Latest Posts

"Quel padre con il dolore tra le braccia", di Mauro Covacich

Siamo bravissimi a rispettare le istanze dei ribelli e quelle di Assad, ma come si può accettare la morte di quei bambini? Una mano solleva il lembo di una coperta e la telecamera inquadra un cervello. Un cervello umano. La mano è di un uomo che impreca e urla e piange aggirandosi tra i corpi allineati dei bambini. Parla in arabo, ma si capisce benissimo cosa dice. A parte l’invocazione di Allah, diremmo tutti la stessa cosa, la stiamo dicendo insieme a lui. Com’è possibile tutto questo? Come potremmo mai essere perdonati per questo? È un padre e probabilmente un combattente. Insieme a lui ci sono altri padri seminascosti sullo sfondo di questa casa trasformata in obitorio, con morti sui divani, sui tavoli, e l’esposizione dei figlioletti-pesce appena usciti dalla mattanza. L’uomo vaga tra i corpi e li solleva. Alcuni li raccoglie con cautela affinché dai crani aperti non tracimi altra materia cerebrale. Non si preoccupa dell’oscenità del gesto, l’oscenità non lo preoccupa più. Altri li afferra per un braccio e li tiene sospesi per il tempo necessario alla telecamera di stringere sul dettaglio. Sono leggeri, piccoli tonni umani offerti all’asta del nostro pudore, della nostra capacità di resistenza. Pare che dica: Quanto sai resistere? Qual è il tuo limite? A questo, a lui sai resistere? Allora guarda quest’altra, guardala bene — una bambina di quattro anni al massimo, il vestitino, il collo, i bei capelli sciolti attorno a un buco — scommetto che con quest’altra non ce la fai. E continua portandoci con lui quasi per mano in un territorio nuovo, a un nuovo livello di conoscenza, perché il viaggio verso gli abissi non finisce mai. Pensavamo di aver visto tutto — bambini senza pelle ripresi negli ospedali palestinesi, una studentessa ribelle che agonizza nel centro di Teheran, uomini che precipitano in camicia bianca dalle Torri gemelle, dittatori giustiziati live — e ogni volta arriva una visione più sconvolgente. È anche un fatto positivo: forse l’anestesia non ha ancora vinto, forse siamo ancora vivi. Ma come possiamo evitare che l’indignazione defluisca anche stavolta nell’invaso mai colmo della retorica?
È possibile che esseri umani adulti, sani di mente, uccidano volontariamente dei bambini? Sembrerebbe di sì, se il gesto è giustificato da un progetto politico. Nessuna aberrazione è sufficiente per fermare l’ideologia. La nostra storia è piena di vittime innocenti: tanti bambini appesi agli alberi, come nell’opera di Maurizio Cattelan, che ci sorprendono mentre passeggiamo tranquilli per la nostra coscienza. Migliaia di bambini sono finiti nei forni nazisti. Ma si può fare anche di più: per un progetto politico si possono uccidere (o brutalizzare) perfino i propri figli, non solo quelli del nemico.
Nel film Apocalypse Now il colonnello Kurtz racconta il seguente apologo. Una squadra di marine entra in un villaggio nella giungla del Vietnam e vaccina i bambini contro la poliomelite. Qualche giorno dopo, nel villaggio arrivano i Vietcong, scoprono che i bambini sono stati vaccinati e tagliano a ognuno il braccio «oltraggiato». Il messaggio è fin troppo chiaro: non vogliamo niente da voi americani, voi siete il nemico e noi al nemico non permettiamo neppure di curare i nostri figli, preferiamo tagliare loro il braccio con i nostri stessi coltelli piuttosto che sopravvivano sani grazie alle vostre cure. Per l’ideologia l’uomo è disposto ad automutilarsi. Nel video di una canzone dei RadioHead intitolata Paranoid Android un pupazzo animato di forma umana fa a pezzi il proprio corpo a colpi di accetta: mi sembra un’immagine perfetta del Progetto uomo. Il testo dice qualcosa tipo: non appena diventerò re, tu sarai il primo che metterò al muro.
E noi non sappiamo che fare: da un canto, siamo occidentali smaliziati che riconoscono dietro ogni intervento della Nato un nuovo atto imperialista — la Libia liberata da Sarkozy per il petrolio, ad esempio — dall’altro abbiamo la sensazione che l’autodeterminazione dei popoli debba avere dei limiti (come non appellarsi alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo?). Da un canto, difendiamo i diritti di sovranità culturale (prima ancora che nazionale) dei singoli Paesi, dall’altro pensiamo con un certo imbarazzo agli ossari di Srebrenica o all’eccidio dei tutsi in Ruanda. Guardiamo questo video sconvolti e impotenti come dovevano essere i caschi blu olandesi mentre vedevano tutte quelle madri bosniache strapparsi i capelli davanti ai corpi massacrati dei loro figli. Non interveniamo per rispetto — rispettiamo le istanze dei ribelli e rispettiamo la ragion di Stato del presidente Assad — siamo bravissimi a rispettare, ma forse non si possono uccidere trentadue bambini. Forse quel padre combattente ci sta dicendo semplicemente questo. Non c’è ragione, non c’è giustificazione, nessuno potrà perdonarti di essere rimasto a guardare.

Il Corriere della Sera 27.05.12

"Chi non vuole le riforme", di Claudio Sardo

Cambiare la legge elettorale è una necessità vitale per la nostra democrazia malata. L’Italia non può permettersi un’altra legislatura segnata dal distacco crescente tra elettori ed eletti, da premier che rivendicano un mandato diretto senza averne titolo, da coalizioni rissose che nessun premio di maggioranza riesce a cementare. Per questo la sortita berlusconiana sul presidenzialismo non annuncia nulla di buono. Il nostro sistema ha già avuto in questo ventennio una torsione presidenzialista: ma questa è parte della malattia di cui soffriamo, delle manomazioni che sono state prodotte al nostro impianto costituzionale. Dovremmo liberare il sistema dalle zavorre populiste, dai miti iper-democratici (che hanno prodotto effetti autoritari), dalla demagogia gettata a piene mani nei delicati ingranaggi istituzionali. Invece rischiamo di ritornare al punto di partenza. Di perderci in un labirinto che può uccidere la democrazia rappresentativa.
La crisi della politica è grave. Non solo in Italia. La ragione prima della crisi non sta certo nelle storture del sistema istituzionale. Il sistema vacilla innanzitutto perché la politica non si mostra capace di risolvere i gravi problemi sociali causati dalla crisi economica. La politica non riesce più a regolare la finanza, il mercato, la globalizzazione.
Non ha gli strumenti per redistribuire risorse, per ridurre le disparità sociali, per aiutare chi ha bisogno, per offrire opportunità a chi ne ha di meno. Ma se questo è il deficit comune delle democrazie occidentali – in particolare di quelle europee, che si sono imposte politiche economiche e monetarie colpevolmente restrittive – noi abbiamo un difetto aggiuntivo. Il sistema modellato dalla Seconda Repubblica non funziona. Non funzionerebbe neppure se l’Europa cambiasse politica, e se le democrazie mondiali riuscissero a mettere qualche briglia allo strapotere della finanza.
Il combinato tra la debolezza della politica di fronte alla crisi e il collasso del sistema interno (fotografato nel mostruoso Porcellum) danno la cifra del pericolo a cui andiamo incontro. Berlusconi ha sabotato più volte le intese sulle riforme. E non si è mai preoccupato di definire una modalità concreta, con plausibili contrappesi, al presidenzialismo che periodicamente invocava: piuttosto ha proceduto per strappi. Ha introdotto brutalmente elementi di presidenzialismo nel sistema, facendo prima saltare gli equilibri costituzionali e poi appellandosi al primato della nuova Costituzione «materiale». Il fallimento del suo governo lo ha ora indotto a ripiegare sulla linea del tanto peggio, tanto meglio. I giornali del Cavaliere competono con Grillo nel dire che i partiti sono tutti uguali, che il declino dell’Italia è responsabilità comune della politica, che in fondo è bene che Sansone muoia con tutti i filistei. Il rilancio del presidenzialismo, a pochi mesi dalla fine della legislatura, sembra iscritto dentro questa strategia. Peraltro, come si può pensare di cambiare radicalmente l’impianto della Costituzione con un semplice emendamento che trasferisca l’elezione del Capo dello Stato dalle Camere riunite all’intero corpo elettorale?
Il nostro problema è che non si può, non si deve tornare a votare con il Porcellum. È chiaro che molti nel Pdl vogliono far saltare la riforma perché, prevedendo la sconfitta, puntano tutto sul fallimento della prossima legislatura. Il centrosinistra, ma soprattutto il Pd, deve invece fare ogni sforzo, ogni tentativo per cambiare questa pessima legge elettorale. Deve essere pronto anche a rinunciare a qualcosa: ma il Porcellum va archiviato, altrimenti le elezioni, e soprattutto il dopo, rischiano di travolgere ogni speranza di cambiamento e di aprire la strada a pericolose avventure.
Per questo occorre rilanciare la sfida al Pdl, per quanto indigesta sia l’ultima proposta avanzata. Se il Pdl fosse disposto a sedersi al tavolo della riforma elettorale, e ad apportare alcuni limitati cambiamenti al testo costituzionale (numero dei parlamentari, stabilizzazione del governo, parziale differenziazione del ruolo delle Camere), bisogna tentare comunque di arrivare a un’intesa. Tentare fino all’ultimo, anche se i tempi si fanno sempre più stretti e le speranze obiettivamente si riducono. Chi grida soltanto all’inciucio spesso lo fa per difendere il Porcellum.
In ogni caso va detto con chiarezza che il presidenzialismo non può essere assolutamente oggetto di trattativa in questi mesi. La priorità è la legge elettorale (connessa a quei pochi interventi sulla Costituzione che ne possono favorire il successo). Berlusconi ha fatto un’apertura sul doppio turno? Bene, si scoprano le carte. E si valuti con attenzione. Il sistema francese non pare il più adatto a ricomporre l’attuale frammentazione italiana: potrebbe addirittura accentuarla. Forse è migliore un sistema che consolidi nel primo turno l’identità e la proposta delle forze maggiori (attraverso lo sbarramento) e consenta di utilizzare il secondo turno in una quota di collegi uninominali per comporre le coalizioni davanti agli elettori. Ma si vedrà entro pochi giorni se ci sarà spazio per un confronto vero.
Eventuali riforme più ampie sulla seconda parte della Costituzione non possono che essere rinviate alla prossima legislatura. Sempreché sia messa fin d’ora nelle condizioni di funzionare. L’opzione presidenziale non pare comunque convincente. Abbiamo visto quanto sia stato prezioso un presidente-garante in un momento di collasso del sistema. I poteri costituzionali del nostro Capo dello Stato non sono scarsi: se la sua investitura scaturisse da uno scontro politico-elettorale, sarebbe difficile immaginare una successiva autonomia del governo (peraltro non espresso direttamente dal popolo). Ma nessuno può ipotecare il confronto di domani, purché si svolga secondo le regole della Costituzione. Ciò che vale sempre è la regola della prudenza quando si mette mano alla Carta fondamentale: non vorremmo che si ripetesse la storia recentissima della modifica dell’articolo 81. Tutti di corsa a introdurre il «pareggio di bilancio» (perché imposto dall’Europa), salvo scoprire il giorno dopo la limitazione all’autonomia del Parlamento e ai diritti sociali.

l’Unità 27.05.12

L´apprendistato piace solo alle imprese "Pochi assunti, creerà altri precari", di Filippo Santelli

L´estero insegna: dove l´apprendistato funziona i ragazzi trovano lavoro. Importare il modello in Italia, il Paese europeo con più giovani inattivi, è una delle idee di Elsa Fornero. L´effetto della sua riforma, attesa dal voto di fiducia in Senato, potrebbe però essere diverso. Perché a spingere gran parte delle aziende italiane ad assumere apprendisti, più che la volontà di far crescere validi collaboratori sono ragioni economiche. E rendendo questo contratto ancora più conveniente il ddl lavoro rischia di incrementare i numeri, ma senza incidere sulle competenze: «L´apprendistato resterebbe un´alternativa al contratto flessibile anziché uno strumento di formazione qualificata», avverte Michele Tiraboschi, professore di Economia all´Università di Modena e Reggio Emilia.
In Italia dal 2009 al 2010, per effetto della crisi, i giovani apprendisti sono diminuiti da 645mila a 541mila. A calare sono stati soprattutto i contratti in diritto-dovere, quelli che portano gli under 19 ad ottenere un diploma: dimezzati, da 278mila a 142mila. «I giovani preferiscono sempre di più il liceo – spiega Tiraboschi – al contrario che in Germania, in Italia l´apprendistato è solo per maggiorenni». Non a caso, la provincia dove più ragazzi scelgono di andare a bottega, quasi il 15%, è quella di Bolzano. «È la cultura il fattore più importante – spiega l´assessore alla formazione Christian Tommasini – Sono soprattutto i madrelingua tedesca a scegliere questa strada perché per loro il lavoro artigianale ha un alto valore sociale».
La forma più diffusa di apprendistato, da noi, resta quella professionalizzante, per ragazzi già diplomati. Durante la crisi ha retto, 400mila contratti, e da quest´anno dovrebbe salire. Il Testo Unico varato a settembre semplifica la normativa e l´ultima Legge di stabilità introduce ulteriori sgravi fiscali per le aziende. Rendendo più onerosi i contratti precari, la riforma Fornero si muove sulla stessa linea: «Ma all´estero lo scopo dell´apprendistato non è solo creare lavoro – dice Tiraboschi, – bensì creare lavoro di alto livello». In Italia il compito di definire i percorsi formativi spetta a Regioni e parti sociali, industriali e sindacati. «Mancano le persone con le competenze adatte a farlo – prosegue – molti accordi firmati sono vaghi su aspetti essenziali come il tutor o il libretto formativo». Dei giovani apprendisti, rivela l´Istat, solo uno su quattro è coinvolto nei corsi di formazione pubblici, erogati dalle Regioni. Per tutti gli altri ci si affida a quelli interni delle aziende. Che per la maggior parte però, l´88% secondo uno studio di Gi Group, scelgono l´apprendistato per motivi economici più che per formare ad hoc i lavoratori. «La riforma mette dei paletti, ma a mancare davvero è il sistema», commenta il professore. Le assunzioni, termometro di efficacia dell´apprendistato, sono diminuite: tra chi ha iniziato nel 2005, cinque anni dopo gli inoccupati erano il 22,2% (+3,5 punti), con il 5% in più di contratti precari. Una novità potrebbe arrivare dal coinvolgimento delle agenzie per il lavoro. Lunedì sarà presentato un emendamento alla riforma che estende l´apprendistato tramite le agenzie a tutti i settori professionali, anche industria e artigianato, finora esclusi. «Sarebbe positivo – conclude Tiraboschi – perché queste possono sostenere le aziende sia per la burocrazia che per la formazione».

La Repubblica 26.05.12

Gli sfollati: "Dormiamo ancora in auto: stare in casa fa troppa paura" di Paolo Colonnello

Venti scosse in una notte, una cinquantina in media al giorno, non sono il semplice seguito di un sisma, ma un terremoto dell’anima. I cui effetti sono ben più profondi e permanenti dei sussulti che hanno solo parzialmente devastato la zona dell’epicentro, le cui case, dall’altro ieri, sono state dichiarate agibili al 98 per cento. Perché «ogni torre o campanile crollato modifica la geografia di questi luoghi millenari e di conseguenza anche la geografia dei riferimenti e dei sentimenti delle persone», racconta Antonella, una delle assistenti sociali di Sant’Agostino e Cento che in questi giorni, insieme con le equipe degli psicologi della Croce Rossa, stanno seguendo i grandi e piccoli drammi di una popolazione fiaccata da uno «sciame sismico» che, pur decrescente, continua a riservare sgradite sorprese, soprattutto notturne.

Ecco allora la famiglia di marocchini che mercoledì è ripartita per il proprio paese con un volo last minute trovato dall’equipe che li assisteva o quella con il nonno in carrozzella che tutti i giorni tira a sorte per chi deve entrare in casa a prendere il cambio di vestiti.

Come sempre, sono i poveri a pagare di più, gli immigrati sopratutto, che lavorano nelle campagne o nelle fabbriche, tutti regolari e con famiglia, con gli appartamenti nelle case più vecchie e pericolose e senza parenti che possano offrire loro altre abitazioni. Affollano i campi di accoglienza, dove ogni tanto scoppiano risse tra extracomunitari residenti e quelli che arrivano da altri paesi senza tendopoli. «Io stessa continua Antonella – lavoro e mi sento terremotata. Tanto per dire: la nostra sede, che era nel castello di Poggio Renatico, è attualmente sepolta dalle macerie. Il problema è che anche chi si era convinto a fare ritorno a casa, con queste scosse preferisce tornare in piazza o nei centri di raccolta… Si vive alla giornata, cercando di non farsi gestire dalle scosse, di mantenere uno stile di vita. Lo sappiamo che sono scosse di assestamento, ma dobbiamo ripetercelo in continuazione nella testa per non decidere di scappare via, lontano da qui».

È una consolazione che qualche intervento economico da parte dello Stato e soprattutto la solidarietà di molti cittadini anonimi abbiano iniziato a portare qualche aiuto alle zone terremotate perché intanto, tra capannoni crollati e stalle rase al suolo, si calcola che siano diventati quasi 10 mila le persone a rimanere senza lavoro. Così le macchine sono tornate ad essere il vero «bene rifugio» di queste parti, perché dopo i temporali e il freddo dei giorni scorsi adesso è scoppiato il caldo soffocante e afoso della Bassa e vivere nelle tende in promisquità per molti è peggio che svegliarsi anchilosati con il cambio di un’auto nel costato.

Gli «sfollati» secondo la Protezione Civile, sono 5.142: un numero variabile che non tiene conto dei tanti che si accampano nel giardinetto di casa o usano l’auto per dormire. E non importa se ieri, dopo accurate verifiche, è stata ulteriormente ridotta per dimensioni la «zona rossa» di Finale, epicentro delle ultime scosse, lasciando liberi molti abitanti del centro storico di fare ritorno nelle proprie abitazioni.

Il terremoto fa ancora paura, nonostante i tecnici e gli esperti di geofisica ritengano che il comportamento dello «sciame sismico», con picchi improvvisi intorno a magnitudo 4, sia assolutamente nella norma. Sta succedendo una cosa che nessun sismografo potrebbe rilevare: il terremoto si è insinuato nella testa delle persone, ha inciso la loro memoria e nessuno si sente più al sicuro.

Ci sono bambini, raccontano le assistenti sociali, che non dormono la notte: uno di loro, a Finale, domenica scorsa ha visto la cameretta invasa dalla polvere delle macerie della torre dell’orologio e da quel giorno ha smesso di parlare. Gli anziani in alcuni casi reagiscono meglio, mettendo in campo la saggezza: «Quando è arrivata la scossa di mercoledì sera ero a letto e lì sono restato», racconta Gianni Superbi, 74 anni, di Finale Emilia, mentre tiene saldamente il manubrio della sua bicicletta. «Sembrava fosse esplosa una bomba però ho pensato: se devo morire, meglio nel mio letto. Poi al mattino prendo la bici e vado in giro. Faccio così da quattro giorni, vado a vedere se ci sono nuovi crolli e ogni volta è un tuffo al cuore, la pelle d’oca, viene la nausea dall’ansia che mi prende». Parla di disturbo da adattamento e da stress acuto, lo psicologo e psicoterapeuta Alessandro Costantini. «Il terremoto diventa un detonatore, un innesco pericoloso di emozioni e sentimenti che abbassano la guardia e rischiano di esondare, mettendo a dura prova l’equilibrio psicologico individuale. I tempi di recupero saranno diversi a seconda degli individui ma per alcuni l’anima avrà una ferita più profonda e richiederà maggiori cure». Un rimedio? «Stare insieme agli altri, a chi vogliamo bene, agli amici per un processo di elaborazione. Più ne parliamo più depotenziamo l’influsso negativo dell’evento». Generosità, condivisione: sono queste la parole chiave di ogni tragedia: l’altra faccia, quella positiva, del terremoto.

La Stampa 27.05.12

"Da Pacelli a Ratzinger la lunga crisi della chiesa" di Eugenio Scalfari

La vecchia Italia affondò durante una giornata gonfia di tempesta e di presagi, nell´autunno del 1958: Papa Pio XII moriva in mezzo a una corte disfatta di cardinali decrepiti, di astuti procacciatori d´affari, di monache fanatiche, di nipoti parassiti.
Nel palazzo papale di Castel Gandolfo, mentre il temporale gonfiava le acque del lago e lo scirocco spalancava le imposte e si ingolfava tra le tende e nei corridoi, dignitari laici ed ecclesiastici si preparavano a sgombrare. Ciascuno cercava di portar via, anche fisicamente, quanto più poteva; ma soprattutto ciascuno brigava per conservare qualche beneficio; una carica lucrosa, una fetta, per piccola che fosse, di quel potere che fino a quel momento da oltre dieci anni era stato amministrato senza scrupoli e senza concorrenze. L´affanno era visibile dovunque, nelle sale di ricevimento, nelle anticamere e fino intorno al letto del moribondo che, già in agonia, veniva impudicamente fotografato dal suo medico e dalla sua suora assistente, con la cannula dell´ossigeno in bocca, e i tratti del volto devastati dalle ombre della morte. Non era l´affanno della pietà; era l´affanno della cupidigia e della paura perché tutti sapevano, entro il palazzo, che non moriva un Papa ma finiva un regno.
Nel salotto privato del Papa, circondato dai porporati più anziani e potenti, dai capi del Sant´Uffizio, delle Missioni, del Tesoro, dei Seminari, il Camerlengo della Chiesa rappresentava l´ultimo anello d´una continuità che stava per spezzarsi definitivamente. Aveva, come sempre, un volto assolutamente inespressivo; non era un uomo ma una carica, una funzione, una pausa del cerimoniale. Ma intorno a quella carica e all´uomo che ci stava dentro si andava tessendo proprio in quelle ore e in quel luogo la trama del conclave. Aloisi Masella, il Camerlengo, fu il primo e forse decisivo mediatore insieme ad Agagianian, il prefetto di propaganda Fide, tra il gruppo dei cardinali stranieri e i curiali. Cominciò di lì la ricerca che si sarebbe conclusa qualche settimana dopo sotto le volte della Sistina con un risultato che avrebbe sconvolto tutti i programmi, di un terzo uomo, un Papa che avrebbe dovuto essere al tempo stesso abbastanza pastorale per assorbire le irrequietezze della cattolicità, abbastanza diplomatico per non dimenticare le leggi del potere, abbastanza umile per restituire al Collegio e agli Episcopati le prerogative che Pacelli aveva confiscato. E abbastanza vecchio per non durare troppo a lungo.
Quando in quell´alba di tuoni e di vento il medico del Papa, Galeazzi Lisi, ne ebbe dichiarato la morte clinica, dignitari, curiali, camerieri segreti, banchieri, politici, fuggirono verso Roma su grandi automobili nere per preparare l´incerto avvenire. Uno stuolo di corvi abbandonava le strutture corrose d´un luogo dal quale una monarchia assoluta aveva governato un paese.

* * *
Il brano che avete letto è tratto da un mio libro intitolato L´autunno della Repubblica del 1969, nel pieno del movimento studentesco. Il capitolo qui citato s´intitola “La fine d´un regno” e racconta appunto la morte di Papa Pacelli, Pio XII, che impersonò per lunghi anni la Chiesa trionfante e combattente che conteneva però fin da allora quella crisi sistemica di cui parla oggi il cattolico Alberto Melloni, uno degli storici della Chiesa più accreditati in questa materia.
Gli avvenimenti in corso segnano il momento culminate di questa crisi: la destituzione di Gotti Tedeschi dalla guida dello Ior, l´arresto del maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele, la sorda lotta in corso tra le diverse fazioni curiali e anticuriali, la posizione sempre più traballante del Segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Infine, la disperazione di Papa Ratzinger, chiuso nelle sue stanze e manifestamente incapace di tener ferma la barra in un mondo pervaso da cupidigie, ambizioni, complotti e contrastanti visioni della Chiesa futura.
Non mi occuperò tuttavia delle inchieste in corso, che il nostro giornale ha già ampiamente trattato in questi giorni e ancora oggi con tutti gli aggiornamenti di cronaca. Mi interessa invece – e spero interessi i nostri lettori – di dare un´occhiata di insieme ai pontificati che si sono susseguiti da Pacelli a Ratzinger. Sono stati attraversati tutti dal filo rosso del confronto tra la Chiesa e la modernità. Perciò questi pontificati meritano una speciale attenzione per capire quale sia l´essenza di questa crisi sistemica che avviene sotto i nostri occhi.

* * *
Il conclave che elesse Giovanni XXIII venne dopo la monarchia assoluta ma molto avveduta di Pio XII, un diplomatico per eccellenza che governò la Chiesa in tempi durissimi, con la guerra in corso e poi a guerra finita con la ricostruzione della democrazia e il governo della Dc degasperiana.
Pacelli ebbe tutti i difetti e tutte le qualità dei grandi pontefici. Abbiamo detto che eccelse nelle capacità diplomatiche e lo dimostrò ampiamente, soprattutto nel tormentatissimo periodo dell´occupazione nazista di Roma. Ma non mancava di pastoralità e neppure di grandi capacità sceniche. È ancora negli occhi di tutti i suoi contemporanei la sua visita al quartiere di San Lorenzo in Roma distrutto dal bombardamento americano, dove la sua veste bianca fu macchiata di sangue quando s´inoltrò tra le rovine per benedire i morti e soccorrere i feriti ancora distesi nelle strade devastate.
Il partito conservatore era anche allora asserragliato in Curia. Il Papa si guardò bene dal disperderlo, anzi lo rafforzò purché si sottomettesse. Decideva lui quando era il caso di farlo emergere o di farlo tacere. Del resto chi parlava per lui era il gesuita padre Lombardi, detto “il microfono di Dio” che combatteva i socialcomunisti a spada sguainata. Un´altra spada era nelle mani di Gedda e dei comitati civici che sconfessavano addirittura la politica di De Gasperi che non fu più ricevuto in Vaticano in udienza privata.
Ma Pacelli era anche nepotista nel senso classico e familista del termine. Era un principe e come tale si comportò e come tutti i principi indulse anche al populismo: riceveva ogni sorta di categorie della società civile: medici, avvocati, giornalisti cattolici, ciclisti e calciatori, casalinghe, poliziotti e militari, attori e operai, imprenditori e barbieri. Il populismo di Berlusconi fa ridere rispetto a quello di Pio XII che ora è in predicato di santità.

* * *
Papa Giovanni fu l´esatto contrario sia pure con alcuni condizionamenti. Fu eletto con una condizione: che restituisse alla Curia la sua indipendenza funzionale. A questo mandato si tenne fedele ma i curiali non avevano messo in conto che il Papa era comunque in grado di procedere a nuove nomine quando la morte avesse aperto vuoti nella gerarchia.
C´era bisogno d´un Papa soprattutto pastorale e lo ebbero nel senso più pieno della parola. Giovanni fu molto più pastore che Romano Pontefice. Il fisico lo aiutava e l´eloquio anche ma soprattutto lo aiutò l´anima sua o se volete lo Spirito Santo. Amava i bimbi, le mamme, la famiglia, i poveri, gli esclusi.
Richiamò Montini alla Segreteria di Stato e convocò il Concilio Vaticano II dove affluirono i vescovi di tutto il mondo cattolico. Era passato un secolo dal Vaticano I che si radunò a poca distanza di tempo dalla fine del potere temporale dei Papi. Lì fu proclamato il Papa-Re, infallibile quando parla dalla cattedra, e fu elevata a dogma la verginità di Maria.
Il Vaticano II proclamò invece la necessità che la Chiesa si confrontasse con la modernità. Fu una rivoluzione, avviata ma ovviamente non compiuta. Fu la scelta d´un tema che doveva essere portato avanti a cominciare dalla modernizzazione della Chiesa, lo sconvolgimento della liturgia, la messa recitata nelle lingue correnti e non più in latino, col sacerdote rivolto ai fedeli e non più di spalle; l´apertura del dibattito sul ruolo dei laici e delle donne. Infine, il disinteresse del Vaticano nei confronti della politica italiana e quindi l´autonomia dei cattolici impegnati.
Ma su un punto i curiali avevano visto giusto: nel suo quarto anno di pontificato il Papa si ammalò, nel quinto anno morì.
Ricordo ancora i funerali: una folla immensa che dalla piazza arrivava al Tevere ed oltre, tutte le vie gremite da piazza Cavour e da Villa Pamphili, tutto Borgo Pio. Un Papa come lui non si era visto da gran tempo e non s´è più visto da allora.

* * *
Poi venne Montini. Di dire che ebbe qualità pastorali sarebbe dir troppo. Diplomatico, certo. Di populismo neppure l´ombra. Fu un politico, forse fin troppo. Ma non conservatore.
Il confronto con la modernità non lo portò avanti ma impedì che ci fossero ulteriori arretramenti. Fu un pontificato con fasi drammatiche in quegli anni di piombo culminati con l´assassinio di Aldo Moro, del quale officiò la messa funebre in Laterano.
Fu un Papa di interregno.
Forse Papa Luciani aveva con Papa Giovanni qualche lontana somiglianza ma morì dopo appena un mese. Dopo di lui salì in cattedra un cavallo di razza, un grande, grandissimo attore. Non so se la Chiesa avesse bisogno d´un attore, ma lui lo fu dalla testa ai piedi, nel momento dell´elezione, nel momento dell´attentato, nel momento della rivoluzione in Polonia, nel momento della caduta del Muro, nei suoi viaggi continui intorno al globo, nel Giubileo del 2000 e nella lunga fase della malattia e poi della morte.
Quando il Camerlengo pronunciò il suo nome dopo la fumata bianca dal camino della Sistina, tutta la piazza pensò che avessero eletto un Papa africano. Solo quando si affacciò si capì che era un bianco ma non italiano. «Se mi sbaglio mi corrigerete» ricevette un´ovazione da stadio e così cominciò.
Fino a Solidarnosc e poi alla caduta del Muro di Berlino, Wojtyla fu il Papa della libertà religiosa contro il totalitarismo comunista. In Occidente ebbe l´appoggio dei conservatori, dei liberali, dei democratici. Caduto il comunismo accentuò la sua critica verso il capitalismo ma contemporaneamente represse la “nuova teologia” e l´esperienza dei preti operai. L´indifferenza nei confronti dell´assassinio del vescovo Romero mentre officiava la messa in Salvador fu una delle pagine sgradevoli del suo pontificato, compensata tuttavia dalla sua peregrinazione ininterrotta in tutti gli angoli del mondo dove gli fu possibile arrivare.
Tentò d´avviare la riunificazione delle Chiese cristiane senza tuttavia compiere passi avanti significativi. Riconobbe le colpe storiche della Chiesa a cominciare dall´accusa di deicidio contro gli ebrei e dalla condanna di Galileo e di Giordano Bruno.
L´agonia fu molto lunga e scenicamente grandiosa. Non certo per calcolo ma per autentica vocazione. «Santo subito» fu l´invocazione della folla immensa che anche per lui occupò mezza città.
Un bilancio? I problemi della Chiesa alla sua morte erano gli stessi: potere della gerarchia, emarginazione del popolo di Dio, crisi delle vocazioni, crisi della fede in tutto l´Occidente, nessuna modernizzazione all´interno della Chiesa. Ma una modifica sì, si era nel frattempo verificata: il messaggio del Vaticano II non solo non aveva fatto passi avanti, ma li aveva fatti all´indietro. Non a caso al Conclave i martiniani furono marginalizzati fin dalla prima votazione e dalla seconda emerse Ratzinger mentre Ruini era pronto a intervenire se Ratzinger fosse stato battuto.

* * *
Benedetto XVI non è un grande Papa anche se l´ingegno e la dottrina non gli mancano. Non è un attore, anzi è il suo contrario. Wojtyla aveva un guardaroba grandioso perché tutto era grandioso in lui. Il guardaroba di Ratzinger è invece lezioso perché è il Papa stesso ad esser lezioso, come si veste, come parla, come cammina.
Scrive bene, questo sì, i suoi libri sul Cristo si fanno leggere, le sue encicliche non sono prive di aperture ed anche alcuni suoi discorsi. La sua rivalutazione di Lutero ha suscitato sorpresa e qualche speranza di progresso verso la modernità, contraddetto però dalle sue scelte operative, dalla conferma di Sodano in segreteria e poi all´avvicendamento con Bertone: dal mediocre al peggio.
Bertone: un Ruini senza l´intelligenza e la duttilità dell´ex vicario ed ex presidente della Cei. La gerarchia è ridiventata onnipotente ma spaccata in molti pezzi. L´ecumenismo è ormai è un fiore appassito anzitempo.
Benedetto XVI ha riesumato in pieno la tomistica di Tommaso d´Aquino con tanti saluti ad Origene, Anselmo d´Aosta e Bernardo. Agostino sembrava uno degli ispiratori di Ratzinger, ma quale Agostino? Il manicheo, il coadiutore di Ambrogio o l´autore delle Confessioni?
Agostino fu molte cose insieme arrivando fino a Calvino, a Giansenio e a Pascal. Se volesse dire qualche cosa di veramente attuale Papa Ratzinger dovrebbe dare inizio alla beatificazione di Pascal ma mi rendo conto che nel mondo dei Bertone, della Curia romana e delle attuali Congregazioni, questo sì, sarebbe un gesto radicale verso la modernità. Non lo faranno mai.
Il pontificato lezioso andrà avanti finché potrà, poi non ci sarà il diluvio ma una pioggia da palude piena di rane, zanzare e qualche anitra selvatica. Quanto di peggio per tutti.

La Repubblica 27.05.12

Bersani: «Parlerò ai progressisti, ai riformatori e ai moderati», di Mariantonietta Colimberti

La prima direzione dem dopo i ballottaggi. Si terrà martedì prossimo, ma il segretario non vuole presentarsi semplicemente col bottino, sia pure positivo, dei risultati elettorali che hanno confermato il Pd non solo primo partito, ma di fatto l’unico su piazza. La crisi economica incalza, il dramma greco è in pieno svolgimento, le giravolte berlusconiane rischiano di rimettere in discussione anche l’accordo sulla riforma elettorale: il segretario vuole rivolgersi al paese, a quella vasta area di «progressisti, riformatori e moderati» decisa a voltare pagina definitivamente rispetto al berlusconismo senza cadere nei nuovi populismi.
Bersani sa che questo non è il momento di stare fermi, tra le diverse e confuse proposte politiche e discese in campo annunciate. Sa anche, però, che troppe sono le incognite dei prossimi mesi. Allora, vuole intanto mettere un punto fermo, parlare a chi già è nel perimetro di un’alleanza progressista, ma anche aprire le porte, oltre la foto di Vasto. Che quella foto sia tornata attuale è evidente e forse inevitabile: nella stragrande maggioranza dei comuni dove il Pd ha vinto era alleato con Sel e Idv. Il segretario, però, vuole sfuggire alla trappola di un confine scontato e per di più delineato anzitempo, con Di Pietro e Vendola che lo incalzano dal giorno stesso dei risultati elettorali e che per oggi hanno annunciato un «appello pubblico» perché Bersani «esca dall’attendismo e si assuma le responsabsilità che gli competono».
Pensa a un Pd largo e accogliente, il segretario, capace di diventare un polo attrattivo per pezzi di mondo accademico e della cultura. Zagrebelsky e Saviano? «Possono trovare nel Pd la loro casa» ha detto ieri Matteo Orfini, uno dei quarantenni della segreteria, e Bersani la pensa nello stesso modo. Dunque, il segretario vuole offrire un orizzonte e additarlo non tanto e non solo ai partiti, quanto a un elettorato confuso e disperso, spesso gravemente deluso.
Una scommessa che passa anche attraverso l’approvazione delle riforme istituzionali e anticorruzione all’esame del parlamento. Ma anche attraverso la riforma elettorale, che Bersani porrà al primo posto dei cambiamenti da fare subito, in qualche settimana. E su questo punto il sospetto che l’ultima uscita di Silvio Berlusconi e del maggiordomo Alfano serva, alla fine, a conservare il Porcellum è fortissimo e Bersani l’ha esplicitato. «Non riteniamo un tabù, una bestemmia discutere di semipresidenzialismo – ha detto a margine di un convegno del Pd sulla scuola “digitalizzata” – purché non sia un pretesto per non fare niente di niente, compresa la riforma elettorale. Per affrontare credibilmente un discorso del genere non ci sono i tempi». Dello stesso avviso Rosy Bindi: «Un diversivo. Da settimane Berlusconi promette una svolta per far uscire il Pdl dall’empasse in cui si dibatte. Oggi abbiamo capito che è davvero a corto di idee, per il suo partito e per l’Italia».

da Europa Quotidiano 26.05.12

"Gli statali vengono già licenziati. Le norme ci sono" di Massimo Franchi

Licenziare i dipendenti pubblici, naturalmente fannulloni, era il sogno di Renato Brunetta. Passato Berlusconi, giovedì il fuoco alla miccia l’ha riacceso il ministro sbagliato, Elsa Fornero, colei che non ha competenze sui lavoratori della Pubblica amministrazione. Ma sia Brunetta che Fornero non sanno, o fanno finta di ignorare, che licenziare dipendenti pubblici assunti a tempo indeterminato in Italia è possibile. Di più. Accade a centinaia di persone. Stime precise sono quasi impossibili. I più esperti in materia parlano di circa duecento licenziamenti negli ultimi cinque anni. Persone che hanno perso cause giudiziarie, spesso come tali diventate eclatanti. L’unico dato preciso e certificato è fornito direttamente dalla Ragioneria generale dello Stato. E riguarda i cosiddetti “cessati”, lavoratori che hanno lasciato la Pubblica amministrazione, al netto di chi si è dimesso. Ebbene, il Conto annuale del 2010 alla voce “Altre cause” ne conta ben 39.458 nell’intero settore pubblico (scuola, università, forze armate ed enti di ricerca inclusi) di cui 16.811 nella Pubblica amministrazione strettamente intesa. Si tratta dunque della cosiddetta mobilità in uscita. Quella che smentisce la supposta inamovibilità dei dipendenti pubblici in Italia. Numeri che portano il segretario generale della Funzione pubblica Cgil Rossana Dettori ad attaccare pesantemente Elsa Fornero: «Le sue parole mi hanno lasciato senza parole, mi chiedo se sa di che cosa parla, stiamo discutendo di un qualcosa che non ha né capo né coda ». E spiega: «Già nell’ultimo contratto nazionale firmato nel 2009 erano state fortemente inasprite le pene e le tipologie che danno ai dirigenti il potere di sanzionare i lavoratori con provvedimenti che vanno dal richiamo verbale, alla sospensione, che in caso di reiterazione portano al licenziamento». La fattispecie più citata è sempre quella: «Un lavoratore che timbra il cartellino e intanto va a fare la spesa commette una truffa nei confronti dello Stato e il licenziamento è previsto e sacrosanto». Naturalmente però «come avviene nel settore privato, sta alla Pubblica amministrazione l’onere di provare la fattispecie del comportamento». La bilancia rispetto ai dipendenti privati infatti non è sempre a favore dei pubblici: «Ad esempio per chi è stato licenziato ingiustamente non c’è il reintegro, ma il giudice stabilisce una ri-stabilizzazione nel posto precedente e non è nemmeno previsto alcun indennizzo». Il tutto senza dimenticare che spesso le fattispecie sono molto delicate: «Basta pensare ad un chirurgo che sbaglia ad operare, nel settore pubblico ci sono mansioni in cui sbagliare può avere conseguenze cruciali ».
PROTOCOLLO ESTENDE LA MOBILITÀ Nelle ultime settimane però le cose sono ulteriormente cambiate. Il 3 maggio i sindacati confederali e il ministro Filippo Patroni Griffi hanno sottoscritto un Protocollo che «aumenta le pene in caso di licenziamento disciplinare con fattispecie molto più pesanti dei contratti privati » e di fatto estende la mobilità in uscita nella Pubblica amministrazione. «Nel protocollo – continua Rossana Dettori – si prevede che, vista la crisi economica fortissima, nel caso di difficoltà insormontabili per un’azienda sanitaria o un ente locale, si preveda un meccanismo di mobilità. I lavoratori sono considerati esuberi e per due anni percepiscono l’80 per cento dello stipendio. In questo periodo possono essere ricollocati in un’altra amministrazione. Se rifiutano o al termine dei 24 mesi non ci sono possibilità di ricollocarli verranno licenziati ». Proprio su questo tema ieri è intervenuta direttamente Susanna Camusso. «Nonostante i ripetuti annunci, l’intesa raggiunta tra sindacati, governo ed enti locali – attacca il segretario generale della Cgil – non è ancora stata varata dal Consiglio dei ministri: sarebbe grave se il governo non procedesse rapidamente ad adempiere ai suoi compiti e magari subisse le pressioni di qualche politico contro quell’intesa, altrimenti «entrerebbe in gioco la credibilità dell’operato del governo». Chi invece contesta la firma del protocollo è l’Usb. «Noi – spiega Licia Pera, dell’esecutivo nazionale – continueremo ad opporci con determinazione a questo progetto e inoltre confermiamo la mobilitazione dei lavoratori pubblici prevista per l’8 giugno prossimo»

l’Unità 26.05.12