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Sempre precari. Quando non basta il «pezzo di carta», di Massimo Franchi

Un tour nei luoghi del precariato piu subdolo, quello dei professionisti. La Cgil prende l’autobus e va alla ricerca di finte partite Iva e praticanti sfruttati da tutelare. Una mattina di sole estivo per fare proselitismo tra i giovani, per metterli al corrente dei loro diritti e del fatto che il sindacato vuole rappresentarli, farsi carico dei loro problemi. Si parte con il double-decker londinese scoperto che parcheggia davanti alla Sapienza e srotola il frullatore e la lavatrice, simboli della situazione in cui vivono i giovani precari, che campeggiano sui manifesti della campagna conilcontratto. it, provocando la curiosita di tanti studenti. Assieme alle loro organizzazioni (Udu e Link) si va a volantinare ≪per far sapere a tutte le migliaia di studenti di Giurisprudenza all’ultimo anno che potrebbero iniziare il loro tirocinio di 18 mesi utilizzando gli ultimi 6 mesi all’universita, ma che per farlo serve un protocollo con il rettorato che ancora non c’e≫. Una delle caratteristiche comune a questa galassia e infatti quella che tutto resta sulla carta, prima fra tutti i diritti. Cosi la buona notizia del decreto Cresci- Italia di Monti non puo essere ancora sfruttata. ≪Manca l’accordo tra il ministero dell’Istruzione e l’ordine forense – spiega Andrea, 22 anni e potenziale tirocinante in quanto al 4˚ anno di Giurisprudenza a Roma 3 – . E la beffa e che invece commercialisti e notai, che sono molti di meno, lo hanno gia sottoscritto ≫, racconta dimostrando di essere gia addentro alla materia. Superato lo scoglio del tirocinio, fra qualche anno Andrea avra altri problemi. Quelli di Arturo, 31enne praticante in uno studio di avvocati a Prati che si ferma al banchetto del Nidil e della Filcams Cgil davanti al ≪tribunale piu grande d’Italia e forse d’Europa≫, in viale Giulio Cesare. Visto dall’alto del bus sembra un formicaio in cui entrano ed escono giovani benvestiti. ≪In realta e un vespaio e i nostri vestiti costano di piu dei nostri stipendi o, meglio rimborsi da 200 euro al mese≫, racconta. Il recente decreto liberalizzazioni prevede per loro ≪un rimborso spese forfettario convenzionale ≫, ma solo dopo sei mesi. Doveva essere un passo avanti, manon lo e: ≪convenzionale≫ significa senza nessun riferimento, significa che ogni praticante deve trattare con il proprio dominus, il grande principe del Foro che ≪non e mai in vena di regali e quindi continua a pagarti alla fame≫. Ognuno di loro per prima cosa ha dovuto ≪aprire una partita Iva≫. Poi arriva la sottodivisione fra ≪organici e non≫. I primi, piu fortunati, sono inseriti nello studio, prendono ≪un rimborso che va dagli 800-1.000 e puo arrivare ai 1.200 se si supera l’esame di Stato≫. I secondi invece si ≪devono accontentare di 2-3 pratiche al mese con la convenzione di prendersi il 30 per cento del totale a fine causa: nella stragrande maggioranza dei casi significa 200-300 euro al mese, per giunta a scadenze diverse, puoi stare mesi senza vedere un euro≫, spiega asseufatto Arturo. Raccontando come tutti si incontrano al VI piano del formicaio, l’ufficio informazioni del tribunale penale con le sue file interminabili e nome, non a caso, dell’associazione che li riunisce. «IVASEIPARTITA≫ Non va meglio ad architetti ed ingegneri che incontriamo in Prati, zona a piu alta densita di studi. Egizia, architetto 28enne ≪ma gia un po’ d’esperienza≫ racconta la sua Odissea, ≪comune a centinaia di altri ragazzi, ormai disillusi≫, come quelli dell’associazione “Ivaseipartita”. ≪Dopo la laurea si parte con gli stage non retribuiti, poi, se sei fortunata alle collaborazioni e dopo l’esame di Stato ti chiedono subito di aprire la partita Iva≫. Per lei pero lo strumento non e un problema: ≪Se ha l’idea in futuro di metterti in proprio, la partita Iva e giusta, il problema e rendere il suo uso meno favorevole ≫. Egizia e molto piu dura con molti provvedimenti previsti dalla riforma del Lavoro della Fornero: ≪Molti di noi sono “disegnatori”, la qualifica che si ha prima di passare l’esame di Stato. In quel periodo si versano i contributi alla gestione separata Inps e l’aumento dei contributi dal 28 al 33% se lo pagheranno da soli, non c’e nessuna possibilita che i nostri capi la paghino≫. Non che dopo le cose, a livello previdenziale, vadano meglio: ≪Ora pago il minimale all’Inarcassa, ma e di 2.500 euro l’anno, anche se ne guadagno 15mila≫, conclude sconsolata Egizia. Le storie di Egizia, Arturo e Andrea fanno poco notizia. Allo stesso modo di quella uscita il 29 novembre: la sottoscrizione (unitaria) del Contratto collettivo degli studi professionali. Per la prima volta prevede tutele e regole anche per praticanti, tirocinanti, collaboratori a partita Iva e progetto. ≪E un faro potente su una moderna forma di sfruttamento – sottolinea Franco Martini, segretario generale della Filcams Cgil – prevede la creazione di una commissione per definire le norme a loro tutela e per questo chiediamo a tutti, studenti, tirocinanti e praticanti, di aiutarci ad aiutarli≫. ≪L’obiettivo e quello di distinguere vere e false partite Iva≫, gli fa eco Filomena Trizio, segretario generale del Nidil.

l’Unità 18.05.12

"Una democrazia porosa salverà l'Europa", di Andrea Manzella

Il discorso sulle riforme della Costituzione prosegue al Senato: estenuato dalle attese, condizionato dagli 8-9 mesi che appena mancano alla fine naturale della legislatura. Ma forse, sotto la spinta propulsiva del Capo dello Stato, il tempo c´è per fare due, tre cose essenziali al rifunzionamento del meccanismo istituzionale, in risposta alle domande più pressanti dell´opinione pubblica.
Vi è però la necessità che in quel discorso sia anche presente quello che è divenuto il punto focale della politica. Il punto è che la vera questione costituzionale del nostro tempo è ora il rapporto tra la democrazia statuale e l´economia finanziaria. Da problema tecnico che sembrava all´inizio della Grande Crisi, esso ha preso impetuosamente il centro della scena. Anzi, ha reso irrilevante ogni posizione politica e istituzionale che ad esso non si richiami più o meno direttamente.
Ogni giorno di più le cifre del disavanzo, dello spread, del debito si sono tradotte in parole incisive e decisive sulla vita della gente: sulla scuola, sul lavoro, sul futuro. E, dunque, cifre e parole preponderanti nel modo di essere e di reagire di ogni democrazia nazionale. Dato che è a rischio lo Stato sociale: punto d´arrivo � con lo Stato costituzionale � del ´900.
Nella zona, mai completata, dell´euro � con le sue discipline, con i suoi strumenti di aiuto e di sanzione � i problemi della Grande Crisi, malgrado le loro origini e dimensioni mondiali, si sono incanalati in un referendum sotterraneo pro o contro l´Unione europea. L´Unione dei parametri e dei vigilantes di Bruxelles.
Quando la forza dell´opinione è così forte e così diffusa è inutile fare distinguo sulle cause e sugli effetti. Una cosa è però certa: ed è che in pochissimo tempo si sono capovolti i termini di riferimento con cui guardavamo ai problemi dell´Ue. Un capovolgimento che investe tre aspetti principali.
Il primo aspetto era condensato nella formula degli “Stati come signori dei Trattati”. Una affermazione difensiva della sovranità statale, molto ricorrente, ad esempio, nelle sentenze del tribunale costituzionale tedesco. Ebbene, oggi constatiamo, nella vita concreta delle comunità politiche nazionali, che sono invece i Trattati ad essere “i signori degli Stati”. Nel senso che i vincoli dei Trattati � che hanno nei mercati, con il loro potere di sanzione, come un braccio secolare � condizionano la stessa sopravvivenza degli Stati.
Il secondo aspetto di rivoluzionamento che la Grande Crisi impone, investe la nozione di “deficit democratico”. Eravamo finora abituati a parlare di deficit democratico in riferimento ai meccanismi decisionali dell´Unione, ai rami alti dell´Unione. Quei meccanismi che, di trattato in trattato, cercavano di imitare, come in uno specchio, il formato tradizionale delle democrazie nazionali. Ebbene, ci accorgiamo oggi che il problema “deficit democratico” si è spostato in basso: dall´Unione agli Stati dentro l´Unione. In altri termini: su come le democrazie nazionali riescano a conservarsi tali di fronte alle decisioni dei nuovi modi di governance europea. Quei modi che Habermas chiama di “federalismo esecutivo”: con i governi degli Stati membri alla ricerca delle maggioranze necessarie nei loro parlamenti per ratificare gli impegni assunti – prima � a Bruxelles.
Siamo cioè in presenza di una specie di deficit democratico indotto. E � attenzione � ora non si tratta più di conflitti giuridici di attribuzione fra poteri dell´Unione e quelli degli Stati membri o tra metodo comunitario e metodo intergovernativo. Oggi il problema tocca la sostenibilità, da parte dei sistemi democratici, di procedure di aggiustamento dei conti pubblici che danneggiano irrimediabilmente le condizioni esistenziali della cittadinanza. Si pone, insomma, la domanda di Stefano Rodotà: “Qual è la soglia di disuguaglianza al di là della quale è a rischio la stessa democrazia?”.
La risposta è, per ora, quella dell´insostenibilità elettorale. Con le crisi sistemiche dei governi, con la spalmatura del rischio politico su grandi coalizioni governative tenute insieme dal solo collante dell´emergenza (da noi, la grande coalizione è parlamentare: come se si fosse formata tra i due schieramenti una sorta di reciproca conventio ad excludendum dal governo). E, quasi per naturale conseguenza, con il crescente successo di movimenti nazionalisti e antieuropei, portatori di devianze costituzionali, com´è avvenuto in Ungheria.
Vi è, dunque, un terzo aspetto: il capovolgimento dei termini con cui la questione europea era percepita nella sfera pubblica nazionale. Da una sensazione di marginalità se non di estraneità (lo Stato come “contenitore unico di democrazia”) ad un riconoscimento di centralità. La questione europea non solo entra in uno spazio politico integrato: ora ne costituisce anche l´asse di mezzo, la linea di cesura, rispetto alla quale si deve riferire, si deve posizionare ogni altra questione politica presente nel dibattito democratico all´interno delle Nazioni.
Ecco: è questo straordinario mutamento delle cose che ha svelato di colpo il corto respiro del discorso corrente sulla revisione costituzionale.
Certo: per una Costituzione che voglia evitare il ripetersi di pericoli populisti, ben noti nel recente passato, e, soprattutto, voglia evitare quelli diversi, e ben probabili, nel futuro, la linea di marcia deve essere quella del garantismo europeo. La linea cioè di accrescere capacità e velocità di decisione del sistema politico, apprestando simmetriche, non dilatorie, garanzie contro le sempre possibili devianze. Un equilibrio che per ora è del tutto assente nei tentativi in atto.
Tuttavia, qualsiasi assetto costituzionale d´avvenire deve proporsi di sfruttare anche una energia politica nuova. È quella stessa che deriva dalla persino dolorosa coscienza popolare del dilemma: Europa/non Europa. Una energia che si manifesta in una cornice che va obbligatoriamente al di là dei confini nazionali.
Non è vero che questa energia “sprigionata” abbia un inevitabile destino populista. È possibile che essa sia guidata, con procedure costituzionali e finanziarie, che cerchino fiducia più che effetti immediati, verso la invenzione di una democrazia porosa: capace di connettere democrazie nazionali e democrazia europea, in un consenso partecipato. I sommovimenti elettorali in Francia e Germania non sono semplici rifiuti ma dicono della ricerca appassionata di altre vie di rinascita europea.
Si è aperto, insomma, un problema di legittimazione del governare che porta il discorso dei costituzionalisti ad un duro esame di verità e di realismo sul terreno della Grande Crisi sociale. Sarebbe sbagliato non tenerne conto.

La Repubblica 18.05.12

"Gli organici disorganici", di Pippo Frisone

Nelle scuole è tempo di organici, vale a dire con quanti docenti dovranno funzionare le scuole. E’ del 29 marzo la Circolare che anticipa le poche novità contenute nello schema di decreto interministeriale, emanato di concerto tra ministro dell’istruzione e ministro dell’economia. Una procedura complessa quella sugli organici, divenuta negli anni un ginepraio di norme, leggi, regolamenti, ordinamenti, circolari, intese e via complicando. Infatti occorrono tre pagine del decreto interministeriali per richiamare ben 28 norme di leggi o regolamenti, non sempre in totale sintonia tra loro, come quelle sul tempo pieno nella primaria o sulla sicurezza. L’obiettivo è sempre lo stesso: razionalizzare la spesa sul personale ovvero tagliare più che si può. La catena di comando sugli organici rimane ancor oggi ancorata al più rigido centralismo burocratico, formalmente nelle mani del Miur ma sostanzialmente in quelle del Tesoro.

I vincoli di spesa contenuti negli annuali DPEF e le clausole di salvaguardia fanno il resto.

In tale ottica gli organici vengono determinati annualmente a “budget”.

Per il 2012/13 è stata confermata la stessa dotazione del 2011/12 che ammonta a 723.514 posti docenti. Quindi all’apparenza niente tagli.

E qui salta fuori la prima la prima disorganicità,dovuta alla disomogeneità territoriale. Nelle regioni del nord dove alunni e classi aumentano, dare gli stessi organici dello scorso anno rischia di tradursi in ulteriori tagli.

Non a caso il Miur è dovuto correre ai ripari dando a queste regioni qualche centinaio di posti in più, compensando con le regioni meridionali dove il calo degli alunni ha fatto registrare forti riduzioni di organici.

La seconda disorganicità è che i posti vengono calati dall’alto cioè dal Miur alle singole direzioni regionali che a loro volta li assegnano per ordine di scuola agli uffici scolastici provinciali e da questi ultimi alle istituzioni scolastiche.

E così una volta definita la quota spettante a livello provinciale, numero di classi, tempo scuola, alunni H, sperimentazioni, serali , EDA e in ultima istanza il numero delle cattedre, tutti dovranno fare i conti con la dotazione organica assegnata.

E se per caso, come spesso accade, in quelle situazioni dove aumentano alunni e classi, non si riesce a stare all’interno degli organici assegnati, gli uffici territoriali sono costretti a forzare i limiti sulla formazione delle classi (classi-pollaio) in deroga alle norme sulla sicurezza, inserendo più alunni diversamente abili nella stessa classe, tagliando il tempo pieno e prolungato, accorpando le classi intermedie, formando cattedre superiori ai valori contrattuali e come ultima spiaggia, smontando le cattedre in organico di diritto, degradandole a spezzoni orari.

Da oltre dieci anni si va avanti così e un ripensamento di questa procedura non può prescindere da una diversa volontà politica che affronti una volta per tutte il problema dell’istruzione non più e non solo in termini di spesa e di tagli ma di investimenti e risorse per il Paese.

Non basta dire che quest’anno non ci saranno tagli agli organici, cosa tra l’altro non vera.

Non basta scrivere nel decreto semplificazioni, come ha fatto il Governo Monti, organico triennale funzionale all’autonomia.

E’ora di cambiare la procedura attuale. Non più dall’alto verso il basso, “a budget” bensì dal basso verso l’alto, “a fabbisogno”. Una volta definiti a livello nazionale i criteri sulla formazione delle classi, sul tempo scuola , i quadri orari nei diversi indirizzi e le indicazioni nazionali con le riforme pro-tempore, la determinazione degli organici deve partire dalle scuole dell’autonomia, secondo le esigenze raccolte sul territorio. Agli Uffici territoriali competenti spetterà il compito di verificare il rispetto delle norme vigenti e quindi di autorizzare le proposte di organico dei dirigenti scolastici.

Se poi l’organico cosiddetto “funzionale” debba essere arricchito per una parte da ulteriori quote da mettere in rete, sulla base di accordi territoriali con altre scuole, questo è un altro aspetto non certo secondario ma aggiuntivo, rispetto a una diversa modalità di determinazione degli organici.

Quanto alla spesa per il personale se, così reimpostata , debba gravare sul bilancio del ministero o sui bilanci regionali, nell’ottica di maggiori controlli , di un decentramento più funzionale all’autonomia delle scuole e alle esigenze dei vari territori, è materia “not politically correct “ in questa fase che richiederà sicuramente grande cautela e gradualità nell’applicazione.

Una inversione di marcia , una discontinuità che difficilmente “rigor Montis” sarà in grado di darci.

da ScuolaOggi 18.05.12

"La lunga storia dei soldi padani", di Alberto Statera

“Aja vara nagott/ Sti due fioo.” Traduzione dal dialetto lombardo: “Non valgono niente questi due ragazzi”. Umberto Bossi agli albori della carriera politica amava verseggiare in dialetto e questo è l´incipit di una sua poesia di quegli anni, che si rivela adesso lungimirante per le gesta dei suoi figli scioperati: Renzo il Trota e Riccardo, aspirante pilota detto Sfasciamacchine. Che ricevevano, tra molto d´altro, una paghetta di 5 mila euro mensili ciascuno, attinti dal finanziamento pubblico con mandati firmati dal papà. L´ode bossiana, nella libera traduzione in italiano, prosegue così: “Buttali nel laghetto/ Con le scatole vuote dei pomodori e le carte del burro/ Cinquant´anni in due non sono pochi/ I pioppi ogni otto anni sono abbattuti dal padrone”. Insieme ai due fioo, abbattuto nel laghetto tra i pomodori marci è ora finito anche il monarca napoleonico della Lega Nord, principe del reame italico del familismo amorale.
Gli sviluppi dell´inchiesta, che sembrano lasciare non molti dubbi sul fatto che il Senatùr fosse al corrente della distrazione di milioni di euro pubblici a favore suo e della sua famiglia, pongono il tema del suo rapporto con il “Dio denaro”, come egli stesso più di una volta lo ha chiamato. In questi giorni abbiamo letto sul tema molte mistificazioni dei suoi fedelissimi e anche degli oppositori interni. È vero, figlio di contadini, Bossi ha curato per decenni, ad uso del suo popolo, un´immagine plebea (canottiera, pizzeria, bar sport) e di disinteresse per la ricchezza. Ma dal denaro, in realtà, è stato sempre ossessionato, fin da quando nel 1979, medico mancato senza arte né parte, venne reclutato per attaccare cinquecento manifesti da un leader dell´Union Valdotaine. Prendiamo per buona la tesi che il suo scopo non fosse la sopravvivenza sua e della sua complicata famiglia, né l´arricchimento personale, ma il finanziamento della “causa”. Tuttavia, la deriva illegale bossiana è ormai consolidata e ben lontana nel tempo. Risale almeno a vent´anni fa, ai tempi di Tangentopoli, quando il tesoriere della Lega, Alessandro Patelli, al bar Doney, luogo topico di Roma Ladrona, riscosse una borsa di contanti provenienti dalla maxi-tangente Enimont. “Erano 200 milioni” (di lire), confessò Patelli, condendo poi la confessione con una storia incredibile: “Preoccupato tornai a Milano e li nascosi in un cassetto del mio ufficio in attesa di capire come regolarizzarli. Finché la mattina dopo mi dissero che durante la notte c´era stata un´incursione nella sede. Avevano portato via tutto, scassinando armadi e scrivanie. Denunciai il furto, ma non quello dei 200 milioni perché non avevo ancora regolarizzato il contributo. Bossi era impegnato giorno e notte nella campagna elettorale e così decisi di non dirgli niente”. Patelli offrì il petto al capo con la sua balla, divenendo una specie di eroe padano, ma il Senatùr fu poi condannato a otto mesi per finanziamento illecito. “La condanna al processo Enimont – commentò con le solite iperboli celoduriste – per me è una medaglia per una ferita di guerra”. Dopo aver gridato: “Dalle mie parti una pallottola costa solo 300 lire e se un magistrato vuol coinvolgerci nelle tangenti, sappia che la sua vita vale 300 lire”. Se non per le dimensioni della stecca, niente di diverso dalla Dc e dal Psi. Franco Rocchetta, fondatore della Liga Veneta, madre di tutte le leghe, sostiene, del resto, che allora Bossi, che già si era espresso contro il referendum sul finanziamento pubblico ai partiti, gli chiese di votare contro l´autorizzazione a procedere per Craxi.
Poi venne l´affare Credieuronord, la banca leghista fallita tra mille malversazioni, nel cui consiglio d´amministrazione figurava – per la serie tengo famiglia – anche il fratello Franco Bossi. E venne l´affare del residence Skipper, una speculazione in Croazia sua, della moglie e degli altri caporioni del Carroccio, anche questa fallita. E ancora l´acquisto della sede di via Bellerio, con 14 miliardi di lire di origine incerta, secondo Rocchetta, che dal partito fu cacciato con la moglie, come tanti altri.
Ma la vera svolta finanziaria avvenne con la Lega non più solo di lotta, ma di governo, quando la generosità pelosa di Berlusconi concesse una fideiussione personale per una linea di credito di 20 miliardi garantita dalla Banca di Roma del solito Geronzi. A quel punto, tutti liberi di arricchirsi personalmente con il berlusconismo e con il formigonismo a Milano, mentre il capo maturava la convinzione, ripetuta nei giorni scorsi, che con il surplus di soldi del finanziamento pubblico poteva fare quel che voleva, anche buttarli dalla finestra o pagare gli sfizi della sua signora e gli stravizi dei voraci fioo.
Ora Roberto Maroni annuncia che la Lega diventerà una “newco”. Impresa alquanto disperata, anche se lo zoccolo duro elettorale sembra insensibile all´antropologica cifra delinquenziale del capo, dei suoi cari e di altri dignitari padani, che via via viene alla luce. Mentre incombono nuove tempeste giudiziarie. Ad esempio, l´inchiesta milanese sulle quote latte, nella quale i magistrati ipotizzano il versamento di tangenti da parte degli allevatori che con la difesa a oltranza della Lega hanno fin qui evitato il pagamento di 350 milioni di multe comminate per lo sforamento dei limiti di produzione imposti dall´Unione europea. Oltre a cacciare i ladri, Maroni forse dovrà non solo vendere la sede di via Bellerio, ma anche cambiare il simbolo del partito, spadone compreso, che si dice che sia stato venduto a caro prezzo a Silvio Berlusconi. Davanti al notaio.

La Repubblica 18.05.12

"Le scelte non più rimandabili", di Stefano Lepri

Ormai ce lo sanno dire tutti. Tutto il mondo sa che cosa l’area euro dovrebbe fare per uscire da questa nuova stretta. Consigli analoghi vengono dal Presidente degli Stati Uniti, dal Primo ministro britannico, dal Fmi; manca solo che ci si metta anche la Cina. Nelle ultime ore qualcosa sembra muoversi, in Germania. Ma non c’è più tempo per caute correzioni di rotta. Il momento per decidere è ora. Non è un tracollo dell’euro quello che rischiamo, questo no. L’unione monetaria sopravvivrà; ma dalle scelte che si faranno nei prossimi giorni dipende se al risultato ci arriveremo con affanno e a costi elevati, spinti dall’urgenza di elevare barriere contro un crack della Grecia, o se lo otterremo prima, senza passare per questo trauma, evitando la scia di risentimenti che ci imprimerebbe nella memoria. Speriamo che non sia già troppo tardi per arrestare la frana. Forse è esagerato il timore che ad affossare la Grecia siano già prima delle nuove elezioni i greci stessi.

Greci che hanno svuotato le loro banche, inzeppando i materassi di banconote in euro destinate a restare valide fuori dei loro confini in un domani di ritorno alla dracma.

È paradossale che proprio l’euroscettico David Cameron, conservatore inglese a cui l’euro non è mai piaciuto, ci fornisca una agenda precisa. Ce l’aveva già detto nelle settimane scorse, ma mai con tanta incisività come ieri: un efficace fondo di salvataggio, banche ben capitalizzate e regolate da un’unica autorità di vigilanza, una politica di bilancio comune, una banca centrale pronta a intervenire.

Dove sono gli ostacoli? Ovunque. Si può capire che un Paese rilutti a cedere sovranità nazionale; assai meno che i suoi politici non vogliano rinunciare a un rapporto di complicità con i banchieri insediati entro i propri confini. Lo abbiamo visto e lo continuiamo a vedere nel modo reticente e maldestro in cui a Madrid prima il governo socialista, e ora quello popolare, hanno gestito la crisi delle banche locali spagnole.

A ridurci a questo punto è stata la reciproca sfiducia tra le classi politiche dei 17 Paesi membri. Nel suo insieme l’area euro è in equilibrio nei conti con l’estero, non avrebbe avuto bisogno del risanamento tanto accelerato che l’ha risospinta di nuovo nella recessione. A Berlino lo stanno cominciando a capire solo ora, perché l’umore della stessa Germania sta cambiando, tra agitazioni sindacali e voti in alcune regioni.

Un passo in avanti politico è ora indispensabile, come fa bene a ripetere il nostro Presidente della Repubblica. Lo è perché la sovranità non è più dove le classi politiche nazionali insistono a ripetere che si trova ed è da loro difesa e salvaguardata. Gli squilibri economici la hanno già trasferita. La Grecia è ridotta in condizioni di dipendenza tali che i suoi elettori ignorano di non poter scegliere liberamente; mentre i cittadini dei Paesi forti fanno per ragioni interne scelte di cui non sanno le ripercussioni sui Paesi vicini.

La distorsione della democrazia è maggiore proprio nel Paese più forte e in quello più debole. In Germania, il successo economico cela che sarebbero possibili soluzioni più vantaggiose anche per la gran massa dei tedeschi stessi; rende sordi ai consigli di Washington e di Londra. In Grecia, a una classe politica corrotta rischia di sostituirsene un’altra che sfrutta la disperazione della gente per addossare al resto d’Europa, o a un complotto neoliberista mondiale, la colpa di sacrifici che il Paese dovrebbe fare comunque per sopravvivere. Esiste una politica europea capace di far intendere agli uni le ragioni degli altri?

La Stampa 18.05.12

Lo spiraglio tedesco "Ora serve unità" di Claudio Tito

«Nessuno di noi può correre il rischio di presentarsi e presentare l´Europa disunita. Né al prossimo G8 di Camp David, né ai prossimi vertici di Bruxelles». Le espressioni di ottimismo sono state lasciate in un angolo. Per tutti la situazione è «difficilissima». La tensione alle stelle. E anche la Conference Call che ha riunito i quattro soci fondatori dell´Unione europea, l´allarme è stato costantemente altissimo. Del resto, la drammatica crisi in Grecia, i dati delle borse continentali e quelli ancor più preoccupanti degli spread con il bund tedesco non potevano rappresentare un segno di incoraggiamento. L´indice di Milano ha toccato il minimo storico dal 2009 e la distanza tra i btp italiani e i buoni di Berlino sono di nuovo schizzati oltre quota 450.
Ma per la prima volta Angela Merkel ha aperto un piccolo spiraglio di fiducia. Una disponibilità a valutare se e come allentare i vincoli sugli investimenti; e a rafforzare progetti come quelli sull´agenda digitale che al momento prevede tappe di lungo periodo fino al 2020. Quella frase pronunciata al termine del confronto telefonico ha dunque strappato un sorriso ai suoi interlocutori. A Mario Monti, a Francois Hollande e David Cameron. Che hanno interpretato l´invito della Cancelliera come una disponibilità a trattare. A discutere sui percorsi che l´Europa deve intraprendere per la crescita. Ma soprattutto su quelli per salvare un progetto che rischia di esplodere.
E l´appuntamento cruciale è già stato fissato. È quello del prossimo 23 maggio. Quando si riunirà il Consiglio europeo straordinario. In quella sede e per quella data – è stata la sostanziale intesa tra i quattro leader insieme al presidente della Commissione Barroso e a quello del Consiglio Van Rompuy – una rotta va tracciata. Il G8 che prende il via oggi negli States può essere, invece, solo una “stazione” di avvicinamento. Nella quale l´Europa – hanno concordato – deve almeno apparire coesa. Per poi affrontare la prossima settimana i «nostri problemi»
Certo, nel “quadrangolare” di ieri nessuno si è potuto avventurare nella concretezza delle misure e qualche momento di incomprensione non è mancato. La strada che porta ad un patto definitivo per la crescita è ancora da segnare. Ma questa volta almeno alcune indicazioni sono comunque emerse: a cominciare dalla riflessione sulla cosiddetta “golden rule”, la possibilità di scorporare in tutto o in parte la spesa per investimenti dal calcolo del deficit.
Ad aprire l´incontro è stato Van Rompuy. Che, però, ha ceduto immediatamente la parola al premier italiano. Un´introduzione centrata su un solo concetto: «crescita». «Sviluppo e crescita vanno realizzati con gli investimenti», ha ripetuto Monti. Facendo così un esplicito riferimento alla cosiddetta “golden rule”. Il monito greco, però, è ancora troppo vivo. I “quattro big” osservano le vicende di Atene con un misto di prudenza e terrore. Il capo del governo italiano lo sa. «Nello stesso tempo – ha infatti aggiunto – nessun cedimento va fatto sul controllo del debito». Consapevole che a Bruxelles molti si interrogano sulla tenuta della «strana maggioranza» e in primo luogo sulla responsabilità del Pdl berlusconiano, il Professore ha subito puntualizzato. «Da noi, di certo, non ci sarà alcun cedimento sul controllo del debito».
Il primo ministro britannico è stato ancora più esplicito sul futuro dell´Unione. Forse meno vincolato dalla non appartenenza all´area euro, ha compiuto un passo in più. Per uscire dalla crisi «bisogna favorire la domanda». Non solo. Da Downing street chiede un rafforzamento del fondo Salva-Stati e soprattutto l´introduzione degli “Eurobond”, la vera bestia nera della Cancelliera. I titoli di debito europei, però, costituiscono per Cameron un´arma insostituibile: «L´unico strumento in grado di evitare la rottura dell´euro».
La risposta della Merkel è pressochè immediata. «Attenzione a rafforzare solo la domanda». La paura di Berlino, infatti, è che favorire il circuito degli acquisti con strumenti di stampo keynesiano possa rappresentare una giustificazione collettiva per gli “Stati spendaccioni”. «Dobbiamo rafforzare l´offerta per dare corpo alla domanda». E quasi per prevenire le risposte del socialista Hollande, ha fatto riferimento alla linea della Spd, i socialdemocratici tedeschi. Che, a suo giudizio, non sono favorevoli ad allargare indiscriminatamente i cordoni della borsa.
Il presidente francese, solo da due giorni all´Eliseo, sceglie una linea prudenziale. Spesso ha offerto la sponda al premier italiano ed è sembrato attento a studiare le mosse dei suoi interlocutori.
Per un momento si è affacciato sul “tavolo” anche l´invito rivolto dal Fondo Monetario alla Bce sul tasso di sconto: serve un taglio all´attuale 1% per agevolare la ripresa, dicono a Washington. La richiesta ha avuto un´accoglienza favorevole nel “summit telematico”. Non a caso l´argomento verrà trattato “informalmente” prima che si riunisca nuovamente il board di Francoforte.
La Grecia resta lo sfondo all´interno del quale i quattro leader si confrontano. L´impegno è di tentarne comunque il salvataggio. I costi di un default ricadrebbero quantitativamente in primo luogo su Germania e Francia. E avrebbero un effetto domino su gli altri paesi “sotto osservazione”: Portogallo, Spagna e in parte Italia. «Ma – ripetono – Atene deve mantenere almeno alcuni impegni».
E, alla fine, insieme alla Merkel anche Monti ha ripetuto l´appello all´unità: «Dobbiamo compiere tutti i tentativi per mantenere coesa l´Europa».

La Repubblica 18.05.12

"Nella strage del 1995 furono risparmiate solo le donne. Che oggi, mentre Mladic è sotto processo all´Aja, raccontano. Ma non chiedono vendetta", di Adriano Sofri

Srebrenica è un paesino, lo è sempre stata, tranne che in quel 1995, quando vi si erano ammucchiati a decine di migliaia gli sfollati bosniaco-musulmani. Sarebbe il paesino più triste del mondo, se non vi si arrivasse dopo aver già attraversato al contrario il percorso delle stragi di quei giorni di luglio: Kravica e il magazzino del mattatoio, e Potocari e i capannoni dismessi delle truppe olandesi in cui cercarono invano rifugio i disperati, e l´immenso cimitero memoriale. L´11 luglio di ogni anno arrivano decine di migliaia di pellegrini, famigliari che si raccolgono attorno alle tombe, persone che vengono a capire e ricordare – gli italiani sono i più numerosi. Oggi è un giorno qualunque, e Srebrenica è un paesino scadente, di case brutte, le diroccate e le nuove. In alto c´è la chiesa ortodossa ricostruita. Più giù, dalla moschea ricostruita al margine di una piazza sconclusionata, escono gruppi di donne anziane e qualche uomo che hanno appena partecipato a una cerimonia funebre.
Facciamo un giro, andiamo a cercare il locale in cui le donne vendono ricami e maglie. Le troviamo sedute a chiacchierare su un marciapiede, davanti a un edificio costruito, come una targa avverte, proprio dal governo olandese – ma in affitto. Ci sediamo con loro sui gradini, portano dei cuscini, sono cordiali e confidenziali, fa caldo, preparano il caffè, «Quando c´è il sole qui, è il posto più bello del mondo», dice una. Si chiamano Dzelahira Halilovic, Gada Ahmetovic, Zineta Bajramovic, Naza Ibisevic, intorno giocano bambini e cuccioletti randagi appena partoriti. Sono tornate a stare qui nel 2009, tranne Naza, che è giovane, ha 35 anni, ed è tornata nel 2006 dopo aver vissuto per cinque anni in Belgio. Le loro storie sono simili, varia il numero dei morti: «tutta la famiglia», «padre e fratello», «marito e figli», «tre figli di un fratello. Raccontano con familiarità e però a volte piangono, come se fosse successo ieri. Furono separate da uomini e ragazzi, come tutte, senza il tempo di abbracciarli, di dirsi qualcosa. Caricate sui camion e portate a Kladanj, da lì avventurosamente arrivate a Tuzla, mentre i loro uomini venivano trucidati. Raccontano com´era prospera Srebrenica, le sue miniere (srebro è l´argento) e le sue fabbriche, e che oggi non c´è lavoro per nessuno, e anche per questo chi è andato a Vogosca, a Sarajevo, o a Tuzla, o più lontano, non vuole tornare. Dicono di non avere voglia di vendette: «Loro sanno quello che hanno fatto». Raccontano cose raccapriccianti, il bambino che piange strappato dalle braccia della madre e sfracellato – «Ora non piange più»; il cadavere portato dalla Drina, col naso le orecchie e le dita mozzate; il ragazzo con un ferro passato da un orecchio all´altro. Certo che incontrano ogni giorno qualcuno di quelli di allora. «Uno guida il nostro autobus» – allora guidava quei camion.
Lo scandalo estremo è che Srebrenica sia stata assegnata, nella ripartizione di Dayton, alla Republika Srpska, cioè alla parte che li rese responsabile del crimine – il massacro di oltre 8mila uomini e ragazzi inermi – condannato dal tribunale internazionale per l´ex-Jugoslavia come genocidio, il crimine più orrendo dopo il ’45 in Europa. La decenza avrebbe voluto che si trovasse per Srebrenica uno statuto peculiare: non lo si è fatto. Cinque anni fa la maggioranza del consiglio comunale di Srebrenica votò la richiesta di indipendenza dalla Republika Srpska. Oggi, al contrario, i serbobosniaci cercano di correggere la legge che riconosce il diritto di voto amministrativo ai cittadini di Srebrenica sfollati in altri luoghi della Bosnia, e grazie al cui voto il comune ha ancora un sindaco “musulmano”.
Ero a Sarajevo quando arrivarono le prime orribili notizie dei fuggiaschi da Srebrenica, difficili da credere, che dicevano delle migliaia di deportati e trucidati. Non ero mai venuto qui. Avevo visto innumerevoli facce di donne di Srebrenica nei filmati, ne avevo ascoltato le parole, e però queste donne semplici, sedute in strada come in qualunque paese del meridione d´Europa, così capaci di un´affabilità e di un´intimità improvvisa, smussano la soggezione del memoriale e del casermone, musei della ferocia e della viltà, di Potocari. Queste donne, adesso, sono più forti di tutto. Esclusero per lo più le donne, i boia. Cavallereschi. Prima però le stuprarono a volontà. Anche escludere le donne dallo sterminio può essere un´impresa maschilista.
A nord di Sarajevo, poco oltre la Biblioteca moresca, la Miljacka entra in città facendo un´ansa suggestiva, meta, quando non si spara e la stagione è bella, di anziani e innamorati. Da lì parte la strada che presto si biforca portando a sud-est, in un quarto d´ora, a Pale, già arrogante capitale degli assedianti, e a nord-est, alla distanza di un paio d´ore, alla Drina. I cartelli avvertono che si è passati nella Republika Srpska: non è una vera frontiera, benché abbia una gran voglia di esserlo. È il trapasso da un´”entità” all´altra, secondo la grottesca nomenclatura della Bosnia-Herzegovina di Dayton, paese fittizio diviso in tre, tre di tutto. È un percorso pieno di luce, in un maggio che anticipa l´estate. La strada si arrampica e ridiscende, attraversa i monti e le vallate di Romanija e i boschi floridi di pini abeti betulle e faggi – boschi e acqua sono le ricchezze future del paese. Il paesaggio bucolico è di una bellezza struggente, se solo si dimentichi che cosa è successo poco fa. I segni del resto non sono più tanti. Rovine di case crivellate e bruciate, sì, come dappertutto in Bosnia, e cartelli che avvisano che i boschi sono ancora minati. Dopo Bratunac, si arriva a Kravica, poi a Potocari, poi a Srebrenica. Si fa nella direzione opposta la strada che nel luglio del 1995 gli abitanti e i rifugiati di Srebrenica fecero a piedi nel tentativo disperato di fuggire al massacro, o nei camion in cui erano stati ammassati.
A Kravica, nemmeno 15 km da Srebrenica, i serbo-bosniachi hanno eretto un monumento funerario con al centro una colossale croce, e la rivendicazione dei loro morti, più di tremila. Violenze e massacri hanno colpito anche i serbi, ma la cifra è abusiva, messa assieme per cercare di emulare il conto con le vittime bosgnacche del luglio 1995. Lì a Kravica, poco distante, sul lato opposto della strada, c´è il deposito in cui furono ammassati e trucidati, a raffiche di mitraglia e bombe a mano, più di mille dei deportati da Srebrenica. Niente lo ricorda. Sul davanti del rudere, sono state piantate delle siepi. «È per nasconderlo alla vista», dice il mio accompagnatore.
A Potocari, l´immenso cimitero monumentale raccoglie migliaia di vittime identificate grazie alle indagini sul dna. Ci sono sempre becchini al lavoro. Le tombe provvisorie sono segnate da tavole di legno verde, quelle definitive da stele di marmo bianche. Di fronte, i grandi tetri capannoni che erano stati di una fabbrica di accumulatori, furono poi la sede della guarnigione olandese delle Nazioni Unite – quasi 500 militari, incaricati della sicurezza della zona dichiarata protetta – alla quale all´arrivo delle milizie di Mladic accorsero terrorizzati gli sfollati e gli abitanti di Srebrenica, per esserne respinti dai “protettori”, che arrivarono a collaborare alla selezione degli uomini da donne bambini e vecchi. Quegli olandesi, dal loro colonnello all´ultimo dei soldati, sapevano che cosa sarebbe avvenuto. Lo sapevano anche i loro superiori in Bosnia e fuori, fino al Palazzo delle Nazioni Unite. La codardia di tutti è un´infamia incancellabile sulle pretese del nostro tempo. Anche scrivere questo è troppo facile. Chiunque venga a Potocari e cammini dentro questo capannone stillante umidità e buio, se ha cuore dovrà immaginarsi nella folla disperata che cerca scampo per sé e per i propri cari. Ma dovrà anche porsi l´interrogativo più difficile: che cosa avrei fatto io, se fossi stato un soldato olandese col casco blu, qui, quel giorno?
È bene venire fin qui. È più facile, dal divano di casa propria, guardando un filmato, evitare queste domande. Qui, nel capannone in cui si leggono ancora le scritte sventate degli olandesi, si guarda un filmato, e i passi e le urla sembrano venire di nuovo dalla strada, dai cancelli, dalla folla che preme e dai militari che la respingono. Ne avevo letto e scritto tante volte. Mi accorgo che non ne avevo capito abbastanza. Anche quella cifra, a leggerla da lontano, più di ottomila sterminati, è anestetizzata.
Ci guida al cimitero un giovane intelligente che si chiama Hasan, ci mostra nell´elenco interminabile di nomi scolpiti nella pietra quello di suo padre e suo fratello. Gli chiedo se è vero che un soldato olandese di quelli di allora è venuto ad abitare qui con la famiglia. Macché, dice, è una leggenda, e nemmeno tanto disinteressata. C´è uno che è venuto a volte a visitare Srebrenica, molto intervistato, e a spiegare che loro avevano fatto il possibile. Del resto, dopo che un governo olandese si era dimesso per il disonore, un altro governo provvide a decorare tutti i membri della missione, non al valore militare, chiarì, ma per risarcirli dello stress subito per le critiche.
Al ritorno, ci fermiamo di nuovo davanti al memoriale per fotografare una mucca che è venuta a brucargli davanti. L´ho detto, il paesaggio è bucolico, e il tramonto lo addolcisce ancora. Ma ciascuno di questi villaggi ha conosciuto gli scambi di popolazione forzati della pulizia etnica, e la pace – cioè l´assenza della guerra – riapre qualche vertenza sulle case. Liti di vicinato, si direbbero, se l´odio di vicinato non avesse avuto tanta parte nella carneficina ex-jugoslava. A Konjevic Polje, periferia di Bratunac, c´è una chiesa ortodossa di costruzione recente: solo che l´hanno costruita nel giardino di Fata Orlovic, una anziana signora musulmana scampata al genocidio. Nel 2000 volle tornare a casa sua e si trovò davanti la chiesa. Da allora pretende dalle autorità che venga sgomberata, e rifiuta di vendere, benché sia bersaglio di insulti e aggressioni fisiche. Nel 2007 un tribunale le diede ragione. Io ci passo davanti nel maggio 2012, e la chiesa è lì. Ma è lì anche la vecchia Fata Orlovic, e fa i nomi dei sicari di Srebrenica che le abitano accanto, e non cede. Altre vecchie donne sono all´Aja, dove finalmente il processo contro Ratko Mladic, il gran generale che davanti alle telecamere regalò un cioccolatino a un bambino spaventato, è cominciato. Anche se ieri, per un´irregolarità, è stata decisa una sospensione.

La Repubblica 18.05.12