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"Come aiutare le aziende emiliane a ripartire subito", di Dario Di Vico

Gli imprenditori modenesi chiedono di ripartire subito, senza se e senza ma. Da una parte c’è l’orgoglio «laburista» degli industriali di territorio, dall’altra c’è il terrore di perdere mercato e di uscire per sempre dalla competizione globale. N on è facile ragionare di politica industriale quando la terra balla e non si sa per quanto tempo continuerà a muoversi. Le emozioni, come è naturale che sia, prendono il sopravvento. Così la richiesta che viene dagli imprenditori modenesi è quella di ripartire subito, senza se e senza ma. Da una parte c’è l’orgoglio «laburista» degli industriali di territorio, dall’altra c’è il terrore di perdere mercato e di uscire una volta per sempre dalla competizione globale. Anche quindici giorni in questa drammatica congiuntura economica e psicologica sembrano essere assolutamente decisivi per la vita o la morte di un’azienda. Ma la spinta che viene dal basso per riprendere il lavoro deve fare i conti con i rischi che si corrono e diventa quindi decisivo il tema della responsabilità. Ci vuole un soggetto che convalidi-autorizzi le condizioni del rientro degli operai in fabbrica. Oggi non c’è e non si può pensare di affidare a singoli consulenti una decisione così difficile.
Per evitare poi che il numero delle aziende che vanno fuori mercato sia eccessivo, è necessario usare la capacità produttiva degli impianti locali come un vaso comunicante. Se ci sono, ad esempio, sul territorio modenese aziende della ceramica che possono produrre conto terzi ed evitare che altri imprenditori chiudano, è compito della rappresentanza d’impresa rendere possibile questo piccolo miracolo di collaborazione tra concorrenti. Culturalmente gli imprenditori modenesi sono attrezzati per farlo, occorre solo vedere se i trasferimenti di produzione siano realizzabili solo nel settore della ceramica o anche nella meccanica e nell’agroalimentare.
Per quanto riguarda il distretto gioiello di Mirandola (biomedicale) vanno prese decisioni urgenti. Le multinazionali presenti in zona stanno accentuando il loro pressing e sembrano disponibili a trasferire le lavorazioni in altri Paesi. Bisogna trovare un’area limitrofa nel Modenese o nel Bolognese per traslocare il distretto e non togliere all’Emilia (ma a questo punto all’Italia) un polo di assoluta eccellenza mondiale. In questo caso i tempi sono veramente stretti ma il trasferimento sarebbe largamente accettato e ci sono le condizioni per realizzare, nel caso, nuove sinergie con le università emiliane e i tecnopoli voluti dalla Regione.
Un altro capitolo urgente riguarda il rapporto con le banche nazionali e di territorio. Le misure che possono essere negoziate sono numerose ma siccome stiamo parlando di una delle zone più ricche e laboriose del Paese è interesse dello stesso mondo del credito evitare quella che gli industriali modenesi chiamano «desertificazione». Serve quindi aprire una discussione e sarebbe importante che le grandi banche mettessero in campo professionalità non solo locali perché si tratta di trovare soluzioni innovative che possono però arricchire la (stanca) relazione tra imprese e credito. Dagli industriali emiliani arrivano anche, come è naturale che sia, molte richieste al governo e vanno dalla richiesta di sbloccare i pagamenti della pubblica amministrazione alle aziende del biomedicale alla creazione di una sorta di zona franca fino al coinvolgimento della Cassa depositi e prestiti. Si tratta in questo caso di individuare quali siano gli strumenti più efficaci e allo stesso sostenibili per la disastrata finanza pubblica. Tutto non si potrà avere.
Il Corriere della Sera 05.06.12

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La paura delle aziende: ci soffiano i clienti

«Un commissario decida sull’agibilità dei capannoni». Squinzi: ripartire ora. Al presidente tedesco della multinazionale, che l’ha chiamata domenica sera dopo l’ennesima scossa superiore al quinto grado, Giuliana Gavioli, direttore generale della Braun Avitum Italy a Mirandola (175 dipendenti, 46 milioni di fatturato), ha fornito, diciamo così, una versione edulcorata del terremoto all’emiliana: «Ma no, niente di grave, solo una scossa di assestamento, ripartiremo presto…». Una mezza bugia che nasconde un’enorme paura: che le multinazionali del biomedicale (6 solo a Mirandola e dintorni, oltre a 150 aziende) decidano che non vale più la pena correre rischi e «magari se ne vanno in Svezia o in Polonia».
Vainer Marchesini, presidente di Wamgroup (1800 dipendenti di cui 400 in Italia), specializzata in meccanica, con sede a Cavezzo, ha ricevuto attestazioni di solidarietà da mezzo mondo: «Intanto però alcuni concorrenti ci stanno soffiando i clienti, vanno in giro a dire che faremo fatica a ripartire: è il mercato, certo, ma per riguadagnare quote poi occorreranno anni». E pure Nicoletta Razzaboni, titolare di Cima (20 milioni di fatturato, 81 dipendenti), sede a Mirandola dove produce dispositivi per la sicurezza, ha ricevuto tanta solidarietà, ma altrettante disdette, e poi ha un grosso problema: «Ascolto le istituzioni e non capisco: la Regione dice una cosa, la Protezione civile un’altra…». Anche per questo Roberto Fabbri, presidente della ceramica Abk Group (120 dipendenti a Finale Emilia, 87 milioni di fatturato), istituirebbe «una sorta di commissario, come per l’Expo, al quale facciano capo tutte le esigenze delle aziende».
Quattro imprenditori. Quattro storie. Un terremoto infinito. Anche se imposto dalla disgrazia, il copione scelto ieri dall’assemblea generale di Confindustria Modena non poteva essere più efficace nell’offrire volti e voci alla Waterloo di un’economia mutilata dai morsi della terra. Un bacino che costituisce l’1% del Pil nazionale, il 10% di quello regionale e che, come ha ricordato il presidente Pietro Ferrari, riunisce 500-600 aziende industriali per 12 mila dipendenti, con tributi al Fisco pari a 6-7 miliardi e un fatturato Iva di 400 milioni. Un tesoro a forte rischio. Non è un caso se il neopresidente degli industriali, Giorgio Squinzi, che da queste parti ha due stabilimenti, non si perde una battuta dei lavori al forum Monzani. «Il vero problema è ricreare le condizioni per riprendere l’attività», dice, andando subito al sodo. A partire dal problema dei capannoni: danneggiati, riaperti, di nuovo danneggiati. E ora chi li riapre? «C’è una questione di sicurezza e di responsabilità» sottolinea Dario Di Vico del Corriere della Sera che modera il dibattito. E infatti Roberto Fabbri dell’Abk Group si chiede: «Dopo la scossa del 20 maggio avevo ottenuto l’agibilità, ma ora non so se quei certificati sono ancora validi con il nuovo decreto…». Hanno fretta, una fretta spaventosa. Vainer Marchesini della Wamgroup, è uno che non intende mollare, però non può fare a meno di allungare lo sguardo sul baratro: «Ho perso la metà dei 70 mila metri quadrati dei capannoni, il fatturato è a zero, i costi corrono e l’indebitamento pure, molti ordini sono stati annullati: Modena ha sempre dato molto allo Stato, ora ci vuole un intervento straordinario a fondo perduto». E poi certezze, programmazione: «Ad esempio — ringhia Nicoletta Razzaboni —, la storia della detassazione fino a settembre è una presa in giro: a Roma forse pensano che in 3 mesi ci si risollevi?».
Giuliana Gavioli della Braun Avitum si sente addosso il fiato dei suoi superiori all’estero: «Anche solo 15 giorni di ritardo possono significare la perdita di un mercato, il biomedicale rischia lo smembramento». Il direttore Ferrari la lista per il governo l’ha pronta. Al primo posto, il saldo dei crediti da parte della Pubblica amministrazione: «Tra le nostre associate e le altre, si viaggia sui 700 milioni…».

Il Corriere della Sera 05.06.12

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Guccini, Vasco Rossi, Pausini e Ligabue In concerto insieme per la loro regione

Era nell’aria una mobilitazione di tutti gli artisti emiliano-romagnoli per il terremoto. Alla fine a prendere l’iniziativa e a organizzare un megaconcerto per il 25 giugno allo stadio Dallara di Bologna è stato uno dei grandi vecchi della musica emiliana, Beppe Carletti, fondatore e anima dei Nomadi. Sul palco della manifestazione, che sarà trasmessa in diretta da Raiuno e condotta da un emiliano doc, Fabrizio Frizzi, dovrebbero salire Francesco Guccini, Zucchero, Laura Pausini, Luciano Ligabue, gli Stadio, Paolo Belli, Cesare Cremonini, Gianni Morandi, Biagio Antonacci, il flautista Andrea Griminelli, Caterina Caselli, Nek, Luca Carboni, Samuele Bersani, Andrea Mingardi, Vasco Rossi e, naturalmente, i Nomadi.
«La città dove vivo, Novellara, ha avuto pochi danni — spiega Beppe Carletti —. Ma la mia città natale Novi è devastata. Domenica è caduta la torre dell’orologio. Così nei giorni scorsi sono andato a prendere la mia mamma, Elvira, di 86 anni con la sua badante e le ho portate a casa mia. Mio fratello Renzo vive in un camper che gli ha trovato la Protezione civile. I paesi della bassa Modenese sono sempre stati casa mia e a vederli così mi viene la pelle d’oca. A Mirandola i capannoni sono venuti giù tutti. Sono a rischio seimila posti di lavoro. Il mio amico Elvino, industriale, 65 anni come me, piangeva fra le mie braccia: “Sono nudo, ho perso tutto!”. Cosa gli vai a dire a questa gente? Meglio un gesto concreto, una mobilitazione di tutti gli artisti dell’Emilia Romagna per un evento unico e irripetibile».
Mercoledì mattina verrà annunciato il cast ufficiale. E si saprà chi potrà esserci. «Rivolgo un appello ai fan di tutti gli artisti — conclude Carletti — affinché vengano allo stadio Dallara per mandare un segnale forte di solidarietà. Tiriamo fuori l’anima emiliano-romagnola, facciamo vedere al mondo di cosa siamo capaci. Mai nella storia d’Italia c’è stato un concerto con un simile cast. L’incasso non verrà distribuito a pioggia, ma servirà a un progetto preciso sotto il controllo della Regione. Una formula, quella dell’intervento diretto e specifico, che noi Nomadi abbiamo utilizzato con successo in passato negli interventi benefici nei Paesi di in via di sviluppo e anche all’Aquila, dove finanziammo delle borse di studio per studenti meritevoli».

Il Corriere della Sera 05.06.12

"I giovani perdenti della globalizzazione", di Bruno Ugolini

Non è davvero un caso isolato quello della crescente flessibilità del lavoro italiano. L’Europa è alle prese con problemi simili. Un’analisi accurata la troviamo in un volume della Franco Angeli. Porta come titolo un interrogativo: «Giovani, i perdenti della globalizzazione?». I curatori del volume (un’iniziativa di «Sociologia del lavoro») sono Hans-Peter Blossfeld, Dirk Hofacker, Roberto Rizza, Sonia Bertolini.
Scaturisce dalle ricerche un panorama diversificato. Anche se si osserva come «Nel suo insieme la globalizzazione ha prodotto un livello di incertezza strutturale senza precedenti negli assetti sociali ed economici dei paesi europei». E ancora: «I giovani europei sono sempre più soggetti a forme di lavoro temporaneo, corrono un rischio di disoccupazione più alto e impiegano più tempo a raggiungere condizioni di lavoro stabili e continuative».
Certo il modello danese della flexsecurity regge ancora. Anche in Danimarca però l’incertezza economica si fa sentire e la preoccupazione principale riguarda il futuro. «Il fragile equilibrio fra le dispendiose politiche del mercato del lavoro danesi e la breve durata dei periodi di disoccupazione individuale,in una dinamica di turnover elevato, potrebbe venire a mancare». Mentre in Inghilterra «l’incertezza lavorativa è meno concentrata sui giovani» e più distribuita lungo le diverse fasi della vita lavorativa.
Merita attenzione il caso Germania. Qui «quasi tutti i giovani accedono al mercato del lavoro attraverso contratti instabili… Tuttavia i contratti a termine in posizioni che richiedono elevate qualifiche non sono sinonimo di precari». Possono essere compensati, ad esempio, da alti salari. E comunque ha molte più chance di stabilizzazione chi ha un elevato titolo di studio. Una bella differenza con l’Italia. Il nostro Paese è al centro del saggio di Nicola De Luigi e Roberto Rizza. Qui viene segnalato l’emergere dei «Neet». Un termine che deriva dall’acronimo inglese «Not in Education, Employment or Training», giovani che non lavorano, non studiano. Gli autori osservano poi come non è tanto rilevante il dato numerico dei rapporti di lavoro flessibile, nel confronto con quello europeo, quanto il fatto che è cresciuto negli ultimi anni «un sentimento di precarietà e insicurezza» giustificato dalla mancanza di protezioni e tutele per i lavoratori più a rischio di instabilità. L’ultima parte del volume si concentra su tre realtà territoriali: Trento, il Nord est, Napoli. E concludendo la ricerca sul capoluogo campano Giustina Orientale Caputo scrive: «… lo scenario in cui attualmente ci muoviamo è talmente cupo che non appare irrealistico pensare che intere generazioni di giovani rischiano di essere tagliate fuori». E c’è da dubitare che la cosiddetta riforma del mercato del lavoro, con le sue luci e le sue molte ombre, possa determinare davvero una svolta positiva.

l’Unità 05.06.12

"Se il preside va in ferie e la scuola è sola", di Mario D'Adamo

Scuole senza dirigenti né docenti vicari. Le ferie annuali si avvicinano e i dirigenti scolastici infuriati stanno per fare la mossa suggerita da Cgil, Cisl e Snals: comunicare ai rispettivi direttori regionali dell’istruzione i periodi durante i quali saranno in ferie senza farsi sostituire, e ciò perché non sono state loro assegnate risorse, né lo saranno, per compensare l’attività di sostituzione, ed essi non hanno alcuna intenzione di assumersi responsabilità nell’ordinare spese prive di copertura o adottare provvedimenti annullabili di diritto.

La nota ministeriale sul programma annuale 2012 del 22 dicembre 2011 (prot. n. 9353), infatti, non solo non aveva previsto di conferire alle scuole i fondi necessari alla liquidazione dell’indennità per funzioni superiori da corrispondere ai docenti collaboratori quando esercitano la funzione vicaria, ma aveva addirittura escluso che durante le ferie potessero essere loro delegate funzioni proprie della qualifica superiore (art. 52 del decreto legislativo n. 165 del 2001). E allora, è il messaggio implicito rinvenibile nella lettera dei dirigenti scolastici, trovino una soluzione i direttori regionali, nelle cui mani vengono rimesse non solo le lettere ma le stesse istituzioni scolastiche. Se le ferie sono un diritto irrinunciabile, e qualche direttore regionale ha già intimato ai presidi di non rinviare le ferie se non in casi motivati da gravi e obiettive esigenze personali o di servizio, se durante le ferie i docenti collaboratori non possono sostituire i dirigenti, allora tocca all’amministrazione periferica, ai direttori regionali dell’istruzione, provvedere a garantire la continuità di direzione delle istituzioni scolastiche. Non certo ai dirigenti scolastici, ai quali è inibita l’unica possibilità che hanno, che è quella di farsi sostituire dai loro collaboratori. Non è d’accordo l’associazione professionale Anief, secondo la quale i dirigenti scolastici rischiano una denuncia penale, quando “dichiarano di voler lasciare la scuola senza alcun sostituto”. Nello stesso tempo l’Anief contesta la nota ministeriale del dicembre scorso, che avrebbe commesso due errori. Il primo per avere confuso l’esercizio delle funzioni superiori con quelle del dirigente, la cui qualifica non è superiore ma solo di-versa (tesi originale, per altro). Il secondo perché il ministero, ricordando con tono minaccioso le sanzioni cui va incontro il dirigente scolastico nel farsi sostituire durante le ferie da un docente, dimentica di dire che esse si applicano solo nei casi di dolo o colpa grave. Che la nota ministeriale del dicembre scorso fosse sbagliata sul punto lo aveva scritto anche questo giornale ma lo aveva ammesso anche l’ufficio scolastico regionale del Lazio. Nel gennaio scorso, infatti, aveva precisato che i dirigenti scolastici devono dimostrare, in caso di rinvio delle ferie per ragioni di servizio, che le loro funzioni non possono essere delegate ai vicari. In positivo ciò significava e significa affermare che esistono funzioni che i dirigenti scolastici, salvo contraria e motivata decisione dei dirigenti stessi, possono e debbono delegare ai vicari. Fatto sta che il ministero non ha erogato fondi né si è ricreduto sull’interpretazione della norma che vieterebbe ai dirigenti di farsi sostituire durante le ferie. I direttori regionali, ai quali il cerino resta così in mano, non hanno altra scelta: o intimano ai dirigenti scolastici di nominare i rispettivi sostituti, contraddicendo le istruzioni ministeriali, o concordano un piano ferie con i dirigenti scolastici, disponendo sostituzioni reciproche e facendo ricadere la relativa spesa sul fondo regionale per la retribuzione di posizione e di risultato. Accendendo la miccia di ulteriori controversie con i sindacati.

da ItaliaOggi 05.06.12

"Il merito di Profumo scontenta tutti", di Alessandra Ricciardi

Un miliardo di euro di fondi europei per l’istruzione al Sud, 117 milioni per le scuole che offrono una seconda chance a chi ha abbandonato gli studi. E 400 milioni per gli asili nido. E per il merito? «Solo 30 milioni». É con questi numeri che ieri il ministro dell’istruzione, università e ricerca, Francesco Profumo, ha provato a smantellare il grattacielo di critiche che ha collezionato la sua proposta di riforma sul merito nella scuola e nell’università: contrarie le associazioni di genitori e i sindacati (si confonde il merito con la qualità della scuola, una delle critiche più diffuse), contrario il Pd e il Pdl, anche se per motivi diversi.

In una nota inviata ai sindacati e pubblicata sul sito del miur, ieri Profumo rivendica l’impegno a favore della scuola di tutti, a cui la riforma del merito toglierebbe poche risorse. «Spero che la lettera del ministro sia solo il preliminare di un approfondito confronto di merito che dia corpo a relazioni sindacali vere e non soltanto epistolari», è la secca replica di Francesco Scrima, segretario Cisl scuola. E sugli stanziamenti citati da Profumo a dimostrazione della sua buona volontà: «Non vorremmo che si trattasse in larga parte di un déja vu (fondi europei), o di spese non propriamente riconducibili all’istruzione, come nel caso di quelle destinate agli asili nido», che sono a carico del ministero del welfare. «Una scuola migliore? Accettiamo la fida», rilancia Massimo Di Menna, segretario Uil scuola. La riforma era attesa al consiglio dei ministri la scorsa settimana, quando era già alla terza versione. Poi è stata rinviata a domani, per metterla a punto in modo da farla piacere ai contestatari e a chi vuole che si faccia a tutti i costi: del resto il premier Mario Monti l’ha già illustrata (non si sa però in quale versione) al capo dello stato, Giorgio Napolitano. Restano le contrarietà dei sindacati, in questo caso il fronte confederale si è riunito, mentre il Pd oltre che una questione di merito, per tutti l’ex ministro Beppe Fioroni (si premiano pochi dimenticando che la scuola ha bisogno di altro), ne fa una questione anche di forma: no a un decreto legge, si lasci spazio alla discussione parlamentare, dice la responsabile scuola del partito, Francesca Puglisi. Per il Pdl è invece fondamentale che non si intacchi la riforma del reclutamento dell’università fatta da Mariastella Gelmini, per il resto la competizione tra gli studenti va più che bene. Intanto però non è neanche certissimo che domani se ne ridiscuta al cdm, potrebbe subire un nuovo rinvio, una nuova pausa di riflessione. Al ministero dicono: il testo è ancora in riscrittura. Ma che cosa prevede di così radicale e urticante la riforma Profumo? ItaliaOggi ha avuto modo di leggere una delle ultime bozze: 31 pagine, divise in due capi, il primo per la scuola, il secondo per l’università. Titolo: «Schema di decreto legge recante misure urgenti per la valorizzazione della capacità e del merito nell’istruzione, nell’università, nell’alta formazione artistica, musicale e coreutica e nella ricerca». Il primo articolo è dedicato alla capacità e al merito nelle scuole: tutti gli istituti, compresi quelli paritari, devono prevedere sistemi premianti per gli alunni migliori, coinvolgendoli in competizioni nazionali o internazionali. La regola vale sia per gli studenti delle superiori che per quelli più piccoli delle elementari. Competizioni come le olimpiadi della matematica, per le quali in verità i fondi a disposizione sono sempre di meno. Dal prossimo anno scolastico, si prevedono master class estive di formazione per chi si piazza ai primi tre posti delle olimpiadi e di altre competizioni equivalenti. Le scuole individueranno tra i propri ragazzi che alla maturità otterranno 100/100, ovvero il massimo, il più bravo, a cui andrà la medaglietta di «studente dell’anno». Un riconoscimento che comporterà la riduzione di almeno il 30% della retta universitaria. Quanti potranno essere gli studenti dell’anno dipenderà dalle risorse, che dovranno essere stabilite con decreto dell’istruzione d’intesa con il ministero dell’economia. A copertura si indica la legge 440/1997: inizialmente era destinata alle scuole per la realizzazione del piano dell’offerta formativa e per la formazione e l’aggiornamento del personale, è stata poco per volta depauperata. Tanto che al Tesoro hanno storto il naso: sarebbe meglio per la copertura cercare altrove. L’altrove ad oggi però non si è ancora trovato.

da ItaliaOggi 05.06.12

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Il ministro Profumo scrive agli insegnanti

Care colleghe e cari colleghi, per cultura e storia personale sono abituato a prestare la massima attenzione e a mettermi in ascolto quando parlano i rappresentanti dei lavoratori. Nella mia esperienza di cittadino, di docente e infine di Rettore ho incontrato tante volte il sindacato, e ho sempre cercato di farlo mettendomi dalla parte giusta: quella della coesione e della solidarietà nell’interesse generale.

Tanto più, quindi, desidero ascoltare e interloquire con voi oggi che mi trovo a fare il ministro. Ho riflettuto sulle osservazioni e sulle critiche che avete voluto fare in questi giorni, sulla base di anticipazioni giornalistiche, ai provvedimenti sulla scuola e l’università che saranno da me proposti mercoledì in Consiglio dei ministri.

Desidero rassicurarvi e fugare uno ad uno tutti i dubbi da voi espressi, che mi sembrano nascere in realtà da una più generale paura che la scuola venga abbandonata a se stessa. Non lo sarà. Non da me, almeno. Non potrei nemmeno volendo – e non voglio – visto che nella scuola e nella formazione ho passato quasi tutta la mia vita, prima da studente e poi da professore, ma anche da marito di un’insegnante e da padre di tre figli.

Capisco però questi timori. La scuola italiana ha attraversato negli ultimi anni un periodo di grande difficoltà, fatto di tagli e di marginalizzazione rispetto all’agenda politica del paese. Di questa messa all’angolo la scuola ha sofferto molto, ed in primis i suoi lavoratori, che si sono sentiti feriti e colpiti.
Sin dall’inizio del mio mandato, però, tutto il mio lavoro è stato indirizzato ad invertire questa tendenza e a rimettere la scuola al centro dell’agenda del Paese. Perché sono fermamente convinto che la scuola, soprattutto in tempi di crisi economica, sia parte della soluzione e non del problema. E voglio anzi dire di più: senza di essa nessuna soluzione potrà mai funzionare.

Non sono solo parole, perché il governo ha già operato con grande concretezza in questa direzione. Nella prossima stagione, nonostante le difficoltà di bilancio, per la prima volta dopo sette anni consecutivi i cicli scolastici manterranno lo stesso organico del 2011-2012. Vi assicuro, non è stato semplice. Così come non è stato semplice reperire un miliardo di fondi europei per il sud e principalmente per la scuola del bisogno. Ed ancora, scovare 117 milioni per cento scuole di “seconda occasione”, che offrono un’altra possibilità a chi ha abbandonato. Così come altri 400 milioni per gli asili nido, ancora al sud, in modo da dare cura all’infanzia e possibilità a molte donne di poter lavorare nel tessuto produttivo nazionale.

Non è mia intenzione rifugiarmi dietro un elenco notarile, che pure è costato tanta fatica e segnala una precisa scelta politica, per eludere il nodo da voi evidenziato. Mercoledì in Consiglio dei ministri non proporrò certo provvedimenti sul premio a chi si impegna nella scuola alternativi allo sforzo, che invece deve essere sempre più intenso, per fare della scuola un mondo dove nessuno è lasciato indietro, a cominciare dai più deboli e svantaggiati. Questi provvedimenti li intendo invece come del tutto complementari. Così come prevede l’articolo 34 della nostra Costituzione. Mantenendo la giusta proporzione fra i diversi obiettivi: impegniamo qualche decina di milioni per le misure a favore dell’impegno nell’eccellenza, e più di un miliardo di euro per la scuola di tutti.

Questa è anche la logica che lega il nostro impegno per la scuola a quello per l’università, che pensiamo indissolubilmente congiunti. E’ in questa prospettiva, per esempio, che abbiamo previsto una presenza non occasionale dei docenti universitari nelle scuole e forme più efficaci di orientamento. Il tipo di scuola e di università che il governo intende promuovere non è quello dove vi è posto solo per i più bravi, ma al contrario quello dove la centralità della funzione didattica viene esaltata a vantaggio di tutti. E questo lo si può fare solo se si concepiscono diritto allo studio e misure premio per chi si impegna di più come due facce della stessa medaglia di una scuola moderna, europea ed inclusiva.

Per questo ho inteso lavorare in queste settimane prima ad un provvedimento sul potenziamento del diritto allo studio universitario, dove nell’appena pubblicato decreto legislativo n. 68 del 29 marzo 2012 le risorse disponibili sono passate da 110 milioni di euro a quasi 150, per poi proporre un pacchetto di misure premiali per chi si impegna nel sistema formativo, sia da studente sia da professore.

Non sempre è stato così, nella storia della cultura politica dei partiti e in quella sindacale, dove pure grande è l’attenzione per la coesione sociale e a non lasciare nessuno indietro. Questa esclusività e visione di due sistemi come alternativi poteva essere forse vera qualche decennio fa, in tutt’altro contesto economico e politico, prima della globalizzazione. Oggi non lo è più, ed è la stessa Europa – è stata la commissaria europea in visita a Roma a dirmelo con grande decisione – a volere da noi una modernizzazione della nostra visione della formazione.

Quel che stiamo facendo, però, non lo facciamo solo per l’Europa o perché qualcuno ce lo impone. Lo facciamo per un dovere di fedeltà alla nostra Costituzione e ai valori di eguaglianza, di dignità e di opportunità in essa sanciti. La rinuncia della scuola e dell’università italiane a valorizzare al suo interno i “capaci e meritevoli” rappresenta una scelta di fatto – anche se non di diritto – elitaria e discriminatoria proprio nei confronti dei più deboli. Se la scuola e l’università rinunciano a fornire a chi ne potrebbe usufruire e a chi si impegna in esse possibilità formative di “eccellenza”, di fatto le lascia alla pura forza di chi ha una famiglia alle spalle che se le possa permettere.

L’antagonismo ideologico tra equità e merito non ha più ragion d’essere nel mondo globalizzato di oggi e si rivela sempre più una scelta di classe a favore dei ricchi, indipendentemente dal loro merito e dall’apporto che sapranno portare all’intero paese. La competizione di un volta tra sistemi nazionali è divenuta oggi anche competizione mondiale tra individui e noi italiani non possiamo fare a meno di confrontarci seriamente con questo passaggio d’epoca.

Lo ripeto: diritto allo studio e misure premio per chi si impegna di più sono due facce della stessa medaglia di una scuola moderna, europea ed inclusiva. Ne sono davvero convinto. Certo, non è un concetto di immediata intuizione, perché il diritto allo studio è universale, mentre il premio è per sua natura selettivo. Ma sono sicuro che, esaminando nel merito tutte le proposte, su cui sono sempre aperto al confronto, potrete riconoscere che la filosofia che le innerva non è quella di un modello elitario e spietato, bensì quello di una democrazia aperta e attenta soprattutto ai più deboli. Solo così potremo fare il bene allo stesso tempo del nostro paese e dei nostri ragazzi. E a questo modello inclusivo ma flessibile intendo lavorare nei mesi che rimangono del mio incarico, spero con il vostro sostegno.

A presto Francesco Profumo

da Retescuole 05.06.12

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“Ma la vera partita è sui fondi alle scuole migliori” di Alessandra Ricciardi

La riforma del merito riguarda il merito degli studenti e quello delle scuole. Basta la medaglietta allo studente dell’anno a giustificare l’alzata di scudi di sindacati e Pd contro la proposta sul merito di Profumo? Certo, c’è un discorso di fondo che attiene al senso di scuola come comunità, perché innescare tra gli studenti l’emulazione verso i migliori deve significare anche innalzare la qualità del gruppo-classe. E però. Nella bozza che ha letto ItaliaOggi, all’articolo 5 spunta la «valorizzazione del sistema scolastico»: la riforma del merito riguarda il merito degli studenti e quello delle scuole. Su questo tema già Mariastella Gelmini aveva avuto filo da torcere, la valutazione delle scuole alla fine è stato avviata sotto forma di sperimentazione. E uno dei progetti, quello che dava premi ai singoli docenti migliori, dopo aver scontato grandi difficoltà nel trovare adesioni, è stato bloccato. Va avanti la valutazione delle perfomance dell’istituto. La proposta Profumo ridisegna il sistema. Prevede che le scuole siamo valutate in base all’offerta di percorsi per le certificazioni delle lingue straniere, ai risultati ottenuti nella prevenzione dell’abbandono scolastico e formativo e nel contrasto all’insuccesso scolastico, e alla luce «del numero degli alunni che hanno partecipato alle fasi provinciali e regionali delle Olimpiadi» a cui accedono i più bravi. Nel novero dei criteri di valutazione, la collaborazione con istituzioni culturali e soggetti imprenditoriali e la partecipazione a progetti comunitari. Ma a cosa servono le valutazioni? A conoscere i punti di forza e di debolezza degli istituti, ma potenzialmente anche a diversificare i finanziamenti. In Inghilterra, per esempio si penalizzano le scuole peggiori in quanto a perfomance. Questo il decreto Profumo non lo diceva, ma il timore che si andasse a parare in quella direzione era diffuso.

da ItaliaOggi 05.06.12

"Basta una spruzzatina di profumo?", di Maurizio Tirittico

Ma perché i nostri ministri pensano sempre “in piccolo”? Possibile che l’ultimo ministro che ha pensato “in grande” è stato Giovanni Gentile? Seguito – è vero – da due ambiziosette… Moratti e Gelmini… ma solo il primo ha lasciato un segno che ancora non riusciamo a doppiare!!! Ma perché i nostri ministri “maschi” PI si sentono sempre ministri a tempo? Perché non guardano un po’ più lontano dal loro naso? Lo so! Il momento è grave e non c’è una lira, ma quel poco che si può spendere è proprio necessario sperperarlo in medagliette per i primi della classe? Ho già scritto su FB che premiare i migliori quando uno stadio è impraticabile equivale a promuovere gare di cui già si sa chi sono i vincitori! Io penserei allo stadio prima che agli atleti! E’ come dare una medaglia a chi è sopravvissuto alla mitraglia nemica! Si premia il vivo e non si contano i morti! Per loro c’è sempre un bel Vittoriano! Ad perpetuam rei memoriam! Così va il mondo, anche con un governo tecnico…

Ma non finisce qui! Ci sarebbe un’altra bella pensata, se non ho letto male! Pare che il Ministro abbia detto a proposito dei nuovi concorsi: “Ci sarà un test preselettivo e chiederemo la simulazione di una lezione: dobbiamo valutare quanto i futuri docenti sapranno farsi capire dai ragazzi. Devono essere competenti e pure capaci”. Anch’io ai miei tempi ho fatta la mia bella lezione di fronte alla commissione perché valutasse se sapessi presentare un argomento a una data classe di ragazzini fantasma! Nulla di più falso! Sapevo anche allora – occupandomi un po’ di comunicazione, di scambi linguistici interpersonali, di microteaching – quanto sia falso fare una lezione per alunni di fronte a una commissione di adulti saccenti e pronti soltanto a scovare il punto debole della tua dissertazione! Almeno a quei tempi ancora si credeva – io no, certamente – alla lezione cattedratica, ma oggi non è più così! O non dovrebbe essere così!

In tutte le salse diciamo e scriviamo quanto sia inutile e improduttiva la lezione cattedratica. Comunque, so che è bene esporre alunni a momenti di “informazione discendente”, anche perché nella vita situazioni di questo tipo esistono né si possono ignorare (le relazione annuali in sede di Csm o della Banca d’Italia, o anche quella del sindacalista di turno o dell’amministratore del condominio), ma ciò non significa che questo modello debba essere l’unico. Eppure pare che sia l’unico strumento di lavoro che un insegnante debba proporre! O lezione o morte!

Ho adottato da tempo la metafora dell’insegnante muto, di un insegnante che meno parla, più fa fare e più ottiene successo! Ormai abbiamo scritto dappertutto che la didattica produttiva è quella laboratoriale, quella, cioè, in cui si fanno scoprire le “cose” agli alunni, invece di dirgliele! L’insegnante non deve spiegare come si trova l’area del rettangolo! Basterebbe pensare a dipingere le pareti dell’aula in cui si vive! O a rifarne il pavimento! E’ la via perché gli alunni scoprano che cos’è un’area e come si calcola! Per non dire del “gioco” delle mattonelle! Sono quadrate o rettangolari? E quante sono? E se poi c’è uno spiazzo di terra incolta nel cortile della scuola… hai voglia a perimetri, aree… quante aiuole vogliamo fare? E in ciascuna quante piante? E bisogna pure innaffiarle! Quanta acqua? Quando e in quali tempi? Altro che il solito rubinetto che deve riempire la solita vasca! Quante vasche ho riempito alle scuole elementari… e anche al ginnasio… Insomma, per farla breve, è dall’esperienza che si scopre la regola! E’ deleterio comunicarla: “Cari bambini! Oggi vi spiego che cos’è un triangolo, poi vi spiego che cosa sono i lati, che cos’è l’area… se siete buoni, vi dico pure che cos’è l’ipotenusa… i-p-o-t-e-n-u-s-a! State bene attenti e ripetete con me… ” e via dicendo! E poi si danno i compiti a casa per verificare se… hanno capito! Un procedura perversa, da rovesciare! L’insegnante “muto”, infatti, “fa e fa fare”, crea la situazione problematica e “aiuta” per la sua soluzione! E’ l’esperienza concreta e forse chiassosa che deve regnare sovrana, non il silenzio degli alunni e la parola dell’insegnante! Occorrono, invece, il silenzio dell’insegnante e le progressive scoperte degli alunni.

Già sento i miei detrattori! Sì! Va bene per gli alunni delle elementari! A proposito: sono in molti a chiamarle ancora così, anche se non lo sono più… e non devono esserlo! Un tempo lo Stato ti dava i primi elementi del conoscere e poi ti dovevi arrangiare! Oggi non è più così! Lo Stato ti dà due percorsi obbligatori, uno primario e uno secondario! Torno ai detrattori: non va bene per gli studenti liceali! Come fanno a capire la Commedia, se prima non gliela “spiego”? E non dico loro tutto l’ambaradam che c’è dietro, da Aristotele alla Scolastica, ai Francescani e ai Domenicani… e mettiamoci pure Averroè!? E non bastano! Lo so bene! Ci sono migliaia di altre “cose” che consentono e veicolano la comprensione del poema dantesco! Ed è proprio qui che devono convergere più docenti a costruire un percorso, certamente complesso, su cui avviare la ricerca degli studenti. Occorre lanciare stimoli, tracciare vie da percorrere “insieme” a livello di ricerca laboratoriale e pluridisciplinare. E avremo un lavoro senz’altro meno palloso della lectura Danctis esercitata da un insegnante che attore non è e che annoia invece di stimolare! E scopriremo anche lo studente attore che ti legge Paolo e Francesca strappando le lacrime a tutta la classe!

Ovviamente, però, occorre superare i vincoli dati dagli orari e dalle cattedre! E allora, perché il Ministro non si cimenta a considerare come, quando e perché vincoli di questo genere, così nocivi a una didattica diversa, possano essere superati? E forse potrebbero essere superati anche a costo zero! Possibile che abbiamo orari che più o meno sono ancora quelli di Gentile? Se non di Coppino o addirittura di Casati?

Insomma, anche se è tempo di vacche magre, perché non ci adoperiamo per fare cose forse piccole, ma molto più produttive?

da Scuolaoggi.org

"La coppia si separa? Lei rischia la povertà", di Maria Corbi

Rapporto Istat fotografa un nuovo fenomeno Gli esperti: un effetto dell’affidamento condiviso. Che la fine di un matrimonio impoverisca, non solo sentimentalmente, non è certo una novità. Quello che stupisce è che se fino ad oggi a piangere miseria erano soprattutto gli uomini separati, oggi con uno studio pubblicato sull’ultimo rapporto Istat, scopriamo che le più «povere» dopo un addio sono le donne: una su quattro, nei primi due anni dopo la separazione, è a rischio povertà o «deprivazione» (uno su sei gli uomini). Il cambiamento radicale, e spesso improvviso, della loro condizione familiare «genera effetti pontenzialmente rilevanti sulla loro condizione economica». Più a rischio disagio le donne che pagavano l’affitto, ma anche per quelle che avevano l’abitazione in uso o in usufrutto e per quelle che non avevano un’occupazione o che erano occupate a tempo parziale. Due anni dopo l’evento circa il 35% di chi non aveva un lavoro lo ha trovato ma ciò non è bastato a tutelarle: più del 32 per cento è materialmente deprivata e il 26,3% è a rischio povertà.
E quando ci si separa sia lui che lei (26%) tornano a casa da mamma e papà, un porto sicuro e soprattutto economico. Mammoni di ritorno causa fine di un amore. E per i primi due anni da «ex» il 19% riceve un «aiutino» in soldi dai parenti. Non che questo migliori di tanto la situazione. Se si hanno figli minori è peggio.
La buona notizia è che a un certo punto si intravede la fine del tunnel: i rischi, iniziano a calare dopo due anni dalla fine del rapporto coniugale e diminuiscono ulteriormente con il passare del tempo. Il 50% delle donne e il 40% degli uomini «dichiara un peggioramento della situazione economica nei due anni successivi la separazione. Se questa è avvenuta da non più di cinque anni, la percentuale di donne a rischio povertà è pari al 30%, mentre scende al 20 per cento dopo almeno dieci anni dalla separazione».
E adesso chi glielo ai dice ai padri separati sempre pronti a manifestare per denunciare di essere polli spennati da mogli che chiedono troppi soldi e concedono poco tempo con i figli? I dati Istat parlano chiaro. E Adriana Boscagli, uno dei più noti avvocati matrimonialisti italiani, mentre legge i numeri del rapporto annuisce e spiega: «Effettivamente c’è un’inversione di tendenza. E le cause sono diverse. Intanto gli uomini sono stanchi di essere troppe volte defraudati e iniziano a essere fin troppo sulla difensiva, non si fidano più di consegnare parte del proprio patrimonio e del reddito alla ex moglie affinché lo gestisca per sé e per i figli. Poi, con l’affido condiviso molti mariti pensano erroneamente che il tempo di frequentazione padre figli sia l’unica discriminante per quantificare il contributo. Più tempo ci sto meno pago. In realtà è solo uno degli elementi che il giudice deve considerare». Come può salvarsi una donna dalla rovina post separazione? «Il consiglio, continua l’avvocato Boscagli, è quello di consegnarsi al magistrato con una lista dei costi che si dovranno sostenere nella nuova gestione da separata tenendo presente le spese effettuate fino a quel momento per mantenere il menage familiare. In modo da conservare il più possibile il tenore di vita.
Il danno più grave è per quelle donne che hanno subito l’imposizione del marito che le voleva a casalinghe. Ovvero per quelle donne che hanno scelto di abbandonare un lavoro sapendo di poter contare sul maggior reddito del marito. E in entrambi i casi l’uomo deve assumersi le responsabilità economiche di queste scelte. Ma nella versione moderna è meno generoso e in certi casi addirittura ingiusto, non considerando affatto le scelte fatte in passato». 1963, è disoccupato, ma è un idraulico e ha avuto anche una propria famiglia, per poi tornare a vivere con la mamma; Alessandro, classe ‘78, ha lavorato in una pasticceria, anche se dalla casa dei genitori non è mai uscito. Per dimostrarlo, però, papà Vincenzo ha faticato non poco. «Sarebbe bastato un po’ di buonsenso – dice ancora l’avvocato Raneri – dato che parliamo di pensionati, di gente che non nuota certo nell’ oro». Adesso solo alla moglie, che ha una pensione mensile di circa 400 euro, spetterà ancora l’integrazione per gli alimenti.
Per Vincenzo Capuano è comunque l’uscita da un tunnel: «A conti fatti, a me rimanevano 100 euro al mese, o poco più – racconta l’anziano -. Mia sorella non poteva ospitarmi e, se non fosse stato per una signora che prima mi ha dato una stanza a pagamento e poi, quando non ho avuto più un soldo, mi ha ospitato gratis, sarei finito a dormire sotto i ponti, a vivere come un barbone». Anche ora però la situazione non è delle migliori e Capuano vorrebbe tornare a vivere con la moglie separata, Antonina Cimino, di 76 anni: «Mi accontenterei anche di uno sgabuzzino». Difficile però che la richiesta venga accolta: alla base della rottura tra i due ci sarebbe infatti un tradimento avvenuto in tarda età, che l’arzillo vecchietto separato nega, ma che ha incrinato in maniera insanabile i rapporti familiari.

La Stampa 05.06.12

"Il punto di non ritorno", di Michele Prospero

La crisi europea è giunta ormai a un punto di non ritorno. Le élites del vecchio continente sono rimaste senza bussola e arrancano alla cieca, perse dentro uno di quei momenti cruciali, quando la storia pone di fronte ad alternative secche e purtroppo senza appello. O si compie uno straordinario balzo in avanti, e si assume l’integrazione politica come un grande obiettivo realistico, oppure si lascia che le asimmetrie di potenza nascoste dietro la moneta unica condannino un Paese debole dopo l’altro a marcire. Il suicidio dell’Europa è l’esito nefasto delle passate illusioni riposte sulla moneta quale primario e irresistibile collante dei Paesi diversi, cui si sarebbe ben presto aggiunta una automatica coesione politica e culturale. La logica per cui alla integrazione imposta dalle esigenze del ruvido denaro sarebbe prima o poi seguito anche il collante etico non è stata fortunata nei suoi risvolti effettuali. La moneta non soltanto non ha evocato il cuore ma ha assegnato ad alcuni Paesi degli enormi vantaggi competitivi e ad altri ha imposto dei carichi insopportabili.
La moneta ha costruito il volano a delle ineguaglianze clamorose per cui il finanziamento di Paesi come la Grecia, la Spagna, l’Italia costa almeno 5 punti in più della fortunata Germania che si chiude in una fortezza inespugnabile a lucrare il suo invidiabile plusvalore. Dietro i ricatti degli speculatori, che stringono al collo i Paesi deboli dell’Europa evocando gli incubi del fallimento, c’è proprio l’intollerabile differenza di potere (politico ed economico) che si riscontra tra i diversi Paesi che ricorrono alla stessa moneta. Per questo è vano cercare qualche magica alchimia di natura tecnica ed economica ad una crisi che è anzitutto politica e ha a che fare con delle classiche questioni di sovranità.
L’ostruzionismo tedesco contro ogni risposta politica alla crisi è del tutto miope perché cerca solo di lucrare dei vantaggi di posizione ravvicinati e giocarli a favore nella contesa elettorale imminente. È raro però nella storia rintracciare una così vistosa meschinità nella condotta di una potenza regionale che è economicamente egemone ma politicamente strabica. Lo scarto competitivo favorevole non è mai eterno (a chi mai venderà le sue potenti macchine ad elevata tecnologia se l’Europa somiglierà sempre più ad uno sterminato deserto?). E anche il calcolo politico di censurare con un forte tono etico il debito altrui, per tenere così alla larga il contagio populista alle porte, è del tutto illusorio: non si può mai scacciare il populismo da un Paese solo, mentre ovunque la crisi diffonde disperazione e innalza i campioni dell’antipolitica come il solo dio vendicatore.
Neanche la potente (per ora) Germania potrà alla lunga sopravvivere in un’Europa ridotta a cumuli di macerie e con una democrazia sepolta in un sistema dopo l’altro per l’impossibilità di resistere alla follia della speculazione. È una sciocchezza pretendere prove di maturità e di rigore ai Paesi caduti in trappola perché nessun governo ha in mano le chiavi per rispondere con efficacia alla sfida. Ogni Paese è vulnerabile e la sola risposta alla crisi del debito è nell’Europa che non dimentichi (è triste che tocchi ad Obama rammentarlo) la sua scoperta fondamentale, la grande politica.
Nella condizione precaria in cui versa l’Europa, quella di essere un immenso territorio oltre lo Stato, si ripropongono i grandi temi della sovranità moderna, senza ricostruire i tasselli del potere (o centro di comando situato al di là dello Stato-nazione ma pur sempre evocabile in ultima istanza) la moneta unica si converte in un momento di fragilità e vulnerabilità. Accanto a questo progetto di prospettiva, che richiede tempo lungo, si impongono delle scelte politiche contingenti per evitare la catastrofe della vecchia Europa. Una potenza che esercita l’egemonia regionale, come la Germania, è condannata a ragionare in termini politici, non le è consentito di convivere solo con il meschino calcolo dei piccoli tornaconti immediati. La cultura tedesca, e la sinistra tedesca, sono ancora troppo timide in questa partita da cui dipende la democrazia europea.
Eppure senza un mutamento visibile delle credenze, delle culture, degli orientamenti che coinvolga la Germania, il processo politico alternativo avviato già con il successo di Hollande potrebbe trovare degli ostacoli insuperabili.