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"Le tende in giardino", di Jenner Meletti

Bisogna arrivare all´alba, per capire quanti sono gli sfollati. Vedi le case chiuse e le strade piene di auto, quasi sempre due persone per macchina. Persone che si avvolgono nelle coperte alla ricerca di qualche altro minuto di riposo. Capisci che ci sono bimbi piccoli vedendo i biberon sul cruscotto. Vedi le tende nei giardini, negli spartitraffico, nei parchi e nei campi. Anche il sindaco di Novi, Luisa Turci, è uscita da poco dalla sua camera a quattro ruote. «Nel mio Comune ci sono 11.000 abitanti, frazioni comprese, e gli sfollati – comprese le persone che potrebbero avere la casa agibile ma che non ci entrano da tre giorni per paura delle scosse – sono 11.000. Nessuno dorme sotto un tetto di coppi e cemento». Sarà difficile che nelle prossime ore si torni nelle case. Le scosse arrivano una dopo l´altra come pugni nello stomaco. Alle 17 un sisma magnitudo 4, alle 20,55 una scossa del 3,6 e la scossa più dura, 4,2, alle 21,04. Il terremoto non si ferma, anzi sembra conquistare ogni giorno nuovi territori. Il confine del sisma, martedì mattina, quando è arrivata la grande scossa, sembrava qui, fra Rovereto e Concordia, che si guardano l´un l´altro dagli argini del fiume Secchia. Ma con le verifiche dei danni si scopre che il terremoto è andato oltre, ha superato Carpi, si è esteso a Moglia e nel mantovano.
A Carpi è ormai difficile trovare un posto, lontano dalle case, dove mettere l´auto per la notte o montare una tenda. «Noi siamo fuori dall´epicentro del sisma – dice il sindaco, Enrico Campedelli – perché abbiamo avuto danni e crolli ma non come a Mirandola o San Felice. Eppure anche nella mia città, 70.000 abitanti, nessuno dorme in casa. Con i volontari, il Comune ha organizzato un soccorso notturno. C´è chi gira per i giardini per offrire una bottiglia d´acqua o una coperta. Ho chiesto alle parrocchie, ai centri anziani e ai centri sportivi di restare aperti tutta notte, perché chi sta in auto possa trovare un bagno o una persona con cui fare due chiacchiere. Le tendopoli no, non le ho messe. Se le tiri su non vanno più via e la Protezione civile dice: “Avete la tendopoli? Allora l´emergenza è finita e noi possiamo andarcene”. Abbiamo sistemato le persone fragili – soprattutto anziani e disabili – nelle palestre, alcuni le abbiamo mandate negli hotel della montagna. Seicento in tutto. La cosa più urgente, adesso, è fare tante verifiche nelle case, per dare via libera a chi può rientrare. Ma le case sono migliaia e le squadre troppo poche».
Anche a Mirandola, nel cuore del sisma, il sindaco conferma che gli sfollati non sono soltanto i 15mila annunciati dalla Protezione civile (che ha contato chi è ospite nelle tendopoli o in altri rifugi). «La mia città – dice Maino Benatti – ha 25.000 abitanti e lo stesso numero di sfollati. Stanotte alle 4 ho fatto il giro attorno al centro storico e nelle periferie, nessuno era in casa». Mirandola fa parte della zona nord del modenese, assieme a Medolla, Cavezzo, Camposanto, Concordia, Finale, San Felice, San Prospero, San Possidonio. Insieme superano gli 85mila abitanti. Sommando gli 81.000 residenti fra Carpi e Novi, si arriva a 166.000 persone fuori casa. E poi ci sono gli sfollati di Correggio, Rolo, Reggiolo, Moglia… Si può calcolare un numero attorno alle 200.000 persone, anche lasciando fuori le decine di migliaia di abitanti del ferrarese, colpiti soprattutto dal primo sisma del 20 maggio.
A Concordia solo adesso si sta superando la prima emergenza. «Può sembrare paradossale – racconta il sindaco Carlo Marchini – ma il problema più immediato per noi è stato trovare dei gabinetti chimici. Per due giorni, martedì e mercoledì, la mia città di 9.000 abitanti – tutti fuori casa – ha avuto a disposizione quattro toilette in tutto, quelle della polisportiva. La Regione ci ha detto che poteva mandarne solo 15, io ne ho ottenuto 26, e così oltre che nella tendopoli che la Croce rossa sta finendo di montare nel campo sportivo, ne posso mettere qualcuno nella tante tendopoli spontanee sparse nei parchi. Ho il centro storico che è tutta zona rossa, sono crollate palazzi, case e chiese, e per due giorni devi lottare per trovare i bagni chimici».
C´è anche una tenda che sembra un reparto geriatria di un ospedale, accanto alla polisportiva. «L´abbiamo costruita già martedì notte – dice Giorgio Randi, coordinatore del 118 – per mettere al riparo gli anziani malati che abitavano in centro. Quindici sono allettati, hanno bisogno non di una tenda ma di un´assistenza intensa. Li stiamo trasferendo in ospedali e case di riposo». La Croce rossa sta distribuendo i primi pasti. A San Possidonio c´è il campo 2, dove sono arrivati i Tir della Protezione civile del Lazio. «Ma noi – dice con orgoglio Massimiliano Gardosi, della Protezione locale – già la prima notte dopo la botta siamo riusciti a mettere 150 persone sotto un tendone. Adesso quelli del Lazio stanno preparando tende con 400 posti, la mensa e la cucina. Ma secondo me le tende non vanno bene per gli anziani. Oggi, con il sole, lì sotto ci sono 39 gradi. Cerchiamo di mandarli in collina, i nostri vecchi, stiamo organizzando un primo pullman». Sotto il tendone, che sembra quello di un circo, donne e uomini aspettano il posto. «Guardi, dove passano questi soccorritori del nostro paese – raccontano Renzo Giubertoni e Benito Vaccari – bisognerebbe baciare la terra. Sono venuti a prenderci subito dopo la scossa e a mezzogiorno avevamo già da mangiare. La Possidiese Calcio – noi siamo nel loro impianto – ha anche una cucina. Alle 11 di sera passano di tenda in tenda, a chiedere se hai bisogno di un´altra coperta, se vuoi del latte caldo. A servirci a tavola arriva anche Ciro, che ha solo 13 anni, ma vuole “lavorare” e così si sente importante». «Le tende non sono ancora tutte prenotate – dice Massimiliano Gardosi – perché quasi tutti dormono in auto. Ma nei prossimi giorni arriveranno da noi. Tre notti in macchina ti spaccano la schiena».
Nella strada che va verso Rovereto anche i vigneti e i peschi, coperti dalle reti antigrandine messe a casetta, sembrano tendopoli. A Forcello, di un´intera casa colonica, è rimasta in piedi sono una Madonna di Fatima, davanti a un roseto. In un prato decine di tende, soprattutto canadesi. «Ci siamo organizzati da soli – raccontano Rino Marchetti, 80 anni e Michele Scala, 43 anni – perché sa, nei centri piccoli, i soccorsi arrivano tardi». Nessuno si lamenta, anzi. «I vigili del Comune, ogni giorno, ci portano i pasti. Certo, noi ci diamo da fare. Abbiamo affittato per un mese un bagno chimico e abbiamo chiesto a una ditta di portarci questo cassone di Tir. Ci abbiamo messo dentro i tavoli, così ci mangiamo la sera. E se piove, fuori i tavoli e dentro i letti, e ci andiamo a dormire».
A Rovereto, a gestire la mensa, ci sono gli scout. «Certo – dice Agnese Boccaletti – se ci mandassero una cucina da campo, sarebbe meglio. Cuociamo la pasta, oggi alla crudaiola, su questi fornelli a gas messi sull´erba». Oggi è già partito il secondo pullman per portare i vecchi in montagna, a Pavullo e Fanano. Massimiliano, 12 anni, esploratore scout, consegna i piatti di pasta e poi corre via. «Devo fare il sorvegliante del centro. Oggi non deve passare nessuno, nemmeno a piedi». I vigili bloccano tutti. C´è un distributore di benzina che ha avuto seri danni e potrebbe esplodere. Chiesa e palazzi crollati, strade vuote. Sembra davvero di essere in un paese perduto.

La Repubblica 01.06.12

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Il capannone senza tetto dell´operaio Ettore “Ora non mi fiderò più”, di MICHELE SMARGIASSI

«ECCO, io vorrei lavorare qui». Le mani di Ettore disegnano un immaginario bancone un metro sopra l´erba e le margherite. Qui? Sul prato? «Qui, là, dove ti pare, ma sotto il cielo azzurro, senza un tetto sulla testa». Chi ci aveva mai fatto caso prima, che le fabbriche hanno un tetto. «Chiaro che ce l´hanno, ma io in dodici anni di lavoro alla Wam non lo avevo mai guardato». Dopo la botta di domenica venti maggio lo guardavano tutti. «Nessuno di noi riusciva a concentrarsi come prima. Un occhio alla linea del montaggio e uno alle “bandiere”, le catene che pendono dalle travi: il nostro sismografo. In fabbrica lo sai quanti rumori e vibrazioni, ma ogni due minuti uno gridava “oh, hai sentito la scossa?”». Ma la paura stava passando, «Lunedì è stata una bella giornata, si sorrideva, si parlava di calcio». Se il terremoto ha una mente, è diabolica. Ha aspettato ancora un giorno che i nervi tornassero al loro posto: e ha colpito. «Stavo scrivendo la scheda dati di una macchina. Non s´è annunciato, è scoppiato. Non so come sono arrivato fuori, ci hanno pensato le gambe da sole. Eravamo pallidi come cadaveri, ma c´eravamo tutti».
Alla Wam di Ponte Motta, vicino a Cavezzo, il capannone dove Ettore Guida fa il capolinea montaggio è inagibile, ma non è crollato. «Poteva capitare a me… Ma il terremoto sceglie». È una vecchia conoscenza, il maligno sotterraneo. La prima volta che si sono incontrati, Ettore aveva nove anni e abitava nel centro di Napoli, la sua città. Era il 1980. «Il nonno ci fece andare sotto un arco di pietra, bravo nonno. Ma non ricordo paura, ero felice perché non si andava a scuola». Poi si diventa adulti e le paure arrivano. Non trovare lavoro, ad esempio. A ventun anni Ettore venne a cercarlo in Emilia. «Erano tempi che, se ti presentavi la mattina, al pomeriggio eri assunto». Qui, nella terra più piatta d´Italia, Ettore ha incontrato Ilenia, l´ha sposata, dodici anni fa hanno avuto Melissa, sei anni fa hanno comprato casa, una casetta terra-cielo giallo limone piena di sole e di mutuo ventennale.
Ettore era un uomo sereno e si chiede se tornerà ad esserlo. «Venerdì ci dicono se si ricomincia. Ma io non riesco a pensare di tornare in fabbrica. Non adesso. Non così». E guardate che Ettore è tutto tranne uno scansafatiche. A San Martino, venti case sotto l´argine del Secchia, lo conoscono. Il «circolo», un tendone con cucina professionale e due forni per pizze, lo manda avanti lui, è la casa di tutti, in una frazione che è come una famiglia. Oggi come non mai. «Metà delle case sono lesionate, nelle altre hai paura a tornare. Il primo giorno sono venuti i vigili a vedere se c´erano feriti, poi non s´è visto più nessuno». La minuscola zona rossa l´hanno recintata, poi sono andati a comperare le tende e hanno montato il campo nel pratone, «ci siamo aiutati da soli, ma ora la Protezione civile vuole requisirci il tendone della mensa, se ci provano facciamo le barricate».
Anche in fabbrica, Ettore tirava come un treno. «A me lavorare piace, anche per questi 12 euro l´ora». La Wam è una buona azienda, 400 dipendenti, filiali in tutto il mondo, fanno chiocciole d´acciaio che sembrano sculture, le «coclee» che aspirano acqua e sabbia. Mai uno sciopero neanche quando è arrivata la crisi, nel 2008, cassa integrazione a turno, denti stretti e avanti, «il titolare ci sa fare, ha investito e l´abbiamo passata».
Alla Wam, dopo la scossa del 20, avevano messo l´avviso in bacheca: i capannoni sono stati controllati, giovedì riprende il lavoro. «Ai cancelli ci hanno dato un foglio che diceva, allo stato presente l´edificio è agibile eccetera. Al presente, che vuol dire? Con la terra che trema tutti i giorni? I periti dicono solo se la fabbrica ha resistito, perché non si chiedono se resisterà anche domani?». Certo, la direzione ha detto anche: chi non se la sente si metta in ferie. «Ma io faccio un giorno di mutua in tre anni… In ferie fino a quando? E se sto in ferie, quando torno il capannone è più solido?».
Che senso ha poi stare a casa se a casa non ci vai. «Per fortuna la Multipla è a tre piazze… Ma ho la doccia a trenta chilometri di distanza, dai parenti». A lavorare dunque Ettore c´era andato, stanco e ansioso, «mi ero fidato, tu cosa avresti fatto?». Ti fideresti ancora? Sospira: «Siamo in una tenaglia. Se lavori rischi di morire, se non lavori muori di fame. Ti pare una scelta?». Ma Ettore è nella Rsu, i colleghi si aspettano qualcosa da lui. «Questa volta non basterà un foglio in bacheca. Voglio che vengano almeno i vigili del fuoco». E poi? Basterà? Allarga le braccia: «Negli ultimi vent´anni ho visto tirare su capannoni in una settimana. Prefabbricati. Dicono: tanto non è zona sismica. Sai cos´è una zona sismica? Quella dove è già venuto un terremoto, mentre una zona non sismica è quella dove il terremoto deve ancora venire. È come dire: non mettiamo gli estintori perché non è mai bruciato nulla, dunque questa è zona ignifuga. Basta, basta con ‘sta storia delle zone sismiche, una fabbrica non deve crollare mai, mai, da nessuna parte, per nessun motivo». Perché sotto ci sono uomini, non solo robot. «Io il robot che taglia la lamiera col laser ce l´ho, sotto quel tetto che mi fa paura. Lui non ha paura, io adesso sì. Lui è una macchina, io non sono un pezzo di macchina». E basta anche con la storia della fatalità: «Guarda il fiume. Una piena ti affoga. Il terremoto invece non ti uccide, non lui. Ti uccide il soffitto che cade, e il soffitto non è una fatalità».
Scappare? «C´è chi ci sta pensando. Io ho dei parenti a Trieste, m´han detto vieni qui. Sì, e come lo ritrovo un posto fisso? Mica è più come vent´anni fa. Poi ho quindici anni di mutuo della casa. E poi questo è il posto dove voglio vivere». Gli uomini non sono macchinari che si smontano e si rimontano ovunque.
Lo smartphone ronza. «Ho messo una app che mi dà l´entità delle scosse in tempo reale. Lo so, è ansiogeno, ma io voglio sapere». Tutta Italia vuole sapere. «Non è vero, fra tre giorni non parlerete più di noi. È andata così anche una settimana fa, se non tornava a tirare e a uccidere restavamo una notizia di quarta categoria, come saremo fra poco». Ettore, che farà? «Non lo so. Lavorerò, è chiaro. Ma adesso no. Dateci respiro, abbiamo il terremoto negli occhi e nelle orecchie, fateci recuperare la forza. Poi in qualche modo ce la faremo».

La Repubblica 01.06.12

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“Evacuate, arriva la scossa” sms, telefonate e false divise in Emilia è l´ora degli sciacalli, di Marco Marozzi

«Tutti fuori, sta per arrivare un´altra scossa molto forte». È il giorno degli sciacalli. La paura è esplosa, il terrore dilaga nelle terre del terremoto. Fatti reali e voci che rimandano ad altre voci, crescono, montano, si dilatano, immense. Da Modena a Ferrara, da Mantova a Bologna, da Reggio Emilia a Treviso. L´onda copre paesi, campagne, città. Intasa i centralini, i telefoni pubblici e privati, i siti e gli sms, entra nelle tendopoli, si infila dovunque. Parla di auto che girano chiamando la gente a scappare. Da case, uffici, negozi, supermercati, ospedali. Di falsi volontari in divisa. Di telefonate e di improvvisi suoni di campanelli alle porte. «Fuggite».
Polizia, carabinieri, guardia di finanza, corpo forestale, questori, prefetti, comuni, province, vigili continuano ad avvisare: «Non credeteci. Sono tentativi di sciacalli che vogliono introdursi in luoghi abbandonati in fretta, in porte lasciate aperte. Vogliono rubare». La stessa Protezione civile è costretta a fare una nota ufficiale: non credete agli allarmi, non è possibile «stabilire quante scosse e di quale intensità potranno ancora interessare la stessa area».
Catena della paura, catena delle istituzioni che cerca di fermarla. Le Procure di Modena Bologna hanno aperto fascicoli. Procurato allarme. Contro ignoti. Altre inchieste si annunciano dappertutto. Di sicuro c´è il furto di alcuni scatoloni di divise e maglie dal centro coordinamento soccorsi di Marzaglia, a Modena.
Poco prima che cominciassero a fioccare le segnalazioni di falsi volontari della Protezione civile in giro a urlare di scappare. Dappertutto. «Sono entrati due tizi qui al supermercato, – raccontano al Conad di Gonzaga, già nelle terre di Mantova – avevano una maglietta e dei pantaloni arancione fluorescenti. Dicevano che stava arrivando un´altra scossa. Pensavamo fossero della Protezione civile e al microfono abbiamo detto a tutti di uscire». Alla filiale di Mantovabanca, sempre a Gonzaga, l´uomo in divisa era solo uno, la tecnica identica. Segnalazioni simili arrivano da Suzzara, Poggio Rusco, San Giovanni del Dosso, Pegognaga.
I ladri bloccati sono mezze tacche o meno ancora. Nella notte a Gonzaga i carabinieri hanno fermato una Lancia Y con due milanesi di 35 e 45 anni con precedenti penali. Hanno detto di aver accompagnato in paese alcuni conoscenti. Avevano cacciaviti, piedi di porco, tronchesi, flessibile elettrico, avvitatore e torce. A Mirandola, nel modenese, sempre i carabinieri hanno denunciato cinque italiani tra i 17 e i 31 anni, tutti della zona. Avevano appena tentato di vendere a un gioielliere due anelli d´oro: nella loro auto, utensili per lo scasso. Nello stesso paese, sono finiti peggio un casertano di 50 anni e due mantovani di 20 e 21 anni, spesso nei guai con la giustizia. Sono stati arrestati per furto: di una bicicletta in un cortile.
L´incubo sciacalli è altro, un vento diventato tempesta. «Mi hanno telefonato dalla banca che sta per tornare il terremoto» dice alle dieci di mattina la signora in strada Maggiore, sotto le Due Torri di Bologna. A Modena stanno scappando tutti alla Cisl, Palazzo Europa. «Ha chiamato la Protezione civile». Stessa cosa al Comune, in via Cialdini. E all´Inail. L´allarme arriva in piazza XX settembre, al mercato. La ragnatela delle chiamate che chiamano altre chiamate è ormai colossale. All´Anagrafe e a Nonantola. «Hanno avvisato da Carpi. Fuori». I palazzi si svuotano, i centralini si paralizzano, le strade si riempiono. «Ha suonato al citofono uno della Protezione civile».
A Bologna i timori passavano dal centro alla periferia. Fra Limiti di Soliera e Carpi, poi a Modena veniva segnata «una Fiat chiara, una Punto o una Stilo» che avvisava con il megafono di uscire di casa. Stessa cosa verso Mantova. «Prendete la targa» implorano gli uomini dello Stato di tutte le divise. «Andate via immediatamente e prima di tornare aspettate il nostro intervento e la fine di tutti i controlli statici del caso» era il falso allarme segnalato a Treviso. A Sant´Agostino, Ferrara, a San Prospero, nel modenese, fin nella Bassa reggiana sono avvistati finti volontari della Protezione civile che girano per le strade strillando di uscire di casa. Il questore di Ferrara Luigi Mauriello parla anche di falsi sms. Altre voci citano servizi sentiti in televisione e articoli su testata inesistenti.

La Repubblica 01.06.12

"La vita, nonostante", di Massimo Gramellini

Ci stanno impartendo una lezione di vita. Non solo di sopravvivenza. Di vita. Questi sfollati che si spaventano ma non vogliono dare soddisfazione alla paura. Che piangono senza piangersi addosso. E che ricominciano a vivere, nonostante. Nonostante sia un cumulo di macerie, il supermercato di Mirandola funziona ancora: a cielo aperto. Hanno portato per strada le merci, i carrelli e naturalmente la cassa. Bisogna pur nutrirsi, coprirsi, curarsi. I verbi primordiali del vivere continuano a essere declinati al presente e al futuro, nonostante.

Amare, per esempio. Alice e Davide hanno confermato le nozze, nonostante la chiesa abbia perso un po’ di mattoni e il ricevimento sia stato dirottato fra le tende. Per la luna di miele si vedrà. Intanto c’è il miele, appena arrivato con il latte e i biscotti da Reggio Emilia sopra un Tir. E c’è la luna, che splende in un cielo di promesse e trema molto meno della terra.

La gastronomia di Medolla sforna gnocchi fritti, nonostante. Nonostante la gastronomia sia diventata una cucina da campo in mezzo alla piazza del municipio. Potrebbe accontentarsi di fare panini e invece preferisce esagerare.

E la merciaia? Ha pianto tanto e dormito in automobile con il marito più anziano di lei. Ma ieri ha riaperto bottega perché le donne del terremoto sono scappate di casa senza ricambi e si mettono in coda sotto il sole per fare incetta di mutande e reggiseno, nonostante.

La regina del marketing è la fruttivendola biologica che alle ciliegie sopravvissute alla scossa impone il cartello «duroni della rinascita», trasformandole nel frutto della riscossa. Intorno a lei scene di gentilezza e onestà che altrove sarebbero straordinarie, ma non qui, nonostante. Un cliente vuole un chilo di mele però non può pagarle perché il bancomat ha esaurito i soldi. La fruttivendola: «Le prenda lo stesso, pagherà domani». E lui: «Ci mancherebbe, vado a cercare un altro bancomat».

Poi ci sono i bambini che giocano, nonostante. E le loro mamme che cercano di trasformare il terremoto in uno spettacolo d’arte varia. Al piccolo che dopo una scossa di assestamento frignava, la mamma ha spiegato: «Adesso ti insegno un nuovo gioco. Il gioco del salterello». Il bimbo ha smesso di piangere. «Che gioco è?» «Funziona così: io canto una filastrocca e ogni volta che mi fermo, tu salti». La mamma si fermava ogni volta che c’era una scossa. Così le scosse sono diventate una parte del gioco e il bambino si è riempito talmente di gioia che non ha trovato più posto per la paura. E ha continuato a saltare, nonostante.

La Stampa 01.06.12

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“Sikh, romeni e musulmani L’immagine simbolo del sisma”, GIANNI RIOTTA

Ogni terremoto ha una sua immagine, che rimane per sempre, nel ricordo e nella storia. Di Messina, 1908, stima delle vittime tra 90 e 120.000 morti, abbiamo vecchie pellicole color seppia con i marinai russi della flotta del Mediterraneo, agli ordini dell’ammiraglio Livtinov, che con le corazzate Slava e Cesarevic e l’incrociatore Makarov portano i primi soccorsi. Del Belice, 1968, ricordiamo Cudduredda, la bambina di Gibellina che, estratta viva dalle macerie, muore in braccio a un vigile del fuoco piangente, il cronista Sergio Zavoli a due passi. L’Irpinia ci scuote con il grido di denuncia dei ritardi nei soccorsi del presidente Pertini, il Friuli per l’ordinata ripresa, l’Aquila con il frontone del Palazzo del Governo demolito, metafora dell’Italia smarrita.

Se dovessi scegliere un’immagine tra quelle che ho visto in giro per San Felice, Mirandola, Cavezzo, Medolla, nella Bassa Modenese, penserei ai sikh, gli operai venuti dal Punjab a lavorare da noi, seguaci della religione fondata nel XV secolo dal Guru Nanak Dev Ji, con i loro turbanti, persuasi che la fede in un dio supremo, e una vita laboriosa e onesta, siano destino dei giusti. Hanno pregato insieme per un loro compagno caduto in un capannone. O i ragazzi rumeni che chiedono alle telecamere: «Inquadrateci, poi diteci quando andiamo in onda e così mamma vede che siamo vivi». O i maghrebini: saldatori, vetrai, manovali che, incrociando le schede telefoniche, provano a rassicurare casa.

Meriterebbero di andare nell’album di una tragedia tutti i 17 morti, i 350 feriti, i 15.000 sfollati che il Fato ha tolto a una routine bonaria di dovere, famiglia, benessere. I tecnici del business biomedicale, il secondo del pianeta, che al telefono raggiungono i clienti in tutto il mondo, valvole cardiache, strumenti per la dialisi, rassicurando che presto la produzione ripartirà. Sanno che milioni di malati, in cinque continenti, hanno bisogno dei loro prodotti, sanno che in sei mesi possono perdere il mercato a vantaggio dei concorrenti, sanno che tantissimi in Italia vivono dei frutti della valuta che importano. Chiamano Los Angeles, Pechino, Melbourne dalla tenda in via Libertà di Cavezzo, dal campo di calcio di Mirandola, dalla roulotte: «Tutto ok, gli ordini partono prestissimo, davvero tutto a posto qui, business as usual…» e controllano i figli sul prato. Ho visto gli anziani, con la cannula dell’ossigeno, in cerca di farmaci mentre il dottor Borelli di Medolla, farfallino al collo, si sgola per far arrivare una farmacia mobile. Chi ha bisogno di un catetere, chi soffre il caldo della tenda, chi deve andare in ospedale per le piaghe. Nessuno si lagna, generazione Giobbe.

Gente come il giornalista Carlo Marulli, tra i fondatori del quotidiano «Il Foglio» a Bologna nel 1975, con gli intellettuali del Mulino, Pedrazzi e Gorrieri, poi alle riviste della satira, Il Male, Cuore, e ora in campagna nella Bassa, che dai tweet @carlomarulli illustrati con irriverenza dai baffi di Stalin, sfollato con una figlia piccola, nota come sembrino «allegri i parchi pieni di tende», con gli anziani a chiacchierare e i bambini, felici di non avere scuola, a contendersi le altalene.

Un’illusione di festa, certo, una sagra paesana che la dignità emiliana tiene moltissimo a rappresentare davanti ai forestieri, ma la tragedia incombe nella domanda che è diventata saluto: «La casa è su?». «La casa è su» vuol dire la vita riprenderà presto, «la casa non è su» allunga la precarietà. La comunità tiene insieme tutti: lacrime, sorrisi, pacche sulla schiena. Forse la crepa più profonda, su cui noi dinosauri dell’informazione e pronipoti del web dovremmo insieme riflettere, con umiltà, è quella che divide la realtà in Emilia dalla sua rappresentazione nei media. Parata sì, parata no del 2 Giugno sui siti: in Emilia nessuno ne parla. Un pensionato mi ha detto: «Senta, al massimo, visto che non vogliono a Roma le Frecce tricolori che a me piacciono tanto, perché non le mandano qui a sorvolare l’Emilia, a salutarci, il 2 giugno? Mi promette di farlo sapere al presidente Napolitano?». Mantenuto, signor Guido.

Capannoni sicuri o no: in Emilia tutti son certi che ora non son più sicuri, ma, come dicono al Genio Civile, «prima li testavamo contro il vento, il solo rischio, erano a norma delle leggi che esistevano, chiaro adesso non vanno più bene». Potete eccepire a questa logica? Non nella Bassa.

Forse la foto che simboleggia insieme la Bassa, l’Emilia e l’Italia 2012 è quella della Rocca Estense a San Felice sul Panaro. Capolavoro dell’ingegnere militare Bartolino da Novara, così d’avanguardia che nel 1404 sa trasformare in arma strategica perfino gli argini del Po. Tre crepe, una da destra, una da sinistra, la terza dal basso, la lacerano senza rimedio. Ogni scossa la fa tremare. Da lontano i curiosi si chiedono come stia in piedi. «Sembra il vaso dei fumetti di Tom e Jerry – dicono tutto crepato, appena lo tocchi va in pezzi». Invece, finora, resiste, simbolo delle coscienze che la circondano. Potrebbe essere domani, 2 giugno, simbolo della Repubblica italiana, ricca di genio, antica di storia, maestosa per bellezza, spaccata dalle crepe della corruzione, dell’egoismo, dell’ingiustizia, scossa dalla rissa politica, eppure in piedi, bellissima.

La Stampa 01.06.12

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“Basta con le esagerazioni l’Emilia non è scomparsa”, di Michele Brambilla

Nelle ultime due settimane in Emilia Romagna ci sono stati 24 morti e danni per svariati miliardi di euro; gli sfollati sono quindicimila. Bastano queste cifre per dire che una situazione è grave e degna di attenzione da parte di tutti gli italiani? Evidentemente no, non basta. Così sono giorni che in tv, alla radio e sui giornali si sente parlare di «interi paesi cancellati dalle carte geografiche», o più sobriamente «rasi al suolo». Ho sentito dire che Cavezzo, dov’ero appena stato, «non esiste più». Ci sono titoli sui siti web – anche, ahimè, dei grandi giornali – che parlano di migliaia di emiliani che «soffrono la fame», di «assalti di sciacalli alle case danneggiate».

Mi domando se chi dice e scrive queste cose sia stato davvero in questi giorni a Mirandola, Cavezzo, Rovereto sul Secchia, Medolla, Carpi. Paesi che hanno subito danni ingentissimi e molti lutti: ma che esistono ancora. Paesi popolati da persone in difficoltà: ma non ridotte alla fame. Paesi in cui i capannoni crollati sono per fortuna una piccolissima percentuale, non la norma. Paesi in cui le abitazioni private hanno tenuto, grazie al cielo: anzi, grazie agli emiliani che le hanno costruite meglio che altrove.

C’è stato un terremoto, e basterebbe usare questa parola, terremoto: ce ne sono molte altre che incutono più terrore? E invece no: si parla di inferno, di un mondo spazzato via, di un’intera regione in ginocchio. Non è così: provate a girare per tutta l’area, da Modena fino su ai paesi dell’epicentro, e vedrete un film che non è quello che viene raccontato. Un film drammatico, certo. Ma perché dire e scrivere che è come il Friuli, l’Irpinia, L’Aquila? In Friuli ci furono mille morti, centomila sfollati, 18.000 case completamente distrutte, 75.000 gravemente danneggiate. In Irpinia tremila morti, 280.000 sfollati, 362.000 abitazioni distrutte o rese inagibili. L’Aquila è ancora oggi, quella sì, una città in ginocchio. L’Emilia no: la gente che vi abita ha paura, e questo è comprensibile, ma le grandi città sono intatte, il 95 per cento dei paesi pure, eppure l’altra sera in tv abbiamo sentito parlare (testuale) di «una regione distrutta».

Tutto viene enfatizzato a dismisura, a partire dalla paura della gente, che già ha buoni motivi per avere paura. L’altra notte l’ho trascorsa in piedi fra la gente in tenda. Una notte certamente disagevole, soprattutto per la preoccupazione per il futuro. Ma non ho visto alcuna scena di panico. La mattina alle nove accendo la radio e sento: «Notte di terrore nelle tendopoli per sessanta nuove scosse». Che ci sono state, ma non tali da essere percepite.

Non si tratta di sminuire la gravità di quello che è accaduto, ma di evitare che ai danni del terremoto si aggiungano quelli di un’informazione drogata. L’altra sera parlavo con Michele de Pascale, assessore al Turismo del Comune di Cervia. Mi diceva di non capire la contraddizione: «Stiamo accogliendo nei nostri alberghi gli sfollati perché qui da noi sono al sicuro. Poi riceviamo disdette per quest’estate: i clienti hanno sentito in tv che l’Emilia è distrutta. L’altro giorno un albergatore mi ha detto che lo hanno chiamato dalla Germania per annullare la prenotazione e hanno chiesto: ma siete ancora vivi?».

Domande alle quali ne aggiungo una diretta umilmente alla categoria di cui faccio parte: vogliamo davvero aiutare gli emiliani a ripartire? Atteniamoci ai fatti. Sono già abbastanza gravi che non c’è bisogno di metterci il carico.

La Stampa 01.06.12

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I riflessi sociali La fuga degli immigrati: “Qui si rischia troppo”
Allarme manodopera: 3-4 mila famiglie verso il rimpatrio volontario
di Marco Alfieri

L’economia rischia di subire ulteriori ripercussioni dalla fuga degli immigrati
13% degli occupati, questa la percentuale di lavoratori stranieri presenti nelle aziende dell’Emilia. Molti stranieri hanno già lasciato l’Emilia. Il distretto conta 53 mila addetti per 142 milioni di euro di contributi previdenziali. Molti piccoli centri tornati a vivere grazie a loro ora potrebbero sguarnirsi”. Qualcuno la chiama la diaspora degli stranieri, altri direttamente la fuga. «Dopo la botta di martedì i miei 4 operai romeni e indiani sono scappati via, da 3 giorni non ho notizie…», racconta Sergio Ratti, titolare dell’omonimo salumificio di San Biagio, specializzato nella lavorazione e vendita di carni, pollame e insaccati.
Sami invece è un ragazzone ghanese di 24 anni, in Italia da 3. «Lavoro in una azienda ceramica», dice trafelato col vassoio in mano della mensa mobile vicino a Novi. «Mia moglie e mia figlia sono già ripartite, vediamo che succede ma qui si rischia troppo…». Vicino a Medolla, al caseificio Speciale di Camurana, mancano all’appello due lavoratori cingalesi. Anche loro fuggiti, sembra in collina…
Quel che ha cominciato a fare la crisi tre anni fa – nel cratere del mostro s’incrociano decine di cartelli affittasi e di costruzioni invendute che hanno portato al taglio di 1.200 posti di lavoro stranieri nei cantieri -, rischia di completarla il terremoto. Il modenese è una provincia di grande densità migratoria. «La forza lavoro extracomunitaria conta 53 mila addetti per 142 milioni di contributi previdenziali. Vale circa il 13,5% del totale occupati», spiega Ermes Ferrari degli artigiani Cna. Ma nei comparti ceramico, meccanico, edilizio, lavorazione carni e agricoltura salgono al 20%. A spanne indiani e pakistani nelle stalle; romeni, tunisini e marocchini nei campi e nel mattone; ghanesi, cinesi e cingalesi nei cicli di lavorazione pesante e nell’agroalimentare. Nei distretti del sisma ci sono interi paesi quieti e multietnici che adesso rischiano di sguarnirsi.
«Alcune stime parlano di 300 marocchini che starebbero rimpatriando mogli e bambini solo tra qui e San Felice», spiega una maestra della scuola di lingua per stranieri di Mirandola. Manca un censimento ma basta farsi un giro per trovare conferme. L’altro ieri girava per le tendopoli il console tunisino, offrendo viaggi gratis di rimpatrio.
Abdel, marocchino smilzo di 27 anni, lavora in un’aziendina che fa zincature a caldo. Il capannone è lesionato, non si può entrare e Abdel vorrebbe scappare via. «Molti miei amici nella meccanica se ne sono già andati in auto», racconta mentre insegue il figlioletto in bici per il campo tende davanti alle scuole di San Felice. Alcuni stranieri arrivano per il pranzo, altri dormono in auto, hanno la casa rovinata. Seduto su una sedia sotto un albero c’è Hosni, tunisino. Parla un buon italiano. «Sono qui da 12 anni», dice. Fa l’operaio alla fonderia Scacchetti e sta ancora pagando il mutuo della casa. Ha due figli e la moglie che lo guarda da lontano dalla fila del bagno chimico. «I primi ad andarsene martedì sono stati i moldavi, poi polacchi e ucraini», ci spiega con il fare di chi la sa lunga. «I maschi di solito lavorano nei campi, le donne fanno le badanti o il lavoro domestico». Sono ventimila nel Modenese. Un esercito rosa al servizio di bambini e anziani. Ma dipende anche dalle etnie. La notte del 20 maggio, quando è arrivata la prima scossa, a Carpi e Mirandola gli unici bar che hanno aperto per dare ristoro alla gente scesa in strada erano quelli dei cinesi cuor di leone. Però nelle fabbriche, nelle stalle e nei caseifici è un’altra cosa.
Umberto Franciosi della Flai Cgil di Modena ammette la fuga. «Gli italiani hanno la rete familiare, chi la casa in Romagna per tenersi distanti dalle angosce chi gli amici pronti ad ospitarli, gli stranieri no». Sono soli pur pagando un prezzo altissimo al terremoto con 3 morti (il marocchino Mohamad, il pachistano Kumar e il cinese Hou) e tanti feriti. «E’ comprensibile che qualcuno scappi via per la paura».
Nella tendopoli di piazza del mercato a San Felice, il 70% degli accampati è straniero, gli avvisi comuni sono scritti in doppia lingua, italiano e cinese. Nico sta posteggiando la sua Renault Clio davanti al recinto. E’ romeno, il figlio più grande di 12 anni con la maglietta di Ronaldo gli va incontro. «Lavoro alle Officine Borsari di Cavezzo, ringraziamo i volontari che ci assistono ma è vero che molti stanno partendo», ammette quasi a disagio. «Se continua questa psicosi potrebbero andarsene 3-4mila famiglie straniere», impoverendo le filiere produttive del territorio.
L’incertezza è una brutta bestia. A Migliarina di Carpi, sulla strada per Guastalla, c’è Italcarni, il più grande centro di macellazione dell’Emilia Romagna. 14-15mila suini macellati la settimana e poi consegnati a prosciuttifici, salumifici, industria della trasformazione e grande distribuzione. Lo stabilimento ha riaperto ieri mattina dopo due giorni di stop per le verifiche. «La struttura ha tenuto, è caduto solo un pezzo di controsoffitto in mensa», spiega l’ad Roberto Carù. In Italcarni ci lavorano 250 addetti ma più del 20% è straniero. Ci sono indiani, pakistani, cinesi e nordafricani. «Qualcuno oggi manca all’appello nel reparto produzione – continua l’ad -, la paura di rientrare è tanta…».
A Finale Emilia, altro comune piegato dal sisma, anche l’assessore alle Attività Produttive, Angelo D’Aiello, conferma la fuga. Oltre al dramma umano, sarà un problema in agricoltura. «Tra qualche settimana, non sarà facile trovare braccianti per la cura dei campi e la raccolta frutta…».

La Stampa 01.06.12

"Deroga al patto di stabilità. Un sostegno da 2 miliardi", di Roberto Bagnoli

Dovrebbe valere circa 2 miliardi di euro la deroga al Patto di stabilità dei Comuni terremotati decisa dal Consiglio dei ministri di ieri. Ma è una cifra ipotetica, valutata sul calcolo provvisorio dei danni alle imprese e al tessuto sociale e produttivo delle zone danneggiate dal sisma. E al netto degli aumenti varati per la benzina e delle misure fiscali. Infatti il comunicato del governo parla di un «limite definito» di sforamento senza quantificarlo. Lo si farà in un secondo tempo, quando sarà più chiaro il quadro della situazione anche perché purtroppo la terra continua a tremare e i muri a crollare.
Resta comunque importante il fatto «politico»: il governo dei tecnici e del rigore per la prima volta accoglie l’idea di aprire un varco nella possibilità di sforare la spesa, anche se sotto la pressione dell’emergenza. «Di fronte alla drammaticità degli eventi il governo si è immediatamente impegnato — ha spiegato il ministro per gli Affari europei Enzo Moavero, appena tornato ieri sera da Bruxelles proprio per discutere di bilancio europeo — per preparare il terreno in modo che nei territori colpiti si possano fare investimenti per la crescita al di fuori del patto». La Commissione capirà e dai partner è quasi scontato il via libera.
Dopo l’apertura del presidente Ue Manuel Barroso alle proposte avanzate in prima linea da parte del premier Mario Monti — introduzione della golden rule, cioè non far pesare sul deficit gli investimenti pubblici produttivi — è possibile, secondo il ministro, che «si possa avviare una partita parallela che riguarda le zone colpite». Sarebbe un passo importante di forte semplificazione burocratica. Non così fu per l’Abruzzo che, per ottenere la deroga europea e l’accesso ai fondi, dovette produrre una lunga serie di documenti.
La politica deve aver già sentito il cambiamento di clima, senza necessariamente scomodare il nuovo presidente francese Hollande, se l’altro giorno la Camera ha salutato con votazione bipartisan la proposta di Dario Franceschini (Pd) di allentare sin da subito il Patto di stabilità per i Comuni colpiti dal terremoto. Favorevoli si sono detti anche Pdl, Idv e la Lega. Il governo si muove comunque con prudenza, attento a non urtare la suscettibilità di Bruxelles. Già due giorni fa il coordinatore degli assessori al Bilancio delle Province italiane, Antonio Rosati, aveva proposto di allargare anche alle Province l’eventuale sblocco del Patto di stabilità interno facendo balenare che «in cassa ci sono 8 miliardi di euro», pronti per essere spesi insieme con i Comuni. A metà maggio, prima del terremoto, 70 senatori del Pd, guidati da Raffaele Ranucci, avevano sottoscritto una mozione per allentare il Patto di stabilità per gli Enti locali così da mettere in moto opere modeste ma in grado di alimentare la piccola e media industria e diminuire così il ricorso agli ammortizzatori sociali. Sforamento sì, ma con moderazione.

Il Corriere della Sera 31.05.12

"La lezione più difficile", di Franco Mosconi

Avrei dovuto scrivere, qui dall’Emilia centrale, questo articolo l’altroieri, proprio martedì 29 maggio: ma quello che è stato (purtroppo) ribattezzato il «terremoto infinito» non lo ha consentito. Beninteso, i mezzi tecnologici oggi a disposizione rendono possibile, anche in una giornata così, tutto: la trasmissione di immagini e di informazioni, come sappiamo e vediamo, avviene a ritmo continuo. Non è lì, nella tecnologia, il problema. Quando intorno alle due del pomeriggio ho parlato al telefono col direttore di questo giornale la terra – qui in Emilia, nella provincia di Modena in particolare – aveva appena tremato per la seconda volta. Dopo l’iniziale scossa delle 9.00 quella intorno alle 13.00: in quel preciso istante qualcosa è cambiato nella testa e nell’animo delle persone. Difatti, dopo la prima scossa, tutte le scuole – come si suol dire – “di ogni ordine e grado” hanno posto in essere le loro ordinate procedure di evacuazione.
Era una bellissima giornata di sole.
Ma nei luoghi feriti a morte dal sisma, con nuove vittime nelle fabbriche e nelle Chiese, c’era, e c’è tuttora, lutto e silenzio. In tutti gli altri luoghi, colpiti sì dal sisma ma non piegati del tutto, ecco che – come per incanto – parchi e giardini pubblici si riempivano di bambini (senza zainetti, che col loro carico di compiti sono rimasti a scuola!). E di nonni. E di mamme e papà che, nel frattempo, dai luoghi di lavoro si precipitavano verso le loro rispettive città di residenza. Eravamo in tanti – martedì 29 – in uno di questi parchi e giardini di cui sono piene, spesso anche in centro storico, le nostre città emiliane. Avevamo raggiunto i nostri bambini a metà mattina, oggi possiamo dire fra la prima (che ha colto tutti noi sui luoghi di lavoro) e la seconda scossa. Giocando e correndo, la loro ansia e la loro paura per il primo terribile botto – quello delle 9.00, quello dove si sono riparati sotto il banco – stavano, poco a poco, svanendo. Si avvicinava così l’ora del pranzo; o, per meglio, dire, del panino e della pizzetta: nessuno, soprattutto fra chi abita in centro storico, voleva (poteva) rientrare a casa. La terra ha tremato sotto i nostri piedi per tanti altri lunghissimi secondi proprio quando tutti noi – genitori, nonni e bambini – eravamo in fila al chiosco o al bar per prendere qualcosa da mangiare. In quel momento è certamente nato – se guardiamo le cose dal punto di vista geologico – il «terremoto infinito», come si ricordava in apertura. Ma in quel momento, guardando gli sguardi dei bambini, tornati pieni di ansia e di paura, è nato anche qualcos’altro. Vogliamo chiamarla una nuova «età dell’incertezza»? Forse sì, tenendo conto che non ci si sente più sicuri di ciò che può accadere nelle ore che hai davanti nella comunità in cui vivi.
Scrivo dunque questo articolo il giorno dopo, mercoledì, per tentare – come con Stefano Menichini ci siamo detti nella nostra telefonata – una primissima valutazione, per così dire, “economico-industriale” del terremoto e delle sue conseguenze. Per essere ancora più accurati: la quantificazione dei danni compete alle autorità e sarà un esercizio difficilissimo. In questa sede vogliamo iniziare a gettare luce sul potenziale produttivo proprio di queste terre, un potenziale che il paese tutto non può permettersi il lusso di vedere amputato. Per semplicità possiamo concentrarci sulle medie imprese industriali e sui distretti, entrambi fra i principali protagonisti della manifattura (di qualità) italiana.
Primo, le medie imprese: la nota indagine Mediobanca- Unioncamere stima che nel Nord Est (di cui l’Emilia Romagna fa parte) ve ne siano 1238, capaci di produrre il 15% circa del valore aggiunto dell’industria manifatturiera di questo pezzo d’Italia. Tuttavia, aggiungono i curatori, «il volume dei loro acquisti di beni porta a valutare un indotto pari all’11% circa. Il peso complessivo è dunque pari al 26% (contro il 21% della media nazionale)». In Emilia Romagna ce ne sono più di 500 di queste società, e ognuna di loro – come dimostrano i dati or ora citati – vale non solo per se stessa ma anche per l’indotto che è capace di generare. Sono le nostre “multinazionali tascabili” che esportano più del 50% del loro fatturato.
Secondo, i distretti industriali: in Emilia Romagna sono disseminati lungo la via Emilia e in alcuni casi rappresentano veri e propri simboli del made in Italy. Le piastrelle di Sassuolo, la meccanica strumentale di Modena e Reggio Emilia, l’agroindustria di Parma, l’abbigliamento di Carpi e così via nei settori tradizionali, fino al polo tecnologico del biomedicale di Mirandola, il più duramente colpito dal terremoto di questi giorni. Il monitor dei distretti di Intesa Sanpaolo censisce trimestralmente le performance dei 15-20 distretti e/o poli emiliano-romagnoli, parte rilevante dei circa 150 a livello nazionale. L’indicatore utilizzato è l’export: nel 2011 le esportazioni distrettuali dell’Emilia- Romagna sono state pari a oltre 10 miliardi di euro, in aumento rispetto all’anno precedente.
C’è un unico indicatore macroeconomico, in giro per il mondo, che volge sempre al bello: la dinamica di crescita del commercio internazionale, stimata al 6% medio annuo. È un’onda che l’industria italiana deve avere l’ambizione di cavalcare se si vuol dare al paese la ragionevole speranza di un nuovo ciclo di crescita. Parlando della forza intrinseca dell’industria europea, Romano Prodi è solito descrivere «un cilindro della manifattura europea che va da Amburgo a Firenze». Ebbene, il sisma di questi giorni ha messo in ginocchio una parte consistente del versante italiano del «cilindro» sol che si pensi all’epicentro del sisma e alla sua diffusione lungo la via Emilia e ben al di là di essa. Ora, le «filiere produttive» che hanno come terminali le medie imprese, in molti casi, sono state spezzate dall’onda d’urto del sisma (quello del 20 maggio e poi quello di martedì): esse vanno riattivate nel più breve tempo possibile; così come vanno riannodati i fili della cooperazione fra le imprese localizzate nei distretti. Come conseguire questi obiettivi della ricostruzione? L’intervento delle autorità è essenziale, come dimostrano i richiami del presidente Napolitano, i primi provvedimenti del governo Monti, il lavoro sul campo della Protezione civile d’intesa con la regione e tutti gli enti locali. Ma di fronte a una tragedia – umana, sociale ed economica – di queste proporzioni serve qualcosa in più. È quel qualcosa che ha a che fare con lo spirito civico di una popolazione; con i legami di fiducia che intercorrono fra i suoi membri, legami capaci di rappresentare altrettanti “ponti” che promuovono la collaborazione tra ambienti diversi.
L’Emilia-Romagna eccelle, a livello nazionale e internazionale, in tutti gli studi che riguardano il cosiddetto «capitale sociale» (che è la definizione data dagli esperti a questi legami di fiducia). Ai bambini usciti ordinatamente, ma col batticuore, dalle loro scuole martedì scorso non la puoi però raccontare così. Puoi solo dirgli che gli adulti di questa terra hanno oggi il compito più difficile di sempre: lavorare insieme per poter riaprire case, scuole, ospedali, chiese e fabbriche. È una lezione antica, troppo spesso dimenticata: del benessere che abbiamo raggiunto ce ne accorgiamo solo quando sta scivolando via. È il tempo oggi di far tesoro di questa lezione.

da Europa Quotidiano 01.06.12

"Quella terra è il nostro futuro", di Clara Sereni

Ho in mente un ricordo, come una fotografia: nella sua ultima apparizione pubblica una grande donna, Maria Cervi, arriva a un’iniziativa di solidarietà in mezzo all’Umbria più deserta, fiera di portare in dono una forma intera di parmigiano reggiano da mangiare insieme, per fare comunità. E dopo fa un piccolo discorso, e chi c’era aveva una grande groppo alla gola, per dire che la nuova resistenza è questo, stare insieme e aiutarsi e guardare avanti e progettare anche quando le cose sono difficili: perché quando un raccolto viene assassinato non ci si può arrendere, bisogna arare seminare e curare, e una nuova messe crescerà. Senza dimenticare mai che ogni germoglio, ogni spiga, ogni zolla fa parte del mondo intero, e a quello non si deve smettere di rapportarsi: adesso diciamo “glocale”, il mappamondo
inalberato sull’aratro dai fratelli Cervi cominciò a dirlo più di settant’anni fa. E ancora: nella narrazione famigliare, le prime notizie che ho avuto dell’Emilia Romagna erano le storie dei treni dei bambini di Napoli, di Cassino, delle zone più affamate e distrutte dell’Italia post-bellica accolti lì da famiglie di contadini e operai appena appena meno sfortunati, ma comunque pronti a dare una mano, a nutrire i corpi e anche le anime di chi si trovava in difficoltà più gravi e devastanti. Questa lunga tradizione oggi si confronta e ci confronta con una catastrofe, e per la prima volta le parti appaiono rovesciate: quelle terre chiamano in causa ogni capacità che abbiamo di solidarietà profonda, di sguardo verso il futuro. Fra le immagini terribili di questi giorni, una mi ha colpita particolarmente: le vie deserte di Mirandola, le macerie, il silenzio rotto quasi con violenza da un canto forte di uccelli. Come se la natura riaffermasse così la propria forza invincibile, o addirittura la sua vendetta contro di noi che l’abbiamo violentata e offesa. Tutta l’Italia è violentata e offesa. Fragile. Tutta l’Italia è un Paese in cui l’emergenza di un disastro «naturale» in qualche modo cancella la memoria di quello immediatamente precedente. Passiamo da un terremoto a un’alluvione, da un bradisismo a un’eruzione vulcanica, e ogni volta le stesse domande, e – quasi sempre – anche le stesse risposte: frettolose e comunque tardive, insufficienti, raffazzonate. Ogni evento luttuoso fa storia a sé, e si tira avanti. Senza mai nulla prevenire. Non lavorando a un’altra semina, a un altro raccolto possibile, ma limitandosi a sopravvivere con quel che c’è, predisponendo in questo modo un’altra carestia. Ognun per sé, e non c’è un Dio per tutti. E a far da cornice buia c’è la crisi mondiale, di cui non si vede la fine. Tutto sembra congiurare per farci arrendere, per farci abbassare la testa. Arrenderci no, abbassare la testa può essere
una buona cosa da fare. A capo chino si guarda intanto con più attenzione quanto c’è e si muove sotto e intorno ai nostri piedi. Con gli occhi bassi si può smettere di occuparsi di consumi inutili e inutilmente indotti, per tornare a puntare su ciò che serve davvero. In questo senso la proposta avanzata da Monti di sospendere il campionato di calcio per un certo periodo è certo un segno del desiderio di legalità e moralizzazione che ci attraversa, ma può essere letta anche come una diversa allocazione di risorse non solo economiche: se le forze dell’ordine – per fare un esempio – non fossero impegnate ad ogni pié sospinto nella gestione di eventi sportivi, è ragionevole sperare che il controllo del territorio ne avrebbe un beneficio percepibile. Se la bolla di speculazione in cui il calcio dei campioni pagati a peso d’oro è imbozzolato si afflosciasse, lo sport di tutti potrebbe avvantaggiarsene. E si potrebbe continuare con gli esempi.
Non c’è dubbio alcuno che il terremoto, come la crisi, è e resta una tragedia. Da cui si esce ripiegandosi su se stessi e rimpiangendo il passato, oppure ri-progettando il futuro su basi nuove, con un orizzonte diverso e più lungo. Gli emiliani l’hanno sempre fatto, e di sicuro lo faranno anche in questa occasione tremenda. Ma questa volta, con l’umiltà e la consapevolezza che occorrono, tocca a tutti noi mostrare che la lezione durissima l’abbiamo imparata, che non siamo più alunni ma sappiamo invece affiancare i maestri: per una semina nuova, per il raccolto che verrà.
Avendo davanti un orizzonte finalmente lungo, il più possibile sgombro da inutili orpelli. Un orizzonte per crescere davvero, dentro e fuori.

l’Unità 31.05.12

"La terza repubblica nelle mani dei grillini", di Massimo L. Salvadori

La rachitica Seconda repubblica va disfacendosi mentre la Terza sta nascendo senza neppure una levatrice che ne accompagni la venuta al mondo. Semplicemente nasce nel disordine della politica, tra le paure dei “vecchi” soggetti politici, tutti più o meno traumatizzati, e il trionfalismo dei nuovi salvatori grillini di una Patria che neppure riconoscono. Il quadro è chiaro. Da un lato vi sono clamorosi fallimenti, tutta una messe di grandi ambizioni enfaticamente proclamate e impietosamente frustrate: quelle del Pdl, che poche settimane or sono aveva annunciato di essere portatore di una novità politica destinata a cambiare alla radice il quadro nazionale; quelle del Centro di Casini, Fini e Rutelli, clamorosamente deluso nella sua aspettativa di gonfiarsi con la raccolta dei transfughi del berlusconismo; quelle della Lega, che si presenta come un pallone ridotto a brandelli. Dall´altro si collocano il Pd, l´Idv, la Sel, le componenti dell´incerto schieramento a sinistra degli altri, le quali formano più una figura topografica che un´alleanza politica, poiché in continuazione ora si accostano, ora si discostano. Questo centrosinistra dalle deboli cerniere, grazie alle eclatanti debolezze del Pdl e della Lega, che avevano diviso i loro destini ed erano piombate in processi di dissoluzione interna, ha vinto sì le elezioni amministrative di maggio, ma senza uno slancio innovatore e rinnovatore. Di fronte alle sconfitte degli avversari Bersani ha buone ragioni nel rivendicare il risultato ottenuto dal Pd; però, quando volge lo sguardo dall´esterno all´interno del suo partito e ai risultati delle primarie che nelle ultime e penultime elezioni amministrative hanno provveduto a selezionare i candidati, deve fare conti piuttosto amari.
Ma, al di fuori dei “vecchi” partiti (suona davvero ironico chiamare così soggetti nati tutti da relativamente pochi o pochissimi anni nel tritacarne della politica italiana del passato Ventennio), ecco che è emerso come un sole fulgente il Movimento Cinque Stelle, il quale – dileggiato fino a ieri quale anti-politico, manifestazione di una sfrenata demagogia senza né arte né parte – dopo il trionfo di Parma viene considerato, anzitutto da boccheggianti esponenti del Pdl, come un nuovo modello. Dal dileggio all´acritica ammirazione. La lezione invocata dai delusi di sé è che i partiti non devono essere più partiti, ma piazze aperte animate da arditi Masaniello. Grillo ripete così la parte prestigiosa che era stata di Bossi e il suo Movimento quella che era stata della Lega (anche se con un rovesciamento, nel senso che fino a tempi recentissimi quest´ultima veniva esaltata in quanto “vero” partito, partito cioè radicato nel territorio e tra le masse, con le sue vitali sezioni, insomma una sorta di reincarnazione del Pci nei suoi anni d´oro).
A guardare la scena italiana, vi è davvero da preoccuparsi, a partire dell´ennesima anomalia che essa rappresenta rispetto ai maggiori paesi europei. In questi i partiti durano nel tempo e obbediscono al loro compito; da noi vanno e vengono e causano una permanente instabilità. Mentre nel caos del sistema politico nasce la Terza repubblica, la guida del paese, per sua fortuna, è affidata a due personalità di alto profilo e prestigio personale: il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio affiancato da ministri a loro volta di una qualità quale non si era vista da molto tempo, che hanno riconquistato il rispetto dell´Europa e del mondo. Il loro compito è arduo e ingrato per le durezze che si trovano a dover imporre a un paese in preda a una gravissima crisi economica e per le difficoltà della sua navigazione in Parlamento. Compiono i loro sbagli, ma hanno certo grandi meriti. Quello che non possono fare è apprestare i rimedi alle disastrate condizioni dei partiti.
Il rimedio è affidato a Grillo? Partiamo dal suo successo a Parma. Il nuovo sindaco ha proclamato che nella città hanno vinto i cittadini, essi soli, che hanno riconosciuto nel Movimento Cinque Stelle il motore della rinascita, prima ancora che politica, etica. Peccato per lui e Grillo che in realtà la sua vittoria non sia stata affatto il purificante successo del “nuovo”, ma quello di una ibrida, non limpida commistione elettorale del grillismo con il Pdl allo sbando e con quanti si sono stretti in un comune abbraccio allo scopo di sconfiggere il Pd. Proseguiamo con una riflessione sul dato che i sondaggi ci comunicano con una voce univoca: il posizionamento del Movimento Cinque Stelle a seconda formazione politica del paese. È possibile che il dato sia esatto. Ma quale il suo significato? Il grillismo è senza dubbio un fenomeno su cui ragionare assai seriamente. Costituisce lo specchio in cui si riflettono tutti i vizi e le insufficienze dei partiti contro cui è entrato in guerra. Sennonché una cosa è crescere impetuosamente per i difetti altrui, altra farsi carico degli onori e degli oneri del governo, selezionare un ceto politico, passare dall´agitazione scomposta alla gestione responsabile dei comuni, delle regioni, dello Stato, darsi un´organizzazione articolata e strutturata. I nostri partiti versano in uno stato o pietoso o assai affannato, ma senza partiti non vi è vita dello Stato. Al Movimento Cinque Stelle il compito di fornire la prova. Ma chi scrive si permette di esprimere l´opinione che non sarà in grado di farlo. Che esso oggi venga all´improvviso tanto ammirato altro non pare essere se non testimonianza della miseria in cui versa la politica nazionale e di un sonno profondo della ragione.

La Repubblica 31.05.12

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“Il Codice Grillo”, di Massimo Gramellini

Quando saremo al potere, spiega Grillo in un’intervista a «Sette», i politici verranno giudicati da un tribunale di cittadini incensurati estratti a sorte, che li condannerà ai lavori socialmente utili e alla restituzione del malloppo. Vedo già formarsi una ola da Bolzano a Trapani. Sorprende la moderazione del gabibbo barbuto: se avesse proposto di mozzare le mani ai ladri e la lingua agli ospiti dei talk show sarebbe stato portato in trionfo da tutti i sondaggi che chiedono agli italiani se preferiscono l’aumento della benzina o quello dello stipendio. Le persone hanno fame di capri espiatori per calmare l’ansia. Fin troppo facile blandirle con il populismo. Perciò merita rispetto la presa di distanza di Enrico Strabotti Bon, militante del movimento 5 Stelle sezione adulti: «La crisi ha ragioni più complesse. Magari potessimo ridurla a una vicenda di guardie e ladri. Ciò detto, chi ha commesso dei reati non la passerà liscia. Ma guai se a giudicarlo fossero i tribunali del popolo. Erano già poco democratici nella democratica Atene, dominati dall’emotività e dall’odio che si porta dietro altro odio. Giacobini, nazisti, stalinisti, talebani: non c’è epuratore che non li abbia usati per epurare, salvo esserne epurato a sua volta. Prima o poi, Beppe, quel tribunale giudicherebbe anche te. Il peggior Stato di diritto è meglio della migliore giustizia popolare».

Condivido Enrico Strabotti Bon. Non foss’altro perché me lo sono dovuto inventare. Sempre in attesa che un seguace reale di Grillo trovi la forza di ricordargli che non ci siamo liberati di un contaballe per consegnarci a un ayatollah.

La Stampa 31.05.12

Errani «Superiamo la fase commissariale. Da noi le istituzioni funzionano», di Nini Andriolo

Un importante «passo avanti». Vasco Errani considera «molto positivo» il fatto che il Consiglio dei ministri abbia assunto decisioni «tempestive» a favore delle zone colpite dal sisma. «Assicurare 2,5 miliardi di euro in tre anni è un passo fondamentale – spiega il presidente della Regione Emilia-Romagna – In questo modo si dà fiducia ai sindaci, ai cittadini, ai lavoratori e alle imprese. La ricostruzione così può essere avviata immediatamente».
Nessuno verrà lasciato solo, questa la promessa del Presidente del Consiglio… Provo dolore immenso per le vittime ed esprimo profondo cordoglio ai familiari. Sono d’accordo, nessuno verrà lasciato solo. Come avevano annunciato sia il Presidente della Repubblica che quello del Consiglio, lo Stato italiano fa la sua parte e fa sapere ai cittadini di questi territori che non sono soli. Tutto questo dà una speranza decisiva, anche in queste ore, a una popolazione che mostra grande dignità e che vuole ricominciare, riprendere a lavorare, rivedere la luce. Una popolazione che vuole rimettere a posto le case e le imprese per poter riavviare, così, un’attività e una vita normali, recuperare beni culturali e religiosi che sono elemento di identità fondamentale delle comunità. Per rendere il più produttivo possibile questo lavoro, tuttavia, vorrei proporre al governo una innovazione che tiene conto della stessa riforma della Protezione civile…
Quale presidente?
Non facciamo la scelta del commissariamento per la ricostruzione. Qui ci sono istituzioni che funzionano, ci sono i sindaci in prima fila, le province che fanno coordinamento, la Regione che lavora fianco a fianco con gli enti locali. Seguiamo la filiera istituzionale, allora.
Servono strumenti di semplificazione?
Bene, troviamo le soluzioni più adeguate. Attraverso il sistema delle istituzioni, però. Dimostriamo, così, che si può essere efficienti, trasparenti, capaci di contrastare qualsiasi infiltrazione della criminalità organizzata puntando sulle comunità locale che rappresentano la nostra forza.E che assieme possono progettare e realizzare la ricostruzione.
Lei, però, è stato appena nominato dal Consiglio dei ministri commissario per la ricostruzione…
Si e propongo adesso un’innovazione. Ne discuteremo con il governo e sono certo che lo faremo positivamente e che definiremo assieme questa innovazione molto importante.
Presidente, lei ha visitato molti comuni del Ferrarese e del Modenese colpiti dal sisma.Quindicimila sfollati,siamo in piena
emergenza…
Nel giro delle ultime 24 ore sono stato in moltissimi comuni colpiti dal terremoto. Abbiamo avuto un primo evento sismico due domeniche fa e un secondo terremoto martedì mattina. Dal punto di vista dell’impatto psicologico è chiaro che le persone e tutti noi siamo molto provati. C’è paura e il lavoro più importante che stiamo facendo in queste ore è dare assistenza e sostegno per affrontare una situazione difficile che determina disagi molto pesanti. Ma è impegnato tutto un sistema: dal dipartimento nazionale della Protezione civile, alle colonne mobili delle regioni, ai volontari, agli psicologi. Il terremoto dell’Emilia è una questione dell’Italia e avvertiamo attorno a noi una solidarietà e uno sforzo nazionali importantissimi.
C’è il problema dell’emergenza, delle tendopoli da realizzare, degli alberghi da reperire per ricoverare migliaia di cittadini…
Entro stasera (ieri, ndr) daremo assistenza diretta a più di quindicimila persone. Ma forniremo altro tipo di aiuto – pasti, ecc. – a molti altri cittadini che si trovano in difficoltà. Uno sforzo enorme. Ma la cosa che io noto, lo ripeto, è la dignità e la compostezza delle persone. Adesso dobbiamo riattivare i sistemi
della comunità che sono stati duramente colpiti: dai beni culturali, alle imprese. Per questo è importante la scelta
fatta dal governo. Hanno detto “ci siamo”, adesso possiamo riattivare l’iniziativa…
Le procure di Modena e Ferrara indagano sul crollo di diversi capannoni industriali. Molte delle vittime erano operai tornati al lavoro per riattivare le fabbriche colpite due domeniche fa. C’è chi punta il dito sulla “fretta” di ricominciare..
La magistratura, come è giusto, ha aperto le indagini. Bisognerà capire cosa è accaduto e verificare le responsabilità. Il Presidente della Repubblica ripropone il tema della prevenzione, lei cosa ne pensa?
E’ sacrosanto riguarda tutto il Paese e su questo tutti noi dovremo lavorare con determinazione.

l’Unità 31.05.12

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