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«Perché lo abbiamo fatto» Parlano gli uomini, a cura de La 27esima Ora

Incapacità di vivere una relazione di coppia, paura di stare soli. La fragilità dietro gli abusi. Non sono tutti uguali. Gli uomini che usano violenza sulle donne popolano una zona d’ombra della nostra società che dobbiamo cominciare a (ri)conoscere. Ci sono ancora i padri-padroni, che s’aggrappano con la forza dei loro muscoli alla tracotanza di un potere millenario e anacronistico. C’è una minoranza di uomini con disturbi psichiatrici, che andrebbero diagnosticati e curati. Ci sono gli irriducibili che picchiano, schiavizzano, in alcuni casi uccidono e non si chiedono nemmeno il perché. Sono solo la punta dell’iceberg, quella che più facilmente finisce sulle pagine dei giornali o in un commissariato di polizia. Sotto, si cela una moltitudine di uomini che insultano, tirano sberle, maltrattano con angherie quotidiane o periodici raptus le proprie mogli, compagne, amanti, a volte anche le figlie. Chiedendosi magari il perché ma senza riuscire, da soli, a fermarsi. E il finale tragico è sempre in agguato. Accanto alle storie-confessioni raccolte in queste pagine, abbiamo chiesto a quattro esperti di aiutarci a comprendere cosa avviene nella mente di questi uomini e, se possibile, di spiegare come individuare i meccanismi che scatenano la violenza.
«Nella stragrande maggioranza dei casi, dietro gli abusi c’è un’incapacità di stare nella relazione, di gestire conflitti, solitudini, paure d’abbandono. Una fragilità che non si riesce a riconoscere. Serve un nuovo linguaggio per spiegarla: il patriarcato di terza generazione è molto più subdolo e sottile», spiega Roberto Poggi, counselor e animatore de «Il Cerchio degli Uomini», associazione di volontari di Torino che da anni ha uno sportello d’ascolto per il disagio maschile. «Se un terzo delle donne italiane dichiara di aver subito violenza, significa forse che il 25-30% degli uomini sono delinquenti? Impossibile. Esiste piuttosto un sommerso enorme in Italia, che richiede un cambiamento profondo nelle relazioni, nella capacità di saper gestire i conflitti».
Nella stragrande maggioranza dei casi è la donna a uscire con le ossa (e la mente) rotte da una visione distorta delle relazioni affettive che, nel chiuso delle quattro mura domestiche, degenera nella violenza. «L’assunto di molti uomini è: io non sono violento, la colpa è sua, è lei che mi esaspera. E dunque la mia violenza è soltanto punizione, vendetta». Stefano Ciccone, 48 anni, fondatore dell’associazione nazionale «Maschile Plurale», riflette su relazioni e stereotipi di genere e in particolare sul «rancore degli uomini» (nel libro Silenzi, Non detti, reticenze e assenze di (tra) donne e uomini, edizioni Ediesse). «Un rancore che fa leva su un disagio diffuso, reale, ma lo interpreta in un modo distorto — aggiunge Ciccone —. Nasce dalle dolorose vicende di separazione, dalla rappresentazione paranoica di un femminismo persecutorio, dal risentimento per lo stesso potere seduttivo delle donne che svela tutta la fragilità maschile».
Se la cultura diffusa non aiuta, in Italia spesso anche il disagio degli uomini non trova risposte adeguate: quelli che vogliono mettere in discussione le loro reazioni «sbagliate» non trovano a chi rivolgersi. Lo ammette Marina Valcarenghi, psicoterapeuta di formazione junghiana e presidente di Viola, associazione per lo studio e la psicoterapia della violenza. «Sul piano psicoterapeutico attualmente non c’è niente, salvo qualche iniziativa sperimentale (fra cui la mia, durata nove anni nel carcere di Opera, a Milano), sia per mancanza di soldi, sia per disinteresse delle istituzioni, sia anche per la latitanza della mia categoria professionale che troppo spesso non riesce a distinguere fra la ripugnanza morale e il compito terapeutico». Anche lei conferma che, nella maggior parte dei casi, non si tratta di uomini malati: «Non si deve riabilitare né guarire; l’obbiettivo è lavorare sulle cause che hanno lasciato emergere l’istinto violento e disattivato i freni inibitori».
La necessità di non lasciare soli questi uomini è ribadita con forza dal dottor Massimo Lattanzi, coordinatore nazionale del Centro Presunti Autori, che invoca una svolta nelle politiche per contrastare violenza e stalking: «Nel triennio 2009/2011 hanno lasciato sul campo circa 400 vittime tra bambini e donne assassinate e uomini suicidi. Nel 95% dei casi il contesto è quello delle relazioni interpersonali, l’episodio che le scatena la separazione, l’abbandono o il rifiuto. Dopo il cosiddetto “colpo di abbandono improvviso” i presunti autori non possono fare a meno di ricontattare e avvicinare la propria vittima, una forma di craving simile a quella vissuta dai dipendenti da sostanze o gioco d’azzardo. Senza un percorso continueranno ad agire anche dopo le misure cautelari», spiega. Per spezzare questa catena è necessario educare gli uomini a una nuova socializzazione, accompagnarli verso modalità più rispettose di relazione. «Nel 70% dei casi il nostro protocollo ha evitato recidive meglio delle misure cautelari. Il muro invalicabile della denuncia o di una misura cautelare è vissuto come ulteriore rifiuto e può produrre gesti molto gravi. Gli strumenti devono essere quelli di una giustizia di tipo riparativa, non solo punitiva, altrimenti il ciclo della violenza non si chiuderà».
Posizione che non trova molti consensi tra gli altri esperti. Come sintetizza Poggi, «la denuncia è uno strumento che serve, perché contiene e ferma la violenza». Una misura d’emergenza come, su tutt’altro piano, le tecniche che insegnano a contenere gli accessi di rabbia. «Poi, per ottenere un cambiamento, bisogna lavorare a lungo, con altri strumenti». Reimparare l’abc delle relazioni non è cosa di un giorno.

Il Corriere della Sera 25.05.12

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«Ero Disperato, l’Ho Picchiata come Mio Padre»

F. 48 anni, impiegato, una figlia da precedente matrimonio. «Prima ancora di essermi pentito per quello che ho fatto, mi sono reso consapevole di ciò che ho fatto. Il pentimento è un’emozione subdola, perché può nascondere la paura. Ed è la paura a far scattare la violenza».
«Mi sono lasciato andare ad un primo episodio dove non c’è stato contatto fisico ma l’ho minacciata (con un coltello, secondo la denuncia). Poi c’è stato il secondo episodio: le ho stretto le mani al collo… perché ero davvero disperato. Avevo paura. Quella sera poi sono arrivati i carabinieri, mi ricordo che uno ha commentato: “Ma sì, queste donne sono delle rompicoglione!”».
La compagna finisce al pronto soccorso ma non denuncia e non ci sono gli estremi per la denuncia d’ufficio. F. va da uno psichiatra e chiede aiuto anche per lei. «Ma una donna che decide di non denunciare non viene aiutata, le hanno ribadito più volte che potevano darle ospitalità in una casa famiglia solo se mi avesse denunciato. E questa è una cosa vergognosa. Una donna può non denunciare per paura, per vergogna…». Perché la sua compagna non l’ha fatto? «Non lo so dire. Credo che abbia compreso il mio momento difficile. Poi ha visto che mi sono dato subito da fare per uscirne».
Così F. e la sua compagna, insieme al figlio piccolo di lei, tornano a vivere insieme. Ma la relazione di coppia continua a non funzionare. F. ha una figlia, «ero convinto di ricreare una famiglia». Non è così. «Non riuscivo a trovare una soluzione, avevo sensi di colpa nei confronti di mia figlia che un po’ trascuravo. Un disagio cui si univano altri problemi, le difficoltà economiche… Da lì sono cominciate le mie paure. Io non sono uomo aggressivo seriale. Mi sono trovato in una situazione di malessere, che era già presente dentro di me, e lì è scattata l’unica strada per me percorribile, perché così mi è stato insegnato. Sono cresciuto in una famiglia dove mio padre picchiava mia madre, mio zio picchiava mia zia… In realtà non amavo davvero questa donna. Mi ero abituato alla sua presenza in casa. E lì è nato il disastro. Non ne potevo proprio più e sono crollato emotivamente».
Non passa molto tempo dalla prima violenza, quando la compagna «mi offende» per futili motivi davanti ai figli. «Al momento non ho reagito, però quella sera mi sono messo a piangere e mi è salita questa rabbia. Mi sono sentito solo e ho fatto la cosa più assurda». Invia ripetuti sms al counsellor. «Ho scritto qualcosa come “basta, mi sono rotto, io a questa le tiro il collo, me ne frego se finisco in galera”, in realtà non avevo alcuna intenzione di farle del male, stavo già lavorando su di me». Questa volta, però, parte la denuncia d’ufficio. E dopo la denuncia? «Non mi ha più chiamato nessuno». F. ora ha una nuova compagna, alla quale ha raccontato tutto. Non avrà più episodi del genere? «Sono un uomo che non ha più paura. È su questo che gli uomini violenti devono lavorare: sulle proprie paure. Ora io non ho più paura e in quell’inferno non ci voglio più tornare, ma come faccio ad essere sicuro che quella cosa non capiterà più?».

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«l’Abbandono poi le Telefonate Mi ha Salvato Lei»

G. 40 anni, pregiudicato, denunciato per stalking dalla ex compagna. «Sto iniziando un percorso perché mi rendo conto che ho un problema. Ringraziando Dio ho ancora una coscienza che mi permette di capire che quello che ho fatto in passato è sbagliato. Fin dalla mia prima esperienza duratura, vent’anni fa, ho avuto dei problemi di relazione, che poi si sono ripetuti. Ora ho due bambine, però, e lo sto facendo per far vivere meglio loro. È un impegno che ho nei confronti della mia famiglia e non ultimo anche di me stesso. Perché alla fine non credo di meritare una vita così… Una vita di sofferenza».
G. ripercorre l’iter di tutte le sue relazioni. «Seguivano quasi un copione: l’idillio iniziale poi i problemi che non riuscivo a gestire, per carenze mie personali, caratteriali. E quando io stesso metto in condizione la persona di lasciarmi scatta qualcosa… è l’istinto che a volte mi spinge a fare quella telefonata in più».
«Quella telefonata in più», dopo la separazione dalla madre delle sue figlie, diventa una denuncia per stalking, che in italiano significa persecuzione. «Io non mi sento lasciato: mi sento abbandonato, mi fanno male le viscere. Lì per lì è come se stessi scacciando un dolore. Un dolore fisico. Una cosa che non riesci più a sopportare. Come se avessi un’esplosione interna. Stiamo cercando le cause in qualcosa che ho subìto durante l’infanzia, è lo scopo del percorso di cura che sto seguendo all’Osservatorio nazionale stalking».
La persecuzione post-separazione è stata preceduta da una convivenza difficile, spesso violenta. «Ceffoni, cose del genere. Quando lei mi si metteva muso a muso ed esercitava magari violenza verbale, ma anche fisica, su di me, io non mi rendevo più conto di avere una donna davanti. Era come se mi si paresse di fronte un altro uomo aggressivo e quindi non distinguevo più…». Si è reso conto da solo di aver bisogno di aiuto? «Sono stato accompagnato in ospedale dalla mia ex. Con tutto quello che ha subìto, ha avuto la forza di portarmi in ospedale… Spero di uscire da questa situazione, ma rimpiangerò una persona che mi ha amato più di se stessa. Mi ha denunciato due mesi fa, dopo anni di problemi». Una denuncia che, sostiene G., «carica la persona denunciata di rabbia e l’altra di ansia. Ho imparato da poco a chiamarlo stalking». Se la sua ex compagna non l’avesse denunciata si sarebbe rivolto a un centro per farsi seguire? «Non credo».

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«Mi insultava, l’Ho Stretta al Muro Cos’è questa Cosa, sono Davvero Io?»

A. 45 anni, celibe, senza figli, dipendente pubblico.
«Sono alto 1,86, peso 80 chili e ho messo le mani addosso alla mia ragazza, che è alta 1,60 scarsi». È iniziato così, con una mail al Telefono rosa, il percorso di A. per uscire dall’inferno. Da fine ottobre partecipa agli «incontri di condivisione» organizzati dall’associazione «Il cerchio degli uomini» e tenta di spiegare, prima di tutto a se stesso, cosa è accaduto. Parlare con il Corriere, dice, è quasi come un «confessionale, una presa di coscienza». All’inizio minimizza e cerca una giustificazione che non c’è: «Urla, strepiti, calci e pugni alle porte, fortunatamente nessun danno fisico. Cioè, sì, mi sono scappati degli schiaffi…». Due anni di convivenza, un anno di «inferno»: «I primi episodi di violenza sono accaduti l’estate scorsa, per una crescente tensione tra noi due dovuta alla sua gelosia. A un certo punto sembrava che fosse superata, lei ha cominciato una terapia psicologica. Però le crisi hanno cambiato obbiettivo. Invece della gelosia, era la mancanza di attenzione o il mio presunto scazzo… Non credo di essere una vittima innocente, però mi trovavo con le spalle al muro. Ho vissuto ansie di controllo, pensavo “speriamo che non si infastidisca per qualche futile motivo”…». A. ci tiene a raccontare subito il quadro di un rapporto di coppia uscito ormai dai binari e il suo passato irreprensibile: «Sono cresciuto in una classica famiglia monoreddito degli anni Settanta, non ho problemi con il sesso femminile». Poi, lentamente, racconta la dinamica della violenza. «Quando abbiamo chiuso, poche settimane fa, non riuscivo a farla smettere di venirmi contro. Lei al solito si metteva quasi distesa sul divano, gambe e braccia incrociate, riempiendomi di invettive, che non erano solo insulti… tu sei un bastardo, la tua parola non vale nulla… Io cercavo di risponderle…». Dalla preghiera al «basta» urlato con la schiuma alla bocca. E poi non bastava più neanche quello. «Una volta mi è partito un ceffone, l’ho stretta al muro, scuotendola, solo che io sono grande e grosso, lei è piccolina. Il giorno dopo aveva le ecchimosi sulle braccia e rincarava la dose. Una volta l’ho presa per i capelli in bagno di fronte allo specchio e l’ho terrorizzata. Sono cose che mi fanno stare malissimo. L’ultima volta l’ho praticamente sollevata di peso dalla collottola e dai pantaloni e l’ho buttata fuori di casa. La sera prima mi aveva fatto una scenata, le avevo detto che era finita, che non ne volevo più sapere, che non ero più padrone delle mie reazioni. E il giorno dopo si è ripresentata chiedendomi scusa… lì non ce l’ho fatta proprio più. Avevo le lacrime agli occhi, l’ho mandata via in malo modo». Si è mai chiesto perché nonostante la violenza la sua compagna tornava? «Lei mi ha detto, a caldo, che lo faceva per non interrompere la relazione».
A. non è stato denunciato, la sua relazione è finita. Ora è il tempo di fare a se stesso molte domande: «Dovrò imparare a convivere con una parte di me che non conoscevo e capire che cavolo è, se è davvero mia, se si ripeterà».

Il Corriere della Sera 25.05.12

"Scuola, diventare esubero dopo trent'anni di cattedra" di Fabio Luppino

Si chiamano soprannumerari. Diecimila professori che a causa della riforma Gelmini perdono posto. Vogliono riconvertirli al sostegno. È un’erosione senza ritorno. Un dramma invisibile, impalpabile, non cruento, lì per lì, come tutte le cose che riguardano l’intelletto. È un dramma per chi lo subisce, non avvertito però come sociale. Stiamo parlando di professori, docenti, insegnanti, sostituti dei genitori, a volte, a cui si chiede senza riconoscere. Molti di loro a cinquant’anni si trovano punto e daccapo. La chirurgia del taglio di ore imposta dal precedente governo scava inesorabilmente ferite feroci. Quelle sugli alunni le scopriremo nel prossimo quinquennio: dare meno istruzione quando nel mondo si vince con più istruzione non li aiuterà, ad occhio e croce.

TRE ANNI DIFFICILI Ma negli ultimi tre anni succede, come non accadeva da tempo, di vedere in fila, in quelli che una volta si chiamavano provveditorati agli studi, prof, per la maggior parte donne, oltre i cinquanta, a volte a pochi anni dalla pensione, a cercare smarriti ed in affanno la stanza giusta dove avere risposte sul loro destino. Dopo venti o trent’anni di onorato servizio improvvisamente non hanno più la loro cattedra. E non si tratta di docenti di ruolo grazie a sanatorie sindacali, doppi canali, etc. No. Hanno vinto il concorso regolarmente, si sono laureati spesso con lode, hanno svolto master all’estero o di aggiornamento in Italia, a spese loro e delle loro famiglie. La riduzione progressiva di ore sta creando un gruppo sempre più cospicuo di esodati, termine ormai troppo popolare, dal lavoro. Più crudamente, esuberi.

NUMEROCRESCENTE Sono più di diecimila, in misura crescente di anno in anno. Si chiamano con un brutto termine, soprannumerari. Finire nel girone è facile: se sei ultimo o penultimo in graduatoria nella tua materia e la scuola in cui insegni subisce una drastica riduzione di iscrizioni oltre al progressivo taglio delle ore (e al rimodulamento del numero di alunni per classe: 22 minimo al biennio, 28 minimo al triennio), la tua cattedra sparisce. Diciotto ore non ci sono più, spesso anche meno di dodici, in alcuni casi zero. Il fenomeno sta colpendo in modo più massiccio le superiori, meno le medie. Per il prof perdente posto inizia un iter deprimente. Cercare le scuole dove si insegna la sua materia; verificare se ci sono colleghi che proprio quest’anno andranno in pensione; informarsi come un detective se ci sono altri docenti nella medesima situazione, dello stesso distretto scolastico che stanno cercando posto mettendo nel mirino le stesse scuole e capire se sono più avanti (o più indietro) nel punteggio; fare la domanda di trasferimento quando ci siano almeno dalle dodici alle quindici ore disponibili se non una cattedra integrale, anche se ciò non salva dall’eventuale presenza di un collega concorrente tutelato dalla 104 (nella precarietà di questi anni i prof sotto scorta 104 sono spuntati come funghi). E poi aspettare, prosciugando tra la fine di luglio e le prime settimane d’agosto le energie già finite sotto i tacchi. Aspettare l’assegnazione che ora compare sul web. Con ulteriori incertezze: senza le 18 ore si può avere la cattedra,ma spezzata su due o tre scuole, le quali, soprattutto in aree metropolitane grandi come Milano o Roma non sono affatto vicine (per cui a 1.500 euro al mese se ne spendono 150-200 euro di benzina per raggiungere le varie destinazioni e poi tornare a casa).Un iter che può ripetersi ogni anno uguale. E così la scuola che dovrebbe essere maestra di vita per i discenti è stata trasformata in un luogo di angoscia. I soprannumerari, i precari, i supplenti, i pensionandi bloccati come tanti dalla riforma Fornero. Certo, non siamo la Finlandia… Ogni anno da qualche anno ricomincia quindi così, frustrazione che si somma a frustrazione. Il Miur (acronimo del ministero dell’Istruzione, non c’è più pubblica da tempo) ha indicato una soluzione per i perdenti posto: 120 ore per trasformare docenti in esubero in insegnanti di sostegno (quelli effettivi hanno seguito corsi di due anni per complessive 800/1600 ore). Come se i ragazzi con handicap, gli stessi insegnanti di sostegno già in essere, quelli da riconvertire con i corsi fossero numeri. Sulla scuola, passano i governi ma il modo di agire è sempre lo stesso: quantità, somme e sottrazioni. Le vite di tutti, il sapere vengono dopo. La singolare soluzione ha suscitato le sentite proteste della Fish ( Federazione italiana per il superamento dell’handicap) nonché dei professori già di sostegno, peraltro ridotti anch’essi. Numeri, numeri, sempre numeri. Che cosa c’entri tutto questo con la cura sottesa ai concetti di educazione e istruzione… Tra le piccole novità a fin di bene si fa per dire, ce n’è anche un’altra. Il Miur sta razionalizzando le classi di concorso. Apparentemente, una cosa buona. A sentire i professori non sarebbe un gran segnale, un altro. Non ci sarebbe più distinzione tra chi si è laureato in Economia o in Matematica e Fisica: entrambi potranno insegnare matematica allo scientifico, indifferentemente al biennio o al triennio come se avessero la stessa preparazione. Si dovrà riconvertire totalmente una formazione consolidata o inappropriata. Il risultato, nel brevissimo, è ridurre i posti per precari, supplenti, incaricati annuali. Poi, ad ogni cambio di stagione, il ministero e il ministro invocano la necessità di fare un concorso a cattedre per dare più spazio ai giovani. Meno cattedre, meno ore, meno pensionati, più soprannumerari, nuove classi di concorso… Non c’è più posto. Non è un Paese per giovani, nemmeno per meno giovani

l’Unità 25.05.12

La confraternita dei "qualcosisti" di Alberto Statera

La scapigliatura di Luca Montezemolo, il leggiadro ondivagare senza una rotta di Emma Marcegaglia, attratta a fasi alterne dalle menzognere sirene berlusconiane, e ieri ancora l´ennesimo stanco rito d´insediamento “qualcosista” del nuovo presidente della Confindustria Giorgio Squinzi. Il quale promette che, dopo una battaglia epica con il suo avversario Alberto Bombassei, egli è animato soltanto dalla “missione”, parafrasando, forse senza avvedersene, i vecchi leader democristiani che si appellavano allo “spirito di servizio”. E negando l´assioma di Gianni Agnelli, secondo il quale in quella poltrona si alternano ormai soltanto “professionisti confindustriali”. Non bastano le vaghe evocazioni schumpeteriane del neo eletto bulgaro («il cambiamento per noi imprenditori è un modo di essere») a dare nerbo a una cerimonia già vista un´infinità di volte, che quasi sempre, come ha notato non uno qualunque ma Giorgio Fossa, uno degli ex presidenti, si trasforma in «un oceano di chiacchiere generiche».
«Così come è questa Confindustria non serve proprio a nulla», ci soffia all´orecchio uno degli imprenditori che siede sbadigliante nelle prime file e paga un bel pacco di contributi associativi: «Ha ragione Marchionne a starsene fuori». E un altro a ricasco rincara: «Ormai ricordiamo i vecchi partiti che non hanno più niente da dire». Un Beppe Grillo di sicuro qui nell´Auditorium della Musica non c´è. Basta scrutare il tavolo della presidenza – venti facce più o meno note dell´industria privata e pubblica, appena ingentilite da un tripudio di fiori freschi come fosse San Remo – che sembra il palco del Politburo della vecchia Unione Sovietica. E poi, per l´appunto, le parole all´insegna del “Qualcosismo” che perpetua il “Partito dei Qualcosisti”, come lo chiamava Francesco Saverio Nitti. «Ci vogliono soluzioni per superare la crisi», dice il neo presidente. Ma cosa? «Qualcosa». Le “priorità” sono tante e tali e così genericamente declinate che non può sfuggire il paradosso: quando le priorità sono troppe non sono più priorità, ma necessariamente posteriorità. La «madre di tutte le priorità», come la chiama Squinzi (del quale sarebbe interessante conoscere il ghost writer) è la riforma della Pubblica Amministrazione, «che ci può aiutare a tornare a crescere». Ma se in cent´anni la Confindustria non è riuscita a smontare il suo elefantiaco apparato burocratico, la sua struttura pletorica e autoreferenziale, come può pretenderlo dallo Stato?
Nell´Auditorium ci inseguono nugoli di attacché per presentarci «il nuovo vicepresidente». Uno, due, tre. Ma quanti sono i nuovi vicepresidenti? Undici. Sì, avete capito bene. Undici, più un numero incalcolabile di comitati tecnici, commissioni, 267 organizzazioni territoriali, un numero di dipendenti superiore a quello del ministero degli Esteri, che ha rappresentanze diplomatiche in ogni parte del mondo. Nel palazzo di vetro della Confindustria all´Eur c´è in pratica una duplicazione di ogni funzione della Pubblica Amministrazione da abbattere. Costo del tutto all´incirca 600 milioni di euro l´anno, che molti non vorrebbero più sborsare. Un apparato che non ha l´eguale né in Germania né in Gran Bretagna e forse in nessuna altra parte del mondo industriale.
Il ministro Corrado Passera però sta al gioco e in un´enumerazione priva di pathos di quanto sta facendo con il governo “strano”, concorda sulla priorità delle priorità confindustriale sulla Pubblica Amministrazione. E cosa promette? Un provvedimento ad horas. No, un “tavolo”, un “gruppo di lavoro”, una “commissione tecnica” di grandi esperti (ancora tecnici in aiuto ai tecnici?), pur rivendicando al Politburo e alla gelida platea «qualcosa di più che l´enunciazione dei problemi stessi». Intanto lui mobiliterà 100 miliardi in un futuro «non lontano». Per che cosa? Per “Grandi Lavori”, che sembrano sinonimo delle “Grandi Opere” che Berlusconi ha propagandato per un paio di decenni, ma che non si sono mai palesate. Poi ci vorrà un “gruppo di lavoro” che stabilisca se convenga fare un paio di autostrade in Sicilia, come si favoleggia, o magari tentare di sistemare il territorio di un´Italia che frana, anche quando non viene devastata dai terremoti.
Un regalo di addio alla Marcegaglia, che dice di essere pronta a tornare a Gazoldo degli Ippoliti mentre il suo avversario Montezemolo tardivamente annuncia una mezza discesa in campo politica per salvare l´Italia, in verità il governo lo ha fatto con il pagamento (ma in che tempi? ) di parte dei crediti delle imprese nei confronti dello Stato. Per il resto il cahier de doleances risuonato ieri a Parco della Musica è su uno spartito più che noto: ci vogliono investimenti. Ma chi li deve fare, se negli ultimi lustri molti imprenditori si sono arricchiti e il resto del paese si è impoverito, con un trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale, visto che tra le aziende quotate a Piazza Affari i soldi prelevati come dividendi sono assai più di quelli investiti come aumento di capitale? Ci vuole una riforma del fisco e una riduzione della pressione fiscale. Ma come si fa se l´evasione appare invincibile anche per merito di non pochi imprenditori? «Uscire dall´emergenza – avverte Squinzi – non esaurisce il grande tema di una nuova politica industriale per la crescita». Giusto, ma dov´è, a parte l´ovvia domanda di modernizzazione del paese, il progetto della Confindustria?
Uno degli economisti che su questo la canta più chiara è Marco Vitale: «In questi anni, da Confindustria – ha scolpito – non è venuta fuori neanche un´idea degna di nota sul come uscire dalla crisi. Solo vecchie richieste rivestite di attualità in un momento in cui l´imprenditoria avrebbe bisogno di idee, di direzione strategica, di spinte verso il futuro e verso il nuovo». Per concluderne: «Se per un colpo di bacchetta magica la Confindustria sparisse domani, non succederebbe niente di grave».
Sciama mogio e silenzioso dall´Auditorium il popolo degli imprenditori, che solo qualche anno fa osannava il grande progetto riformatore del “collega” Berlusconi («il vostro programma è il mio programma») e adesso, incapace di esercitare il ruolo di classe generale, si sente tradito dalla politica. Molti di loro non ricordano o non sanno quanto diceva Alcide De Gasperi nel 1948, ai tempi del “Quarto partito”: «Le leve del comando decisive in un momento così grave non sono in mano né degli elettori né del governo». Ma in quelle dei padroni, che dovrebbero ritrovare l´impulso schumpeteriano per trasformare la crisi in un´occasione di sviluppo e crescita. Non di eterna querimonia.

La Repubblica 25.05.12

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“Un patto per il lavoro” di Claudio Sardo

L’esordio di Giorgio Squinzi come presidente di Confindustria ha colpito per la sobrietà non usuale in tempi di demagogia straripante e per la ragionevolezza con cui ha collegato il ruolo sociale delle imprese (e dei corpi intermedi) all’espansione del lavoro, e dunque alla qualità della vita e della democrazia. Al nostro Paese, travolto più degli altri dalla crisi, serve un patto per il lavoro. Il volto umano della crescita è esattamente il lavoro. Oggi è questa la priorità assoluta della buona politica.
Intorno a questo obiettivo si devono raccogliere le forze che intendono riportare l’Italia in seria A: speriamo che si riesca a trasferire su questo terreno la competizione politica, anziché sul teatro dei comici e dei cavalieri dove, a dispetto di tante parole, le sofferenze delle persone e delle imprese sono filtrate dalle lenti spesse della politologia e della propaganda.
Non era affatto scontato il messaggio di Squinzi. Le classi dirigenti italiane, comprese quelle imprenditoriali, hanno non di rado manifestato sentimenti assai diversi. Tra chi ha conteso a Squinzi la presidenza era evidente l’intento di costituire un vero e proprio «partito dei padroni», capace di condizionare in modo diretto il gioco della politica. Non che la Confindustria in passato sia mai stata neutrale, neppure quella di Squinzi lo sarà, ma il tema è se rassegnarsi alla fine della contrattazione nazionale, e con essa all’eliminazione delle autonomie sociali. La spinta che viene dalla Fiat di Marchionne va esattamente nella direzione di una destrutturazione dei corpi intermedi. Erano il tesoro indicato dalla nostra Costituzione: sono diventati la zavorra di cui liberarci in nome della competitività.
Il neo presidente di Confindustria invece ha detto ieri il contrario. Ha detto che occorre ripartire dall’accordo interconfederale del 28 giugno (accordo a cui Fiat si è sottratta). Ha detto giustamente che occorre ora «definire l’effettiva rappresentatività dei soggetti negoziali», rafforzando la democrazia sindacale. E soprattutto ha provato a stilare un’agenda per tutti coloro che, appunto, hanno a cuore l’espansione del lavoro: sgravi fiscali volti a favorire la capitalizzazione delle imprese, le assunzioni, l’export; riforma della Pubblica amministrazione; ricerca e sostegno all’innovazione; politiche industriali degne di questo nome.
Squinzi di certo difenderà fino in fondo gli interessi che rappresenta. Lo hanno dimostrato le parole dure con cui ha bocciato la riforma del mercato del lavoro oppure l’emendamento, approvato dal Senato, per incentivare la partecipazione dei lavoratori all’azionariato delle aziende. Tuttavia Squinzi ha mostrato un’apertura a quel patto per il lavoro, che è indispensabile per il futuro del Paese e che sarebbe un errore non cogliere come una sfida positiva. Sarebbe un errore ancora più grave dal momento che nelle classi dirigenti molti sono tentati da fughe o scorciotoie e anche nel governo dei tecnici c’è chi straparla con preoccupante frequenza. Squinzi ha invece detto che il valore sociale dell’impresa sta nella capacità di andare oltre il guadagno dei singoli, e anche oltre il mercato. Non può dargli torto chi crede nel binomio sviluppo-solidarietà.
Certo, resta forte la domanda di equità e di riduzione delle diseguaglianze che preme sull’auspicabile patto per il lavoro: le imprese non possono sottrarsi perché troppo a lungo hanno sostenuto la coincidenza tra la ricchezza individuale degli imprenditori e l’interesse generale del Paese. Oggi sarebbe un passo avanti indicare come obiettivo non l’arricchimento dei singoli, bensì quello delle aziende, che possono così investire di più in lavoro, ricerca, innovazione.
Poteva ieri Squinzi raccogliere applausi facili dicendo anche lui qualche frase alla Grillo o alla Montezemolo sui politici incapaci e corrotti. Non lo ha fatto dando così una lezione di umiltà: chi vuole davvero ricostruire comincia sempre dai propri errori. Ora verrà la prova dei fatti. Il primo contratto da rinnovare è proprio quello dei chimici, settore dal quale Squinzi proviene. Poi ci sarà la fine della legislatura e l’inizio della prossima. Per riportare l’Italia in seria A bisogna uscire dalla Seconda Repubblica imboccando la giusta strada. Il mondo del lavoro può scoprire di avere in comune molti più interessi che in passato.

l’Unità 25.05.12

"Riforme, Berlusconi fa saltare tutto alla francese", di Simone Collini

L’obiettivo può essere il Quirinale o il mantenimento del Porcellum. Quel che è certo è che Berlusconi oggi manderà all’aria il lavoro fin qui fatto a Palazzo Madama sulle riforme costituzionali, mettendo una seria ipoteca sulla possibilità che entro la fine della legislatura si riesca ad approvare tanto una nuova legge elettorale quanto la riduzione del numero dei parlamentari e un più moderno assetto tra i poteri istituzionali.

L’ex premier ieri sera ha riunito i vertici del Pdl, ha dettato la linea e oggi porterà Alfano in conferenza stampa per lanciare una proposta di riforma istituzionale centrata sul semipresidenzialismo alla francese. Con buona pace del testo, contenente la riduzione di deputati e senatori, che dopo mesi di discussioni era pronto a passare per martedì dalla commissione Affari costituzionali all’aula del Senato per il primo via libera. E con buona pace, anche, dell’avvio di un confronto più serrato sulla legge elettorale: oggi Berlusconi e Alfano diranno sì al doppio turno sostenuto dal Pd, ma non è un segreto che finora il Pdl abbia frenato sul nuovo sistema di voto con la scusa che prima debba essere definito il tipo di assetto istituzionale verso cui si andrà.

PROPOSTE PER NON FARE NULLA
Le mosse di Berlusconi vengono seguite con attenzione dal Pd. Il sospetto non è tanto, come pure viene ipotizzato, che l’ex premier abbia rinunciato a ricandidarsi per Palazzo Chigi ma non a correre per il Quirinale. A preoccupare i Democratici è che la nuova uscita finisca per far saltare il tavolo delle riforme.

Non a caso la capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro chiede un «chiarimento politico» («a che gioco gioca il Pdl?») e insieme a Giampiero D’Alia dell’Udc chiede di stralciare le norme sulla riduzione del numero dei parlamentari approvate in commissione Affari costituzionali per «metterle in sicurezza e approvarle più rapidamente».

E non a caso Pier Luigi Bersani confessa tutto il suo scetticismo sul nuovo scenario che si apre, a neanche dieci mesi dalla fine della legislatura: «Non è che ad agosto rifacciamo la Repubblica. Attenzione che certe proposte non vengano fatte per non fare nulla. Io non ho remore a fare riflessioni anche sulle riforme istituzionali ma la legge elettorale deve rimanere una priorità e con il doppio turno. È interesse non del Pd ma del sistema».

IPOTESI NUOVA COSTITUENTE
A sentire qualche senatore del Pdl i tempi per approvare le nuove norme ci sarebbero (anche se servono quattro letture tra Camera e Senato), il testo approvato in commissione andrebbe avanti e basterebbe approvare un emendamento ad hoc in aula per arrivare al semipresidenzialismo con l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Ma Berlusconi è pronto a proporre al Pd anche la creazione di una costituente nella quale discutere separatamente la questione. L’ipotesi difficilmente potrebbe però essere accolta da Bersani, per il quale «c’è il Parlamento e lì si discute», senza bisogno di prevedere nuovi organismi. E poi c’è il problema dei tempi.

Dice Luciano Violante, che da mesi discute con esponenti di Pdl e Terzo polo di legge elettorale: «Come si fa ad approvare in pochi mesi il semipresidenzialismo, che comporta modifiche molto profonde della Costituzione? Diverso è il discorso sul doppio turno, questo si può fare, è una legge ordinaria e non c’è bisogno di modifiche costituzionali». Legare le due cose, come fa Berlusconi, è quanto meno sospetto.

l’Unità 25.05.12

"Partiti, la Camera taglia e devolverà ai terremotati", di Maria Zegarelli

Via libera dalla Camera alla riforma dei partiti che dimezza il finanziamento pubblico per il 2012 e lo riduce per gli anni a venire. 291 «si» (316 la maggioranza assoluta), 78 «no», 17 astenuti (tra cui l’Api). Votano contro Lega, Idv, Pli, Popolo e territorio e Radicali che si erano battuti per l’abolizione totale dei rimborsi. Salvatore Vassallo, il costituzionalista Pd, esce dall’Aula perché fortemente critico verso il testo votato, idem il collega Antonio La Forgia, Giorgio Stracquadanio e Mario Baccini per il Pdl. Tante le assenze: se ne contano 96 nei banchi del
Pdl (si va da Silvio Berlusconi, Giulion Tremonti, Denis Verdini a Ignazio La Russa), 32 in quelli del Pd tra cui Walter Veltroni, Francesco Boccia, Marco Minniti. 14 gli assenti centristi, compresi
Pier Ferdinando Casini e Lorenzo Cesa. Soddisfatto il segretario Pd, Pier Luigi Bersani: «Avevamo detto dimezzamento e dimezzamento è stato. Il resto sono tutte balle. Ora servono norme sui partiti e anche su questo spingeremo. Si potrà apprezzare – aggiunge a chi fa notare le polemiche interne- , credo, che il Pd c’era tutto con un paio di voti in dissenso per esprimere esigenze che possono essere riprese dalla legge sui partiti». Antonio Di Pietro annuncia il referendum non appena il testo supererà anche l’esame del Senato, mentre la Corte dei Conti in una lettera inviata al presidente della Camera Gianfranco Fini (come rivela il radicale Turco), solleva la questione di costituzionalità sulla Commissione ad hoc che controllerà i bilanci dei partiti. Il presidente Giampaolino ricorda che la prassi affida i controlli proprio alla Corte dei Conti. «Un’ ipotesi suggestiva, una interpretazione creativa della Costituzione», la definisce il co-relatore della legge Gianclaudio Bressa. Bilancio positivo per Pier Luigi Mantini, Udc: «Questa legge prevede controlli rigorosi, affidati ad una commissione di magistrati, sui bilanci e sul rendiconto della gestione finanziaria. Introduce per la prima volta nella storia repubblicana l’obbligo per i partiti di dotarsi di statuti democratici». Tuona dal suo blog Beppe Grillo (una norma impedisce l’accesso ai fondi ai partiti senza statuto e il M5s non ne ha uno) che promette di non volere neanche un euro e sì che alla luce dei sondaggi, spiega, gli toccherebbero 100 milioni.
COME CAMBIANO LE REGOLE
La legge introduce un sistema misto di finanziamento, 70% erogazioni dirette dello Stato e 30% con co-finanziamento. Previsti i contributi dai privati (si introducono detrazioni armonizzate al 24% dal 2013, e al 26 dal 2014). 91 i milioni di euro che andranno ai partiti, il 70% come rimborso elettorale e contributo per l’attività politica, il 30%come cofinanziamento (50 centesimi per ogni euro ricevuto a titolo di quote associative ed erogazioni liberali da parte di persone fisiche o enti). Importante novità: i risparmi derivanti dal taglio dei fondi (150mln) andranno ai terremotati dell’Emilia Romagna. Non passa l’emendamento che prevede l’esclusione del finanziamento per i partiti che non hanno liste elettorali “pulite”, Di Pietro urla allo scandalo e alla fine la Camera approva un ordine del giorno che impegna il governo a decurtare i fondi ai partiti che vedano tra i loro eletti condannati durante la legislatura per reati contro la pubblica amministrazione, voto di scambio o reati di mafia. Passa invece, l’emendamento che prevede la pubblicazione on line dei redditi e della situazione patrimoniale dei tesorieri, onde evitare nuovi casi Lusi-Belsito. Vietato, quindi, anche investire in lingotti d’oro e diamanti: saranno ammessi soltanto investimenti in titoli «emessi da Stati membri dell’Ue». Bocciato l’emendamento presentato per l’Api da Linda Lanzillotta che vietava erogazioni in denaro da parte di enti pubblici e società controllate dallo Stato in favore di associazioni e fondazioni. Introdotto anche il tetto massimo di spesa per le campagne elettorali: 125mila euro per i sindaci nei Comuni da 100mila a 500mila abitanti che diventano 250 mila per quelli di sopra dei 500mila abitanti. I consiglieri non potranno spendere più di 25mila e 50mila euro.

l’Unità 25.05.12

"Puntare sui Primi (come nei buoni ristoranti)", di Aristarco Ammazzacaffè

Ho letto qualche giorno fa su “L’Unità” – ma ne hanno parlato anche altri giornali – una news che mi ha letteralmente allargato il cuore. Tanto da averne un mancamento. Ripreso, mi sono detto “L’attesa è finita: la montagna ha partorito. Infatti ci si chiedeva tutti, fino a qualche giorno prima: – Ma il ministro c’è? E che fa? Pensa? E che pensa? – E finalmente il botto”.

Da una montagna di riconoscimenti e titoli accademici e ipertecnici e di pubblicazioni – dal thailandese al sanscrito -, l’ex neo ministro, Prof. Umo Francesco, ha estratto un documento ambizioso in forma di Disegno di Legge (DDL) ancora in bozza.

Il Titolo, molto nuovo – che rinvia a un tema di cui si avvertiva stringente urgenza – è esplicito: “Sul merito” (“De merito”, latineggiante, nell’ultima versione).

Interpellati, stilisti estetisti e coristi della Scala hanno esclamato all’unisono: “Finalmente! Un provvedimento che sarà molto apprezzato nei dintorni di San Marino”

Particolarmente compiaciuta la “ex” Gelmini, del Merito la vera madre a sua insaputa (capita in certi ambienti ). E’ scesa, come si sa, fino a Reggio Calabria per prenderselo.

Si vocifera che Brunetta ambiva anche lui, oltre al Ministro, a figurare come padre. Ma Maria Stella ha detto “no”. Che non è il suo tipo. – E poi, non ci arriva -. Così ha detto.

Ma il Prof. Umo ha imposto la sua paternità, gigantografando il suo ruolo. Che qualcuno, del Team ministeriale, ascrive all’enfasi, altri alla parafrasi e qualcuno addirittura alla nemesi. (E’ tutta gente colta e accreditata, e sa quel che dice).

Comunque, il Ministro ci tiene molto. Tanto che, se Gelmini ne ha fatto la sua bandiera, lui ne vuol fare il suo stendardo (o fors’anche il suo baluardo: non ha ancora deciso. Ha studiato molto ed è un po’ confuso. È da capire).

Il lancio però del tema – con tanto di filosofia di fondo – è tutto suo: “La competizione deve essere il sale della nostra scuola”. Altro che laboratori, insegnanti preparati e motivati, spazi decorosi … . Costano troppo. Meglio le saline, che non ci mancano.

Quella che col nuovo DDL viene prefigurata è – finalmente! – la saga dei “primi della classe”, ovvero, dello “studente dell’anno” e dei “Campioni di Olimpiadi” nazionali ed esteri, come le sigarette; sin dai primi banchi di scuola saranno loro di esempio, di monito e di sprone (e, forse, le icone; ma non è sicuro) per quanti non ce la fanno o non possono farcela.

Così imparano a nascere sfigati.

Il nuovo slogan è già bell’e pronto: “Dalla scuola di ciascuno e di tutti, grandi e bambini / alla scuola dei primi e dei campioncini”. Vogliono farne un brevetto.

E non è finita. Si lanceranno le “Master Class estive” per i campioni classificati ai primi 3 posti delle varie Olimpiadi e competizioni scolastiche.

Come si può vedere, dietro il volto innocuo, un ministro decisamente “sfrenato” (quando uno dice: la fantasia dei Tecnici! Sembra che la stessa Gelmini, quando ha letto la bozza del DDL, abbia esclamato: “E bravo Prof. Umo”; e gli ha telefonato)

Ma la cosa che sembra inorgoglirlo di più – e che è il suo marchio: DOT (Denominazione di Origine Tecnica) – è l’idea di Ècole à la carte”, per studenti super, finalmente costruita con una “Carta” dal titolo origianale: “IoMerito”. Con questa si può ambire addirittura ad un premio riservato a chi ha il titolo di “studente dell’anno”. Il quale studente sarà inesorabilmente – ed esemplarmente – un “pezzo unico”, selezionato tra i “pezzi scelti” degli Esami di Stato.

Praticamente, un tassello importante della Società dei Pezzi DOC, propria del Made in Italy.

C’è da sperare, a questo punto, in un iter legislativo veloce del provvedimento e in altre fantasie ministeriali, dello stesso tipo e per analoghe urgenze.

Per esempio, a quando un DDL sul Latino nelle Medie?

Ministro, non ci deluda!

da ScuolaOggi 25.05.12

"Bersani: il rinnovamento del Pd è gia iniziato", di Giovanna Casadio

Bersani, com´è ovvio, non ci sta. Finire sotto processo avendo vinto nella stragrande maggioranza dei comuni al voto, irrita il segretario dei Democratici. E se gli si chiede: «Allora, il Pd ha paura del rinnovamento?». La risposta è secca: «Il nuovo noi l´abbiamo già, basta scoprirli i giovani sindaci, i nuovi amministratori, anche i parlamentari di ultima leva. Non sono affatto messi di lato, forse sono meno visibili perché non vanno nei talk show… ma sono pienamente in campo». Esempi? Il neo sindaco di Alessandria, Rita Rossa. E quello di Asti, Fabrizio Brignolo…
Detto questo, Bersani sa bene che la sfida è complicata e che il Pd ha vinto ma non convinto, se l´astensionismo è stato da record, se non è riuscito a drenare voti al centrodestra ormai nel caos, se c´è stato il boom di Grillo. Il tribuno cinquestelle attacca di nuovo il leader del Pd, che evita questa volta di rispondergli: «Dica pure… «, lo liquida. Però i grillini non possono essere sottovalutati né ignorati. Di tutto questo, ma soprattutto delle preoccupazioni per il Paese, il segretario parlerà nella direzione convocata per martedì. Sulle accuse di mancato rinnovamento dirà: «Vedrete, le novità saranno nelle candidature e nella squadra di governo. Non solo rinnovamento dal punto di vista anagrafico ma anche necessità di competenze». Per quanto riguarda l´Italia e la crisi. «Che sia necessario un cambio di passo lo sappiamo prima noi degli altri, l´abbiamo sempre ribadito». Martedì sera a cena da Monti a Palazzo Chigi, Bersani ha lanciato un vero e proprio allarme: «Ci vogliono segnali concreti, un allentamento del patto di stabilità per i Comuni, per fare ripartire le imprese, fare girare lavoro e liquidità. E questi segnali ci vogliono subito». Ha anche insistito per una soluzione sugli esodati, e ci torna ieri: «Il presidente del Consiglio ci ha detto che questo problema sarebbe stato risolto, non è stato ancora così. Noi stiamo facendo una nostra proposta di legge, perché il problema va risolto».
Su alleanze ampie, dalla sinistra ai moderati, e sulla nuova legge elettorale (il doppio turno) tira dritto. «Siamo solidi», è il leit motiv. Però in direzione si annuncia battaglia. Si è già accesa sul web del resto, a colpi di post nei vari blog, da quello di Pippo Civati a Sandro Gozi a Paola Concia. Presenteranno un documento per chiedere rinnovamento? L´ipotesi è sul tappeto. Di certo annunciano interventi. Gozi anticipa il suo: «Credo che il dato dell´ultima tornata elettorale dimostri che abbiamo tenuto davanti al crollo del sistema ma non siamo capaci di raccogliere un voto che sia uno. In pratica abbiamo resistito, ma non interpretato il bisogno di cambiamento che gli italiani stanno non dicendo ma urlando con il voto a Grillo e con l´astensionismo». Già nei giorni scorsi aveva aperto un dibattito online: «Vinciamo sul vecchio. Non rappresentiamo il cambiamento e Grillo in Emilia Romagna è un problema ormai grosso come un elefante». Civati insiste sulla necessità di comprendere i grillini e di interpretare il M5S prima che diventi una forza alternativa. Sul suo e-book, che esce oggi lancia un appello sulle dieci cose da fare. Più che una battaglia generazionale, sono i temi dell´ambiente e dell´innovazione che vanno fatti propri. In direzione tornerà su due punti: scegliere dal basso i parlamentari e rendere categorica la regola che chi ha fatto tre mandati non si candidi. Come chiede Renzi, il rottamatore. «L´usura del tempo – ragiona Civati – si fa sentire rispetto a questa classe politica ed è uno dei motivi per cui Grillo ha tanti argomenti. Attenti a non dare altra strada alle derive demagogiche». Renzi infine è il più duro contro la mancanza di rinnovamento e chiede, come anche Civati e Gozi, primarie in autunno, in cui scegliere il candidato premier del centrosinistra.
Subito dopo la direzione, in programma ci sono altri faccia a faccia con Vendola e Di Pietro.

l’Unità 25.05.12