Latest Posts

"Psicologia della crisi", di Massimo Ammaniti

La crisi economica si sta ripercuotendo sulla vita di centinaia di milioni di persone sia a livello individuale che sociale. È diffuso un senso di insicurezza e di paura: si teme di dover rinunciare alle abitudini, alle risorse e alle necessità che hanno rappresentato le rotaie su cui si è mossa la vita personale e che si debbano affrontare in futuro sacrifici imprevedibili. Non dimentichiamo che, mentre Freud riteneva che la fondamentale motivazione umana fosse la pulsione sessuale, Bowlby negli anni ´60 del secolo scorso ha messo in primo piano il bisogno di sicurezza. Sicurezza di avere delle persone che si prendano cura di noi durante l´infanzia, sicurezza di avere rapporti affettivi, sicurezza di vivere in un mondo prevedibile e rassicurante, sicurezza di avere abbastanza risorse e di disporre di un contesto di vita stabile.
La crisi suscita inevitabilmente insicurezze e allo stesso tempo stimola l´esigenza di avere rassicurazioni per il futuro, che riguardano in primo luogo il lavoro, la protezione sociale ma anche la stessa vita familiare. Anche la dimensione psicologica individuale e sociale entra in gioco nell´affrontare lo stress e le avversità, non tutti reagiscono allo stesso modo, c´è chi non si fa piegare e cerca di utilizzare al meglio le proprie risorse, c´è chi si sente impotente e si fa sopraffare dall´ansia e dallo scoramento, c´è chi va alla ricerca con gli altri di nuove soluzioni per superare le difficoltà. Naturalmente ci sono anche caratteristiche nazionali, non ogni popolo reagisce allo stesso modo alle avversità per tradizioni culturali e per organizzazione sociale. Non è un problema nuovo, anche durante la crisi del ´29 emergevano grandi diversità fra i popoli. In un articolo del 1931 del New York Times dal titolo “Tests in adversity: America and Britain” (“Test nelle avversità: America e Gran Bretagna”) venivano analizzate le particolari risposte alla crisi. Mentre gli Americani cercavano di far leva sull´ottimismo e sulle speranze per la ripresa futura mettendo in piedi commissioni e gruppi di lavoro per risolvere i problemi, gli Inglesi reagivano col mugugno, trovando soluzioni individuali ed evitando di mostrare la propria ansia. Probabilmente la differenza è legata al fatto che la Gran Bretagna è un paese con antiche tradizioni, abituata a perdere le battaglie ma alla fine a vincere la guerra, mentre gli Stati Uniti sono un paese giovane che crede nel volontarismo partecipativo.
E l´Italia? Il clima che si respira in questi mesi è improntato al pessimismo e al senso di impotenza di fronte ad una crisi economica che colpisce soprattutto il nostro paese, anche se spesso si sente dire che non siamo come la Grecia. Siamo un paese che si perde facilmente d´animo e che dimostra la sua fragilità psicologica, ad esempio nello sport i nostri giocatori quando si trovano in difficoltà si scoraggiano, rinunciano, imprecano contro l´arbitro e la cattiva sorte. Ma se questo è vero, siamo anche in grado di farci valere in modo inaspettato, tutti si ricorderanno la finale di calcio del 2006 che la squadra italiana ha vinto con grande grinta. La prima tendenza è quella di rinunciare all´impegno sociale e di rinchiudersi nel proprio spazio privato familiare. Qui si conferma il “familismo amorale” italiano di cui parlò Banfield, che spinge a trovare scappatoie e compromessi personali dal momento che c´è poca fiducia verso lo Stato. Ma nella storia del nostro paese ci sono stati momenti di riscatto nazionale, solo quando si giunge a toccare il fondo.
Forse con la crisi economica siamo giunti al bordo del baratro anche per una lunga connivenza del paese, ora ci si attende un colpo di reni da parte di tutti. Le tasse vanno senz´altro pagate ma non basta, occorre investire sul futuro sapendo uscire dagli spazi rassicuranti e abituali e affrontare il rischio di nuove strade.
Il carattere italiano emerge spesso nelle scelte quotidiane, dettate più dai vantaggi immediati e dalla soddisfazione del momento anche se queste possono comportare a lungo termine gravi svantaggi. Sarebbe importante saper procrastinare il tornaconto personale dettato dal narcisismo personale e intraprendere una strada meno rassicurante ma più remunerativa in futuro. Sappiamo d´altra parte che l´economia non è una variabile indipendente, ma è fortemente condizionata dalle dinamiche psicologiche, come ha messo in luce il Premio Nobel Kahneman.

La Repubblica 01.06.12

Grillo e la trappola della «iperdemocrazia», di Michele Prospero

Nessun soggetto politico, e tanto meno un movimento nuovo e con forti venature antisistema, si esaurisce mai del tutto in quello che dichiara di essere. Se ne sono visti già molti di fenomeni politici emergenti nascere con un forte spirito di rottura verso l’esistente e poi trasformarsi in corso d’opera in un condensato di pura conservazione.
La forza ispirata da Grillo non sfugge a questa regolarità. La città di Parma è in fondo la metafora di un movimento sorto dalla volontà di imprimere una assoluta discontinutà che diventa il punto di riferimento insperato dei vecchi poteri in agonia. Con una base culturale molto evanescente, così come appare nell’intervista di Grillo, il movimento si presta in pieno alle mire e ai calcoli di potenze che cercano di utilizzarne la carica sovvertitrice per volgerla verso altri sbocchi.
Quando un movimento riceve la simpatia di grandi giornali, di settimanali, di trasmissioni della tv pubblica e privata, già non appartiene più alla pura passione dei navigatori delle origini e sta per essere attirato in un’orbita più ampia in cui si agitano interessi e manovre e in cui quindi l’infuenza di media e denaro pare irresistibile. Le parole di Grillo non si riferiscono alla questione sociale con rigore analitico ma alimentano una semplicistica e a tratti caricaturale raffigurazione manichea del mondo in cui si oppongono i perfidi finanzieri e i semplici cittadini. Lo schema binario proposto dal comico contrappone gli altri («le banche, gli zombi») e noi («siamo l’ultima chance per l’Italia»). Non c’è spazio per analisi più complesse e l’avversario perde ogni dignità e non viene riconosiuto se non nelle sembianze del male assoluto.
Da una parte Grillo colloca il bene, il pulito, il bravo, l’incensurato e dall’altra ospita il male, il ladro che ha la figura del partito impressa. Questo schematismo non solo alimenta un immaginario tardogiacobino ma coltiva una veduta inquietante della democrazia quando il comico prospetta il suo minaccioso programma: «noi vogliamo arrivare al cento per cento». Quando un politico parla in nome della totalità e descrive l’avversario come un reprobo contro il quale si innalzano gogne e tribunali del popolo provoca sempre un certo turbamento.
Il progetto di Grillo mira ad una «iperdemocrazia» (il termine risale a Ortega y Gasset) nella quale scompaiono partiti e politica organizzata e tutto viene affidato a referendum a getto continuo. Il problema è che anche una sedicente democrazia dal basso ha bisogno di esprimere classi dirigenti, di eleggere rappresentanza. E qui, fatti fuori i partiti (con quali strumenti coercitivi è possibile sbarazzarsene?), ci sarà qualche altro momento in cui i compiti di proposta e di indicazione verranno espletati. Non basta certo navigare nella leggerezza della rete per annullare i pesanti poteri dei territori. Nel paradiso di una iperdemocrazia dei cittadini e senza più partiti e «segretari nazionali» Grillo si propone nel gratificante ruolo di «grande vecchio» o di «ispiratore» che senza mai uscire dall’ombra orienta, suggerisce, raccomanda, censura. Il movimento che «vuole cambiare la società intera» in realtà non essendo strutturato, e presentandosi come sprovvisto di procedure, regole e spazi visibili per un apprendimento collettivo, restringe la partecipazione reale che non ha bisogno di grandi vecchi e tanto meno di ispiratori occulti.

L’Unità 01.06.12

"Lo sguardo corto della politica", di Massimo Giannini

Una «crisi di gravità eccezionale», come quella descritta da Ignazio Visco nelle sue prime Considerazioni finali, imporrebbe “l´eccezionalità” come paradigma della fase. Per fronteggiare problemi eccezionali servirebbero leader eccezionali, capaci di adottare soluzioni eccezionali. Invece, in questa piega sconfortante della modernità, non c´è quasi niente di eccezionale. Se non gli effetti della stessa crisi, rovinosa per la vita di tante persone. È come se le élite politiche non avessero la percezione di cosa rischino gli Stati e i popoli, in termini di progresso economico e di coesione sociale. Così può capitare un paradosso: che siano proprio le tecnocrazie, accusate di snaturarle o addirittura “sovvertirle”, a dimostrarsi più sensibili ai destini delle democrazie. Di fronte al pericolo di quella che Paul Krugman chiama «l´ellenizzazione del discorso europeo», e alla possibilità che sull´agorà di Atene bruci anche la moneta unica, tocca alla “triade tecnocratica” Monti-Draghi-Visco chiedere alla politica di assumersi le sue responsabilità. Le parole di Mario Monti, che ricorda la minaccia di un «contagio finanziario» tuttora incombente sui debiti sovrani dell´Eurozona, pesano come un macigno sulle spalle di Angela Merkel. Tocca a lei «riflettere profondamente» sulla necessità di accelerare gli sforzi per la crescita, senza i quali verrà meno il sostegno pubblico alle politiche di rigore. Tocca alla Cancelliera di Ferro, indipendentemente da chi avrà la maggioranza al Reichstag nel 2013, far ragionare i suoi concittadini su cosa ha significato l´euro. Per una Ue che dal 2008 ha bruciato 4 milioni di posti di lavoro all´anno, c´è una Germania che non è mai stata così ricca: secondo i dati Bundesbank, nel 2011 il patrimonio finanziario dei tedeschi ha raggiunto la cifra record di 4.715 miliardi. Per i figli della Repubblica di Weimar il Deutsche Mark è una suggestione. Ma per i nipoti l´euro è un affarone. Sono davvero in condizione di rinunciarci?
Le parole di Mario Draghi al Parlamento di Strasburgo pesano come pietre sulla coscienza di un establishment accidioso e indeciso a tutto. «Chiedetevi come sarà l´Europa tra dieci anni, quale tipo di visione vogliamo avere e quali saranno le tappe per arrivarci: prima si definirà questo cammino, meglio sarà per tutti». L´Europa di oggi, irresoluta e irresponsabile, produce insieme un´economia della depressione e una politica dell´insicurezza. Senza una strategia di lungo respiro, i governanti dalla veduta corta si nutrono di pura tattica, battendo il tempo dell´Europa su quello delle rispettive scadenze elettorali. Non sono capaci di rispondere alla domanda di futuro e di crescita, di lavoro e di equità che promana dai popoli. Ma per scaricarne le tensioni, sono bravissimi a indicare un “pessimo esempio” (la povera Grecia) e un ottimo capro espiatorio (i ricchi banchieri). Non che i signori del credito non abbiano la loro buona dose di colpe. Ma è sempre troppo facile pretendere dai tecnici quello che i politici non sanno o non vogliono dare. Nella “disputa” in corso, nonostante tutto, oggi hanno più ragione i primi dei secondi. Ha più ragione Draghi, che dopo aver garantito 500 miliardi di acquisti di titoli di Stato con il “Securities Markets Programme” e altri 1.000 miliardi di liquidità immessa sul mercato con i due “Ltro” di dicembre e febbraio, ora avverte «non c´è più tempo da perdere, non possiamo colmare la mancanza di azione sul fronte dei conti pubblici, non è il nostro mandato né il nostro dovere, la Banca centrale europea non può riempire il vuoto lasciato dalle mancanze della governance europea».
Le parole pronunciate da Ignazio Visco, per il suo esordio nel salone delle assemblee di Palazzo Koch, non sono da meno: «Inerzia politica, inosservanza delle regole e scelte economiche errate rischiano oggi di mettere a repentaglio l´intera costruzione… I processi decisionali, condizionati dal metodo intergovernativo e dal principio dell´unanimità, sono ancora lenti e farraginosi». Serve un´Europa che funzioni come “federazione di Stati”. Servono processi decisionali rapidi, risorse pubbliche comuni e regole davvero condivise. Ma sono compiti che «esorbitano dalla sfera d´azione del sistema delle banche centrali, e investono responsabilità politiche, nazionali e comunitarie». E sono compiti che rimandano a una saggia riflessione di Tommaso Padoa-Schioppa, giustamente rievocata dal governatore: «L´insidia è di credere che l´euro sia l´ultimo passo, che l´Europa unita sia ormai cosa fatta». Più che un monito, una profezia. L´euro andrebbe difeso, dall´opportunismo degli scettici e dal cinismo dei mercati. Ma è proprio questo che manca. Come dice Visco, mancano «manifestazioni convergenti della volontà irremovibile di preservare la moneta unica».
La “piccola Italia”, in tutto questo, vive un dramma nel dramma. E anche qui (soprattutto qui, viene da dire) servirebbe una visione all´altezza dello «stato d´eccezione» in cui siamo precipitati. Ma proprio qui, nel vuoto e nel silenzio assordante di una politica frammentata e delegittimata, la “supplenza” dei tecnici mostra i suoi limiti. Forte della debolezza di una maggioranza tripartita sempre più confusa e disarticolata, Monti fa quello che può, anche se potrebbe fare di più. E il governatore, che di questo governo è in definitiva un «azionista di riferimento», dice un po´ meno di quel che dovrebbe. È verissimo che l´esecutivo ha riportato il bilancio pubblico «su una dinamica sostenibile e credibile». È un po´ meno vero che ha «rianimato la capacità di crescita dell´economia». È verissimo che la pressione fiscale è «a livelli ormai non compatibili con una crescita sostenuta». È un po´ meno vero che si è aperto il “vasto cantiere” delle riforme strutturali.
Dopo la cocente delusione per il modesto debutto del nuovo presidente di Confindustria Squinzi, da Visco era lecito aspettarsi proprio una maggiore “visione” sul futuro del Paese, anche al prezzo di una minore “condivisione” sulle scelte compiute dal governo, e magari anche dal sistema bancario (la denuncia della moltiplicazione delle poltrone nei board poteva essere molto più severa, se è vero che i primi 10 gruppi bancari contano ben 1.136 cariche; la rampogna sul contenimento delle remunerazioni degli amministratori doveva essere molto più dura, se è vero che un “ceo” di fresca nomina nel 2011 ha incassato 66 mila euro per aver lavorato una sola settimana). Ma è evidente che, con i tecnici a Palazzo Chigi, cambia anche il ruolo di Palazzo Koch. È difficile fare i “supplenti dei supplenti”. Dal dopoguerra, la stella della più prestigiosa e autorevole istituzione economica nazionale ha brillato ancora di più quando al governo c´era un ceto politico inetto e incapace di far uscire l´Italia dalla lunga notte della Repubblica. Oggi è diverso. Quel ceto politico sopravvive in Parlamento, ma è sempre più screditato nel Paese e soprattutto non abita più nella “stanza dei bottoni”. Dal Cavaliere al Professore: è già un enorme passo avanti, anche se la notte non è ancora finita.

La Repubblica 01.06.12

"Il merito nella scuola. Istruzioni per l'uso", di Benedetto Vertecchi

Il richiamo al merito degli studenti può avere due significati, del tutto diversi. Il primo sta a indicare che, in un quadro in cui tutti fruiscono delle medesime opportunità, alcuni studenti ottengono risultati migliori di altri. L’altro significato prescinde da riferimenti di contesto e considera il merito come una qualità assoluta, che deve essere riconosciuta a chi ha rivelato, per i risultati conseguiti, caratteristiche personali migliori. Mentre il primo significato risponde a una concezione democratica dell’educazione formale (quella impartita nelle scuole), l’altro significato ha lo scopo di rendere accettabile, e persino desiderabile, il manifestarsi del determinismo sociale. Se nell’apprezzare il merito si prescinde, infatti, dal considerare in che modo determinati risultati siano stati raggiunti, giudizi ugualmente fondati investono tutti gli allievi, quelli che godono di una condizione originaria di vantaggio come quelli che per ottenere un risultato positivo devono superare il condizionamento negativo al quale sono soggetti. Per rendere accettabile il merito come manifestazione di un apprendimento per conseguire il quale sia stato necessario impegnare la propria intelligenza, dimostrando insieme qualità positive sul piano morale, occorre preliminarmente assicurare a tutti condizioni di studio adeguate alle loro esigenze. In altre parole, si può apprezzare il merito solo se si rivela dopo che sia stata assicurata una sostanziale uguaglianza delle opportunità di apprendere. Se tale condizione è lontana dall’essere raggiunta (o, peggio, se non è neanche perseguita) riconoscere il merito degli allievi migliori equivale a cospargere di belletti un sistema iniquo. Lo sviluppo della scuola nell’Italia repubblicana è consistito in una prima fase nella ricostruzione del sistema dopo la devastazione della guerra. In una seconda fase, che ha avuto inizio con la riforma della scuola media (1962) la maggiore attenzione è stata rivolta ad accrescere le opportunità di istruzione. Questa seconda fase ha consentito, in alcuni decenni, di raggiungere quote elevate di scolarizzazione, prima al livello secondario inferiore e successivamente a quello secondario superiore. Ma, mentre questo intento di uguagliamento delle opportunità educative era perseguito tramite l’abbattimento di almeno parte dei condizionamenti negativi che in precedenza avevano tenuti lontani dalle scuole gli allievi di condizione sfavorita, si trascurava di adeguare l’assetto e il funzionamento delle scuole alle nuove condizioni. È mancata una politica di investimenti per il potenziamento delle strutture e delle dotazioni, per la ricerca, per la preparazione iniziale e la qualificazione continua del personale. Le scuole hanno continuato sostanzialmente a funzionare (con la lodevole eccezione di tante iniziative sperimentali promosse da insegnanti consapevoli della necessità di introdurre innovazioni) secondo un modello che identifica il tempo di attività della scuola con quello necessario a svolgere il numero previsto di lezioni. E ciò è accaduto in controtendenza con quanto parallelamente avveniva in altri Paesi, nei quali si cercava di adeguare l’attività alle nuove esigenze poste dalla vita sociale, dalle trasformazioni economiche, dalla crescita delle conoscenze e dai progressi della tecnologia. È quindi accaduto che col crescere delle quote di popolazione scolarizzata sia diminuito il credito sociale della scuola. Atteggiamenti critici sono stati assunti soprattutto da quanti fruivano di educazione scolastica già prima che avesse inizio il processo di generalizzazione prima ricordato. Quelli che si sono manifestati, gabellando la nostalgia come riconoscimento del merito, sono stati atteggiamenti volti a riaffermare la priorità dell’appartenenza sociale nella fruizione dell’educazione scolastica. Menzionare come esempio di apertura del sistema educativo il successo di alcuni allievi appartenenti a strati sociali sfavoriti è solo un espediente retorico e ideologico volto a nascondere l’enormità dello svantaggio che si andava accumulando su gran parte degli allievi per il mancato adeguamento del sistema alle nuove esigenze. Di fatto, si andavano chiudendo anche le fessure che consentivano a un piccolo numero di allievi di filtrare attraverso le maglie della discriminazione sociale. I provvedimenti che con orrido aggettivo sono definiti premiali ripropongono interpretazioni della riuscita scolastica centrate solo sulle caratteristiche personali, tacendo sulle ragioni delle differenze che si manifestano tra gli allievi. E tacendo anche sulle responsabilità che si collegano all’assenza di politiche volte a qualificare il profilo culturale della popolazione nel suo complesso, come se fosse possibile isolare le condizioni dello sviluppo degli allievi dalle interazioni col resto della società. Il merito si incoraggia e si apprezza solo perseguendo l’equità.

l’Unità 01.06.12

Rai, Bersani a Di Pietro: "Senza riforma della governance non si rompe il rapporto perverso con la politica"

Lettera del Segretario del PD, Pier Luigi Bersani, al leader dell’IDV, Antonio Di Pietro. “Caro Antonio, tu mi chiedi di procedere assieme a nomine trasparenti per il Consiglio di amministrazione della Rai. Ciò significherebbe perpetuare, magari in modo più elegante, quel meccanismo di ingovernabilità che sta portando in un vicolo cieco la più grande azienda interamente pubblica del Paese. Mi spiace dirti che non posso essere d’accordo. Da mesi ci battiamo per cambiare la governance della Rai perché senza una riforma è impossibile rompere il rapporto perverso tra l’azienda e la politica….”.
“Caro Antonio – scrive Bersani – tu mi chiedi di procedere assieme a nomine trasparenti per il Consiglio di amministrazione della Rai. Ciò significherebbe perpetuare, magari in modo più elegante, quel meccanismo di ingovernabilità che sta portando in un vicolo cieco la più grande azienda interamente pubblica del Paese. Mi spiace dirti che non posso essere d’accordo. Da mesi ci battiamo per cambiare la governance della Rai perché senza una riforma è impossibile rompere il rapporto perverso tra l’azienda e la politica.

A legislazione vigente non c’è modo di garantire che la Rai sia amministrata come un’azienda vera e, per quel che ci riguarda, non vogliamo più assistere al desolante spettacolo di un Cda permanentemente riunito con il solo compito di lottizzare e controllare l’informazione.

Serve che i partiti si tolgano di mezzo.

Serve l’applicazione del codice civile.

Serve un amministratore delegato che abbia i poteri per rendere autonoma e competitiva un’azienda che deve sviluppare un piano industriale e che deve tornare ad essere un grande patrimonio del Paese; tutto questo secondo le essenziali indicazioni che il Parlamento deve rinnovare sulla missione odierna di un servizio pubblico.

Con queste motivazioni abbiamo deciso di non partecipare alle nomine, comunicandolo al governo.
Una scelta che rivendichiamo come un atto di amore nei confronti della Rai e del servizio pubblico e che contiamo induca tutti a chiudere finalmente una stagione triste di lottizzazione per aprirne finalmente una nuova”.

www.partitodemocratico.it

"Il precario di sostegno saluta e se ne va", di Franco Buccino

Confesso che il precario di sostegno, quello dell’ascensore, nelle settimane scorse non l’ho cercato come faccio ogni tanto. Perché le notizie sul sostegno a scuola non erano buone: lui si sarebbe amareggiato ed io non avrei saputo cosa dire. Poi, ci siamo incrociati a piazza Dante. Usciva da una libreria; mi ha salutato e mi ha detto: “A settembre vengo a lavorare qui”. Sono rimasto senza parole, e lui, quasi a giustificarsi, ha continuato: “L’incarico annuale del provveditore è ormai un miraggio; le supplenze non arrivano prima di febbraio, marzo, se arrivano. In libreria mi fanno lavorare a settembre e ottobre, quando c’è la campagna dei testi scolastici; poi si vedrà. Se l’anno prossimo non ci sarà il decreto salvaprecari, cambio mestiere definitivamente”. È triste sentire un quasi quarantenne, laureato, abilitato con specializzazione, master, perfezionamenti e dieci anni di servizio, parlare così; un insegnante preparato e innamorato del suo lavoro, che cita ad ogni passo con affetto e orgoglio i “suoi” ragazzi diversamente abili. E gli subentrerà un insegnante di ruolo in soprannumero, magari appartenente a una di quelle classi di concorso formate da insegnanti diplomati, che conseguirà un titolo di sostegno “leggero”, preoccupato di rimanere vicino casa.

La Gelmini continua a colpire attraverso la sua riforma. Non è vero che i tagli sono finiti. Si stupisce che non lo voglia ammettere, non tanto Profumo, quando Marco Rossi Doria, “per un tratto compagno di strada”. Diecimila riconversioni di insegnanti di ruolo in esubero significa diecimila tagli di precari. E non finisce qui. Allora, perché prendere in giro tantissimi giovani, e meno giovani, con gli annunci di abilitazioni, tfa cioè tirocini formativi attivi, concorsi, immissioni in ruolo fino all’esaurimento delle graduatorie? Su questi annunci le persone si organizzano, spendono soldi e ci mettono il pensiero. Ci riflettessero un po’ il ministro e il sottosegretario. Anche sugli insegnanti in esubero ha una sua opinione. Per quelli che hanno titoli di studio “consistenti”, la riconversione è facile; ma per una pletora di insegnanti, che hanno diplomi e a volte qualifiche di formazione professionale con esperienze lavorative, sembrava non ci fosse niente da fare. Poi è arrivato il sostegno, la panacea di tutti gli esuberi. La categoria degli insegnanti di sostegno è fragile, e quella dei disabili a scuola ancora di più.

Se la prende con alcuni colleghi: con quelli che hanno scelto i “laboratori” o insegnamenti tipo “trattamento testi”, l’ex dattilografia, che hanno fatto il corso breve di abilitazione con il requisito dei 360 giorni di servizio, che sono passati di ruolo giusto in tempo per andare in soprannumero, e oggi si riconvertono e si sistemano con l’ennesima scorciatoia. Mentre lui e quelli come lui hanno seguito i percorsi normali, più lunghi e qualificanti, e ora si trovano senza lavoro. Ma se la prende soprattutto con l’Amministrazione che non è stata mai in grado di pianificare assunzioni con un progetto di riforma in testa. Tanto a che serve: tutti i docenti di ruolo li può riconvertire come vuole e i precari li butta via quando vuole. Funzionerà per gli alunni la scuola con meno insegnanti, a volte anche meno qualificati e meno motivati? Succederà come per le ferrovie, dice sconsolato. L’alta velocità per alcuni. I regionali, quelli degli annunci “viaggia con ritardo imprecisato” oppure “oggi è soppresso” per tutti gli altri.

È molto arrabbiato con il governo Monti. “Come i tuoi pensionati”, mi dice. La storia dei due tempi non gli va giù. Ci sono persone così colpite in prima battuta che non potranno più riprendersi. Come il precario quarantenne che oggi, senza diritti e nell’indifferenza generale, perde il suo lavoro. E qui si avventura in un discorso un po’ confuso, che fa rabbrividire. La crisi è così forte e le misure così inique che sta tornando il terrorismo. Sembra che governo e terroristi, in modo del tutto involontario, si scambino dei favori. Il governo con i suoi provvedimenti alimenta le tensioni sociali: su tale terreno prende piede il terrorismo. I terroristi, con le loro azioni criminali e con i loro farneticamenti, è come se contribuissero a dare autorevolezza e consenso all’esecutivo che difende l’ordine pubblico, la sicurezza e la democrazia, insieme ai provvedimenti iniqui che ha preso. Poi succedono degli imprevisti inimmaginabili, contro ogni logica: ordigni fatti scoppiare su studentesse innocenti; tante persone che per problemi economici ed esistenziali si tolgono la vita, spiazzando tutti: il governo, i terroristi, la gente. Per un momento ha pensato di inaugurare i suicidi tra i precari della scuola, ma ha subito cambiato idea. Piuttosto andrà a fare a settembre l’apprendista libraio a piazza Dante. Così dicendo, con un sorriso beffardo, il precario di sostegno saluta e se ne va.

da OrizzonteScuola.it

"Il coraggio di una comunità", di Vittorio Emiliani

Il terremoto ha colpito e colpisce crudelmente una regione strategica nella storia oltre che nella geografia d’Italia, una regione-cerniera. Quella dove finisce la pianura padana e comincia l’Italia centrale, oltre il Rubicone. Quella che più rapidamente seppe unirsi al Triangolo industriale e crescere, fra non pochi squilibri, col primo «boom». Quella che sul piano politico-amministrativo e sociale ha saputo dire e dare molto, coi grandi partiti popolari, con le cooperative rosse, bianche e verdi, con la nuova imprenditoria nata dalla campagna, col volontariato di ogni colore. Per questo e per altro l’Emilia-Romagna, così centrale nella storia italiana, non può essere lasciata sola, alla sua pur forte volontà di reagire. Perché, da molti punti di vista, ne sarebbe come spezzata in due l’Italia stessa.
Soltanto dopo la guerra, meno di settant’anni fa, un soffio per la storia, l’Emilia-Romagna portava sulle spalle un esercito di braccianti alla disperata ricerca di qualche giornata di lavoro e un Appennino mezzadrile e piccolo-proprietario che stava franando a valle. «Nel 1944 diventai segretario della Camera del Lavoro provinciale col più alto numero di iscritti», amava raccontare il forlivese Luciano Lama. «Più di 140 mila: sembra incredibile, in maggioranza erano braccianti. Dobbiamo dirlo forte che siamo andati tanto avanti anche grazie alle nostre lotte», concludeva alzando il tono polemico della bella voce baritonale.
Mercoledì sera Vasco Errani ha precisato due cose importanti: ad un giornalista che parlava di terremotati «impauriti e smarriti», ha opposto: «Impauriti sì, e chi non lo sarebbe? Ma smarriti, no, la voglia di reagire c’è, eccome»; poi ha rifiutato l’etichetta di «commissario straordinario» del governo, perché tutte le istituzioni devono lavorare insieme, Stato-Regione-Enti e comunità locali, associazioni di cittadini. All’Aquila il commissariamento voluto da Berlusconi (che inseguiva un suo insensato modello narcisistico) ha pesato e pesa come un macigno sul dopo-terremoto. Qui non sarà così. Il presidente non-commissario della Regione ce l’ha ben chiaro. Come i sindaci dei Comuni più colpiti e di quelli sfiorati e minacciati.
Riaffiora nella memoria il motto che nel 1976-77 fu dei vescovi friulani per quel terremoto che non finiva mai e che fece, ricordiamocelo, quasi mille morti, per quella ricostruzione lunga ma esemplare, specie a Venzone, pietra su pietra: «Prima le fabbriche, poi le case e infine le chiese». Non far sfibrare il tessuto produttivo è fondamentale perché il lavoro è una delle formidabili risorse in questa crisi planetaria e nessuno può permettersi di indebolirlo. Rispettando, certo, le misure di sicurezza, non esponendo al pericolo altre vite di operai, italiani e immigrati (questa è la regione d’Italia con più stranieri rispetto ai residenti), ma ridando vita e operatività, appena possibile, a filiere produttive di eccellenza internazionale: l’agro-alimentare, la meccanica di precisione, il biomedicale e in genere la sanità, il benessere, la ceramica, le nano-tecnologie, la carpenteria, le imprese per il recupero e il restauro dell’antico e altro ancora.
L’Emilia-Romagna è l’Italia: rianimarla, risollevarla, rimetterla in piedi senza facili assistenzialismi, senza “cricche”, ma con dignità, professionalità e trasparente onestà, vuol dire rianimare, risollevare, rimettere in piedi l’Italia stessa. Quella che, anche senza sismi, non ce la fa a camminare e riaffida da tempo all’emigrazione i suoi figli più coraggiosi, più preparati, svenandosi. Molti degli intervistati dalle tv (le quali spesso trasmettono più emozioni che racconti) rispondono col franco, coraggioso realismo di chi ha costruito per sé e con gli altri qualcosa ereditato dai loro vecchi: il senso civile della comunità. Sovente i terremoti – ce lo insegna la storia – non durano giorni o settimane. In ogni caso le ricostruzioni durano molto di più e però possono essere esaltanti se vissute come riscatto autonomo, ostinato, vitale. Qui non vogliono disperdersi, vogliono restare vicini a case, fabbriche, stalle, officine. Bisogna aiutarli anche in questo. Dalla comunità tutto può rinascere. Qui e nel Paese.

l’Unità 01.06.12

******

“50 scosse al giorno Clini: servono 15 anni per un’Italia sicura” di Salvatore Maria Righi

Finalmente, dopo 11 giorni di scosse, morti, disastri e paura, qualcuno ha squarciato il cielo plumbeo che grava sull’ Emilia nonostante l’ inizio dell’ estate. Dopo un altro giorno da dimenticare, tra la terra che non smette di tremare e la contabilità della sciagura, ormai vicina la soglia dei 2 miliardi di danni, il ministro Corrado Clini ha cercato di alzare la testa dal quotidiano stillicidio di bollettini su epicentri, crolli e sfollati certo un po’ piegati, ma mai spezzati. «Ho cominciato a parlare di un piano nazionale per la sicurezza del territorio non appena mi sono insediato. Un piano che duri quello che deve durare ma almeno 15 anni».

Così il titolare dell’Ambiente, sintetizzando la lezione che sembra sempre più venire dalle zone colpite dal sisma. Nell’interesse del paese tutto e secondo una parola, prevenzione, che non è proprio congeniale allo Stivale. Il piano di cui parla il ministro, mentre anche ieri una forte scossa da magnitudo 4, registrata alle 16.58 e ad una profondità di 5,8 km con localizzazione verso Novi di Modena ha terrorizzato il nord, è articolato e apre scenari molto importanti. «Un piano straordinario per 60 mila posti di lavoro destinato ai giovani» ha spiegato, dal Greening Camp alla Luiss a Roma, il ministro Clini. «È un programma straordinario per l’occupazione giovanile nelle tecnologie ambientali con l’ambizione di generare almeno 60 mila nuovi posti di lavoro tra i laureati con meno di 30 anni». Il progetto, aggiunge Clini, «può essere sostenuto con misure fiscali ordinarie e meccanismi di finanziamento» ad hoc.

FALSI ALLARMI
Non è stata solo la giornata delle parole che impegnano e danno speranza, ovviamente. Dal vocabolario del sisma ne è uscita una che non manca mai, quando ci sono queste tragedie: sciacalli. Il fenomeno, pare, comincia ad interessare seriamente le zone colpite. «Attenzione, lasciate le case, sta arrivando una scossa violentissima». Chiamate telefoniche del genere, messe in atto da sciacalli che si fingono operatori della Protezione civile stanno alimentando il panico tra la popolazione, soprattutto nel modenese. La Procura di Bologna ha disposto una serie di accertamenti in relazione ai falsi allarmi di un imminente nuovo terremoto che si sono diffusi nel capoluogo emiliano. Il rincorrersi di queste voci ha raggiunto anche uffici pubblici seminando la preoccupazione all’interno del Tribunale o della sede della Banca d’Italia. Il disastro di cui ignoti avvoltoi sono già pronti ad approfittare, è già enorme. I dati dei danni stimati all’economia e alle imprese sono sempre più catastrofici.

Due miliardi di danni per una zona che da sola vale 1% del Pil. Sono cominciati i sopralluoghi su case e capannoni industriali. La gente, per il momento, non ha intenzione di rientrare in casa: le soluzioni alternative (campi, strutture coperte, alberghi) ospitano oltre 15mila persone, senza contare i tanti mini-campi improvvisati con le tende un po’ ovunque: aiuole, giardini pubblici, terreni agricoli. Dopo la strage di operai dei giorni scorsi, a lavoro non si tornerà prima che le verifiche saranno concluse e diranno con chiarezza quali capannoni rispettano le più recenti norme antisismiche e quali no. Poi, piano piano, le case agibili, quelle che sono state abbandonate per paura, torneranno a popolarsi, si comincerà a pensare alla ricostruzione e, eventualmente, a soluzioni abitative provvisorie. Ieri sera erano 68 le scosse che si sono susseguite dalla mezzanotte fra le province di Modena, Ferrara e Mantova, secondo i dati dell’Ingv. E una nuova scossa di magnitudo 3.2 è stata registrata alle 13.18 in provincia di Ferrara, nei pressi dei comuni di Mirabello, Vigarano, Mainarda e Poggio Renatico.

Tra i paesi più colpiti dal sisma c’è Mirandola, dove la zona industriale della città è stata chiusa per ordine del sindaco. Chiuso anche l’ultimo supermercato rimasto aperto. In totale 15mila i senza casa, mentre la prefettura di Modena ha fatto sapere che sono 7.231 gli sfollati ospitati in 23 campi e 17 strutture coperte e diversi alberghi anche nell’Appennino modenese.

l’Unità 01.06.12