolante per tutti. Resta solo da chiedersi se questa sfida potrà essere raccolta, se questo compito potrà essere affrontato dalle istituzioni politiche esistenti, create dopo tutto per un livello assai diverso dell´integrazione umana – quello dello Stato nazione – al fine di proteggerlo da ogni possibile intrusione «dall´alto». Tutto è iniziato – è il caso di ricordarlo – dai poteri monarchici dell´Europa cristiana, in lotta contro la pretesa dei Papi di controllare i loro territori….
Per alcuni secoli, l´assetto così ereditato era in relativa sintonia con le realtà di quel tempo: un tempo in cui potere e politica erano reciprocamente legati a livello degli Stati-nazione nascenti; il tempo della Nationalökonomie (economia nazionale) e della Ragione identificata con la raison d´état. Oggi tutto questo è cambiato. La nostra interdipendenza è fin d´ora globale, mentre i nostri strumenti di espressione della volontà e di azione collettiva rimangono locali, e si oppongono caparbiamente a ogni estensione, limitazione o interferenza. Il divario tra la portata dell´interdipendenza e la sfera d´azione delle istituzioni responsabili è già un abisso, che si approfondisce e si allarga ogni giorno di più. A mio parere, il superamento di quest´abisso rappresenta la grande sfida, il meta-challenge del nostro tempo. Questa dovrebbe essere la prima preoccupazione per i cittadini del XXI secolo. Se questa sfida verrà raccolta adeguatamente, si potranno affrontare anche le problematiche minori ma ineludibili che ne derivano con la necessaria efficacia e serietà.
Traduzione di Elisabetta Horvat

La Repubblica 08.06.12