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"L'orrore che divora figli e futuro", di Benedetta Tobagi

“Fra tutte le azioni delittuose che gli uomini possono compiere contro altri uomini, la strage è una di quelle che più si avvicina al male radicale”, ha scritto Norberto Bobbio. “Non c´è forse modo più perverso di ridurre l´uomo a mezzo che quello di considerare puro mezzo di un disegno ignoto la sua morte violenta”.
E a Brindisi, nemmeno uomini, ma ragazzini, sono stati l´obiettivo, il mezzo di una strategia ancor più perversa, ancora ignota. Solo il caso ha evitatouna strage di studenti, sabato. Ma questo non argina l´orrore e lo sconcerto di fronte al ritorno di una pratica stragista che ha fatto un nuovo salto di livello. Una sola vittima, ma chi uccide una vita uccide il mondo intero, recita un adagio ebraico, e il sorriso radioso di Melissa basta a spalancare il baratro. Chi prepara un attentato del genere cerca di seminare terrore e sconcerto: è un attentato al pensiero, oltre che alle vite umane, paralizzante, destabilizzante. Proprio Melissa, nell´ultimo compito di psicologia scriveva: «Tra tutti gli esseri viventi, l´uomo è l´unico capace di riflettere su se stesso». E tocca riflettere anche sulle mani, comunque tragicamente, perversamente umane, che l´hanno uccisa. Un attentato del genere è simbolico. Come ogni simbolo apre uno spazio informe di significati tra la materialità del gesto e i suoi possibili significati – un mare oscuro, in questo caso. «Un´enormità senza precedenti», commenta il ministro degli Interni Annamaria Cancellieri. Già: e ce ne vuole, per poterlo dire nell´Italia che ha visto una bomba ammazzare 85 persone, famiglie, bambini, turisti in viaggio, nella sala d´aspetto di seconda classe della stazione di Bologna il 2 agosto del 1980. Condannati i Nar, la strage di Bologna resta una delle più oscure quanto alla finalità politica ultima di quel gesto abnorme. Ma colpire una scuola, nessuno era mai arrivato a tanto. L´incertezza sulla matrice accresce la paura. Numerosi elementi simbolici, dall´intitolazione della scuola al premio per la legalità, la contiguità fisica con il passaggio della carovana antimafia, la prossimità temporale con il ventennale della strage di Capaci, avevano immediatamente portato a pensare alla mafia, ma i magistrati tendono ora a escludere questa pista per l´attentato. La cautela è d´obbligo, in un Paese che ha una triste famigliarità con i depistaggi, ma le indagini si orientano con decisione verso il gesto isolato di un folle. Si risveglia dunque una mia impressione di cittadina atterrita a leggere di un ordigno costituito di bombole a gas: il simbolo mi aveva trasmesso il terribile messaggio che non c´è bisogno di tritolo o mezzi d´alto livello e ardua reperibilità. Qualcuno sibila: possiamo ammazzarvi, voi e i vostri figli, come e quando vogliamo, con oggetti ordinari di uso domestico. Un delirio d´onnipotenza. Una tentata strage di innocenti. Lo strazio dei bambini è il caso limite, l´immagine stessa del male radicale che annichilisce l´uomo, in tanti luoghi della filosofia, della teologia, della letteratura. Per tutti, le parole dell´Ivan Karamazov di Dostoevskij, che per il grido di un solo bambino torturato è pronto a rinnegare Dio e restituire il “biglietto d´ingresso” alla celeste armonia prestabilita. Non sono bambini, qui, gli obiettivi, ma adolescenti.
Erano proprio i giovinetti e le vergini il capro espiatorio, il tributo di sangue preteso dalle feroci divinità antiche, dal Minotauro ai feroci dei aztechi: le primizie della società. Non più bambini e non ancora adulti, creature nell´età di passaggio, colti nel luogo simbolico della formazione e della crescita. Adolescenti innocenti quanto i bambini, con l´in più di un barlume di consapevolezza in fieri. Primizie della società, quasi senza voce, vulnerabili, esposti, già quotidianamente frastornati da un mondo cupo e minaccioso che, anche in condizioni normali, non offre prospettive certe né rassicurazioni. Terribile il lucido commento a caldo di un compagno di scuola di Melissa nel blog del collega Giancarlo Visitilli nella sezione Bari di Repubblica. it: «Noi che non votiamo siamo quelli che possono morire». Non ha scelto a caso, chi ha colpito proprio lì. Una scuola premiata per le sue buona pratiche, un´isola felice in un sud sempre difficile. Com´è lontano, il mondo vitale che emerge dalle voci della scuola di Brindisi, dagli squarci che articoli e saggi allarmanti aprono sul nichilismo che dilaga tra gli adolescenti oggi. Tanto più atroce, dunque, il tentativo di colpire al cuore la ricerca di senso di questi studenti in un mondo che dà così poca speranza. Un gesto di odio verso la vita, il futuro, la bellezza, che Melissa – anche lei ridotta, suo malgrado, a tragico simbolo – incarna alla perfezione. L´ipotesi del gesto del folle, sul genere di Unabomber, che pare prendere corpo, rafforza la pregnanza del simbolo. Il pensiero corre al norvegese Breivick, che consuma una strage sull´isola di Utoya dove era radunata la primizia della società, una gioventù cosmopolita,progressista, piena di ideali e voglia di impegnarsi nel sociale. Come ce l´aveva Melissa, scopriamo da amici, parenti, insegnanti, dal parroco. Il pazzo, di solito, cerca una platea, l´autoglorificazione, la fama, gode perversamente del potere di vita e di morte sugli altri. Ma il pensiero si arresta sgomento. Qualunque sia stato il movente – rabbia, odio, frustrazione, vendetta – sfogarlo su dei ragazzini innocenti fuori da scuola spalanca un abisso. Porta in casa nostra scenari d´orrore che abbiamo conosciuto finora solo da tragici fatti di cronaca degli Stati Uniti, con la novità della scelta molto italiana della bomba – con il sovraccarico di tensione e attenzione che tale scelta comporta nel nostro Paese, in virtù della nostra storia. Nell´attentato di Brindisi si manifesta dunque quel male radicale in cui Bobbio individuava la cruda essenza di ogni strage, con l´aggravante che a essere ridotti a mezzo sono le creature che si affacciano alla consapevolezza; non solo la nuda vita, ma la vita che comincia a prendere in mano se stessa, che comincia ad affacciarsi al mondo adulto. Si è voluto distruggere e atterrire chi più di ogni altro dovrebbe essere educato, protetto e accompagnato affinché riesca a prendere in mano la propria vita, garantendo così un futuro alla società tutta. C´è forse una forma di feroce invidia da parte di qualcuno che si sente intrappolato in un orizzonte chiuso verso chi, comunque, ha di fronte a sé il mare aperto?
Sarebbe un attentato-Crono, l´ultimo e più atroce epifenomeno di una società divoratrice di figli e futuro. Attendiamo gli sviluppi delle indagini. Certo è che di paura ne ha creata tanta, l´attentato. Ma ha destato anche reazioni di sorprendente maturità. Le uniche parole con cui forse possiamo concludere provvisoriamente questa riflessione vengono ancora una volta da uno degli obiettivi che si volevano terrorizzare, un amico della classe accanto, Riccardo: «Ora si ha paura», commenta, ma completa così: «Se stasera fossi solo e senza i miei amici non parteciperei alla marcia». Ma non è solo, non lo è. E forse, vogliamo sperare, sarà lasciata un po´ meno sola la scuola tutta, d´ora in poi. Ha perso centralità da anni nell´attenzione della politica. Quanto sia centrale, e cruciale, ce lo ha ricordato tragicamente la bomba di sabato.

La Repubblica 21.0.12

"Il momento della solidarietà", di Vittorio Emiliani

L’antica torre civica di Finale Emilia spaccata verticalmente a metà, quei quattro operai intrappolati sotto le macerie della fabbrica mentre la gente si riversava nelle strade. Uno di loro è un giovane maghrebino, appena sposato: era tornato dentro per salvare i macchinari. Un altro era arrivato anni fa dalla Campania. La tragedia che ha colpito l’Emilia-Romagna, soprattutto le province di Ferrara e di Modena, rimanda a questi simboli, a queste storie, mentre piove forte sulle macerie e sulle tendopoli in allestimento.
Molti i centri colpiti. I morti sono sette, i feriti decine. Gli sfollati in aumento, forse cinquemila. Ma qui la gente è abituata a reagire in positivo, a darsi da fare, a solidarizzare coi più deboli. Non si ferma a piangere. Sa di trovare nelle torri civiche, nella Regione, nella Protezione civile punti solidi di riferimento. «Regione sazia e disperata», la definì maldestramente, anni fa, un cardinale non emiliano.

Mi trovavo, per caso, con un suo confratello di queste parti. Scosse il capo: «Se si informasse, saprebbe che da noi il volontariato è una forza e che siamo la seconda regione d’Italia nella raccolta di fondi per le missioni». Davvero qui la solidarietà ha un cuore antico, senza distinzione di credo politico. Come l’ente locale, malgrado i tagli subiti, ha efficienza e concretezza.
Quelle fabbriche che lavorano a ciclo continuo raccontano di una regione fattiva, non rassegnata alla recessione. Due degli scomparsi lavoravano nella ceramica che ha attraversato lunghe crisi, un altro in fonderia, il quarto in una fabbrica di polistirolo. Ora ci saranno inchieste, doverose. Come e perché certi capannoni sono crollati. L’edilizia, spesso frettolosa, degli ultimi sessant’anni, si fonda sul cemento armato che è, paradossalmente, un materiale che invecchia presto e che, non essendo elastico, risulta più fragile di mattone-pietra-legno. Poi ci sono i danni, gravi, al patrimonio antico, a cominciare dal Castello-simbolo di Ferrara. Saranno affrontati con serietà. I tecnici non mancano.
Stanotte, nelle strade, nelle piazze, fra la gente uscita di casa dopo la forte scossa delle 4,04 erano tanti i volti degli africani, degli asiatici. Novellara, al centro del sisma, è uno dei Comuni italiani con la più alta percentuale di immigrati, l’Emilia-Romagna, con oltre l’11,3 per cento, è la regione italiana con la più alta quota di immigrati. Più della Lombardia, o del Veneto. E però qui gli episodi di intolleranza razziale non popolano come altrove le cronache. In questi momenti di dolore e di paura presumo di sapere che – qualunque sia il colore della pelle, l’accento delle lingue, dei dialetti – reagiranno con grande dignità e spirito civico. Dobbiamo però dar loro, e a tutti gli italiani, la speranza concreta, ravvicinata, di un piano per mettere in sicurezza il patrimonio edilizio: occorrono 40 miliardi di euro in più anni? Vanno assolutamente trovati e pianificati. I terremoti non si prevedono. Però si prevengono. Eccome.

l’Unità 21.05.12

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“Se si ribella la terra gentile”, di CARLO LUCARELLI

È VERO, dalle nostre parti non ci siamo abituati a certe immagini. Non ci siamo abituati, in Emilia Romagna, ad avere paura di una natura che da tanto tempo consideriamo così gentile e sottomessa – più sottomessa che gentile – da non creare mai nessun tipo di problema, anzi. Strade dritte, campi squadrati come col righello degli antichi romani in un alternarsi di vigneti, centri commerciali, pesche nettarine, torri dirigenziali, centri storici, capannoni, kiwi, porcilaie e villette a schiera ecocompatibili. E se c´è qualcosa di ancora selvatico è parco naturale o presidio Slow Food.
Non ci siamo abituati, qui da noi, a vedere le guglie dei nostri campanili sbeccate come da un morso, cumuli di mattoni impolverati nelle piazze, vecchi palazzi a metà come tornati indietro col rewind e capannoni stesi proni sui corpi di chi c´è rimasto sotto.
Ma soprattutto non siamo abituati a stare fuori casa, a guardarci in faccia spaventati, preoccupati che quella natura Doc e Dop ci scrolli di dosso all´improvviso come abbiamo visto fare da altre parti che consideriamo meno sottomesse e gentili delle nostre.
Non siamo abituati, qui, ad avere paura della terra.
O meglio, non ci siamo abituati noi – o non lo siamo più – perché le generazioni precedenti con quella natura, con i capricci dei fiumi, per esempio, ci hanno lottato parecchio per renderla così sottomessa da non spaventare più nessuno e a non produrre più leggende horror, come quella della Borda, il fantasma della nebbia.
E nonostante recentemente il lungo periodo di piccole ma decise scosse che ogni notte ha mandato la gente di Faenza a dormire in macchina ci abbia ricordato che l´Italia è zona sismica, l´Italia tutta, e che anche in Emilia Romagna si possa avere paura della terra.
Ora, io sono uno che con la paura ci convive per scelta – e per fortuna – nel senso che ho fatto del crearla e dell´indurla agli altri il mio mestiere. Non ne ho mai provata molta – ripeto: per fortuna – e quella dei terremoti non è mai stata in cima alla lista, anche se so quanto possa essere terrorizzante e capisco quanto possa essere spaventata la gente delle mie parti in attesa che l´allarme cessi.
Ma rispetto la paura degli altri e la paura in generale, che ho sempre considerato come qualcosa di positivo. Come una forma di conoscenza: il buio che intravediamo nello spiraglio di una porta socchiusa prima o poi ci poterà ad aprirla. E come uno spunto di riflessione: perché non l´ho aperta prima, quella porta, e cosa faccio adesso che l´ho spalancata?
Ecco, un terremoto è un evento imprevedibile, come un fulmine dal cielo, ma viene da pensare che i danni siano stati quelli che sono stati e soltanto quelli perché in effetti le nostre zone sono più fortunate e organizzate di altre, dove invece i danni sono stati maggiori. E questo è bene, ma non dobbiamo fermarci qui.
Dobbiamo tenerla d´occhio, questa terra, attenti che non sia cementificata, depotenziata, scavata e riempita contro le regole e contro la logica, insomma, contro la natura. Come è negli interessi di alcuni – per esempio la criminalità organizzata che anche qui ha messo radici – ma non di tutti gli altri.
Insomma, bisogna che questa paura ci insegni ad amarla di più, questa terra, a pensarla, capirla e rispettarla.
Altrimenti lei si arrabbia e come sta facendo in tante parti del mondo, si muove e ci scrolla di dosso.
Anche qui da noi, in Emilia Romagna.

La Repubblica 21.05.12

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Celati: “Le macerie di Bondeno e Sant´Agostino nei luoghi della mia infanzia è crollato il cielo”, di Dario Pappalardo

“A Ferrara si può ancora passeggiare: c´è un senso di comunità che aiuterà a risollevarsi”. «Il mese prossimo andrò a vedere di persona cosa è successo: sono i luoghi della mia infanzia. Non ho ancora contattato i miei parenti che vivono ancora lì. Mi pare che il centro storico di Ferrara non sia stato danneggiato, temevo per il Palazzo Ducale…». Da Brighton, in Inghilterra, dove si è trasferito ventiquattro anni fa, lo scrittore Gianni Celati segue le notizie del terremoto collegato a Internet. Guarda le foto e riconosce i posti in cui ha vissuto da ragazzo, gli scenari che hanno ispirato le sue storie e i documentari.
Celati, lei nella provincia di Ferrara è cresciuto…
«Sì, mio padre era proprio di Bondeno. Le immagini che vedo adesso sono insolite per una città come la mia, che si trova in una conca. Non abbiamo mai vissuto davvero i danni del terremoto. Certo, non si può paragonare con quanto successo all´Aquila, ma è stato un grave colpo».
Cosa l´ha impressionata di più?
«Sant´Agostino, con il municipio di primo Novecento che è praticamente venuto giù e poi le chiese ferite, le macerie. Per fortuna è una zona che scende verso il mare e non c´è stata la tragedia, ma ci sarà da ricostruire. È stato colpito uno dei territori più curati e valorizzati del nostro Paese».
Torna spesso a Ferrara?
«Ci vado raramente, ormai non abito più là da anni. Ma, quando arrivo, ammiro la straordinaria pulizia, l´ordine, la funzionalità dei servizi. Trovo spazi dove si può ancora passeggiare. Nei secoli, i ferraresi hanno creato una città con muri e strade bellissime che ancora adesso non è “invasa” da costruzioni orribili e situazioni estreme come è accaduto nei dintorni di Milano. Ecco, vedere ora tutto quanto che cade…».
Negli anni Sessanta girò in Emilia un documentario intitolato Visioni di case che crollano…
«Era dedicato alle vecchie case coloniche lasciate in rovina, a nord di Reggio Emilia e fino alla foce del Po. Ho girato molto in quelle terre. Documentavo anno dopo anno le costruzioni abbandonate che crollavano lentamente. Era il racconto di un´architettura rurale che non esiste più».
Che risposta si aspetta al terremoto dalla comunità che vive in quei luoghi?
«Spero ci sia la coesione che si viveva ai tempi in cui io sono cresciuto lì. La mia famiglia e miei parenti vivevano coesi. C´era un senso di comunità che ora si è perduto un po´ dappertutto. Bisogna ricostruire e salvare il bello che c´è. Ci andrò presto, voglio esserci».

La Repubblica 21.05.12

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“Sotto la torre ferita che veniva giù Finale Emilia come L’Aquila” , di Rita Querzè

Aveva ragione mio figlio grande. Un saggio di otto anni non ancora compiuti. «Mamma, papà, vi prego, non andiamo da quella parte, mi fa paura. Non voglio entrare in questo paese, ci sono troppe pietre per terra, crepe nei muri. Torniamo a casa». «Ma dai, non ti preoccupare, è tutto finito — gli abbiamo risposto in coro, genitori e fratellino più piccolo con una sola voce — il terremoto c’è già stato stanotte. Vedrai, non succede nulla. Diamo un’occhiata al centro e alla casa dei nonni, solo dal di fuori, per vedere se è tutto a posto, e poi ce ne andiamo».
Errore. La terra comincia a tremare di nuovo. Una prima volta, leggermente. E poi una seconda, fortissimo, alle 15 e 18 minuti di ieri. «Viaaa, viaaa, via tutti. Bambini, in mezzo alla piazza, correte!». «Papà, papà, dov’è papà?». «Correte, e basta».
Davanti a noi quello che era rimasto della Torre dei Modenesi — il monumento di cui i finalesi andavano forse più orgogliosi — rovina a terra in una nube rossa di polvere e calcinacci. Le grida si mescolano alle grida. Ci viene incontro una donna urlando con tutto il fiato che ha in gola: «Ettore! Ettore! Ettore è in casa, era tornato dentro a prendere qualcosa proprio lì, di fianco alla torre, aiuto, fate qualcosa».
Scappiamo. Via, via, via. Lontano, più lontano che si può. Esitiamo un attimo. Quale strada scegliere? Le vie sono strette, incombono tegole e cornicioni. «Tutti di là, dove la strada è più larga. E adesso ragazzi, correte con tutta la forza che avete». Obiettivo: l’automobile, la salvezza. Quattro gomme e una meta obbligata: la campagna. Lontano dalle case e da nuovi crolli. Lungo la strada, alla nostra sinistra, vedo un vigile del fuoco a terra, ferito, un suo collega che cerca di soccorrerlo come può. «Bambini, avanti, guardate avanti, correte».
Ci sono pezzi che un cronista non vorrebbe mai scrivere. Sono quelli in cui ci si trova a raccontare qualcosa senza aver avuto nessun merito. Quelli decisi dal caso, che ti ha fatto essere in un certo posto in un preciso momento. Sono soprattutto quelli in cui sei parte in causa e anche solo tentare di essere obiettivi e distaccati diventa una sforzo irragionevole. E questo è il caso.
Allora scopriamo le carte. Finale Emilia è il paese dei miei nonni, dei miei studi, degli affetti e delle radici. È un posto di confine, dove non arriva nemmeno il treno. Qui la gente è fatta di una stoffa spessa e ruvida, almeno all’apparenza. Gente abituata a chinare la testa e a lavorare sodo. Contadini, fino agli anni Sessanta. Poi sono arrivate le fabbriche, le ceramiche in particolare. E i contadini hanno lasciato cadere a terra zappe e rastrelli per indossare le tute blu degli operai. Le strade sembrano disegnate con il righello, più che in chilometri si misurano in pedalate. Le case molti se le sono costruite da soli, negli anni Sessanta, lavorando nel fine settimana, e rafforzando l’abbrivio del boom con una buona dose di olio di gomito.
Il clima è afoso d’estate e brumoso d’inverno. Tollerabili solo la primavera e l’autunno. Forse proprio per reagire a un ambiente non sempre felice, questi strani modenesi di confine, con l’accento più simile a quello dei vicini ferraresi, compensano con solidarietà e un carattere gioviale che li porta a organizzare sagre, carnevali e feste del patrono a ciclo continuo.
Questa presenza di spirito ha aiutato, ieri, a preparare le auto per la notte senza lasciarsi troppo prendere dallo sconforto. Nessuno aveva voglia di attardarsi troppo a far le valigie e così molti hanno semplicemente preso i sacchi neri della spazzatura e hanno buttato dentro quello che capitava a tiro: abiti, il pupazzo preferito dei bambini, qualcosa da mangiare. E poi tutti a dormire — si fa per dire — lontano dal paese, in mezzo ai campi.
Il centro storico è in pezzi. Con quello dell’Aquila (che pure è in una condizione infinitamente peggiore, un paragone in questo senso sarebbe fuori luogo) ha in comune il silenzio dei luoghi morti, abbandonati. Per descrivere la notte di sabato più che di paura bisognerebbe parlare di panico. La facciata del Duomo: crollata. La Torre dei Modenesi, in piazza Baccarini: una montagna di macerie. Eppure, costruita nel 1213, aveva resistito dando ottima prova per 800 anni. Sfregiata anche la torre campanaria del municipio. Seriamente danneggiate le chiese di San Francesco, quella dell’Annunziata, quella di San Francesco da Paola. Mentre il mastio del castello estense ora è un enorme, indistinto, cumulo di pietre.
«Il terrore è quello di chi capisce che la propria vita e quella dei propri cari è in pericolo», sintetizza con il sorriso nella voce, nonostante tutto, Celso Malaguti, 65 anni, a capo della polizia locale della cittadina fino a due anni fa e oggi in pensione. «Ma più che di questo nel suo articolo parli dello smarrimento nel vedere il nostro paese, la nostra storia, ridotta in un cumulo di polvere — continua l’ex vigile —. Mai come ora capiamo quanto questi monumenti fossero un pezzo di noi, della nostra identità».
Gli abitanti di Finale, come quelli di Sant’Agostino, di Mirandola o di San Felice non vogliono più raccontare per l’ennesima volta il terrore della notte del terremoto. Quello lo condividi con chi l’ha vissuto come te, nella speranza di liberarti di un incubo. Ma poi capisci che anche questo non serve a nulla. E allora meglio non ricordare più, tantomeno con chi non sa di cosa si sta parlando.
Certo è che gli abitanti della pianura sono arrivati del tutto impreparati a questo dramma. «La vostra non è terra sismica», hanno sempre detto tutti. E allora se c’era da costruire un capannone o una casa non si è mai guardato troppo per il sottile. Che errore. Lo hanno capito tutti bene sabato notte, quando il letto si è trasformato in una barca senza nocchiero nel mare in tempesta. «Fuori!!!! Fuori!!! Tutti fuooori». Urla, la gente per strada in mutande e maglietta, abbracciata per non sentire il freddo. I cellulari impazziti per capire che ne è dei propri cari in un altro paese, in un’altra città. Maschi e femmine che d’istinto resuscitano vecchie divisioni di ruoli: «Tu stai vicino ai bambini, io entro dentro a prendere una coperta». E poi, all’alba un innaturale arcobaleno che si staglia sul cielo quasi sereno.
«Laggiù, tra Gavello e San Martino Spino, la terra si è aperta e dalle sue ferite è uscito un misto di acqua e sabbia azzurra color del mare», racconta il vigile urbano in pensione. Leggenda, realtà, suggestione? Per ora la certezza è una sola. La gente della pianura ha perso l’innocenza di chi non ha mai visto la terra tremare.
Il Corriere della Sera 21.05.12

"Quei dannati inghiottiti dalle loro fabbriche", di Michele Smargiassi

Leonardo, Gerardo e gli altri i dannati del turno di notte inghiottiti dalle loro fabbriche. Quattro operai morti. “Nicola era libero, poi un collega si è ammalato”. “A mio marito non pesava, pensava che poi di giorno poteva portare in piscina i ragazzi” “Dopo la prima scossa siamo corsi fuori. Tarik è voluto rientrare per chiudere la valvola del gas: non è più tornato”
“Mio figlio non doveva essere lì, l´altra sera, ma gli hanno chiesto di sostituire un altro che stava male: è destino”. Ha dell´incredibile che quattro delle sette vittime del terremoto d´Emilia siano operai del turno di notte, di tre stabilimenti diversi. Nicola, Leonardo, Gherardo, Tarik sono stati sepolti nella stessa manciata di secondi in questo villaggio industriale disseminato fra i campi che è la pianura tra Modena, Ferrara e Bologna, nella notte paradossale e feroce in cui il terremoto ha scelto di far crollare le fabbriche e non le case; e non è una fortuna perché le fabbriche, oggi, sono abitate anche di notte, come le case. Così il terremoto si è portato via gli operai del buio, i lavoratori del terzo turno, i laboriosi in mezzo al riposo degli altri.
LEONARDO ANSALONI, IL PAPÀ
«A Leonardo non pesavano le notti, perché viveva bene i giorni». La moglie Gloria si copre alla meglio la testa con un plaid celeste. Piove fitto, ma lei resta in cortile come tutti, la bella casetta giallo limone di Reno Centese, nido di felicità familiare, è diventata ostile: «Ecco senta, un´altra scossa!», dice stremata. Non le hanno detto nulla, neanche una telefonata. Alle sette di ieri mattina ha cominciato a preoccuparsi, il turno finisce alle sei e lui non fa mai tardi, lo chiama al telefono, non risponde, «allora vado a cercarlo». Quel che trova non è più la Ceramica Sant´Agostino, è un mazzo di carte afflosciato, le grandi placche di cemento scompostamente una sull´altra, e sotto, da tre ore, c´è suo marito. «Sì, mi aveva svegliato, il terremoto, alle quattro, ma non era successo niente, la casa era intatta, non ho pensato…», si stringe nel plaid, «non è possibile, una fabbrica deve essere sicura come una casa, più di una casa…». Non è crollato tutto, lo stabilimento, piccola città da trecentocinquanta operai: è crollato il capannone degli anni Ottanta, di cemento prefabbricato, mentre quelli più vecchi hanno resistito. Erano in tre, solo in tre, in quell´enorme spazio, due “fornai” e un manutentore, a sorvegliare che il forno inghiottisse placidamente le sue salsicce di piastrelle e le cuocesse come si deve, un lavoro non troppo faticoso, aveva cinquant´anni, ma «fare due notti ogni dieci giorni non gli pesava, perché pensava che poi di giorno poteva portare in piscina i ragazzi», 18 anni lei, 8 lui, il piccolo non sa ancora nulla. Operaio della notte, papà del giorno: è finita. «Una morte inutile», dice Gloria, le guance bagnate di pioggia o forse no.
NICOLA CAVICCHI, IL FIDANZATO
Il secondo del turno, alla Ceramica, era Nicola, 35 anni, delegato sindacale della Cisl, un ragazzo ormai adulto, il calcio, i lavori in campagna, la fidanzata ormai quasi moglie, questione di mesi, tempo di ristrutturare l´appartamentino appena comprato. Il terzo era Giovanni Grossi, l´unico dei tre che si è salvato, ma voleva tornare dentro, dopo, disperato. Nicola era al suo posto, all´uscita forno, troppo lontano dall´uscita. Ancora due ore e si tornava a casa. Nel piazzale è ancora parcheggiata la sua Alfa grigia, mamma Romana la riconosce: «Non doveva lavorare ieri notte, non toccava a lui, era riserva, un collega s´è ammalato e lui non fa mai problemi, voleva andare al mare, ma poi aveva guardato le previsioni, “tanto piove”… È destino, è destino…». Anche a loro nessuno ha detto nulla. Ma papà Bruno ha capito subito, «Nicola mi porta sempre il giornale, quando torna dal turno di notte, alle sei e mezza in punto», ed erano già le sette passate. Ed eccoli anche loro, qui, davanti allo sfacelo inverosimile che ha ingoiato una vita ancora tutta da vivere.
TARIK NAOUCH, IL FIGLIO
Mustafà, accasciato contro la ringhiera, si batte le guance con le mani, si punisce per il suo dolore. Aveva solo 29 anni il suo Tarik prediletto, gioia d´un figlio, portato in Italia dal Marocco assieme a un fratello e a due sorelle, anzi assieme a un clan di tre famiglie, insediate in un vecchio cascinale di Bevilacqua, rimesso bene a posto coi soldi sudati a far l´autista di pullman sulle rotte degli emigranti, poi il giardiniere, poi anche lui l´operaio. Tarik come operaio era speciale, «era molto stimato dal capo» alla Ursa di Bondeno, fabbrica chimica di polistirene espanso, isolante per edilizia, anche questo un processo produttivo che non si può mai fermare, ci vuole una squadra di sette per tenerlo d´occhio, e Tarik l´altra notte era il coordinatore, forse era una delle prime volte, sentiva la responsabilità, ed ecco allora che, usciti tutti di corsa alla prima scossa, lui lo vedono rifiondarsi dentro, «aveva dimenticato qualcosa», dicono i compagni scioccati, «sì, voleva chiudere la valvola del gas». Non l´hanno più visto uscire. Ora bisogna dire a Iudad, la sua sposa bambina, diciott´anni appena, di restare in Marocco. Proprio la scorsa settimana Tarik aveva ottenuto il ricongiungimento familiare. Sarà lui invece a tornare laggiù, per sempre.
GERARDO CESARÒ, IL MARITO
Lo avevano sedotto in due: l´Emilia, e la Catia. Carabiniere ventenne, da Sant´Antimo, nel napoletano, lo avevano spedito in questa pianura piatta emiliana, e a lui era piaciuta subito. Poi aveva conosciuto sua moglie, e aveva deciso che questa era la terra giusta per metter su casa (a Molinella) e fare figli (due, ora grandi). «Innamorati come il primo giorno», giura l´amico di famiglia, li vedevano in giro col cagnolino, felici. Aveva 57 anni, gli mancava poco alla pensione. Le notti alla Tecopress di Dosso le faceva di buona lena, aveva un´andatura «da nobile» ma era un uomo solido, aveva lavorato nell´acciaieria di Budrio, prima che chiudesse. Da due anni portava in giro l´alluminio fuso, col muletto. Che lo ha tradito. «Forse tra movimento e rumore non ha capito subito che era il terremoto», non si dà pace Franco, che con lui e altri otto era di squadra nella notte maledetta. Franco sì che l´ha capito subito, «come se il pavimento mi esplodesse sotto i piedi», la luce che va via, le travi che cadono, i forni che eruttano alluminio fuso che infiamma ogni cosa, «mi sono buttato senza pensare a destra, se era a sinistra a quest´ora non ero qui». Gerardo non ce l´ha fatta, a buttarsi fuori come gli altri. Catia gli ha telefonato alle sette, telefono staccato, «sarà andato a fare metano alla macchina». Lo hanno cercato per ore scavando in quel magma di detriti, prima di trovarlo. Suo figlio ha assistito alla ricerca, tutto il tempo.
Un gruppo di operai senegalesi intanto rumoreggia nel piazzale, dicono che uno di loro manca all´appello, «no, è uscito come gli altri», li rassicurano. Franco mostra le sue scottature. «Questa vita per 980 euro al mese», dice un suo collega più giovane, che ha quei contratti temporanei che ti fanno lavorare solo se il lavoro c´è, «però quando c´è, anche cinque notti di fila», nascosti nel ventre del mostro che non dorme mai, dove solo il terremoto sa che ci sei.

La Repubblica 21.05.12

"Giovani e futuro. Un esperimento sulla pelle dei ragazzi ", di Maurizio Ricci

Fra il 2008 e il 2010, mentre il paese si baloccava con l´articolo 18, il 30 per cento dei giovani precari dell´industria è stato licenziato e lasciato senza nessuna tutela. Già nel 2009, secondo la Banca d´Italia, 480mila famiglie avevanoun figlio disoccupato in casa. E intanto In Italia il welfare è in via di lenta estinzione. Un´inversione di marcia per le nuove generazioni: dal lavoro nero subito dopo la guerra al lavoro regolare dopo il boom, siamo tornati al lavoro nero dagli anni Novanta. Bamboccioni, sfigati, infingardi. Poche generazioni sono state apertamente insultate come quella dei nati fra gli anni Settanta e Novanta, fra la fine dell´autunno caldo e la fine della Prima Repubblica, neanche la craxiana “Milano da bere” e l´esplosione del debito pubblico fossero loro colpe infantili. E insultati non dal politicante qualunque, ma da compatrioti illustri, fra le rare eccellenze intellettuali e accademiche del paese: Padoa Schioppa, Monti, Fornero. Ma la realtà è che, a fare una pessima figura, sono state proprio quelle eccellenze, dimostrando quanto siano lontane dalla realtà quotidiana del paese. E incapaci di vedere quanto quella generazione di bamboccioni sia stata protagonista di un gigantesco e spietato esperimento sociale, camuffato da flessibilità.
In un libro recente, Generazioni a confronto, Andrea Schizzerotto e altri disegnano il percorso delle ultime generazioni di italiani. Un percorso a U: il lavoro nero subito dopo la guerra, il lavoro regolare dopo il boom, il lavoro nero a partire dagli anni Novanta. Non è difficile capire cosa sia successo. La flessibilità dovrebbe servire a portare mobilità ed elasticità al mercato del lavoro. In Italia è stata declinata in modo diverso. Imboccare la strada dell´euro, negli anni Novanta, significava abbandonare la strada delle svalutazioni della lira per recuperare competitività, comprimendo il costo del lavoro. La competitività doveva essere recuperata con la produttività, gli investimenti, l´innovazione. Non è stato così: la flessibilità all´italiana ha consentito alle imprese di recuperare competività, comprimendo, ancora una volta, i salari nominali, a questo giro con il precariato di massa.
Fra il 1995 e il 2007, i contratti a termine sono aumentati del 7 per cento l´anno. Nel 2008, nell´operoso Nord, le assunzioni a tempo indeterminato – quelle normali – erano pari al 23 per cento delle assunzioni totali. Nel 2010 erano scese al 15 per cento, praticamente una rarità. Il motivo si capisce guardando cosa succedeva ai precari, diventati carne da macello. Fra il 2008 e il 2010, mentre il paese si baloccava con l´articolo 18, il 30 per cento dei giovani precari dell´industria è stato licenziato.
Licenziato e lasciato senza tutele. Non è chiaro cosa dovrebbe fare, secondo i suoi censori, il bamboccione rimasto senza lavoro, senza sussidi e con scarsissime possibilità di trovare un altro posto. Si rifugia da mamma e papà e sono numeri imponenti. Già nel 2009, secondo la Banca d´Italia, 480 mila famiglie si ritrovavano in casa un figlio, disoccupato da poco. E hanno dovuto pensarci loro, perchè il welfare, in Europa, c´è ancora, ma in Italia è in via di sparizione.
Fra il 2008 e il 2009, in Italia, il Pil è crollato del 6 per cento, i redditi familiari sono caduti del 4 per cento. All´estero, il Pil è sceso, ma i redditi familiari sono aumentati. In Francia, ad esempio, il prodotto è sceso del 3 per cento, ma i redditi delle famiglie sono aumentati del 2 per cento. Idem in Germania, Gran Bretagna, Svezia, finanche Stati Uniti. Il miracolo è stato reso possibile dall´aumento dei trasferimenti sociali e, in alcuni casi, la riduzione delle tasse che hanno accompagnato la crisi. In Italia, non è rimasto che intaccare il risparmio familiare. Quello che, per definizione, i bamboccioni non hanno mai avuto.

La Repubblica 20.05.12

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“Professori obsoleti e nativi digitali”, di Corrado Zunino

Il ritardo di formazione inizia con le scuole medie e si amplifica nei cicli di studi successivi. Il gap diventa enorme e impone interventi. “Combattere l´evasione servirà anche a impedire che i figli dei poveri paghino gli studi accademici ai figli dei ricchi”, dice il vicerettore di Pavia. La scuola e l´università italiane approdano al Festival economia di Trento e, partendo da quattro punti di vista differenti, quattro relatori consapevoli cercheranno di comporre le caselle per mettere insieme il puzzle: il sistema scuola e il sistema universitario soffrono, come il resto del paese d´altronde. I quattro punti di vista spiegano perché e provano a indicare possibili vie di uscita. La mancanza di fondi è centrale nella sofferenza di sistema, ma non è tutto, come vedremo.
Ecco, il primo giugno, di pomeriggio il professor Andrea Ichino, senatore del Partito democratico, parlerà della “Facoltà di scelta”, ovvero come scegliere da neodiplomati la facoltà giusta. Come dare agli studenti la possibilità effettiva di scegliere per migliorare la loro preparazione, ma anche l´università che frequentano. «Far contribuire maggiormente al costo degli atenei coloro che ne traggono i maggiori benefici», dice Ichino, «reperendo nuove risorse senza gravare sui conti pubblici», è il lungo sottotitolo. «Non lasciare che i poveri paghino l´università ai figli dei ricchi», è l´assunto. A partire da questo punto di vista è interessante notare come alcune università – Pavia prima di tutte – si siano rivolte all´Agenzia delle entrate per scovare i furbetti dell´Isee, l´indice del reddito familiare che fra i lavoratori autonomi è spesso lontana dalla realtà. «Nelle dichiarazioni dei redditi che ci vengono presentate esistono ampie sacche di elusione evasione», ha fatto sapere il vice-rettore, Lorenzo Rampa. Sul fronte della “consapevolezza nella scelta”, il ministro dell´istruzione Francesco Profumo ha puntato sull´orientamento. E a Sassari le Giornate dell´orientamento sono diventate un happening informativo per cinquemila studenti provenienti da settanta scuole superiori della Sardegna: 34 stand aperti al pubblico, centinaia di docenti a offrire informazioni.
Dalla “Scelta”, al Festival di Trento, si approderà ai “Ritardi” (tre ore dopo, sempre il primo giugno). Con il sottosegretario all´Istruzione Elena Ugolini si affronterà il tema del ritardo dell´Italia nella formazione del proprio capitale umano, dal punto di vista della qualità (livelli di apprendimento, competenze richieste dal mondo produttivo) e dell´equità (differenze basate sull´origine sociale e culturale della famiglia). «Il ritardo inizia con le scuole medie e si amplifica alle superiori e all´università. Il costo economico e sociale è enorme e impone interventi urgenti sul fronte del reclutamento e della formazione degli insegnanti, dell´organizzazione delle scuole, della loro valutazione e della definizione delle competenze da insegnare». La valutazione, ecco. Sempre Profumo ha messo la barra a dritta sulla valutazione scolastica – l´Invalsi – e universitaria – Anvur -. Ci sono molti dubbi, un caravanserraglio di polemiche e troppe cose non dette su questi strumenti, ma il ministero crede nella valutazione delle scuole, degli atenei e nel grado di preparazione delle generazioni di studenti valutate.
Immancabile anche al Festival di Trento il tema dei bamboccioni, infelicemente rilanciato dal sottosegretario all´Economia, Michael Martone. Francesco Billari, docente di Demografia alla Bocconi, il primo giugno proverà a spiegare il record tutto italiano della lunga permanenza dei giovani in famiglia e in serata ci sarà dibattito con cinque esperti. Politiche e istituzioni, è l´assioma di partenza, danno poche opportunità ai giovani. Restando all´istruzione e al mondo del lavoro che le ruota intorno, in Italia un dottorato – in media – diventa professore d´ateneo (con cattedra) a 47 anni. Infine i nostri bamboccioni (tutti nativi digitali) vengono istruiti da maestri digitali zero, e questo è il quarto tema. Sarà illustrato, tra gli altri, dal sottosegretario Marco Rossi Doria.

La Repubblica 20.05.12

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“Le nuove vittime degli squilibri sociali”, di MASSIMO GIANNINI

«I giovani sono le vere vittime della crisi». Come la goccia cinese, queste parole battono e ribattono da più di un anno sulle nostre teste, e sulle nostre cattive coscienze. Lo hanno detto e continuano a dirlo tutti. Papi e capi di Stato (da papa Ratzinger a Giorgio Napolitano). Prime ministre e prime donne (da Angela Merkel a Christine Lagarde). Banchieri e professori (da Mario Draghi a Mario Monti). E poi sociologi e sindacalisti, editorialisti ed economisti. L´avaria del turbo-capitalismo globale ha fatto strage di esperienze e di speranze soprattutto nella fascia d´età compresa tra i 15 e i 25 anni. I giovani sono i nuovi soggetti deboli di una società sempre più disuguale, dove il decimo più ricco della popolazione globale detiene il 61 per cento del reddito mondiale. Nel primo decennio del Terzo Millennio, l´egemonia del pensiero neo-liberista ha generato la tirannia del rigore e la dittatura dello spread.
Il primato della rendita e la distruzione del lavoro come valore sociale e come fattore produttivo. Cosa abbiamo fatto per invertire questa rotta suicida, che ha sovvertito il patto novecentesco tra capitalismo e democrazia e ha scardinato il patto solidarista tra le generazioni?
Un beneamato nulla. L´Ocse ci ha appena informato che nell´area dei Paesi industrializzati i giovani senza lavoro sono diventati 11 milioni, con un tasso di disoccupazione nella fascia 15-25 anni pari al 17,1 per cento, che diventa 35,9 per cento in Italia e addirittura 51,1 per cento in Spagna e Grecia. È la legge di Murphy: sul piano inclinato dell´austerità irriducibile e indiscutibile, se qualcosa può andare peggio ci andrà. E ci sta andando, soprattutto in Italia. Lo stesso conflitto tra padri e figli è ormai una guerra senza vincitori. La riforma delle pensioni ha tolto ai primi, com´era in parte anche giusto, ma non ha dato ai secondi. E la riforma del mercato del lavoro è solo un passo per trasferire i figli sulla strada della flexsecurity scandinava, in cui si cerca di ri-ancorare l´accesso al lavoro intorno al contratto a tempo indeterminato, ma in cui mancano ancora le risorse per una vera rete di protezione per i troppi che ancora ne sono sprovvisti.
La nostra rimane una “politica economica dell´insicurezza”, che non premia il rischio e il merito. Si limita a una blanda manutenzione della precarietà e della flessibilità. Ma non disperiamo. Sulla scia degli “Occupy” e delle proteste, sull´onda del disagio dei popoli, il vento europeo comincia a cambiare. Il tema della crescita e dell´equità sociale entra prepotentemente in agenda, insieme al teorema del rigore. Si può finalmente osare l´inosabile. Un anno fa, chiunque contestava l´ortodossia monetarista custodita lungo l´asse asimmetrico franco-tedesco veniva bollato come pazzo, o come sovversivo. Oggi, quell´ortodossia la contestano in tanti. Non solo i greci che non vogliono un governo filo-Ue, non solo i francesi che votano Hollande, ma persino i tedeschi che in Nord-Reno Westfalia voltano le spalle alla Cancelliera di Ferro. Sembra niente, ma è una svolta gigantesca. Lo dice persino George Clooney, in uno spot televisivo: «Immagina. Puoi».

La Repubblica 20.05.12

"È ora per i riformisti di fare un vero partito europeo", di Francesco Verducci*

Il lascito di Berlusconi è impresso nelle cifre su disoccupazione diseguaglianze, deindustrializzazione, smantellamento del welfare, che si traducono nella durezza del vissuto quotidiano. Il fallimento della destra sta in questa voragine sociale, che rischia di inghiottire la nostra democrazia. Siamo un Paese a rischio, perché la speculazione attacca soprattutto dove la politica è miope e incapace. Imbelle alle pretese di mercati finanziari senza regole e controlli. A ben vedere, pur su piani diversi, nel voto di milioni di europei in Francia, Italia, Grecia, Germania emerge la richiesta di una politica incisiva, capace di dare indirizzo ed imprimere una svolta. Volontà di contare ed essere ascoltati, che si manifesta nel voto di protesta antisistema, ma indirizzata innanzitutto alle forze del riformismo democratico.
Oggi sono per prime le nuove generazioni a reclamare il cambiamento. Chiedono il futuro che gli spetta. Sta alla sinistra raccogliere queste istanze. In Francia è accaduto. Potrà avvenire nel resto d’Europa, se il Manifesto siglato in marzo a Parigi vivrà in una concreta iniziativa. È tempo per i riformisti di costruire un vero partito europeo, che ampli e innovi il Pse, capace di osmosi con forme non convenzionali di partecipazione che si manifestano in piazze, aule, fabbriche, web, a dimostrazione di quanto sia forte e diffuso il bisogno di buona politica. Il vulnus tra cittadini e ‘palazzo’ si colma con partiti rigenerati, che mostrino autonomia da lobby e potentati.
Nella combinazione incendiaria di recessione e disoccupazione, malessere democratico e malessere sociale sono facce della stessa medaglia. Questo è il nodo dirimente. Ma il governo Monti non pare averne piena consapevolezza. Mostra l’inadeguatezza di fondo di un’azione calata nei parametri che i vincoli dell’austerity e della Bce impongono.
Della responsabilità verso il Paese il Pd ha fatto invece la propria ragion d’essere: caricandosi il compito di presidiare il passaggio attuale e di indicare nel contempo l’alternativa politica che chiuda davvero il ciclo berlusconiano. Sanando il vuoto di rappresentanza con un inclusivo patto di cittadinanza imperniato su lavoro, produzione, conoscenza. Investendo su crescita e capitale umano, abbattimento delle diseguaglianze e reti sociali.
Ma la crisi del sistema politico riguarda anche il Pd. Tocca ai democratici lanciare una mobilitazione che riconquisti alla politica il terreno perduto, che poggi su inedite forme organizzative e parole adeguate in cui riconoscersi. Per dare al Paese un nuovo inizio. Perché anche qui “il cambiamento è adesso”.

*Dipartimento Pd cultura e informazione

l’Unità 20.05.12

"Attacco all’Italia. Bisogna reagire", di Claudio Sardo

Bombe all’ingresso di una scuola. Non era mai accaduto nel nostro pur tormentato Paese. Melissa, sedici anni, è morta. Veronica lotta disperatamente per la vita. La città di Brindisi per un giorno è diventata casa nostra, offrendoci il turbine di sentimenti strazianti e la leva di una insopprimibile ribellione civile. Brindisi, non resterai sola. La nostra coscienza di donne e uomini, prima ancora che di popolo, non può accettare che un simile attentato venga lasciato impunito, né che generi paure o consenta ricatti. Uccidere ragazzi indifesi è l’atto più vile, la ferita più profonda al senso di umanità, la minaccia più esplicita alla coesione sociale. Sotto attacco è l’Italia, il nostro essere nazione, certamente non meno di quando si parla di euro o di debito pubblico.

La matrice dell’attentato non è ancora chiara. Ma non si va molto lontani dal vero parlando di un atto terroristico-mafioso. Ciò non vuol dire che siamo necessariamente di fronte alla riedizione delle stragi del ’93, quando la cupola mafiosa si inserì nella crisi della Prima Repubblica, attuando la sua strategia di destabilizzazione e portando la sfida direttamente allo Stato. Tuttavia la nostra storia è così piena di ombre, di oscurità, di contiguità da consigliare la massima allerta e la massima vigilanza.
Del resto, tra le piste investigative quella più credibile conduce proprio alla criminalità organizzata, legata alla Sacra corona unita. Di recente ci sono stati arresti, lo Stato ha inflitto colpi pesanti ai mafiosi pugliesi. E tra Mesagne e Brindisi il movimento per la legalità si stava rafforzando, proprio tra i giovani delle scuole. Può darsi che gli attentatori non avessero l’ambizione di un attacco al cuore dello Stato, ma «soltanto» un regolamento di conti, per quanto spietato e sanguinario. Quelle bombe però hanno varcato la soglia simbolica, oltre la quale viene colpito un popolo intero. Melissa siamo tutti noi. Melissa è nostra figlia. Sarebbe finita l’Italia se consentisse di archiviare, o anche solo di sottovalutare, una bomba in una scuola che si chiama Falcone-Morvillo, in una scuola che ha vinto il concorso della legalità, in un giorno in cui passava da Brindisi la carovana di Libera.
Ma l’Italia è viva. Lo hanno dimostrato le migliaia e migliaia di cittadini, che in cento città ieri sono scese spontaneamente in piazza. Lo dimostreranno lunedì gli studenti, i loro genitori, i professori in tutte le scuole del Paese. La mafia, la criminalità, il terrorismo non passeranno. Non piegheremo la testa alla strategia della paura. Magari scopriremo nei prossimi giorni altri lati oscuri di questa vicenda: ma il terrore «puro» di queste bombe in una scuola si può sconfiggere solo tenendosi da subito per mano, uscendo per strada, costruendo solidarietà, rompendo il guscio della solitudine.
Il cittadino solo davanti al marcato e alle proprie paure: è purtroppo il paradigma di questo tempo. La strategia della paura può trasformarsi con forme nuove in una strategia della tensione. Ma dobbiamo batterla. Ricostruendo le reti di solidarietà di cui furono capaci i nostri padri. I violenti, i mafiosi, i terroristi possono essere sconfitti. Come diceva il procuratore Antonino Caponnetto: temono più le scuole che le aule di giustizia. È un dovere che abbiamo davanti ai nostri figli, insieme ai nostri figli.

L’Unità 20.05.12

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Quei quaderni sull’asfalto e noi di fronte all’indicibile. Il futuro tolto a una sedicenne”, di Francesco Piccolo

Qualcuno può piazzare tre bombole a gas nei pressi di una scuola. Esiste nel mondo qualcuno che ha agito così. Sia che si tratti di un attentato strategico, sia che si tratti di un atto dimostrativo sfuggito di mano, quello che sappiamo è che c’entra con noi. Perché questo Paese è indebolito, impaurito, scosso; allo stesso tempo è urlante, facinoroso. E tra le falde della confusione e della complessità, in coincidenza con gli allarmi che si cominciano a percepire, si cerca di approfittare; oppure, si costringe tutti noi ad avere paura di trame peggiori. Oltre ai danni irreversibili che ha creato, questo ordigno strano fa spavento, perché appare in un momento delicato, difficilissimo.
Il futuro, nel mondo dove viviamo noi, non lo puoi strappare via a nessuno. E se lo strappi via a una ragazza di sedici anni, non basta più nemmeno chiamarla efferatezza. Diventa l’indicibile, e fa una gran fatica scrivere dopo qualche ora dall’indicibile. Provare a comprendere ciò che non si può comprendere. Ciò che quelli di un altro mondo fanno finta di non sapere, e che invece la Storia ha insegnato, nonostante tutto, è che ogni gesto indicibile induce a un sentimento produttore di enormi quantitativi di umanità: si chiama dolore, e lo provano tutti in vari gradi, dai genitori e dagli amici di Melissa (e di Veronica in fin di vita, e di tutti gli altri feriti), per arrivare a noi che non sapevamo che esistesse questa ragazza fino a quando abbiamo scoperto che non c’era più. Si va da un dolore gigantesco perché specifico, a un dolore tenuto a bada perché generico. Ma questi due dolori sono legati — dall’empatia, dai quaderni e libri e zaini sull’asfalto, dalla solidarietà, dall’inaccettabile. E producono una enorme quantità di dignità umana che si oppone, che si è sempre opposta e si opporrà sempre, al Male e all’indicibile.
Raccontare e comprendere è il compito che ci dobbiamo dare. Dalle pagine di un giornale alle coscienze di tutto il Paese. Raccontare perfino ciò che non si capisce. Perché la linea di resistenza — lo dice la Storia, a proposito degli anni terribili di mafia, a proposito degli anni terribili di terrorismo — sta in quel Paese che si commuove, si arrabbia, si compatta, e poi cerca di sapere. Sta in quel Paese che rispetta il lutto, che vuole conoscere la storia di Melissa Bassi e degli altri che avranno la vita deviata da quella frazione di secondo. Casomai questo Paese è silenzioso, scettico qualche volta, impaurito ancora più che moderato. Ma nonostante tutto, non cede all’irrazionalità, alla furia. Sa mantenersi saldo davanti ai continui ritorni delle mafie, che se sono forti sono spietate, e se sono deboli lo sono ancora di più. E si sforza di comprendere fino in fondo di cosa si sia trattato, per prendere le misure. Anche se vive nel timore di non saperlo mai, perché è già accaduto troppe volte di non sapere.
Quel Paese c’è. Siamo noi. Noi ieri eravamo come parenti e amici di Melissa e dei ragazzi feriti. Oggi, invece, ci tocca già un altro compito: cercare di capire cosa è successo davvero davanti a quella scuola, chi è stato, per lavorare con accanimento sugli anticorpi che l’intero Paese deve produrre contro qualsiasi intenzione ci sia dietro. E contro la paura, soprattutto.
Sappiamo essere tristi per quello che succede, sappiamo pilotare la nostra rabbia per non cedere. E sappiamo, in qualche modo, far muovere, bene o male, verso il futuro prossimo, quel pachiderma nevrotico che è l’Italia — anche se da quel futuro mancherà, senza che possiamo accettarlo, Melissa Bassi.

Il Corriere della Sera 20.05.12

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“Cari ragazzi vi scrivo”, di Reginaldo Palermo

Il testo della lettera che nelle scuole primarie del circolo didattico di Pavone verrà letta e discussa con gli alunni. Quello di Brindisi è un attentato che mira al cuore e ai fondamenti della vita associata.
Questa volta ho preso “carta e matita” non per scrivere un commento all’ultima circolare del Ministro o per dare notizia sull’andamento di una qualche contrattazione integrativa nazionale, ma per rivolgermi agli alunni della scuola che dirigo da più di 30 anni.
E così, nella mattinata di lunedì 21 maggio, in tutte le classi IV e V (ma anche in altre i cui insegnanti lo vorranno) delle scuole primarie del circolo didattico di Pavone verrà letta questa lettera.
Il senso è chiaro, ma forse un concetto è bene ribadirlo: i luoghi degli attentanti hanno sempre un significato simbolico; “attaccare” una scuola significa in qualche
modo attentare a un luogo che, per elezione, è destinato a trasmettere ai giovani il senso profondo della comunità locale e nazionale e del “patto sociale” che ne sta alla base.
Un attentato commesso in una scuola significa una cosa sola: tentare in qualche modo di limitare questa funzione sociale e culturale; è questo è inaccettabile perchè mina alle radici (in modo –mi si passi l’espressione – quasi ontologico) il fondamento della nostra società, anzi di ogni società.
Questo è il testo della lettera che verrà letto e discusso con i ragazzi e che è già stato pubblicato sugli organi di informazione locali.

Cari ragazzi,
vi scrivo queste righe poche ore dopo aver appreso del terribile attentato di Brindisi, dove sono esplose alcune “bombe” che hanno causato un morto e diversi feriti fra gli studenti di una scuola.
Non sappiamo ancora chi e perché abbia compiuto un gesto così tremendo.
Carabinieri, polizia e magistratura dovranno accertare la verità.
Ma un fatto è certo: chi lo ha commesso non ha alcun rispetto per la scuola e non capisce il valore straordinario che l’istruzione ha per lo sviluppo di una nazione.
Proprio nei giorni scorsi abbiamo distribuito a molti di voi il libro della Costituzione della Repubblica e tutti i giorni gli insegnanti si impegnano per insegnarvi l’importanza del rispetto delle regole e delle leggi.
Andare a scuola significa proprio questo: imparare a diventare cittadini che conoscono e rispettano le leggi e che amano il proprio Paese.
E’ per questo motivo che un attentato davanti ad una scuola è una cosa terribile: forse c’è chi pensa che insegnare ai bambini e ai ragazzi a diventare cittadini onesti sia una cosa sbagliata.
Ma voi sapete bene che non è così.
Imparare a diventare bravi cittadini è importantissimo: solo in questo modo il nostro Paese, la nostra splendida Italia, potrà cresce e migliorare.
Nelle scuole, nelle aule, nelle palestre, nei cortili dove voi trascorrete le vostre giornate devono esplodere solamente la conoscenza, la cultura, il rispetto, l’amicizia, la solidarietà e la pace.
Il direttore didattico
Reginaldo Palermo

La Tecnica della scuola 20.05.12

"La scuola violata", di Valeria Viganò

Ciò che l’attentato davanti alla scuola Morvillo a Brindisi porta alla luce e segnala in modo aberrante è lo spaventoso stato della nostra nazione civile. Quale che sia la matrice, individuale o mafiosa, si è colpito un luogo di giovane crescita delle coscienze, intitolata alla moglie uccisa di un grande magistrato ucciso. Per farlo si è ucciso. C’è qualcosa di fortemente simbolico in questa bomba costruita con bombole quotidiane, davanti alla quotidianità delle mattine scolastiche. Erano le 8, all’ingresso dell’istituto frequentato per lo più da ragazze, adolescenti che tentano di trovare un futuro. Che erano scese dagli autobus o dalle macchine dei genitori, con zaini o borse, e entravano nelle aule ognuna portandosi un piccolo bagaglio di esistenza fatta di libri, materie, fidanzatini, amiche, orari. La normalità con la quale i ritmi si ripetono per tutto l’anno scolastico è socialmente rassicurante. Da un qualsiasi nucleo famigliare i figli si consegnano alla scuola con una certa speranza, si affidano i tesori più preziosi a insegnanti, presidi, a una vita collettiva dove si impara e dove si sta insieme. Pur minato dallo stato attuale della scuola, esiste un legame strettissimo di obbligata fiducia reciproca tra istituzione pubblica e istituzione privata, non privo di conflitti ma carico anche di aspettative. La morte di una ragazza di sedici anni e i segni di questa strage porteranno dolore, sgomento e paura in chi l’ha vissuto in prima persona. Ma se ci pensiamo bene, il significato riguarda uno scontro terribile tra disvalori e valori che ha valicato la linea rossa di qualsiasi moralità. È un intreccio inverosimile che unisce impotenza, disagio e disprezzo della vita. Chiunque abbia preso le bombole a gas, abbia creato l’innesto, abbia piazzato proprio lì un esplosivo che voleva ammazzare, sapeva che le vittime sarebbero state ragazzine ignare e innocenti nel vero senso delle parole, voleva dare un fortissimo e spiazzante segno che si inscrive in una società malata: siamo tutti sul ciglio di un burrone personale e sociale dove al posto di una catena solidale, non ci sono remore a scavalcare, farsi largo per vie sempre più tortuose e avere potere uccidendo. Sia a livello individuale e sia nei gruppi di potere. C’è una criminalità dilagante in Italia, ma non nel senso di una frase fatta. I criminali non sono altro da noi. La criminalità è nello stile di vita, nei modelli che impregnano ogni aspetto esistenziale, nella volontà di imporre la propria legge persino a costo della vita altrui. Il gesto omicida ha assunto le modalità di una prassi per risolvere contenziosi, che siano affettivi (le donne falcidiate dagli uomini) o economici (lo sfruttamento allo stremo e senza regole del lavoro) o di conquista e controllo del territorio ( tutte le associazioni di stampo mafioso che sono le più pericolose per la possibilità eversiva che contengono e il rapporto con la politica). Ma il gesto omicida diffuso come epicentro della violenza nasce e cresce e prospera dove gli è concesso di farlo e talvolta addirittura ne viene invogliato. La bomba di Brindisi, la fine straziata di una ragazzina senza colpe è frutto della schiacciante superiorità di chi si fa forte di fronte a qualcuno che, solo perché si attiene al rispetto e alle regole civili, è già matematicamente debole. Il dolore autentico che dobbiamo tutti provare davanti a questa intollerabile morte obbliga a un enorme ripensamento dei modi in cui siamo immersi e stiamo vivendo.

l’Unità 20.05.12

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«Questa strategia della paura va fermata e sconfitta subito» – Intervista a Susanna Camusso

Penso a quella ragazza, ai gesti semplici, all’allegria, al sorriso, alla voglia di vivere di Melissa. Penso al dolore insopportabile della sua famiglia. Penso a quelle ragazze a scuola al sabato che organizzano il pomeriggio, gli amici, la sera a ballare. E adesso alla morte, alle lacrime. Ecco… non si può accettare questa violenza, non si può tollerare questa strategia della paura che si vuole imporre al Paese. Dobbiamo reagire e dobbiamo farlo subito».

Susanna Camusso è a Brindisi, oggi la nostra capitale del dolore, a testimoniare la solidarietà e l’impegno del mondo del lavoro, del sindacato, della Cgil di fronte a un attentato terribile, a una violenza crudele, inspiegabile. E di fronte a questi fatti la mente corre subito ad altre stagioni tragiche del Paese, alle stragi impunite di tanti anni fa, al terrorismo, alla mafia.

Possibile che stiamo tornandoindietro,segretario Camusso? Siamo dentro a un film già visto? «Per tanti aspetti è un orrore che abbiamo già vissuto. Ci sono troppi segnali, troppe coincidenze che ci preoccupano, che ci confermano nei nostri timori. Avevamo già lanciato l’allarme. Ci sono poteri violenti, interessi nascosti che vogliono occupare lo spazio della politica, restringere gli spazi di democrazia, occuparli con l’arroganza, le armi, la violenza. E’ un progetto che non casualmente emerge in un Paese in gravi difficoltà economiche, che vive una lunga crisi, dove proliferano tensioni sociali, con la classe politica divisa, indebolita, non più credibile agli occhi dei cittadini».

Quali segnali,quali coincidenze la preoccupano? «Chi ha messo la bomba a Brindisi voleva uccidere, fare una strage. Aggiungo: voleva uccidere proprio delle ragazze, questo è un segno, si vuole colpire chi offre speranza ma appare debole, indifesa. I responsabili di questi atti sono proprio “belve infami”, abbiamo usato queste parole nel nostro comunicato unitario. Difficile non pensare a un atto della criminalità organizzata, magari con collegamenti con l’eversione, mentre ci sono le elezioni, c’è la carovana della legalità in città, alla vigilia del ventesimo anniversario dell’uccisione di Giovanni Falcone e del funerale di Stato di Placido Rizzotto, il sindacalista ammazzato dalla mafia. La magistratura e la polizia ci diranno cosa c’è dietro, chi sono i registi, i responsabili, maquesto attentato e i suoi effetti sono un attacco esplicito alla convivenza civile, alla nostra vita democratica. Questo orrore va fermato con la mobilitazione, con la partecipazione, con forti azioni di governo»

A che cosa pensa? «Il Paese vive una deriva pericolosa, c’è un senso diffuso di scoramento, di fallimento, che non ce la possiamo fare a vivere, a lavorare dignitosamente. Voglio dire con forza che la classe dirigente e i partiti hanno grandi responsabilità. Bisogna stare attenti anche alle parole. Non si possono giustificare gli atti di violenza contro Equitalia perchè questi sarebbero la reazione, per alcuni comprensibile, al peso del pagamento delle tasse. Non si può far finta di nulla quando i fascisti di Casa Pound impiccano dei manichini in pubblico. Non si possono sottovalutare certi appelli di terroristi irriducibili a raccogliere le frange disperse o gli attentati di non ben individuate federazioni anarchiche contro i manager di aziende pubbliche».

Dove comincia la risposta democratica alla violenza? «Inizia dalla partecipazione, dalla mobilitazione dei cittadini, dalla tutela degli spazi di democrazia. Non dobbiamo aver paura. Il sindacato confederale non abbasserà la guardia e farà, come in passato, la sua parte. Staremo vicino a chi soffre, a chi ha bisogno di essere difeso, continueremo a batterci per i diritti dei lavoratori e di chi il lavoro non ce l’ha. Questo è il nostro ruolo democratico, per questo faremo la grande manifestazione unitaria il 2 giugno per il fisco e l’occupazione. Poi c’è il governo, ci sono le forze politiche…»

Quali provvedimenti si attende dal governo? «C’è bisogno di uno sforzo straordinario per rafforzare con uomini e mezzi adeguati le forze dell’ordine. Rilanciamo con serietà e competenza i servizi di intelligence. Non bisogna trascurare nulla, dobbiamo dare un giudizio netto, inequivocabile, di condanna della violenza e del terrorismo. Il governo deve agire subito, deve comprendere che Brindisi, con tutta la sua emergenza economica e sociale, non è stata una scelta casuale da parte degli attentatori. Le mafie pugliesi, ritenute sempre così silenti, reagiscono ai colpi subiti, ai beni confiscati, tentano di occupare spazi, di infiltrarsi in nuovi interessi, nella vita civile ed economica».

E i partiti, la politica? «L’Italia ha uno straordinario bisogno di politica proprio in questo momento difficile, soprattutto oggi che ritorna la minaccia della violenza e del terrorismo. La presenza di un governo tecnico è la rappresentazione della mancanza dei partiti, dell’assenza di credibilità della politica. Ma oggi ne abbiamo bisogno, ci serve una politica “alta”, ci vogliono leader affidabili e trasparenti per difendere la legalità come condizione essenziale per lo sviluppo del Paese. Da qui non si scappa, non ci sono scorciatoie ».

Che cosa devono fare i partiti? «I partiti devono procedere velocemente a un ricambio, a un’autoriforma, va ripristinata e valorizzata la normale dialettica democratica. Non si può continuare con la proliferazione di partiti personali o padronali, con la politica ridotta alla diffusione di fango a tutto spiano contro tutti, come se tutti fossero uguali, tutti colpevoli».

Segretario Camusso, un attentato a una scuola forse non l’avevamo ancora visto… «È un segno grave, un affronto al nostro Paese, alla nostra democrazia. Questo attentato ha una valenza simbolica enorme. Si colpisce una scuola, i giovani, la speranza di un futuro migliore. Chi ha ucciso Melissa ha un obiettivo chiaro in testa: vuole imporre la paura e il silenzio ai giovani, alle loro famiglie, al Paese. Dobbiamo impedirlo tutti insieme».

L’Unità 20.05.12