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"Il necessario rinnovamento", di Claudio Sardo

La drammaticità della crisi sta esasperando i paradossi italiani. Il terremoto dell’Emilia rischia di spezzare il Paese in due, di colpire al cuore una delle comunità più laboriose e solidali, e il nostro dibattito pubblico cosa ci offre? Una furiosa polemica sulla parata del 2 giugno.
La crisi finanziaria torna a far tremare borse, banche e Stati, l’Europa continua a mostrarsi incapace di reagire con efficacia, e da noi che succede? Berlusconi strizza l’occhio a Montezemolo ritirando fuori l’elezione diretta del Capo dello Stato, in Parlamento le riforme istituzionali drammaticamente languono e a sinistra purtroppo il tema più alla moda è la lista civica (ovviamente, ognuno la intende a modo suo e con protagonisti diversi).
Intanto la crisi sociale si fa più profonda. La paura del futuro sta persino cambiando alcuni tratti antropologici. Il disorientamento produce malessere, logora le relazioni comunitarie, spinge ancor più all’individualismo. Soli nella moltitudine. In fondo, soli anche nella ribellione. Forse è un altro paradosso che oggi i sondaggi esaltino Grillo, con tutto il suo carico anti-sistema e anti-euro, quando solo poche settimane fa ci spiegavano che gli italiani stavano tutti con Monti, con i tecnici, con la politica «competente» (intendendo con ciò l’esecuzione di un mandato esterno). Ma può anche darsi che non sia un paradosso, che sia solo incapacità di comprendere quella connessione vitale tra l’impoverimento, l’invecchiamento, lo spaesamento e una politica che conta poco o nulla, che non è più capace di esprimere sovranità democratica.
Sostiene acutamente Giuseppe De Rita che la crisi della politica nasce anzitutto dalla nostra crescente condizione di sudditi. Da cittadini a sudditi di poteri finanziari che dettano le condizioni agli Stati senza passare dal voto. Non ci sarà riscatto della politica, e dunque delle comunità, se non spezzeremo queste catene. L’ideologia iper-democratica di Grillo – che pianifica la distruzione dei corpi intermedi – è tragicamente speculare al populismo di chi ha alimentato, per anni, il mito dell’unto del Signore. I corpi intermedi, tutti, compresi gli Stati nazionali di fronte alla globalizzazione, sono in affanno. Ma l’impresa è esattamente quella di ricostruire un nuovo tessuto di persone e comunità. Un ordinamento civile che abbia nell’Europa, finalmente, una solida pietra angolare, e che rilanci le dimensioni locali, associative, le autonomie sociali secondo principi di sussidiarietà.
Questa è la sfida. Questa è la ragione della politica oggi. Questo è l’orizzonte di ogni partito che intende assumere una dimensione nazionale, e perciò costruisce i necessari legami europei. Per meno di questo, è meglio rinunciare. Senza l’ambizione di cambiare le cose, la politica regredirà inesorabilmente nel piccolo cabotaggio, nell’autoreferenzialità, nel clientelismo, nella corruzione. Cambiare richiede coraggio. E selezione degli obiettivi. La ricostruzione in Emilia, ad esempio, non può non partire dal tessuto produttivo e sociale, scongiurando la delocalizzazione delle imprese, sostenendo da subito il lavoro: per fare questo, se necessario, vanno modificate le regole dei Patti di stabilità. È una necessità vitale. La politica deve imporsi. O subirà una sconfitta storica.
Ciò non vuol dire che bisogna tornare alla spesa pubblica fuori controllo. La politica non è spesa pubblica, come sostengono i liberisti. La politica però è inseparabile da un’idea di pubblico. Che richiami una sovranità più forte di quella del mercato. Le persone valgono di più. È proprio per questo che abbiamo bisogno di più Europa: stiamo vivendo un altro week-end di paura per l’euro e, ad ogni tornante, aumenta la percezione che è in gioco un pezzo della nostra stessa civiltà.
Le elezioni italiane sono all’orizzonte. Le amministrative hanno fatto salire la febbre. Nel centrosinistra cresce la paura di un nuovo ’93. Speriamo che nel confronto si riesca a dare priorità agli obiettivi del programma di governo piuttosto che alle modalità per configurare la rappresentanza politica. Il Pd è nato per questo. Per chiudere quella competizione politologica che negli anni Novanta ha tormentato l’Ulivo e poi spianato la strada alla vittoria berlusconiana. Ma c’è sempre qualcuno che vuole ricominciare daccapo. L’auspicio è che si fermi di fronte alla forza delle cose, alle sofferenze reali di tanti italiani, alla necessità vitale di cambiare il ricettario liberista con nuove politiche del lavoro e della crescita. Peraltro è più facile che venga da qui, e non da tatticismi, la spinta al necessario rinnovamento degli uomini.

La drammaticità della crisi sta esasperando i paradossi italiani. Il terremoto dell’Emilia rischia di spezzare il Paese in due, di colpire al cuore una delle comunità più laboriose e solidali, e il nostro dibattito pubblico cosa ci offre? Una furiosa polemica sulla parata del 2 giugno.
La crisi finanziaria torna a far tremare borse, banche e Stati, l’Europa continua a mostrarsi incapace di reagire con efficacia, e da noi che succede? Berlusconi strizza l’occhio a Montezemolo ritirando fuori l’elezione diretta del Capo dello Stato, in Parlamento le riforme istituzionali drammaticamente languono e a sinistra purtroppo il tema più alla moda è la lista civica (ovviamente, ognuno la intende a modo suo e con protagonisti diversi).
Intanto la crisi sociale si fa più profonda. La paura del futuro sta persino cambiando alcuni tratti antropologici. Il disorientamento produce malessere, logora le relazioni comunitarie, spinge ancor più all’individualismo. Soli nella moltitudine. In fondo, soli anche nella ribellione. Forse è un altro paradosso che oggi i sondaggi esaltino Grillo, con tutto il suo carico anti-sistema e anti-euro, quando solo poche settimane fa ci spiegavano che gli italiani stavano tutti con Monti, con i tecnici, con la politica «competente» (intendendo con ciò l’esecuzione di un mandato esterno). Ma può anche darsi che non sia un paradosso, che sia solo incapacità di comprendere quella connessione vitale tra l’impoverimento, l’invecchiamento, lo spaesamento e una politica che conta poco o nulla, che non è più capace di esprimere sovranità democratica.
Sostiene acutamente Giuseppe De Rita che la crisi della politica nasce anzitutto dalla nostra crescente condizione di sudditi. Da cittadini a sudditi di poteri finanziari che dettano le condizioni agli Stati senza passare dal voto. Non ci sarà riscatto della politica, e dunque delle comunità, se non spezzeremo queste catene. L’ideologia iper-democratica di Grillo – che pianifica la distruzione dei corpi intermedi – è tragicamente speculare al populismo di chi ha alimentato, per anni, il mito dell’unto del Signore. I corpi intermedi, tutti, compresi gli Stati nazionali di fronte alla globalizzazione, sono in affanno. Ma l’impresa è esattamente quella di ricostruire un nuovo tessuto di persone e comunità. Un ordinamento civile che abbia nell’Europa, finalmente, una solida pietra angolare, e che rilanci le dimensioni locali, associative, le autonomie sociali secondo principi di sussidiarietà.
Questa è la sfida. Questa è la ragione della politica oggi. Questo è l’orizzonte di ogni partito che intende assumere una dimensione nazionale, e perciò costruisce i necessari legami europei. Per meno di questo, è meglio rinunciare. Senza l’ambizione di cambiare le cose, la politica regredirà inesorabilmente nel piccolo cabotaggio, nell’autoreferenzialità, nel clientelismo, nella corruzione. Cambiare richiede coraggio. E selezione degli obiettivi. La ricostruzione in Emilia, ad esempio, non può non partire dal tessuto produttivo e sociale, scongiurando la delocalizzazione delle imprese, sostenendo da subito il lavoro: per fare questo, se necessario, vanno modificate le regole dei Patti di stabilità. È una necessità vitale. La politica deve imporsi. O subirà una sconfitta storica.
Ciò non vuol dire che bisogna tornare alla spesa pubblica fuori controllo. La politica non è spesa pubblica, come sostengono i liberisti. La politica però è inseparabile da un’idea di pubblico. Che richiami una sovranità più forte di quella del mercato. Le persone valgono di più. È proprio per questo che abbiamo bisogno di più Europa: stiamo vivendo un altro week-end di paura per l’euro e, ad ogni tornante, aumenta la percezione che è in gioco un pezzo della nostra stessa civiltà.
Le elezioni italiane sono all’orizzonte. Le amministrative hanno fatto salire la febbre. Nel centrosinistra cresce la paura di un nuovo ’93. Speriamo che nel confronto si riesca a dare priorità agli obiettivi del programma di governo piuttosto che alle modalità per configurare la rappresentanza politica. Il Pd è nato per questo. Per chiudere quella competizione politologica che negli anni Novanta ha tormentato l’Ulivo e poi spianato la strada alla vittoria berlusconiana. Ma c’è sempre qualcuno che vuole ricominciare daccapo. L’auspicio è che si fermi di fronte alla forza delle cose, alle sofferenze reali di tanti italiani, alla necessità vitale di cambiare il ricettario liberista con nuove politiche del lavoro e della crescita. Peraltro è più facile che venga da qui, e non da tatticismi, la spinta al necessario rinnovamento degli uomini.

L’Unità 03.06.12

"Una leggina salva gli abusi alle falde del Vesuvio", di Gian Antonio Stella

Sotto il Vesuvio non ci vogliono pensare, agli scenari da incubo disegnati dagli esperti e a tutti i discorsi di questi giorni sulla prevenzione contro i disastri. Peggio: in Regione stanno discutendo su come rimuovere un po’ di vincoli nella «zona rossa». Bollata da qualche sindaco come «una legge criminale che ha ucciso l’economia».È dal 19 marzo 1944 che il vulcano appare a riposo. Quando la statua di San Gennaro, racconta l’ufficiale inglese Norman Lewis nel libro «Napoli 1944», fu portata nella cittadina di San Sebastiano al Vesuvio nascosta sotto un lenzuolo, di riserva, pronta a fermare la lava, come avvenne, nel caso non fosse bastato l’intervento del santo patrono ufficiale, appunto San Sebastiano.

Fino ad allora, dall’Unità d’Italia il Vesuvio aveva già brontolato più o meno spaventosamente nel 1861, 1867, 1872 (quando era stato distrutto lo stesso paese di San Sebastiano), 1891-95, (quando si era formato il colle Margherita, 1895-99 (quando era nato il colle Umberto) e poi ancora nel 1906, quando era stata devastata Boscotrecase e infine nel 1929. Quelli che nel 1944 erano bambini, se lo ricordano bene, l’incubo. Ma lo hanno rimosso. E nonostante gli spaventi del sisma in Irpinia e del bradisismo a Pozzuoli, troppa gente vive da decenni il Vesuvio come se non fosse un vulcano, ma una montagna.

E vive dunque i vincoli imposti ai 18 comuni della «zona rossa» come un’angheria imposta alla povera gente dalla «politica». C’è un condono? Non si può usare. Ne arriva un altro? Non si può usare. Col risultato che un pò di politici ha individuato nella guerra alle regole antisismiche una strategia per andare a batter cassa dagli elettori. Come il sindaco di Sant’Anastasia, Carmine Esposito, che da anni si è auto-nominato nemico numero uno della «truffa confutabile a livello scientifico» e qualche settimana fa si è spinto ad affiggere manifesti che dicevano: «Zona rossa, finalmente si cambia». Posizione condivisa da qualche parlamentare come il senatore pidiellino Carlo Sarro che a fine marzo tuonò: «Quello che si sta consumando in Campania è un dramma culturale, una vicenda segnata da una profonda ingiustizia. Ci sono 67.000 sentenze di demolizione e questo fa capire come sia drammatica la situazione».

Tutte case abusive. Ma «le associazioni spesso continuano a diffondere l’idea che l’abusivismo è uguale a criminalità, ma è una mistificazione gigantesca. Dietro la scelta forzata di costruire case abusive ci sono sacrifici, investimenti frutto del lavoro di famiglie». Sono in zone ad altissimo rischio sismico? E vabbè… Ed ecco che proprio in questi giorni, come denuncia l’ex l’assessore Marco Di Lello, autore del progetto «Vesu-via» che dava 30mila euro a chi se ne andava comprando casa fuori dalla «zona rossa» e tolse tutti i benefici fiscali così da rendere più cari gli affitti e fare invecchiare il patrimonio edilizio e buttò giù qualcuna delle migliaia di opere abusive dentro il parco, in Regione discutono di un disegno di legge che spazzerebbe via una serie di vincoli.

Una leggina stupefacente. Soprattutto di questi tempi di lutti e macerie in Emilia. Non solo rimuove il vincolo di inedificabilità assoluta nella fascia di rispetto di un chilometro intorno all’antica Velia, nel parco del Cilento. Non solo stravolge il Piano Urbanistico Territoriale della penisola sorrentina limitando i vincoli alle spalle della Costiera Amalfitana nonostante sia un’area a forte rischio idrogeologico teatro di tragedie come qualche anno fa la frana di Nocera Inferiore. Ma, accusa Di Lello, deforma pesantemente «la legge regionale 21 del 2003 che sancisce il divieto assoluto di rilascio di titoli abilitativi (permessi a costruire, Scia e Dia) a fini abitativi nella zona rossa vesuviana così come perimetrata dalla Pianificazione d’emergenza della Protezione Civile». Per capirci, prendiamo le parole proprio di Carmine Esposito che si vanta del successo: «Non vogliamo aumentare il carico abitativo. Questo però non vieta la possibilità di fare nuove abitazioni nel rispetto idrogeologico del territorio» Sic… Di che genere di territorio si tratti lo lasciamo dire al vulcanologo Franco Barberi: «Non esiste al mondo una località a più alto rischio vulcanico, considerando l’abnorme concentrazione edilizia spintasi fino a poche centinaia di metri dal cratere».

Sostengono gli scienziati che da molti anni il vulcano è «tranquillissimo» ma «prima o poi dovremo fare i conti con una nuova eruzione». Il materiale incandescente se ne sta pressato a una profondità di otto chilometri. Questo sarebbe un bene e un male: prima di spingere forsennatamente verso l’alto per cercarsi una via d’uscita il magma dovrebbe dare dei segnali via via più chiari dando qualche tempo per l’evacuazione che, stando al piano della protezione civile del 2004, dovrebbe portar via 12 giorni. Basteranno? Erosa la spinta, lo strato di lava «salterebbe come un tappo di champagne».«Una volta aperto il condotto», scrive il vulcanologo Gianni Ricciardi dell’Osservatorio Vesuviano in un saggio che sta per essere pubblicato, «si formerà una colonna eruttiva che potrà raggiungere un’altezza di oltre dieci chilometri. La parte alta della colonna pliniana, meno densa, sarà spinta secondo la direzione dei venti prevalenti d’alta quota e da essa si avrà caduta di particelle al suolo. La parte bassa della colonna, più densa, collasserà generando correnti piroclastiche, che scorreranno, seguendo la morfologia, lungo i fianchi del vulcano, a grande velocità e con elevato potere distruttivo.

Probabili piogge indotte dalle perturbazioni delle condizioni atmosferiche causate dall’eruzione, potranno mobilizzare il materiale piroclastico depositato lungo le pendici del vulcano, provocando colate di fango e alluvionamenti durante e anche a eruzione finita».Un’apocalisse. La «zona rossa» dei 18 comuni circumvesuviani «è soggetta a distruzione pressoché totale, a causa dello scorrimento di correnti piroclastiche, colate di fango e alla ricaduta imponente di ceneri, bombe e lapilli». La «zona gialla», un migliaio di chilometri quadrati comprendenti 96 comuni di cui 34 della provincia di Napoli, 40 di quella di Avellino, 21 di quella di Salerno ed 1 della provincia di Benevento «potrebbe essere interessata da un’importante ricaduta di cenere e lapilli, con carichi superiori a 200 kg/m2». Da brividi.

Eppure, spiega lo scienziato nel suo lavoro intitolato «Le eruzioni del Vesuvio dal 1861 al 1944. Cosa ci aspetta?», quella «zona rossa» così pericolosa ha visto aumentare, incredibilmente, la sua popolazione. Lo scriveva già lo storico vesuviano Silvio Cola nel 1958: «Dopo l’ultima eruzione del 1944, il Vesuvio non ha dato più segno di attività, lasciando in una perfetta calma gli abitanti dei Paesi nascenti alle sue falde, i quali, per nulla preoccupati delle sorprese che potrebbe dare il terribile vulcano, quasi dappertutto, fanno sorgere, continuamente, grandi fabbricati e magnifiche ville».

Al primo censimento del 1861 la popolazione vesuviana era di 107.255 persone, concentrate quasi tutta sulla costa. Dieci anni fa, al censimento del 2001, erano 530.849. Oggi, secondo Ricciardi (anche se i dati provvisori dell’Istat non concordano) sarebbero 580.913. Hanno sotto gli occhi le rovine di Pompei, Ercolano, Oplontis. Hanno conosciuto dai nonni i racconti delle grandi paure di qualche decennio fa.Guardano il vulcano, sospirano e fanno spallucce.

Il Corriere della Sera 03.06.12

"Centrodestra in picchiata Grillo ormai tallona il Pdl Pd primo partito al 27,5%", di Roberto Biorcio e Fabio Bordigon

La pesante sconfitta subita, alle recenti amministrative, dalla ex-coalizione di centrodestra ha provocato un cambiamento degli orientamenti di voto impensabile fino a poche settimane fa. Il Pdl, in caduta libera insieme alla Lega, vede minacciato il suo ruolo di principale avversario del centrosinistra. Il Pd consolida il suo primato tra le forze politiche, ma non riesce ad attrarre nuovi consensi. A rendere più incerto il quadro politico concorrono l´aumento dell´astensionismo, la sfiducia verso i partiti e la progressione del Movimento 5 Stelle. I dati dell´Atlante politico di Demos confermano, inoltre, la netta flessione dell´apprezzamento per il governo nei primi mesi del 2012.
Il Pdl e la Lega raccoglievano più del 45% dei voti nel 2008 (e ancora nel 2009): questo bacino di consenso appare oggi dimezzato (22%). La formazione di Alfano perde sei punti rispetto alla precedente rilevazione (17%), mentre molti ex-elettori del partito si collocano nella zona grigia – che si attesta al 41% dei potenziali elettori – dell´incertezza e della possibile astensione. Nel caso della Lega (4,6%), il peso elettorale si è ridotto alla metà in due soli (travagliati) mesi. Grava, su tutta l´area del centrodestra, la delusione per l´epilogo dell´ultima esperienza di governo, e il declino dei leader storici: Bossi e Berlusconi sono precipitati agli ultimi due posti nella graduatoria delle personalità politiche.
I vincitori della recente tornata elettorale, nelle opinioni degli italiani, sono stati due: la coalizione di centro-sinistra guidata dal Pd e la lista di Beppe Grillo. Il Movimento 5 Stelle (stimato oggi al 16%) ha triplicato in pochi mesi i suoi consensi, dando espressione alle proteste contro i partiti e le politiche del governo, ma anche alle domande di cambiamento e di ascolto per i problemi dei cittadini. Il Pd (27,5%) si conferma primo partito, e insieme alle altre formazioni di centrosinistra mantiene un´area di consenso superiore al 44%. Tuttavia, la coalizione che alle recenti consultazioni si è affermata in molti comuni appare, per ora, incapace di allargare il proprio bacino elettorale.
Allo stesso modo, i partiti del Terzo Polo, che sostengono con grande convinzione il governo Monti, non sono riusciti a intercettare i voti in uscita dall´area di centro-destra. Le preferenze per l´Udc (7,2%) e per Fli (2,5%) si sono anzi lievemente ridotte.
D´altra parte, la luna di miele tra l´esecutivo e gli italiani appare da tempo conclusa. Tra marzo e aprile i giudizi positivi sul governo sono scesi di circa venti punti, e fanno segnare una lieve ripresa nell´ultimo sondaggio (45%). Nonostante i forti malumori suscitati dai provvedimenti in materia economica e fiscale, Monti continua a beneficiare della speranza diffusa che il governo ci possa traghettare fuori dalla crisi – opinione però in evidente calo rispetto a marzo. Così, l´apprezzamento per il Presidente del Consiglio (52%) e per i suoi ministri – sebbene ridotto di oltre dieci punti – resta superiore a quello degli altri leader politici.

La Repubblica 02.06.12

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“Il partito che non c´è”, di ILVO DIAMANTI

È un Paese sospeso, quello che emerge dal sondaggio dell´Atlante Politico di Demos. Un Paese spaesato, in cerca di prospettive politiche ancora incerte. E per ora, comunque, insoddisfacenti. Il governo, dopo il sensibile calo di fiducia subìto fra marzo e aprile (circa 20 punti in meno), sembra aver recuperato consenso, fra i cittadini. Oggi il 45 per cento degli italiani ne valuta positivamente l´operato. Una quota elevata, se si pensa alle difficoltà economiche e sociali del periodo. E al malessere suscitato dalle politiche fiscali, in particolare dall´Imu, giudicata negativamente dal 70 per cento degli intervistati. Se si pensa, inoltre, che quasi il 50% degli italiani giustifica le proteste – talora clamorose – contro Equitalia. Nonostante tutto ciò, una consistente maggioranza della popolazione (60%) continua a credere che, alla fine, il governo “ce la farà” a condurci fuori dalla crisi. E per questo, probabilmente, ne sopporta le scelte, per quanto con insofferenza. D´altronde, Monti stesso, personalmente, è giudicato positivamente da oltre il 50% degli intervistati. E si conferma, quindi, il leader “politico” più affidabile, presso gli italiani. Molto più di qualunque altro leader di partito o aspirante tale. Da Bersani a Di Pietro, passando per Fini, Casini e Montezemolo. Mentre la popolarità di coloro che avevano guidato la maggioranza di governo per circa un decennio, Berlusconi e Bossi, è scesa ai minimi storici. La perdita di credibilità personale – e familiare – di Bossi ha coinvolto tutta la Lega. Compreso Maroni. Da ciò la crisi che ha affondato il centrodestra, attualmente privo di leadership ma anche di riferimenti politici.
Gli orientamenti di voto riflettono questo senso di spaesamento, rivelato – e accentuato – dalle recenti amministrative. Segnalano, in particolare: a) lo sfaldamento del Pdl, ormai dimezzato, rispetto alle elezioni politiche del 2008; b) la frana della Lega scivolata poco sopra il 4%, come 10 anni fa; c) Mentre il Pd e l´Idv tengono bene, anche se non riescono a intercettare lo sfarinamento dei partiti di centrodestra. Il Pd, in particolare, si conferma primo partito in Italia. D´altronde, secondo gli intervistati, è la formazione politica che si è rafforzata maggiormente, in seguito alle elezioni amministrative. d) Insieme, ovviamente, al Movimento 5 Stelle (M5S), promosso e ispirato da Beppe Grillo. Il quale, dal punto di vista elettorale, è stimato oltre il 16%, poco al di sotto del Pdl. Il successo alle recenti amministrative ha contribuito ad allargare ulteriormente la sua base elettorale. Il M5S è divenuto, infatti, il collettore privilegiato dell´insoddisfazione sociale verso il sistema partitico. Un sentimento generalizzato, che non dà segni di rallentamento.
Oltre il 40% degli intervistati, infatti, vede nella “protesta contro i partiti” la principale ragione di successo del Movimento. Una valutazione condivisa anche dal 27% degli elettori del M5S, i quali, però, danno maggiore importanza ad altri argomenti: l´estraneità dei candidati alle logiche di potere e la concretezza dei programmi proposti ai cittadini. Resta, comunque, l´incognita sulla capacità del Movimento di “tenere” la scena politica, oltre a quella elettorale. Soprattutto, oltre i confini locali. Infatti, quasi metà degli italiani (la maggioranza) ritiene il M5S in grado di “amministrare” le città e il territorio. Ma quasi 7 persone (e 4 elettori del M5S) su 10 non lo considerano capace di governare, a livello nazionale.
Da ciò l´impressione di un Paese sospeso. In attesa di un cambiamento ancora incompiuto. A cui Grillo e il M5S hanno offerto una risposta, uno sbocco. Sfruttato da molti elettori che, in un primo tempo, non li avevano presi in considerazione. Non è un caso se, rispetto a un mese fa, l´elettorato del M5S ha modificato sensibilmente il profilo sociopolitico. In particolare, al suo interno sono aumentati: a) gli elettori dei comuni medio-piccoli; b) le persone di età medio-alta; c) le componenti di centro-destra; d) gli elettori provenienti dalla Lega e dal Pdl. In altri termini: il M5S ha intercettato il disagio diffuso fra gli elettori. L´ha canalizzato, dandogli visibilità. Ma senza risolverlo.
La domanda di cambiamento politico, infatti, resta molto estesa, al punto che circa un terzo degli elettori sostiene che, se si presentasse un partito “nuovo”, guidato da un leader “nuovo” e “vicino alla gente”: lo voterebbe “sicuramente”. Si tratta di un orientamento trasversale. Particolarmente accentuato nella base elettorale dei soggetti politici che in precedenza detenevano il monopolio della rappresentanza del “nuovo”, come la Lega. Ma anche l´Idv e Sel. Tuttavia, questo orientamento appare ampio anche fra gli elettori dell´Udc, alla ricerca, da tempo, di un modo – e di uno sbocco – per uscire dal “centro”, che rischia di trasformarsi in un ghetto. Schiacciato da destra, sinistra e, ora, anche dal M5S.
Siamo, dunque, in una fase fluida. Il “mercato elettorale” è instabile, in cerca di un´offerta politica adeguata. Che stenta a delinearsi. Così cresce la voglia di “nuovo”. Anche se per gran parte degli elettori (quasi sette su dieci) il “nuovo” è il “vecchio” rivisto e ri-qualificato. Per cui si traduce, anzitutto, nella domanda di “rinnovamento” degli attuali partiti. Ma il “rinnovamento”, per la grande maggioranza degli elettori (il 61%), significa “ricambio e svecchiamento” della classe dirigente.
D´altra parte, fra i motivi che hanno favorito il M5S alle recenti amministrative, un ruolo importante è stato sicuramente giocato dalla figura e dall´immagine dei candidati. Giovani e preparati. Estranei a lobby e interessi. In grado di esprimere opinioni competenti sulla realtà locale. Senza slogan e senza retorica.
Ciò suggerisce che, per rispondere all´insofferenza verso i partiti, che si respira nell´aria, non sarebbero necessarie grandi rivoluzioni – politiche e antipolitiche.
Basterebbe che i principali partiti attualmente presenti sulla scena politica fossero in grado di rinunciare alle logiche oligarchiche e centralizzatrici che li guidano.
Basterebbe che offrissero maggiore spazio e ruolo ai dirigenti e ai militanti giovani, presenti e impegnati sul territorio. (Ce ne sono molti, nonostante tutto, ma vengono puntualmente scoraggiati.)
Basterebbe.
Ma non ne sono capaci. Così, avanza la richiesta del Nuovo-a-ogni-costo. Ormai, un mito, più che una rivendicazione. Travolge tutto. E rende la “nostra” Democrazia: “provvisoria”. La Politica e i partiti: inattuali.

La Repubblica 03.06.12

"L'arte di ricostruire con le stesse pietre", di Paolo COnti

Si chiama «anastilosi». Gli esempi di Noto, Assisi e San Giorgio al Velabro «Ricostruire com’era e dov’era». Una frase che si è sentita spesso, di fronte alle macerie di torri e chiese, durante questo ultimo tragico terremoto. Espressione ormai abbastanza comune, usata per indicare una precisa scelta tecnico-estetica: riedificare, identico all’originale, un bene architettonico crollato dopo un terremoto, un bombardamento, o un attentato, come avvenne per San Giorgio al Velabro a Roma, chiesa fondata nel VII secolo: la sua facciata duramente ferita da una bomba di Cosa Nostra la notte del 27 luglio 1993 fu ripristinata dopo un lungo, pazientissimo lavoro.
In realtà, «Com’era e dov’era» fu il fortunatissimo slogan scelto dal comitato presieduto dal grande critico d’arte Bernard Berenson, ideato dall’antiquario Luigi Bellini e che coinvolse Firenze, dal 1953 al 1958, in un grandioso progetto: restituire a Firenze il ponte Santa Trinita di Bartolomeo Ammannati (seconda metà del ‘500) distrutto dai nazisti in ritirata il 4 agosto 1944. Ci fu una mobilitazione internazionale. L’American Council of Learned Societies inviò preziosi libri antichi con fonti su misure e riproduzioni esatte. L’architetto Riccardo Gizdulich, ex capo partigiano, diresse i complessi lavori e il 16 marzo 1958 il ponte tornò ai fiorentini. Tutta la città festeggiò simbolicamente la definitiva conclusione dell’emergenza legata alla guerra.
Fu un caso classico, davvero da manuale, di anastilosi (in greco «riedificazione»), ovvero il recupero di un bene architettonico rialzato con i propri stessi materiali caduti a terra, a partire dalle pietre.
Per il ponte dell’Ammannati furono infatti riutilizzate le pietre-forti originali, ripescate nell’Arno, poi numerate. Così come furono ritrovate in acqua le statue delle quattro stagioni del 1608. Il professor Paolo Rocchi, titolare di Consolidamento degli edifici storici all’università di Roma (vincitore del concorso per il progetto di ricostruzione della chiesa di San Gregorio Magno a L’Aquila, si sta occupando anche del progetto strutturale per il Duomo dell’Aquila) propone questa definizione per l’anastilosi: «Rimontare una struttura con i materiali originali curando che, nel rimontaggio, non si alteri rispetto all’originale».
L’anastilosi venne usata, per esempio, negli anni Cinquanta (tra mille polemiche) per il Tempio E di Selinunte, distrutto con gli altri templi da un terremoto probabilmente nel secolo X. Si può lavorare anche per blocchi interi: per San Giorgio al Velabro, come spiega l’architetto Andrea Valerio Canale dello studio Rocchi, «uno degli architravi era crollato restando quasi integro, venne consolidato a terra e ricollocato». Anastilosi anche nel caso internazionale del ponte di Mostar, del XVI secolo, bombardato dalle truppe croato-bosniache nel 1993 e restituito alla sua bellezza nel 2004. Stessa tecnica per un indiscusso capolavoro del ripristino e, insieme, eloquente simbolo della tenacia di una comunità: il duomo di Venzone in Friuli, distrutto dal terremoto del 1976 e ricostruito tra il 1988 e il 1995. Identico discorso per la loggia del Palazzo della Mercanzia a Bologna, del 1300, danneggiata da una bomba inesplosa poi fatta brillare, riedificata subito dopo la Seconda guerra mondiale. Altro risultato straordinario la cattedrale di Noto, crollata nel 1996 anche in seguito al terremoto del 1990, ritenuta perduta per molto tempo ma poi rinata nel 2007 grazie a un’operazione di eccellente qualità e rigore filologico, un caso ormai studiato nel mondo. Ma sono solo alcuni esempi tra i molti altri possibili.
Non sempre l’anastilosi, nel senso più puro e tecnico del termine, è possibile. Dice Rocchi: «Nei tanti dolorosi casi di danni prodotti ai beni culturali da questo terremoto, si può immaginare una ricostruzione fedele all’originale, in parte realizzata con i materiali lasciati più integri dal crollo. Ma sarà difficile sperare di poter trovare blocchi corposi per una vera anastilosi. Chiese e torri della zona, da come ho potuto vedere dalle immagini, erano tutti costruiti in piccoli, normali mattoni». In quel caso si può rialzare la struttura con materiali simili all’originale e sottolineando visivamente l’intervento contemporaneo.
Rocchi contesta la tesi di chi parla di «falso» di fronte a una riproposizione di ciò che si è perduto: «La parola “falso” presuppone il deliberato progetto dell’inganno. Quando si decide per la ricostruzione com’era e dov’era, quindi attenendosi ai progetti e alle fonti iconografiche, non solo non c’è quella volontà ma anzi si sottolinea l’intenzione di aderire pienamente al modello». Questo è avvenuto a Rocchi alla Basilica di San Francesco ad Assisi, soprattutto nella ricollocazione delle tre vele (una affrescata da Giotto, una da Cimabue, e un cielo stellato) di due diverse campate crollate nel terremoto del 1997: duecento metri quadrati di superficie e 220 mila frammenti pittorici rimessi al loro posto dei 300 mila recuperati (Giotto è quasi reintegrato).
Intanto al ministero dei Beni culturali c’è molta preoccupazione: il Consiglio dei ministri, mercoledì scorso, non ha varato l’atteso decreto legge con i primi stanziamenti urgenti destinati al recupero del patrimonio artistico devastato dal terremoto. Al dicastero retto da Lorenzo Ornaghi si aspettava una cifra tra i 30 e i 40 milioni di euro. Non c’è nemmeno il via libera per rimodulare una parte della spesa corrente e destinarla alle missioni straordinarie per la valutazione dei danni: sarebbe urgente disporre di 500 mila euro di fondi già a disposizione del ministero ma che vanno, appunto, «rimodulati» e indirizzati all’emergenza terremoto. E ancora: chi ricostruirà tutte le chiese cadute? Lo Stato concorrerà sicuramente in quota parte. Ma il maggior peso economico graverà sulle diocesi e, quindi, sulla Conferenza Episcopale Italiana. Ma con quali fondi?

Il Corriere della Sera 03.06.12

La linea del governatore «Case sfitte ai terremotati», di Francesco Alberti

Qui non passa il «modello dell’Aquila». Niente new town o casette prefabbricate per dare un tetto agli sfollati. La strada scelta è quella di pescare nel grande mare degli immobili sfitti per togliere al più presto dalla precarietà le 17 mila persone alle quali la doppia scossa del 20 e del 29 maggio ha reso inagibili le abitazioni. Un’idea che il presidente dell’Emilia-Romagna, il pd Vasco Errani, sta soppesando da giorni e che ieri ha reso pubblica, pur consapevole della delicatezza del tema. «La prima cosa da fare — ha detto il governatore durante l’incontro a Marzaglia con i tre leader sindacali, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti — è avere l’esatto numero delle case danneggiate. Poi scatterà la fase due: trovare una soluzione dignitosa e di qualità per la popolazione. L’idea, se ci sono le condizioni, è quella di utilizzare il patrimonio immobiliare sfitto, di cui stiamo già facendo un censimento».
Un mare magnum, le abitazioni non affittate, di cui spesso non si conosce l’entità e il cui utilizzo, trattandosi di proprietà privata, va affrontato con i guanti di velluto. Solo a Bologna, secondo dati recenti della Confabitare, «esistono 7 mila appartamenti sfitti, che diventano 21 mila nell’intera provincia» ha affermato il presidente Alberto Zanni, invitando i proprietari a mettere a disposizione le case vuote: «Basterebbero per tutti gli sfollati». Nessuna imposizione, ovviamente: «Si tratterebbe — precisa il presidente Errani — di arrivare a un accordo con i titolari di immobili e di fissare un prezzo calmierato. Tutto nella logica di uno stretto coinvolgimento con le popolazioni e i loro amministratori». I tempi dell’operazione, sempre che il terremoto conceda una tregua (una ventina di scosse ieri, la più alta di 3.5 verso l’una di notte), potrebbero essere accettabili: «Qualche settimana — ancora Errani — per censire le case inagibili e intanto quantificare quelle sfitte e disponibili».
Ma il problema sfollati è solo una delle emergenze di una ricostruzione che potrà contare su 2,5 miliardi del governo in due anni e che resta concentrata sull’assistenza alle persone: «Siamo ancora in una fase acuta di emergenza, ci vuole prudenza prima di tornare nelle case» ha affermato Franco Gabrielli, a capo dei 4 mila volontari della Protezione civile. Altra priorità sono le imprese, che hanno urgenza di ripartire per fronteggiare le richieste del mercato e tutelare gli organici. Due le strategie. La prima riguarda la riapertura dei capannoni, simbolo di questa tragedia: quelli che non hanno subito danni potranno ripartire in tempi brevissimi (un decreto firmato da Gabrielli semplifica l’iter per l’agibilità); per le altre, è stata concordata tra imprenditori e sindacati una sorta di «delocalizzazione locale» che consenta di trasferirsi di pochi chilometri e per un tempo limitato in fabbricati sfitti. Sperando basti a chi medita di lasciare per sempre queste terre.

Il Corriere della Sera 03.06.12

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“Gli operai ospiti dei colleghi i pc portati nei container Ecco le aziende che ripartono”, di Giusi Fasano

«Giovedì 31 ho spedito i primi 5 camion, venerdì altri 5 e 6 container per i mercati d’Oltremare». Per Filippo Manuzzi veder partire quel primo carico di merce è stato come riaccendere una lampadina spenta. Di nuovo luce, si riparte. Si ricomincia da dov’era più buio: Sant’Agostino, comune terremotato della provincia di Ferrara diventato simbolo della devastazione del primo sisma con il suo municipio sventrato e sbilenco che sembra collassare da un momento all’altro.
La Ceramica Sant’Agostino, 350 dipendenti e due ragazzi morti sotto le macerie del 20 maggio, in queste settimane è stata passata al setaccio da mille tecnici: più o meno il 30% delle sue strutture è inagibile, il resto può andare. E allora Filippo Manuzzi e suo padre Ennio (presidente dell’azienda) hanno deciso di ripartire con la logistica e rimettere in piedi le spedizioni, anche perché il settore produzione conta i danni maggiori e per quello ci vorrà più tempo. Non è cosa facile far ripartire un’azienda nella quale 650 mila metri di piastrelle impilate in una struttura verticale sono crollate assieme agli scaffali, altissimi, che adesso sembrano fuscelli piegati dal vento. Eppure è già da una settimana che c’è chi lavora, appunto, alla logistica. Domani saranno un centinaio i dipendenti che torneranno al lavoro e gradualmente il numero salirà. Tutto con i permessi in regola.
Ed è ancora di Sant’Agostino la storia di un’altra azienda che ha fatto sforzi straordinari per rimettere in moto il lavoro. Si chiama «Ugo Poppi Euroforge» e produce stampaggi in acciaio (un milione e mezzo l’anno, più del 70% per l’estero). Dopo la scossa del 20 maggio il problema era salvare la struttura a rischio del capannone. Roberto Govone, consulente della Poppi, ha chiesto aiuto agli americani che proprio in quei giorni avevano a Milano quattro enormi presse capaci di reggere 250 tonnellate ciascuna. Le presse sono arrivate e i muri dell’azienda adesso sono quanto mai stabili. Rimessi al loro posto migliaia di pezzi in acciaio finiti per terra (tutti fra i 200 e i 700 chili) fra qualche giorno i 70 e più operai potranno rientrare in fabbrica, permessi di agibilità compresi. «Diciamo entro la fine di settimana prossima» promette Govone, che dice «non abbiamo avuto il tempo per piangere. Qui c’è da lavorare».
E c’era da lavorare «senza affanni e paure» anche alla Deltos impianti di Cento (Ferrara), dove 26 lavoratori producono software e impianti elettrici per automazione industriale. Struttura antisismica, danni minimi e agibilità. Ma dopo quella del 20 maggio, ogni piccola scossa era un tormento: «Tutti a guardare i lampadari, a capire se c’era da scappare o no» racconta Raffaella Toselli, una delle quattro socie titolari. «E allora sa che ho fatto? Ho spostato tutto nei container davanti all’azienda. Adesso possiamo stare lì anche mesi. Abbiamo conquistato il mercato, se ci fermiamo adesso siamo perduti…».
In una ipotetica graduatoria di efficienza e praticità vince la gara il Gruppo Hera, multiutility che si occupa di servizi ambientali, energia, acqua, gas. La «sorella» Aimag di Mirandola (della quale Hera possiede una piccola parte) è fuori uso per il sisma di martedì scorso: 96 dipendenti provvisoriamente disoccupati. Almeno così sembrava. Se non fosse che il Gruppo ha deciso di far spazio ai colleghi nella sede di Modena, dove sono già in 700. E nel giro di 24 ore sono state allestite 96 postazioni già tutte operative da domani e connesse alla rete Aimag. Come avere la propria scrivania. «Ci siamo preoccupati anche dell’aspetto psicologico e a loro abbiamo offerto spazi pregiati perché percepiscano in modo positivo questa operazione» dice Roberto Gasparetto, direttore gruppo Hera di Modena. «Il nostro obiettivo è la responsabilità verso gli utenti perché gestiamo servizi essenziali». Questa volta “responsabilità” coincide con “solidarietà”.

Il Corriere della Sera 03.06.12

"Il pagliaccio che ride ma dovrebbe piangere", di Eugenio Scalfari

Ce ne sono tante di questioni delle quali oggi bisogna occuparsi: la recessione mondiale che ormai morde dovunque e non solo in Europa e in America ma anche nei Paesi emergenti come la Cina, l´India, il Brasile, il Sudafrica; la corruzione presente ovunque vi sia il potere ed ha raggiunto con drammatica intensità perfino i vertici della Chiesa di Cristo; l´incapacità europea di darsi un governo e una linea di politica economica.
E poi ci sono le questioni italiane dove il dramma e a volte la tragedia si mescolano con il “burlesque” determinando una miscela esplosiva e comica. Il “ridi pagliaccio, la faccia infarina” con dietro la maschera dell´attore che piange lacrime di dolore e di sofferenza meriterebbe d´essere oggi assunto come simbolo delle sventure nazionali che contengono una dose di comicità tale da configurare un personaggio mostruoso in preda a passeggere ma intense emozioni prive di qualunque punto di riferimento razionale.
In questo ampio ventaglio di problemi partiamo dal più urgente che minaccia di sospingere tutti gli altri verso la catastrofe: la Spagna e la crisi bancaria spagnola. Si scatenò anche nel 2008 a ridosso della bolla immobiliare americana che provocò poco dopo il fallimento della Lehman Brothers. In Spagna stavano fallendo le principali casse di risparmio del Paese. Zapatero, ancora per poco al potere, le riunì nella Bankia, un nuovo istituto capitalizzato dallo Stato che avrebbe dovuto intraprendere una più tranquilla navigazione. Sono passati quattro anni. Nel 2008 c´era la crisi finanziaria e bancaria ma non c´era la recessione, non c´era la crisi dei debiti sovrani, non c´era il crollo del mercato del lavoro. Adesso è l´economia reale a soffrire senza però che la finanza abbia distrutto i virus che l´avevano invasa.
Bankia è di nuovo con la febbre a quarantuno e altrettanto male stanno le Casse di risparmio di Madrid e di Barcellona. Servono per domani diciannove miliardi e nei giorni seguenti un´altra cinquantina. Il governo spagnolo aveva pensato di procurarli emettendo un´analoga cifra di titoli di Stato e spostando d´un anno in avanti il pareggio del deficit. Ma poi ha pensato che l´aggravamento del debito avrebbe scatenato i mercati e perciò si è fermato.
I mercati però si sono scatenati egualmente e per di più i depositanti creditori delle banche spagnole si sono messi in fila agli sportelli per ritirare i loro risparmi. Le società finanziarie hanno fatto prima: cliccando sui computer aziendali hanno trasferito milioni di euro dalla Spagna a più sicuri rifugi. Dove? In Germania ovviamente.
Infatti l´interesse del Bund tedesco è calato di quasi un punto: valeva due euro, ora ne vale uno o poco più. La Spagna è in stato agonico, le banche tedesche e la clientela ingrassano.
Capisco che non bisogna irritare la Merkel perché l´Europa ha bisogno di lei. Però c´è un limite. Mi vengono in mente i “furbetti” di casa nostra che alla notizia del terremoto dell´Aquila ridevano commentando al telefono i pingui appalti che avrebbero ottenuto. Forse è irriverente paragonare le banche tedesche ai furbetti di casa nostra, ma purtroppo si tratta d´un paragone appropriato che non si verifica solo in Spagna ma in tutta Europa.
Dall´Italia, dalla Francia, dall´Olanda, dall´Austria, dal Portogallo, dalla Grecia, le banche rimborsano i depositanti mettendo in moto flussi di capitali a senso unico da tutta Europa alle banche tedesche. Salgono gli spread da un lato, scendono gli interessi dall´altro.
Il governo tedesco ha una responsabilità politica e con esso ce l´ha la Commissione di Bruxelles e il presidente del Consiglio europeo. La Bce di Draghi ha lanciato l´sos, raccolto l´altro ieri dal governatore della Banca d´Italia Ignazio Visco. Monti ha lanciato lo stesso segnale, Obama e Hollande altrettanto. Analogo allarme è stato manifestato da alti esponenti tedeschi dell´Spd e dei Verdi.
Ma temo che non bastino i segnali. Bisogna che entro i prossimi giorni, anzi entro le prossime ore, ci sia una pubblica riunione di tutti i protagonisti e sia avanzata al governo tedesco una proposta concreta, accettabile ma ultimativa.
Draghi l´ha già formulata: garanzia europea sui debiti bancari e unificazione del mercato bancario continentale.
Contemporaneamente finanziamento alla Spagna coi fondi del Salva-Stati da rendere operativo con una dichiarazione comune del Consiglio dei ministri europeo e della Commissione. Se il fondo non disponesse materialmente dei denari necessari la Bce sia autorizzata ad anticiparli.

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Queste sono misure d´urgenza e di estrema necessità senza le quali gli spread europei saliranno alle stelle e le Borse scenderanno in picchiata. È vero che Grillo e la Santanché, in prevista alleanza tra loro, predicano la nostra uscita dall´euro ed è vero anche che l´altro ieri un redivivo Berlusconi, tra gli applausi dei suoi deputati e senatori, ha proposto che la Zecca italiana stampi euro da distribuire alle famiglie e alle imprese in difficoltà.
Questa è la (involontaria) comicità di Berlusconi. Come se il ritorno alla lira fosse neutrale sul potere d´acquisto degli stipendi e delle pensioni; come se la Zecca italiana fosse agli ordini di Cicchitto e non della Banca centrale di Francoforte.
Eppure queste dichiarazioni o esternazioni che dir si voglia non sono fatte a caso. Servono alla convergenza politica di quel che resta del Pdl, della Lega di Maroni («Siamo disposti a costruire un nuovo rapporto amichevole col Pdl se ritirerà da subito la fiducia al governo Monti»), di Di Pietro e di Grillo. Gli obiettivi di questo schieramento le cui linee di tendenza sono ormai ben visibili, sono: abbattere Monti, abbattere le tasse, abbattere l´euro.
Ridi pagliaccio, la faccia infarina: tragedia e comicità.
Non fanno ridere, ma piangere sì.

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Abbiamo già indicato una via d´uscita urgentissima, ma c´è una via d´uscita più solida da realizzare. Anche questa è stata prospettata da Draghi nel rapporto indirizzato ai governi del G8 e resa pubblica giovedì scorso. Si tratta d´una proposta lanciata quattro anni fa da Vincenzo Visco e recuperata l´anno scorso dal comitato dei cinque saggi nominato dal Parlamento europeo per trovare una soluzione al problema dei debiti sovrani europei (nel comitato c´era anche un tedesco e le conclusioni furono approvate all´unanimità).
Si tratta di mettere in un Fondo comune europeo tutta la parte dei debiti sovrani in euro che eccedano il 60 per cento del rapporto tra il singolo debito sovrano e il Pil del Paese in questione.
Il tasso d´interesse pagato dal Fondo sarebbe una media dei tassi d´interesse vigenti nei vari Paesi che hanno conferito una parte del debito.
La media ponderata penalizzerebbe i Paesi virtuosi e premierebbe i Paesi meno virtuosi. L´Italia cioè pagherebbe un tasso minore del quattro per cento e la Germania un tasso maggiore del due.
La proprietà del debito sovrano conferito al Fondo resterebbe tuttavia di pertinenza del Paese conferente. La Germania cioè – per andare al concreto – non dovrebbe addossarsi la compartecipazione dei debiti conferiti ma soltanto del proprio e così l´Italia, la Spagna e tutti gli altri. Non ci sarebbe cioè nessun trasferimento di titolarità del debito; il sacrificio (o il beneficio) sarebbe limitato al tasso d´interesse. La garanzia dei debiti conferiti al Fondo sarebbe europea e la sua copertura sarebbe il bilancio europeo opportunamente ricapitalizzato secondo le quote che spettano a ciascun Paese in base al reddito e alla popolazione.
Una riforma di questo genere sarebbe risolutiva, bloccherebbe la speculazione, farebbe scendere gli spread, consentirebbe importanti programmi di crescita economica e di tutela sociale e fiscale. Dovrebbe essere accompagnata anche da alcune importanti cessioni di sovranità dai governi alle Autorità europee a cominciare dall´unità del mercato bancario, dalla politica dell´immigrazione e dalla politica fiscale.

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Questi obiettivi, quelli di emergenza e quelli di sfondo, hanno bisogno evidentemente di una politica per esser realizzati e – come è evidente – alcuni debbono essere raggiunti nei prossimi giorni, altri tra pochi mesi e altri ancora tra un paio d´anni.
Alla confusa, demagogica e pericolosa convergenza anti-Monti e anti-euro va dunque opposta una responsabile coalizione di tutte le forze di centrosinistra in Europa e in Italia. Ripeto: centrosinistra, cioè la sinistra di governo e il centro.
Negli altri Paesi i partiti hanno il peso che gli spetta per le funzioni che debbono svolgere: mettere in comunicazione il popolo e le istituzioni. In Italia purtroppo da molti anni non è più così. Quale più quale meno i partiti sono diventati clientele e uffici di collocamento del personale dirigente. C´è chi ha conservato una dignità ed una visione moderna del bene comune; chi è rimasto appoggiato a valori arcaici e ideologici e chi infine ha perso anche la dignità. Perciò è giusto dire – come dice Bersani – che non si può fare di ogni erba un fascio, ma è altrettanto spiacevole dover constatare che i partiti, anche quelli che hanno conservato la dignità, hanno tuttavia trascurato il rapporto con il popolo ed hanno contribuito a occupare le istituzioni invece di riconoscerne ed esaltarne l´autonomia.
Tutto il discorso sulle liste civiche – che rischia tuttavia di esser fattore di confusione se viene affrontato con retropensieri inaccettabili – verte su questo punto.
La società civile, cioè gli elettori sovrani al momento del voto, dovrebbero riscoprire i partiti e “invaderli” laddove si riconoscano nei loro valori. Oppure formare liste civiche collegate con quei partiti, legge elettorale permettendo. Cioè: trasfusioni di sangue nuovo oppure circolazione extracorporea di sangue nuovo.
I partiti – se vorranno rinnovarsi – debbono accogliere sia l´una sia l´altra soluzione purché gli obiettivi siano chiari e le persone appropriate per quanto riguarda l´etica pubblica, la competenza e l´entusiasmo per un´impresa molto audace.

PS. Alcuni giornali (Il Foglio, Il Fatto) e alcune trasmissioni televisive (il Tg di La7) hanno dato notizie che io, Carlo De Benedetti ed Ezio Mauro propugneremmo una lista civica di Repubblica che intraprenda una “scalata ostile” al Pd portando come personaggio di sfondamento Roberto Saviano. Saviano da un lato e noi dall´altro abbiamo smentito questa notizia degna soltanto del sito Dagospia, peraltro preclaro per chi ama il gossip.
Queste sono invece questioni molto serie e non gossippare e come tali dovrebbero esser trattate. Il giornalismo che usa il gossip fa molto male il suo mestiere e reca danno non alle persone ma al Paese.

La Repubblica 03.06.12

Emergenza terremoto:l'impegno del PD dell'Emilia-Romagna

Il conto corrente istituito dal PD regionale ha superato i centomila euro. Oggi il segretario nazionale Pier Luigi Bersani ha incontrato gli amministratori e i segretari democratici dei comuni delle province di Modena, Ferrara, Bologna e Reggio Emilia, colpiti dal sisma. Oggi, sabato 2 giugno, il segretario del PD Pier Luigi Bersani ha incontrato gli amministratori e i segretari dei circoli democratici per ascoltare le loro istanze e sostenerle attraverso l’attività politica e istituzionale del Partito Democratico. Un’occasione questa per fare il punto con i territori sulla mobilitazione del PD regionale nell’emergenza terremoto. Il Partito Democratico dell’Emilia-Romagna ha infatti messo a disposizione la sua macchina organizzativa e la sua rete di volontari.
Un impegno che ha visto anche l’istituzione di un conto corrente bancario appositamente destinato all’emergenza che, a oggi, ha superato i centomila euro di donazioni da parte di cittadini, rappresentanti istituzionali, organizzazioni territoriali del PD e che continuera’ a crescere anche grazie alle sottoscrizioni attivate durante le feste e le tante iniziative che si stanno predisponendo in tutta la regione.
La somma che sarà raccolta dal PD regionale verrà interamente devoluta ai comuni, di concerto con la Regione, il cui presidente Errani è stato nominato Commissario per l’emergenza. Le donazioni vanno versate sul conto corrente IT02 N031 2702 4100 0000 000 1 494 presso UNIPOL BANCA, intestato ‘EMERGENZA TERREMOTO EMILIA-ROMAGNA – Partito Democratico Emilia-Romagna’.
In accordo con la Protezione civile, le Unioni provinciali del Partito Democratico hanno sin dalle prime ore dopo il sisma messo a disposizione le loro strutture, tendoni e gazebo, mentre le Feste democratiche in attività sono diventate punto di riferimento per il pernottamento e la distribuzione pasti, grazie soprattutto allo straordinario lavoro di tantissimi volontari. Un impegno immediato e concreto, quello del PD, che ha potuto contare anche su una forte mobilitazione dei Giovani Democratici della regione.
Le Unioni provinciali del PD proseguiranno il loro impegno anche dopo la prima fase dell’emergenza, attraverso una particolare forma di ‘adozione’ dei comuni colpiti dal terremoto. Tutte le Feste democratiche devolveranno parte dei loro incassi alle zone terremotate; saranno organizzate sottoscrizioni; raccolte di materiale; verificate le disponibilità di alloggi; coinvolte le associazioni che operano nelle province; assicurata una costante presenza dei volontari democratici, con un’attenzione particolare alle fasce più deboli della popolazione: bambini e anziani.
Per le cucine e i ristoranti delle Feste democratiche di tutta la regione sarà poi acquistato il parmigiano-reggiano proveniente dai caseifici colpiti dal sisma: anche questo è un segnale di aiuto e attenzione all’economia locale.