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Un esercito di studenti senza borsa di studio "In 145mila ne hanno diritto, ma non l'avranno" di Salvo Intravaia

I tagli dell’ultimo governo Berlusconi hanno portato il fondo per il Diritto alla studio universitario da 246 a 12 milioni di euro. Escludendo di fatto dal sostegno economico un’enorme platea di ragazzi. La denuncia dell’Unione degli universitari. Decine di migliaia di studenti italiani hanno diritto ad una borsa di studio ma non la riceveranno mai. Il mega taglio al fondo per il Diritto allo studio universitario (il Dsu) operato dalla coppia Gelmini/Tremonti, prima di passare la mano al governo tecnico guidato da Mario Monti, ha lasciato al palo 145.000 studenti universitari che, stando alla normativa vigente, per reddito familiare e per merito, dovrebbero ricevere un sostegno. A denunciarlo è l’Unione degli universitari che, il 2 giugno, sarà al fianco dei sindacati in occasione della manifestazione unitaria indetta da Cgil, Cisl e Uil a Roma.

“La situazione è ormai insostenibile, il governo deve intervenire con urgenza”, spiega Michele Orezzi, coordinatore nazionale dell’Udu. Tra la crisi che colpisce le famiglie, la riduzione della spesa pubblica, le persone che non studiano né lavorano – i cosiddetti Neet – e la disoccupazione giovanile galoppante, la situazione degli studenti si sta facendo davvero pesante.

“Nell’ultimo anno accademico, più di 145.000 studenti si sono visti riconoscere dallo Stato il diritto ad avere la borsa di studio – continua Orezzi – ma sempre dallo stesso si sono sentiti dire che questa borsa non la riceveranno mai: migliaia di studenti sono riconosciuti idonei alla borsa di studio in base al reddito e al merito accademico, ma vengono poi scaricati dal sistema e abbandonati a loro stessi”.

Il taglio inferto dal governo Berlusconi sei mesi fa è stato memorabile: da 246 milioni si è passati a poco meno di 26 milioni nell’anno corrente per raggiungere il minimo storico, appena 12 milioni, nel 2013. A conti fatti, meno 95 per cento, e borse di studio nel 2013 soltanto per 18.000 studenti, “mentre paesi europei come Francia o Germania investono nel diritto allo studio miliardi di euro ogni anno”.

“Senza nessun intervento – aggiunge Orezzi – questi studenti non solo non avranno alcun tipo di prospettiva per i prossimi anni, ma avranno anche un futuro sempre più precario e buio”.

L’ultimo bollettino di ‘guerra’ divulgato dall’Istat fa intravedere per i giovani un futuro a tinte fosche: a marzo 2012, 36 ragazzi italiani su 100 in cerca di lavoro, con età compresa fra i 15 e i 24 anni, sono stati costretti a rimanere con le mani in mano. In Europa, la disoccupazione conta ormai 11 milioni di giovani destinati ad un futuro di precarietà e incertezza. Per coprire completamente le borse di studio occorrerebbero 130 milioni. “Proprio in questo momento di grave crisi sociale anche solo la vendita delle frequenze televisive potrebbe garantire risorse sufficienti almeno ad un piano triennale di finanziamento delle borse di studio per tutti gli studenti aventi diritto”, dice il coordinatore dell’Udu.

Con mille o duemila euro annui, i fortunati che la borsa di studio riescono ad ottenerla riescono a coprire parte dell’affitto mensile, di pranzi e cene lontano da casa e dell’abbonamento mensile al bus o alla metro. Per acquistare i libri e le dispense, per viaggiare per motivi di studio e per tutte le altre spese da sostenere durante l’intero percorso universitario devono intervenire invece i genitori sempre più alle prese con nuove tasse e disoccupazione. “Non si può pensare – conclude Orezzi – di far uscire l’Italia dalla crisi senza liberare nuove energie per rendere più dignitoso il nostro sistema d’istruzione, non si può pensare di risollevare il Paese senza creare nuovo lavoro, non si può vedere un futuro per l’Italia se non si investirà nei giovani”.

La Repubblica 23.05.12

"Passa la proposta Pd. Finanziamento pubblico dimezzato"

Sì della Camera: il taglio scatta già con la rata di luglio. 
Contrari Lega, Idv, radicali e Noi Sud, si astiene Fli. I partiti si sono dimezzati i finanziamenti pubblici, da 182 milioni di euro scendono a 91 nel 2012; il taglio della metà scatta da luglio, con il pagamento dell’ultima rata di rimborsi elettorali.
Ieri l’aula della Camera ha votato l’articolo 1 del testo di legge scritto da Bressa del Pd e Calderisi, Pdl, approvato con 372 sì, 97 no e 17 astenuti. Contrari la Lega, i Radicali, Noi Sud e Italia dei Valori. Per il sì hanno votato Pd, Pdl, Udc, Api, mentre Fli si è astenuta, a riprova che il Terzo Polo è finito.
Decisamente soddisfatto Pier Luigi Bersani che per primo aveva proposto il tagli della metà: «Avevo detto dimezzamento e ci siamo arrivati». La settimana prima, quando l’ostruzionismo leghista aveva causato il rinvio del voto, il segretario Pd si era infuriato. Ora «si comincia a vedere qualche fatto. Siamo riusciti ad arrivare a un risultato concreto e vero», ha commentato ieri: «Per noi questa misura vuol dire anche tagliarci un braccio», ha ammesso, «ma la spesa più grossa che affrontiamo è la formazione di 2.000 giovani, nell’iniziativa Finalmente Sud, e quella la salveremo».
Il Pd infatti ha lavorato perché il taglio passasse senza altri tentennamenti, e ieri il voto è stato anticipato per lo slittamento delle nomine per le Authority. Si continua oggi, all’esame anche l’aumento delle detrazioni fiscali per le donazioni ai partiti e alle Onlus.
Ora dei 91 milioni il 70% (63.700.000 euro) andrà come rimborso per le spese elettorali e per l’attività politica. Il restante 30%, cioè 27.300.000 euro, viene erogato a titolo di cofinanziamento. Il taglio ai rimborsi procederà a scalare negli anni, secondo il testo Bressa-Calderisi, e secondo i conti della Ragioneria dello Stato, a regime, nel 2016 i risparmi per lo Stato saranno di 11 milioni di euro.
Nel pomeriggio sono stati bocciati tutti gli emendamenti presentati dalla Lega e da qualche pidiellino per l’abrogazione totale del finanziamento, così da cavalcare l’onda populista contro i partiti, tanto più con il successo di Grillo. Il governo si era rimesso all’aula. «Ancora oggi c’è chi promette una raccolta di firme per una legge che verrà, c’è chi, demagogicamente, perché forse sa che non passerà, mette ai voti un emendamento che dovrebbe cancellare il contributo pubblico ai partiti», ha commentato Michele Ventura, vicecapogruppo Pd che ricorda: «Il Pd si è battuto dimezzamento delle risorse subito, e da subito, il contributo passa da 182 a 91 milioni».
Ma quando è stata bocciata la proposta di non dare più soldi ai partiti nella Rete è scattato il tam tam delle critiche, mentre la Lega con faccia tosta accusava di «bluff» e «demagogia» Pd, Pdl e Udc, che hanno votato contro gli emendamenti. A favore Lega, Idv, Radicali e NoiSud. I deputati di Fli si sono astenuti, propensi ad abolire il finanziamento come «segnale forte» ai cittadini sfiduciati dalla politica. Ma in aula un leghista ha balbettato che «sull’uso che ne hanno fatto i partiti dei fondi ci sarà un dibattito. Se ne sono viste di tutti i colori». Verde, soprattutto.
È passato invece l’emendamento di Sesa Amici, del Pd, per la parità di genere, che «sanziona» del 5% il partito che presenta un numero di candidati dello stesso genere superiore a due terzi del totale.
SCINTILLE IN AULA
L’atmosfera si è scaldata per un botta e risposta tra Roberto Giachetti e Roberto Maroni: «C’è chi ha preso doppie razioni. La Lega oggi deve tacere», ha detto il deputato del Pd, l’ex ministro leghista gli ha urlato «bravo, bravo» e dai banchi della Lega è volato uno «stai zitto» a Giachetti. E Maroni ha annunciato che oggi La Padania in prima pubblicherà «l’elenco di chi ha votato contro l’abrogazione» dei finanziamenti, la lista di proscrizione.
Tagli anche ai fondi della Camera: il presidente, Gianfranco Fini, ha proposto il taglio del 5%, pari a 50 milioni l’anno su 992: un totale di 150 milioni di risparmi nel triennio 2013-2016.

l’Unità 23.05.12

"La Biblioteca sfregiata e il ministro Ponzio Pilato", di Salvatore Settis

Almeno 240 libri sottratti a una grande biblioteca storica, quella dei Girolamini a Napoli, sono stati ritrovati a Verona in un deposito collegabile a Marino Massimo De Caro, che ne è il direttore. Questa non è solo una devastante notizia di cronaca, ma il simbolo della colpevole incuria in cui giace il nostro patrimonio culturale. La biblioteca dei Girolamini è illustre. Non solo per la sua origine (dagli Oratoriani di San Filippo Neri) e perché vi studiò G. B. Vico, ma anche per l´imponente raccolta di manoscritti e volumi antichi. E´ famosa anche per essere stata depredata negli anni Sessanta, con uno strascico di processi in cui furono coinvolti alcuni Oratoriani. La biblioteca divenne statale sin dal 1866, ma con una struttura istituzionale assai fragile: conservatore dei Girolamini, con nomina ratificata dallo Stato, è un Oratoriano (oggi il p. Sandro Marsano), e a lui spetta nominare, col consenso del ministero, il direttore della biblioteca. Massimo titolo del De Caro al momento della nomina era la sua qualifica di consulente del ministro dei Beni Culturali «per le relazioni impresa-cultura, l´editoria e le energie rinnovabili». Nessuna laurea, nessun titolo specifico: se non quello di mercante di libri antichi (indagato in Italia, e sospettato in Argentina, per commercio di libri rubati) e amico di un famoso bibliofilo (il sen. Dell´Utri). Curriculum davvero brillante, quel che ci vuole per esser nominato consulente da due ministri: prima Galan, poi Ornaghi.
Lo stato di abbandono della biblioteca, anche prima che i sospetti di furti diventassero certezza, fu denunciato da due professori dell´università di Napoli e da un giornalista, Gian Antonio Stella (sul Corriere del 17 aprile). Ma né queste accuse né un appello con migliaia di firme hanno indotto Ornaghi a rimuovere De Caro dall´incarico, né a istituire una commissione d´inchiesta. Intanto la sen. De Feo (Pdl) si è affrettata a scrivere sul Corriere del Mezzogiorno (11 aprile) che De Caro tratta i libri dei Girolamini come «un medico che amorevolmente esamina i pazienti»; in un´interrogazione dei sen. Piscicelli e Palmizio (gruppo “buongoverno”) si chiedeva al ministro Profumo di indagare se i due professori di Napoli avessero il diritto di denunciare lo stato miserevole dei Girolamini. Altri invece (le onn. Bossa e Di Biasi, del Pd) chiesero a Ornaghi come intendesse reagire alle allarmanti notizie, ma il ministro rispose il 19 aprile lavandosi le mani, scaricando ogni responsabilità sugli Oratoriani e annunciando che il De Caro si era “autosospeso” da direttore della biblioteca. C´è voluto un blitz dei Carabinieri, che hanno messo i sigilli alla biblioteca, ci sono volute le indagini della magistratura per indurre l´indeciso Ornaghi a cancellare De Caro dalla lista dei propri consulenti, senza peraltro rimuoverlo dall´incarico.
Per evitare scandali di tal fatta, sarebbe necessario un forte intervento istituzionale di natura generale: si dovrebbe portare la biblioteca dei Girolamini sotto il pieno controllo dello Stato (come è per altre biblioteche di identica origine, fra cui la Vallicelliana a Roma). Si è provato a fare il contrario: il Regio Decreto del 1866 è stato incluso da Calderoli (2008) fra le leggi “inutili” da abrogare. Per fortuna l´ufficio legislativo dei Beni Culturali nel 2009 riuscì in extremis a salvare quella norma tutt´altro che inutile. La situazione attuale è intollerabile: la convenzione fra lo Stato e gli Oratoriani va rinnovata anno per anno (!), favorendo l´indecente scaricabarile a cui abbiamo assistito.
De Caro rivendica per sé stesso altri meriti: per esempio dice di essere il vero principe di Lampedusa (ma Gioacchino Lanza Tomasi, a cui spetta il titolo, ha smentito l´impostura); ha avuto onori e gloria da un´oscura università privata argentina, in cambio di quattro libri e un meteorite. Ma nel curriculum di questo non-laureato, non-principe e non-bibliotecario autosospeso da direttore dei Girolamini (ma non dimissionario né licenziato) brilla un´altra stella: egli è segretario organizzativo dell´associazione politica del “buongoverno”, che a sua volta è erede dei circoli del sen. Dell´Utri.
L´irresponsabile taglio al bilancio dei Beni Culturali operato da Tremonti nel 2008 col complice silenzio di Bondi è alla radice del precipitoso degrado del nostro patrimonio, affrettato dal progressivo estinguersi del personale per limiti di età e mancanza di turn over. Intanto, voci interessate o incompetenti ripetono che per tutelare bisogna mettere in soffitta l´art. 9 della Costituzione, che assegna questo compito allo Stato, e privatizzare a marce forzate. Per costoro, chi ruba i libri da una biblioteca sarà forse un eroe (o un martire?) della privatizzazione. Per chi ancora crede nella Costituzione e nella legalità diventa sempre più urgente capire quali mai siano in proposito le idee e i progetti del ministro Ornaghi, bravissimo a tacere. Intende assecondare l´agonia del suo ministero o proporre un piano di rilancio della tutela (e dunque anche delle assunzioni)?
Per tornare a Napoli: come mai il ministro non ha commissariato la biblioteca nonostante le indagini in corso? Il 13 aprile Ornaghi ha avviato le procedure di commissariamento del Maxxi di Roma, defenestrando di fatto un funzionario bravo e competente come Pio Baldi; il 19 aprile al Senato ha legittimato la nomina di un incompetente alla direzione dei Girolamini. E´ questo, ministro Ornaghi, quello che dobbiamo aspettarci da Lei? Il trionfo dell´incompetenza, un ministero dei Beni Culturali intento a delegittimare i propri migliori funzionari, cioè se stesso?

La Repubblica 23.05.12

"Il Professore prova a venire incontro", di Marcello Sorgi

La visita di Monti ai terremotati emiliani e il decreto con cui il governo ha sbloccato i primi venti-trenta miliardi di pagamenti arretrati della pubblica amministrazione alle imprese contrassegnano la svolta post-elezioni del presidente del consiglio e il tentativo di venire incontro, per quanto possibile, alle esigenze dei partiti della sua maggioranza, usciti alquanto ammaccati (soprattutto il Pdl), delusi (l’Udc) o solo apparentemente soddisfatti (il Pd) dalla tornata elettorale del 6 e del 20 maggio.

Monti ha perfettamente presente che il quadro politico interno è mutato e per il governo i dieci mesi da ora alle elezioni del 2013 non saranno facili. Di qui la disponibilità verso i terremotati (a Sant’Agostino in provincia di Ferrara, uno dei comuni più colpiti, il premier è stato accolto con una piccola contestazione e qualche fischio) e l’impegno a sospendere i pagamenti delle tasse nell’immediato per le popolazioni colpite, oltre a mettere a punto un piano di aiuti fino alla ricostruzione, che Monti si augura rapida, e che vorrebbe, al di là dei soccorsi più urgenti, che prendesse in considerazione i siti industriali colpiti, in modo da rimettere in moto una delle più fiorenti economie regionali del Paese.

Quanto al decreto per i pagamenti alle imprese, presentato insieme a Passera, ministro competente, Monti ha voluto inquadrarlo nelle iniziative per la crescita continuamente rivendicate dai partiti stanchi della politica di esclusivo rigore. Ma ha tenuto a chiarire che non si tratta del primo provvedimento mirato a quest’obiettivo, e inquadrarlo nei piani di un governo che mai si rassegnerà alla vecchia politica «idraulica» – questo l’aggettivo scelto per definirla e per rievocare il pompaggio inutile di soldi pubblici in un sistema che, se non viene ristrutturato, non è in grado di assicurare ripresa.

Monti ha poi visto ieri sera il leader del Pd Bersani, terzo a salire a Palazzo Chigi dopo Berlusconi e Alfano e Casini. All’ordine del giorno le questioni aperte in Parlamento, a cominciare dalla riforma del mercato del lavoro, per la quale il governo si augura ormai una rapida approvazione, e la legge anti-corruzione, sulla quale invece la maggioranza ha registrato una profonda rottura preelettorale. Monti e Bersani non si vedevano da prima dell’ultimo vertice europeo e del G8. La sensazione che il leader del Pd ha tratto dall’incontro è che, pur in assenza di impegni concreti, la Germania si trovi stretta tra gli Usa e il resto dei Paesi europei, Francia in testa, decisi ad aprire uno spiraglio nella morsa rigorista della Merkel.

La Stampa 23.05.12

"Per chi suona la campana", di Ezio Mauro

La questione non è Grillo. È la richiesta esasperata di cambiamento che i cittadini rivolgono alla politica dopo anni di occasioni perdute che hanno divorato la fiducia nei partiti e nel Parlamento, portandola al livello più basso d´Europa. La crisi fa il resto, erodendo le basi stesse della democrazia, come accade quando la perdita del lavoro si rivela perdita della libertà materiale, senza la quale non c´è libertà civile. Ci si può stupire, a questo punto, se il voto diventa un ciclone in grado di cambiare il panorama politico italiano?
In realtà siamo solo all´inizio. Non ci sono più strutture politiche e culturali in grado di reggere (si chiamavano partiti), lo Stato è indebolito, la democrazia infragilita. Mezzo Paese, addirittura, non crede più nel voto, come se scegliere chi ci governa non fosse importante. Come se il cambiamento fosse impossibile, o peggio, inutile. È facile prevedere che in questa crisi acuta di rappresentanza ogni voto diventerà un redde rationem, ogni antagonista al sistema verrà applaudito, ogni semplificazione sarà premiata. Non si capisce per quale strada e con quali strumenti si potrà costruire una nuova classe dirigente del Paese, perché la protesta non lascia intravvedere nessuna proposta. Ma si capisce benissimo che per la classe dirigente attuale sta suonando il segnale dell´ultimo giro.
Grillo è la spia di tutto questo, ed è una valvola di sfogo. L´impoverimento progressivo della politica, la sua perdita di efficienza, la sua separatezza dai cittadini ha prodotto negli ultimi anni solitudini civiche sparse, smarrimenti individuali del sentimento di cittadinanza, secessioni personali: la platea italiana ideale per essere radunata ogni volta che la politica si riduce ad uno show, quando la battuta di un comico cortocircuita in una risata una situazione complessa, mentre il cittadino è trasformato in spettatore, la partecipazione diventa audience, la condivisione prende la forma di un applauso. È questa la nuova politica, o è la sua caricatura estrema e paradossale? E tuttavia quanti cittadini delusi e comunque interessati alla cosa pubblica accettano questo elettrochoc per desiderio di cambiamento, per una sacrosanta voglia di facce nuove, di criteri di selezione aperti e trasparenti? Per una domanda – ecco il punto – di autonomia e libertà della politica, aperta alla società e alla sua disponibilità a trovare nuove forme di coinvolgimento, di responsabilità e di impegno?
Il paradosso è vedere ciò che resta dell´armata berlusconiana votare Monti alla Camera, con il rigore e l´austerità, e votare nello stesso tempo Grillo a Parma, con il vaffa e lo sberleffo. Come l´impiccato che compra la corda per il suo boia. Forse il Pdl pensa che i populismi siano tutti uguali, interscambiabili, perché parlano alla pancia degli elettori, ne sollecitano gli istinti, si presentano come alieni al potere, come esclusi, o almeno come outsider. Grillo ha favorito questa scelta, senza mai distinguere tra destra e sinistra, anzi facendo di Parma una questione nazionale ha trasformato il Pd nel suo principale avversario. Ma questo non basta per spiegare la nemesi del grande populista italiano che va politicamente a morire in braccio ad un comico scegliendolo per disperazione come leader-rifugio, mentre qualche anno fa gli avrebbe offerto tutt´al più un ingaggio serale in qualche drive-in.
In realtà il Pdl cammina barcollante come un partito cieco, senza rotta e senza guida, polverizzato nel voto dei cittadini e nel consenso dei gruppi sociali: non esiste più. La crepa che gli scandali privati (in realtà tutti politici) di Berlusconi hanno aperto tre anni fa nel suo rapporto con gli italiani si è allungata fin qui, fino a decretare dentro le urne municipali quella sconfitta definitiva che l´ex premier e i suoi cantori cercano di dissimulare nella larga coalizione che sostiene Monti. Berlusconi ha perso il vero piffero magico che aveva nel ´94, quando è sceso in campo, e che ha conservato in tutti questi anni: il potere di coalizione. Oggi non coalizza più a destra, con la Lega spappolata dagli scandali contronatura, e nemmeno al centro, dove Casini ogni giorno chiude la porta in faccia ad Alfano, perché non intende tornare sotto padrone, finché Berlusconi rimarrà proprietario dei resti del suo partito.
Il potere di coalizione è invece la vera arma che tiene in piedi il Pd, vittorioso in tutti i calcoli elettorali: ma spesso con candidati altrui, come succede a Palermo e Genova dopo Milano e Napoli. Tuttavia il Pd resiste più degli altri partiti, proprio perché ha una naturale capacità di coalizzare a sinistra, con Di Pietro e Vendola, e un´ipotesi addirittura di allargamento al centro, verso un centrosinistra europeo con Casini. In più, Bersani gode della rendita di posizione di chi vede il suo avversario affondare: anche se dovrebbe domandarsi perché della crisi di Berlusconi beneficia spesso (e clamorosamente) Grillo, mentre dopo l´anomalia berlusconiana in un sistema che funziona dovrebbe essere la sinistra ad avvantaggiarsi direttamente della scomparsa della destra.
Tutto questo dovrebbe consigliare al Pd di non fare sonni tranquilli. La spinta al cambiamento investe di petto anche la sinistra, le domande di rinnovamento sono qui anzi più radicali e più motivate. Perché la grande novità rispetto allo sconvolgimento post-Tangentopoli del ´92-94, è che questa volta sono in crisi i valori dell´individualismo, del desiderio, del privato e del liberismo che consentirono a Berlusconi di incanalare a destra il malcontento, di modellarlo sulla sua figura, di ricostruirlo come struttura doppia di ribellione e di consenso per una leadership fortemente anomala rispetto ai partiti moderati e conservatori occidentali. Oggi questa stagione è tramontata, sepolta in Italia dalla prova di malgoverno e dagli abusi, nel mondo dalla crisi. Il sentimento dominante è quello della percezione della disuguaglianza, con il rifiuto della sproporzione di questi anni, della dismisura, con la richiesta di equità, di giustizia sociale. La vera domanda è una domanda di lavoro, e cioè di obbligazione reciproca davanti alla necessità, di legame sociale, di dignità e di responsabilità. Ecco perché la sinistra è direttamente interpellata dall´esigenza di cambiamento, a cui in questi anni non ha saputo rispondere ma a cui non può più sottrarsi oggi. O si cambia, semplicemente, o si muore. Bisogna ridare un senso alla politica, alla funzione democratica dei partiti, rendendoli forti perché contendibili, sicuri perché scalabili, finalmente aperti. Bisogna recuperare “l´onore sociale” dei vecchi servitori dello Stato, il potere in forza della legalità, in forza della “disposizione all´obbedienza”, nell´adempimento di doveri conformi ad una regola. Il senso dello Stato e del suo servizio: separandosi – e già il ritardo è colpevole – dagli abusi dei costi troppo alti della politica, dai riti esibiti del potere, da tutto ciò che rende la classe politica “casta”, cioè qualcosa di indistinguibile, che nel privilegio e nella lontananza annulla opzioni, voti e scelte diverse, che pure esistono, e contano. Se il Pd pensasse che la domanda di cambiamento radicale della politica non lo riguarda, si suiciderebbe consegnando il campo all´antipolitica. Anche perché la geografia dell´Italia che andrà al voto non sarà quella di oggi. Il vuoto e i voti in libertà a destra cercano un autore, un padrone, un idolo, magari anche soltanto un leader: e qualche nuovo pifferaio sta sicuramente preparando il suo strumento. Se il Pd non cambia, rischia di risultare vecchio davanti a qualche incarnazione post-berlusconiana spacciata come novità.
L´antipolitica genera storie più che biografie, personaggi più che uomini di Stato, semplificazioni più che progetti. Ma un Paese disorientato e disancorato da ogni tradizione politica e culturale occidentale, può finir preda di qualsiasi illusione. Perché l´antipolitica è sempre la spia dell´indebolimento di un sentimento pubblico e di una coscienza nazionale. Per questo l´establishment italiano (che prepara la corsa ad ereditare qualche spazio politico di supplenza dal vuoto dei partiti) non può ritenersi assolto gettando tutte le colpe sulla politica: ma deve rendere conto di questo deficit complessivo di rappresentanza, di questo improverimento del sistema-Italia, dello smarrimento di ogni spirito repubblicano condiviso. O si cambia, o la campana suona per tutti.

La Repubblica 23.05.12

Terremoto: Pd, ecco le nostre priorità per far fronte all’emergenza

Alla luce delle dichiarazioni sull’emergenza terremoto in Emilia rilasciate in aula dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà, i deputati del PD delle province di Bologna, Ferrara, Modena, Reggio Emilia e Mantova: Benamati, La Forgia, Lenzi, Marchignoli, Vassallo, Zampa, Bratti, Ghizzoni, Miglioli, Santagata, Marchi, Castagnetti, Carra, Colaninno e il capogruppo Franceschini, si sono riuniti per valutare il piano di misure necessarie a fronteggiare l’emergenza. Prioritario in questa fase è l’intervento sul decreto legge 59/2012 che riordina il sistema della Protezione civile e che è ora all’attenzione delle commissione Ambiente e Affari costituzionali della Camera. Di assoluta urgenza è il rientro delle popolazioni nelle case che risultino agibili. Occorre inoltre un’ordinanza per la copertura delle spese per gli interventi emergenziali. Strumenti legislativi di esenzione dall’Imu e da altri tributi fiscali per i proprietari degli immobili colpiti e di quelli destinati alle attività produttive che abbiano subito danni o distruzione parziale o totale. Occorre un provvedimento destinato specificamente ai beni culturali ed ecclesiastici. In accordo con la Regione Emilia Romagna, occorre lavorare per l’erogazione di un sostegno al credito per le imprese affinché le attività siano al più presto ripristinate. A favore dei lavoratori va prevista l’attivazione immediata di ammortizzatori in deroga. Ai Comuni va infine concesso l’allentamento del Patto di stabilità affinchè possano spendere immediatamente eventuali risorse disponibili. I deputati chiedono al governo anche l’apertura di un tavolo permanente tra governo e Regione Emilia Romagna.
I deputati democratici lavoreranno in stretto raccordo con il Presidente della Regione, Vasco Errani al quale esprimono vivo apprezzamento per l’impegno profuso fin da subito nei confronti delle popolazioni colpite dal sisma e sul fronte delle relazioni con i sindaci, i presidenti di Provincia e il governo. “Non lasceremo che si spenga l’attenzione sulla tragedia che ha colpito i nostri concittadini e le nostre terre. Incalzeremo il governo affinchè si faccia tutto ciò che occorre per restituire ai cittadini, al sistema produttivo, alle istituzioni condizioni di normalità di vita e di lavoro. Non lasceremo che disattenzione o silenzio facciano dimenticare quanto è accaduto e, soprattutto, quanto è necessario fare. Un grande grazie ai volontari che si sono generosamente messi al servizio delle popolazioni”.