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"Il predone del nord", di Gad Lerner

Altro che presidente federale “a vita”: ora toccherà al senatur venire espulso dal partito di cui è fondatore, sempre che non provveda egli stesso a autosospendersi. La magistratura ritiene di avere elementi sufficienti per dimostrare che Umberto Bossi era consapevole dell´infedeltà dei rendiconti amministrativi con cui la Lega ha movimentato i 18 milioni di euro incassati dallo Stato nell´agosto 2011.Già da quattro anni, inoltre, gli ignari contribuenti italiani versavano, Bossi consenziente, una “paghetta” mensile di cinquemila euro cadauno ai suoi figli Renzo e Riccardo. Né più né meno un furto, perpetrato da un ministro della Repubblica.
L´ex capo leghista, cui tutto si può rimproverare tranne l´assenza di fiuto, non a caso si era già dimesso da segretario. Fin dal 4 maggio, vigilia della batosta elettorale, si era rinchiuso in un insolito silenzio. Da allora il suo nome è scomparso dal bollettino delle iniziative di partito pubblicato quotidianamente su “La Padania”. Difficilmente tornerà a comparirvi. Fine ingloriosa dell´”Idiota in politica”, che idiota certo non era. Faremmo torto, difatti, all´intelligenza di Bossi, prendendo sul serio la leggenda su cui Maroni ha impostato la rifondazione leghista: Umberto leader integerrimo cui la moglie e i figli avrebbero fatto perdere la testa; o che l´ictus del 2004 avrebbe lasciato alla mercé di un “cerchio magico” profittatore.
Stiamo parlando dell´uomo con cui Berlusconi e Tremonti giocavano di sponda nei più delicati equilibri di governo, concedendogli un potere spropositato. Trattarlo come un deficiente che firma i bilanci senza accorgersene – ieri ci ha provato ancora Flavio Tosi – è un trucco che non funziona più. Superato lo choc, prevedo che il nuovo stato maggiore leghista ne prenderà atto. Del resto, quale può essere la credibilità di questi dirigenti che fino a ieri dichiaravano inconcepibile una Lega senza Bossi, e fino all´altro ieri magnificavano le virtù politiche del figlio destinato alla successione? Mentivano per convenienza e per timore, ben consapevoli del rischio di venire espulsi al minimo cenno di dissenso, o per lo meno di venire emarginati dal palcoscenico redditizio delle adunate di partito.
Fin dagli albori della sua carriera politica Bossi è stato attentissimo a mantenere il controllo della cassa. Non per arricchirsi, ma per comandare. La sua astuzia popolana è sempre stata intrisa di diffidenza. Praticava la tecnica della sottomissione nella cerchia degli adepti e verificava la loro fedeltà facendogli ingoiare il suo dispotismo. Che amasse la vita rustica e sregolata disdegnando il lusso, spiega il suo successo di leader populista ma resta ben fragile attenuante. La disinvoltura con cui attingeva ai finanziamenti di un partito che – incoraggiato da chi gli ruotava intorno – considerava emanazione inscindibile dalla sua persona, spiega l´assoluta indifferenza di Bossi alle regole dello Stato e a ogni norma statutaria. In uno dei suoi ultimi comizi, per giustificare il pagamento con soldi pubblici dell´appartamento romano di Calderoli, disse proprio così: “I soldi sono nostri, se vogliamo possiamo anche buttarli dalla finestra”. È questa la sua idea di onestà, magnificata ieri da Tosi, Boni, Borghezio, Salvini e compagnia.
Piace ricordare ancora che Piergiorgio Stiffoni, l´altro dirigente leghista autosospeso, già membro della tesoreria insieme a Belsito e Castelli, prima di venir sottoposto a indagine per distrazione di fondi pubblici al Senato, si distingueva per le sue odiose sortite razziste contro gli immigrati e gli omosessuali, giunte fino all´evocazione delle camere a gas: un personaggio ben meritevole di cotanto disonore.
Non per banale rivalsa è giusto ricordarlo, ma anche per spiegare la crisi così repentina del movimento leghista cui stiamo assistendo. Deflagrato come questione morale, e senza dimenticare che la spregiudicatezza leghista si acutizza nel corso dell´alleanza ultradecennale col partito di Berlusconi, il declino del Carroccio trae origine dall´anacronismo divenuto all´improvviso evidente della sua offerta politica. È come se d´un colpo l´ampiezza dei fenomeni globali – dalla crisi sprigionatasi nel cuore dell´economia occidentale, alla primavera araba – avesse rivelato l´inadeguatezza culturale del populismo al governo.
Non dimentichiamolo: Bossi è stato un ministro insignificante, prima che un leader arraffone.

La Repubblica 17.05.12

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Indagato Bossi: “Truffa allo Stato”, di SANDRO DE RICCARDIS e EMILIO RANDACIO

Paghetta da 5mila euro ai figli con i fondi pubblici. Maroni: via i ladri. Umberto Bossi è indagato per truffa allo Stato. Passava al figlio Renzo una paghetta di 5000 euro al mese usando i fondi pubblici destinati alla Lega. Per questo sono stati indagati anche i due figli: Renzo e Riccardo. Il reato contestato parla di appropriazione indebita. «Fuori i ladri», tuona Roberto Maroni. Per i pm il Senatur era a conoscenza dell´uso illegale dei fondi arrivati dalle casse statali. La base continua a difendere il suo ex leader e parla di magistratura che arriva con accuse ad orologeria. Il segretario, l´Umberto Bossi nazionale, firmava. Firmava ogni documento che gli sottoponeva l´appena defenestrato segretario amministrativo Lumbard, Francesco Belsito. Comprese le spese dei figli del senatur, Renzo-Trota e il maggiore Riccardo, a cui sarebbero stati riservati 5 mila euro al mese ciascuno. Una “paghetta”. E i bilanci della Lega nord erano talmente torbidi, che a pescare liberamente sui conti bancari del partito, una bella mano l´avrebbe messa anche l´ex segretario amministrativo, il senatore Piergiorgio Stiffoni. Lui, centinaia di migliaia di euro, li avrebbe prelevati direttamente dal conto romano di Palazzo Madama intestato al movimento.
Due, forse 3 i milioni di euro sui 18 ottenuti solo nell´agosto scorso dalla Lega a titolo di rimborso elettorale, sarebbero usciti in questa maniera. Da ieri mattina, il fondatore del Carroccio è indagato per truffa aggravata, i due figli, Renzo e Riccardo, per appropriazione indebita, il senatore Stiffoni (nel frattempo sospeso dall´incarico), di peculato. Fondamentali, per l´accusa, le dichiarazioni di un suo compagno di partito, il capogruppo della Lega al Senato, Federico Bricolo. Ma da parte della procura ci sono anche le movimentazioni da cui si cristallizzano prelievi costanti (la posizione di Stiffoni è stata inviata alla procura di Roma). L´elenco si conclude con il manager finanziario, Paolo Scala. Per l´artefice degli investimenti in salsa padana a Malta e Tanzania, l´accusa più pesante di riciclaggio. L´ex consigliere regionale della Lega, Renzo, appena saputa la notizia, si è detto sollevato, «così potrò finalmente difendermi, perché io non ho mai preso un euro dalla Lega».
La mossa formalizzata ieri dal procuratore aggiunto di Milano, Alfredo Robledo, e dai sostituti, Paolo Filippini e Roberto Pellicano, potrebbe essere solo un antipasto. Nei guai, anche se non ancora indagati formalmente, presto rischiano di finirci anche la signora Bossi, Manuela Marrone, e il numero due del Senato, Rosy Mauro. Solo una perizia che verrà consegnata nei prossimi giorni, accerterà se il denaro (oltre un milione di euro) percepito dalla scuola varesina Bosina creata dalla consorte del Senatur, rientri nei piani politici del partito. E lo stesso vale per la creatura della Mauro, il sindacato padano Sinpa.
A portare al coinvolgimento dei componenti di «The Family», sono stati più elementi. Soprattutto le dichiarazioni rese da Belsito nel corso del interrogatorio davanti ai pm di Milano, («Bossi era a conoscenza di tutto»), ma anche dai documenti ritrovati nella sua cassaforte in cui sono certificate le spese garantite ai familiari del «capo». Ipotesi confermate anche dalla segretaria di via Bellerio, Nadia Dagrada. Belsito, nel suo verbale, ha aggiunto di aver eredito nel 2010 questo modus operandi con uscite ritagliate su misura delle esigenze della famiglia Bossi, dal suo predecessore, Maurizio Balocchi. I reati che i pm hanno formalizzato ieri si riferiscono alla gestione del finanziamento da 18 milioni di euro che la Lega ha ottenuto nell´agosto scorso dal Parlamento. Secondo la procura, quel denaro non poteva essere erogato, come impone la legge, perché utilizzato per finalità differenti da quelle politiche. Belsito, nel luglio scorso, ha dunque sottoposto al Senatur un prospetto di spesa falso, che Bossi, coscientemente avrebbe firmato.

La Repubblica 17.05.12

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Gli alimenti all´ex moglie di Riccardo furono pagati con i soldi del partito”, di DARIO DEL PORTO e CONCHITA SANNINO

Agli atti un bonifico effettuato da Belsito a Maruska Abbate, ex consorte del primo figlio del Senatur. Gli alimenti all´ex moglie dI Riccardo Bossi? Pagava la Lega. Un´altra “voce di spesa” a carico del partito, dunque, che si aggiunge alle somme sborsate per titoli di studio, contravvenzioni stradali, viaggi e visite mediche dei familiari del Senatùr. L´hanno individuata i carabinieri del Noe di Roma scavando tra i documenti sequestrati nell´ambito del filone napoletano dell´indagine. I militari, coordinati dai pm Francesco Curcio, Henry John Woodcock e Vincenzo Piscitelli, hanno trovato una cartellina sulla quale l´ex tesoriere Francesco Belsito aveva indicato, sul frontespizio, l´intestazione “alimenti”. All´interno, secondo la ricostruzione investigativa, riferimenti al bonifico che Riccardo Bossi era tenuto a versare alla ex Maruska Abbate dopo la fine del matrimonio. Tra maggio e ottobre 2011, dalle casse della Lega sarebbero stati prelevati 4.800 euro. I carabinieri guidati dal colonnello Sergio De Caprio, hanno allegato agli atti anche la ricevuta di un pagamento effettuato da Belsito presso l´agenzia di Montecitorio del Banco di Napoli e ritenuta un primo riscontro a quanto indicato nella cartellina.
È cominciato tutto la mattina del 3 aprile, con le perquisizioni in via Bellerio. La prima a parlare di soldi della Lega utilizzati a scopo familiare e per spese riconducibili anche a Riccardo Bossi era stata la segretaria amministrativa del partito, Nadia Dagrada, sentita come teste dal pm Woodcock e dal pm di Milano Paolo Filippini. Dagrada aveva individuato come «l´inizio della fine» la malattia di Umberto Bossi. E aveva aggiunto: «Si è cominciato con il primo errore consistito nel fare un contratto di consulenza a Bruxelles a Riccardo Bossi. Dopo di che si sono cominciate a pagare, sempre con i soldi del finanziamento pubblico, una serie di spese a vantaggio di Riccardo e degli altri familiari dell´onorevole Bossi». Dagrada aveva detto di aver saputo da Belsito di pagamenti «con soldi della Lega di cartelle esattoriali e conti vari di Riccardo Bossi». Gli accertamenti ora vanno avanti sull´asse Milano-Napoli-Reggio Calabria. Il pool coordinato dal procuratore aggiunto Francesco Greco sta prendendo in considerazione l´ipotesi di interrogare Belsito, indagato a Napoli con l´ipotesi di riciclaggio per le operazioni finanziarie dell´imprenditore veneto Stefano Bonet. Una data però non è stata ancora individuata, anche perché preme l´intensa attività istruttoria legata a Finmeccanica e alla truffa e corruzione internazionale contestate a Valter Lavitola.

La Repubblica 17.05.12

"All'Europa serve più unità", Vittorio Emanuele Parsi

Siamo solo all’inizio, ma c’è da credere che al di là delle scontate dichiarazioni circa la rilevanza strategica dell’asse franco-tedesco e del comune auspicio che la Grecia non esca dall’euro, la relazione tra Parigi e Berlino sia destinata a una profonda revisione. È una necessità che in parte prescinde dal cambio della guardia all’Eliseo. È perlomeno dall’89, dalla fine della Guerra Fredda, che il rapporto tra Francia e Germania non è stato oggetto di un ripensamento reciproco. Dire che resta essenziale affinché l’Europa unita sopravviva è un’ovvietà. Quello che è meno ovvio è capire come si possa riarticolare. La Germania sta sperimentando come una sua leadership «eccessivamente solitaria» la esponga a un insostenibile isolamento. La Francia sa bene che una parte non irrilevante del suo peso deriva dall’agire in tandem con Berlino. Ambedue sono perfettamente consapevoli di come l’Europa, piuttosto che vincolarne le sovranità, potenzia le rispettive posizioni e ne hanno a cuore il futuro.

Ma quando parlano di Europa, si fa sempre più netta la sensazione che abbiano in mente due costruzioni ben diverse. A tema non è più la sovranità nazionale, il timore francese di vederla erosa, l’ansia tedesca di un suo troppo imperioso ritorno. No, in discussione è che tipo di Europa dovrà essere quella capace di assorbire lo choc greco (oggi), qualunque siano le decisioni che i greci e gli altri europei prenderanno nei prossimi mesi. Il caso greco, nella sua drammaticità, è esemplare, quasi plastico del come abbiamo lasciato andare alla deriva la tensione sempre latente e però vitale tra logica politica e logica economica così da ritrovare su due sponde opposte le ragioni della democrazia e quelle del mercato. La paura con cui attendiamo l’esito delle prossime, ennesime, elezioni greche è attestata dal nervosismo delle Borse e dal surriscaldamento degli spread. I greci voteranno tra un mese, ma intanto i mercati hanno già votato: e la forza dei numeri ha già sconfitto la forza del numero. Il voto ponderato di chi concentra e sposta ricchezze finanziarie ha già messo in rotta il voto popolare: il suffragio universale, a inizio del XXI secolo, è tornato a essere qualcosa da temere, di cui diffidare, da procrastinare o svuotare, come accadeva all’inizio del ’900.

Evidentemente, il tentativo che il francese Hollande sta mettendo in atto è ricordare alla tedesca Merkel che, a forza di perseguire ossessivamente la stabilità finanziaria, stiamo rischiando di produrre la destabilizzazione politica e sociale, mentre è evidente che occorre procedere tenendo sotto controllo entrambe. Politiche che perseguono solo l’una o l’altra forma di stabilità non ne realizzeranno nessuna. Tutto questo era implicito in quel modello renano di capitalismo che per decenni è stato il vanto europeo, e che è stato progressivamente abbandonato. Si dirà che è successo sotto l’incalzare dei mercati. Occorre rispondere che è proprio alla politica che compete il porre i limiti e trovare i rimedi alle derive economicistiche o panpoliticiste. Sia Merkel che Hollande sanno bene che senza un accordo tra loro, nessuna soluzione è possibile e che la risposta «più Europa!» è giusta ma parziale, se non la si declina in un modello concreto. Paradossalmente, in vista del prossimo G8 di Camp David, è stato il presidente Obama ad ammonire i responsabili europei a imboccare con più coraggio la via delle manovre di stimolo alla crescita. Prima che sia troppo tardi e che la recessione europea non vanifichi gli onerosi sforzi messi in atto dalla sua amministrazione per sostenere sviluppo e occupazione oltre Atlantico. È un invito neppure troppo implicito a una maggiore unità europea, quello che viene dagli Usa. Esattamente come fece Eisenhower al sorgere del processo europeo, anche oggi l’America di Obama preme perché l’Europa sia più coesa. Negli Anni 50 la minaccia era quella del comunismo e dell’Urss. Oggi essa è rappresentata dalla speculazione e dalla recessione. Ma la risposta possibile è sempre una sola: più unità. A condizione di sapere su che cosa chiamare a raccolta i popoli d’Europa e avere il coraggio di farlo, prima che i fantasmi del lato oscuro del ’900 tornino a farsi troppo inquietanti.

La Stampa 17.05.12

"Il destino è ad Atene" di Timothy Garton Ash

Quando all´inizio della settimana la Cancelliera tedesca Hannelore Kraft ha incontrato in un´assolata Berlino il presidente francese Hollande, i due hanno concordato i termini di un´improrogabile strategia per salvare la zona euro. Non essendoci elezioni in vista per i prossimi due anni in nessun paese della zona euro, i due capi di Stato hanno potuto tranquillamente prorogare la scadenza delle misure di austerità per Grecia, Spagna e Italia, e inserire anche alcuni provvedimenti per stimolare la crescita – tra i quali un´aumentata domanda interna tedesca – e fare altresì in modo che resti quell´indispensabile pressione che consentirà di pervenire alla disciplina fiscale e alla riforma strutturale. In conseguenza di tutto ciò perfino l´ormai distrutta Grecia ha iniziato a intravedere la luce in fondo al tunnel.
Tutto ciò nei nostri sogni, cari europei. Soltanto nei nostri sogni. La realtà è ben diversa. Mentre François Hollande e Angela Merkel si incontrano sotto un cielo tempestoso squarciato dai fulmini, è in atto una fuga di capitali dalla Grecia (più di cinque miliardi di euro dalle elezioni del 6 maggio); i mercati sono sconvolti da paure e dubbi; si rafforzano e si moltiplicano da sole le voci di un´uscita della Grecia dall´euro; e si prospetta un altro mese di preoccupazioni fino alle prossime elezioni che si svolgeranno ad Atene. In tutto ciò a Berlino Wolfgang Schäuble predica tuttora la buona novella dell´Ordoliberalismo, come se si trattasse della verità rivelata. Ovunque, in ogni momento, c´è quella vecchia problematica invenzione greca detta democrazia.
Di recente mi è giunta all´orecchio una soffiata attribuita all´ex primo ministro del Lussemburgo Jean-Claude Juncker, oggi a capo dell´eurogruppo, secondo cui “sappiamo esattamente quello che dovremmo fare; solo che non sappiamo come essere rieletti qualora lo facessimo”. Non è del tutto chiaro che Merkel e Schäuble sappiano effettivamente ciò che occorre fare, dato che la loro dottrina economica è piena di magagne. Ma anche nel caso in cui lo sapessero – o se la vincitrice dei Socialdemocratici alle elezioni del Nord Reno Westfalia di domenica scorsa fosse già la cancelliera federale Kraft – sussisterebbero il problema di un´altra elezione imminente da qualche parte in Europa e la cronica difficoltà contro la quale incappano i politici nel dire nella rispettive patrie la verità a quello stesso popolo ai voti del quale aspirano.
Ogni paese ha una propria verità inconfessata che i politici stanno omettendo di dire. La verità inconfessata che riguarda la Gran Bretagna è che questo paese non può avere la botte piena e la moglie ubriaca e continuare a godere di tutti i vantaggi economici derivanti dall´appartenenza all´Ue, restandosene però in disparte, come se fosse un membro dell´Ue praticamente a sé. La verità inconfessata che riguarda la Francia è che non è più un partner alla pari con la Germania.
La verità inconfessata che riguarda la Germania, invece, è che, in un modo o in un altro, dovrà pagare per questo macello assoluto in ogni caso. Molti dei debiti tossici greci sono già stati “socializzati” tramite l´Efsf, il Fondo europeo per la stabilità finanziaria, il Fmi, il Fondo monetario internazionale e la Bce, la Banca centrale europea. La Germania ha una quota di maggioranza in ciascuno di essi, soprattutto nella Bce. Il sistema “Target 2” può non essere ancora qualcosa di molto familiare in Germania, ma dovrebbe esserlo. Tramite il cosiddetto sistema di liquidità Target 2 della Bce, la Germania alla fine del mese scorso aveva richieste (di pagamento interbancario) pari a circa 644 miliardi di euro da parte delle altre banche centrali della zona euro, una cifra equivalente più o meno a un quarto del Pil tedesco. Se la Grecia uscisse dall´euro, che cosa accadrebbe alle passività Target 2 della sua Banca centrale nei confronti della Bce e tramite quest´ultima alla Germania? Non si sa. Con ogni probabilità, però, la Bce le depennerebbe. Ciò non manderebbe in rovina la banca, ma la Germania finirebbe col dover saldare il conto in ogni caso. Se il default della Grecia avesse invece un effetto a catena su altri paesi più deboli della zona euro, la Germania dovrebbe sborsare soldi di tasca propria per riportarli a galla – direttamente o indirettamente -, pena andare incontro a imprevedibili conseguenze.
La verità inconfessata – o confessata soltanto a metà – che riguarda la Grecia è che le uniche alternative possibili oramai sono di tre tipi: cattiva, peggiore o pessima. Quella pessima è chiaramente un´uscita non programmata e caotica dall´euro. Probabilità che può ancora avverarsi. Se così non sarà, allora agli elettori greci resterà un mese di tempo per capire quale alternativa sia secondo loro cattiva e quale peggiore: un´uscita programmata e prudente dall´euro, o rimanere nell´euro alle condizioni migliori che Hollande riuscirà a spuntare dalla Germania.
Non sono pronto a unirmi al coro dei commentatori che serenamente consigliano alla Grecia di spiccare il salto, da una parte o dall´altra. Francamente non so che cosa sarebbe meglio per Atene. Non sono un economista, e – per quel che conta – neppure gli economisti lo sanno. Non sono pronto a farlo anche perché non sono greco. Democrazia significa che un popolo sviluppa il governo e le politiche più consone e adatte alle proprie esigenze. Non esistendo un demos europeo, di conseguenza non esiste una democrazia che vada bene per tutta l´Ue. Quindi i greci devono mettere a punto ciò che va bene per loro.
Le elezioni greche del 6 maggio sono state una sorta di grido angoscioso per le sofferenze che il paese si è visto infliggere. E quel grido ha comportato un rifiuto netto prima di tutto nei confronti dei due partiti più importanti che dominavano la scena politica greca da decenni e poi dell´appoggio che quei partiti avevano dato al cosiddetto “memorandum”, l´accordo sull´austerità in cambio del salvataggio in extremis da parte dell´Europa.
Le prossime elezioni saranno il momento della verità: o dentro o fuori. Il paese dovrebbe azzardarsi a scommettere che dopo lo shock iniziale e le perdite legate alla “Grexit” la sua economia avrebbe modo di tornare a crescere con l´aiuto della svalutazione? O invece il nuovo governo dovrebbe cercare di contrattare il miglior accordo possibile restando nella zona euro, sperando nell´influenza di Hollande e di altri? Ieri la Merkel ha lanciato un po´ una provocazione quando ha detto alla Cnbc che “se la Grecia crede che potremmo trovare qualche altro stimolo in Europa oltre al Memorandum, allora sarà bene parlarne”. Ma anche il miglior accordo possibile comporterebbe in definitiva una lunga e difficoltosa faticaccia per uscire da questa valle di lacrime.
Queste alternative devono essere presentate nel modo più onesto possibile all´elettorato greco, che a quel punto dovrà prendere una decisione. In effetti, proprio questa fu l´idea straordinaria che il popolo ateniese ebbe circa 2.500 anni fa. I liberi cittadini si riunivano in assemblea e il nunzio chiedeva a gran voce: “Tis agoreuein bouletai?”, “Chi vuole rivolgersi all´assemblea?”. A quel punto ogni uomo libero (ebbene sì, soltanto gli uomini) era libero di presentare le motivazioni migliori a sostegno dell´opzione politica che preferiva, e la democrazia e la possibilità di parlare liberamente erano considerate due facce di una medesima medaglia.
Il futuro della zona euro adesso dipende dalla scelta per la quale opterà la Grecia. Il futuro dell´Europa dipende da quello della zona euro, e quello dell´Occidente in buona parte da quello dell´Europa. Quindi, con una piccola esagerazione, potremmo anche affermare che il futuro dell´Occidente dipende dalla culla stessa dell´Occidente. Sarebbe eccessivo auspicare che in simili circostanze i politici greci riscoprissero una parte della loro magnificenza e della semplicità che prevalsero un tempo ad Atene, quando diedero origine alla democrazia? Probabilmente sì.

Traduzione
di Anna Bissanti
timothygartonash. com

La Repubblica 17.05.12

"La battaglia contro Celli e sullo sfondo la partita Rai" di Sergio Rizzo

Il passato a volte ritorna, come sa bene Pier Luigi Celli. E inaspettatamente. Magari attraverso una frase dolorosa come quella scritta in una lettera indirizzata a suo figlio tre anni fa: «Dammi retta, questo Paese non ti merita». Ma c’è da giurarci. Celli l’avrebbe scritta ugualmente, anche se avesse saputo che quelle parole gli avrebbero un giorno scatenato contro l’ira di quarantasette senatori, determinati nel chiederne la testa di presidente dell’Enit proprio alla vigilia del suo debutto nel consiglio di amministrazione.
Il bello è che la petizione, promossa da Maurizio Gasparri e Carlo Giovanardi, porta la firma anche di quattro parlamentari che quando si è trattato di dare in commissione il via libera alla sua nomina, hanno votato a favore: Alfredo Mantica, Aldo Scarabosio, Ada Spadoni Urbani e Tomaso Zanoletti. Avendo ora evidentemente cambiato idea sono andati a ingrossare le fila del gruppo dei rivoltosi, assieme a Sandro Bondi, Giuseppe Ciarrapico, Diana De Feo (la moglie di Emilio Fede), Adriana Poli Bortone, Guido Possa, Salvatore Sciascia, Domenico Gramazio… Non basta. Gira persino voce (la fonte è superautorevole) che lo stesso Gasparri avesse dato il proprio via libera alla designazione di Celli direttamente al ministro del Turismo Piero Gnudi. Ma forse perché ancora non era stato pubblicato su Libero l’articolo di Maria Giovanna Maglie dal titolo: «Il nostro turismo è nelle mani dell’uomo che odia l’Italia». L’ex corrispondente del Tg2 ricordava come Celli fosse l’autore di quella lettera, stampata su Repubblica, con la quale esortava il figlio a cercare fortuna fuori dall’Italia. «Dammi retta, questo è un Paese che non ti merita. Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi. Tu hai diritto di vivere diversamente, senza chiederti, ad esempio, se quello che dici o scrivi può disturbare qualcuno di questi mediocri che contano, col rischio di essere messo nel mirino, magari subdolamente, e trovarti emarginato senza capire perché», scriveva. Una provocazione, che scatenò un putiferio. All’epoca Celli non aveva incarichi pubblici: era direttore generale (lo è pure adesso) della Luiss. Ma questo non lo risparmiò da velenose frecciate, tanto a destra quanto a sinistra.
Volendo contestualizzare fino in fondo la provenienza del siluro, è d’obbligo rammentare i ruvidi trascorsi fra Celli e Maria Giovanna Maglie. L’attuale presidente dell’Enit era direttore del personale della Rai all’epoca dei «professori», quando la giornalista del Tg2 lasciò la tivù pubblica dopo una brutta vicenda di spese ritenute eccessive dall’azienda. Di fatto, rappresentava dunque la sua controparte, come non mancò di ricordare egli stesso in un libro scritto nel 2000 per la Mondadori. Si intitolava «Passioni fuori corso».
Fatto sta che quando Gasparri legge l’articolo di Maria Giovanna Maglie salta su, apostrofando Celli come uno «fra gli italici Tarzan delle poltrone…». È il 4 aprile. Il 17 Giovanardi scrive a tutti i senatori chiedendo di sostenere la richiesta di defenestrare il presidente dell’Enit, reo di aver suggerito al figlio, tre anni prima, di prendere «la strada dell’estero» scegliendo «di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati». Appello che raccoglie sorprendentemente anche le firme di tre esponenti della Lega: ai quali, visto l’articolo uno dello statuto del loro partito che si pone l’obiettivo dell’indipendenza della Padania, la permanenza o meno in Italia del figlio di Celli dovrebbe suscitare indifferenza.
Sempre che il problema sia davvero la fede nella nazione del presidente dell’Enit, e non piuttosto il rischio che la figura ingombrante del direttore della Luiss, non molto amato nel centrodestra, si possa materializzare nella corsa per qualche altro incarico importante. Per esempio la presidenza della Rai, di cui è già stato capo del personale e direttore generale al tempo del centrosinistra. Ma forse è soltanto dietrologia, come quella di chi inquadra l’episodio in una prospettiva più aziendale, immaginando il terremoto che potrebbe comportare l’arrivo di Celli, un giorno autodefinitosi «tagliatore di teste riluttante». E l’Enit, indubbiamente, andrebbe rivoltato come un calzino. Non sono pochi quelli che lo considerano un inutile carrozzone. Prova ne sia la circostanza che la prima versione del decreto salva Italia messa a punto dagli esperti di Mario Monti ne prevedeva addirittura la soppressione. I finanziamenti sono al lumicino. I soldi dello Stato, ridotti a una trentina di milioni l’anno, bastano appena per mantenere in vita una struttura in attesa di una forte scossa. Cominciando dalla nomina del nuovo direttore generale…

Il Corriere della Sera 16.05.12

«Più tutele per contrastare le dimissioni in bianco», di Massimo Franchi

Iniziativa bipartisan ieri in Senato. «Chiediamo modifiche migliorative dell’articolo 55 della riforma del lavoro» • Ieri avviato l’iter in Commissione dopo l’accordo sugli emendamenti. La riforma del lavoro accelera. L’accordo nella maggioranza spiana la strada al disegno di legge che dovrebbe arrivare nell’aula del Senato all’inizio della prossima settimana con modifiche nette quanto le critiche dei partiti alla ministra Fornero, in primis sulla formulazione della norma contro le dimissioni in bianco.
Ieri notte la commissione Lavoro di palazzo Madama ha iniziato a votare gli emendamenti, dopo che l’accordo fra Pdl, Pd e Udc e l’intervento dei relatori Tiziano Treu e Maurizio Castro hanno fatto dimezzare gli emendamenti da 1.004 a 500. In pratica sono rimasti solo quelli dei relatori più quelli dell’opposizione (Idv e Lega).

E mentre si attende il via-libera della commissione Bilancio sulla copertura degli emendamenti, sembra poi scongiurato il pericolo dell’allungamento dei tempi dovuto al “sorpasso” della riforma costituzionale che, invece, rimarrà in commissione fino a fine mese, consentendo al ddl lavoro di approdare in aula se non a fine settimana, all’inizio della prossima. L’accordo prevede di lasciare intatto il testo sull’articolo 18, di aumentare le tutele per i precari con una tantum rafforzata per i cocopro, di mantenere l’aumento dell’1,4% sul costo dei contratti a tempo determinato ma, in cambio, di concedere alle imprese facilitazioni togliendo la causale sul primo contratto e di ridurre i tempi fra un contratto e l’altro.

UNITE CONTRO LA MINISTRA
Ieri mattina invece 40 senatrici hanno presentato un appello bipartisan sulle dimissioni in bianco. Cancellata nel 2008 da Sacconi la legge 188, una norma che combatte la pratica delle lettere fatte firmare soprattutto alle donne al momento dell’assunzione e poi tirate fuori dai datori di lavoro in caso di maternità o malattie, dopo una lunga battaglia portata avanti dalla Cgil (ieri era presente il segretario confederale Serena Sorrentino), è stata riproposto nell’articolo 55 della riforma del lavoro.

Ma, si legge, nell’appello firmato da senatrici di tutti i gruppi, «l’articolo 55 si espone a molte critiche, in particolare non emerge con chiarezza l’accertabilità in tutte le fasi della procedura della volontà della lavoratrice che costituisce il presupposto essenziale per escludere ogni forma di discriminazione». «L’attuale formulazione prevede due possibilità – spiega Rita Ghedini, senatrice Pd una la conferma della volontà di dimissioni in una sede terza, come l’ufficio provinciale del lavoro, ma l’altra prevede invece la firma del lavoratore su una ricevuta di ritorno che lascia molti dubbi. Noi saremmo per il ritorno della normativa precedente, la legge 188, ma la via maestra mi pare sia la conferma della lavoratrice in una sede terza».

Come spiega la prima firmataria Anna Maria Carloni «sono stati presentati molti emendamenti che ci fanno essere ottimisti sulla possibilità di modificare il testo in senso di accertare la volontà acclarata di dimissioni in tutte le fasi. In più gli emendamenti dei relatori vanno già nella giusta direzione perché tolgono il riferimento ad un decreto ministeriale da emanare al proposito». Positivo il commento della presidente dei senatori Pd Anna Finocchiaro: «Abbiamo molto apprezzato che il ministro Fornero abbia inserito una norma per contrastare questo odioso fenomeno. Oggi però siamo di fronte ad un appello bipartisan che chiede di fare di più».

Da parte Pdl sono intervenute Barbara Saltamartini («Io alla Camera sono relatrice di un disegno di legge che chiedeva di modificare il codice civile sulla revoca dei contratti, ma la riforma ha bloccato tutto») e il vice presidente dei senatori Laura Bianconi che ha attaccato Fornero («il testo non è nè chiaro né efficace»).
Una domanda però aleggia sulla sala: ma perché il Pdl ha voluto cancellare la legge 188? Nessuna risposta.

l’Unità 16.05.12

"Europa, non è un continente per giovani dalla Svezia alla Spagna disoccupati record", di Filippo Santelli

Siamo all´ultimo posto tra i Pigs, un ragazzo tra i 15 e i 24 anni su cinque non fa nulla. Solo in Germania, Austria, Norvegia, Svizzera e Olanda tassi sotto il 10% La media della Ue è del 22,6%
Ocse: i senza-lavoro delle nuove generazioni al 50% per Madrid e per Atene. Italia a quota 36%. Un problema globale, una piaga europea, un dramma italiano. È la disoccupazione giovanile, nei dati diffusi ieri dall´OCSE, l´effetto più pesante degli ultimi anni di crisi. A marzo, nei Paesi dell´Organizzazione, erano quasi 11 milioni i ragazzi tra i 15 e i 24 anni senza impiego, il 17,1% di quelli attivi sul mercato del lavoro, 4 punti sopra il valore del 2008. Un´emergenza mondiale che, da venerdì, sarà al centro del G20 in Messico. Ma che riguarda in primo luogo i governi europei. Perché se nel totale Ocse il livello massimo toccato resta quello del novembre 2009, al 18,3%, l´Unione Europa l´ha appena aggiornato in negativo: a marzo 5,5 milioni di ragazzi senza impiego, il 22,6%.
ECCEZIONE TEDESCA
In Italia sono 534mila, uno su tre, peggio di noi fanno solo Spagna e Grecia, oltre il 50%. Ma se consideriamo i NEET, cioè ai disoccupati sommiamo gli inattivi, è proprio il nostro il Paese meno virtuoso d´Europa. Un giovane italiano ogni 5, tra gli under25, non ha un lavoro né sta studiando.
«In Europa neanche la timida ripresa del 2011 ha invertito il trend», spiega Michele Scarpetta del centro studi Ocse sul lavoro, «la disoccupazione giovanile ha continuato a correre». Ancora di più da inizio 2012, con la nuova recessione: a marzo il livello dei giovani senza lavoro ha raggiunto il 22,1% nell´Area euro e il 22,6 nell´Unione a 27. Il dato più eclatante è quello di Spagna e Grecia dove, tra gli attivi, un ragazzo su due è senza impiego. Ma anche le economie più virtuose del continente soffrono: nel confronto con dicembre 2007 l´Inghilterra è passata dal 13,6 al 21,9%, la Svezia dal 19,3 al 22,8, la Svizzera dal 6,5 al 7,5. C´è una sola, notevole, eccezione: in Germania i ventenni senza lavoro sono scesi dall´11,4 al 7,9%. «Merito di politiche efficienti di formazione, apprendistato e ponte tra scuola e lavoro», spiega Scarpetta. Quelle che mancano in Italia dove i giovani senza lavoro sono arrivati a 534mila, il 35,9% degli attivi. Più del doppio della media OCSE.
SENZA SPERANZE
Sempre più ragazzi europei senza impiego. In alcuni Paesi continuano a cercarlo, o magari scelgono un corso di formazione. In altri, tra cui l´Italia, si scoraggiano. Lo racconta il dato sui NEET, giovani fuori dal mercato del lavoro o da percorsi di studio. In Europa sono il 13,2% degli under 25, ma con grandi differenze tra i Paesi. L´Olanda è al 4,1%, la Danimarca al 5,7, Svezia e Svizzera al 6,8, la Germania al 9,5, tutti sotto la media. Dall´altra parte dello spettro ci sono i Pigs, la Spagna con il 17,6%, la Grecia con il 18,2%. E in Italia i NEET sono ancora di più, il 19,5%. «È questo il vero dramma, specie al Sud», conclude Scarpetta. Tra i Paesi dell´Ocse, solo Messico e Turchia fanno peggio.

La Repubblica 16.05.12

Fassino: «La mia Torino che resiste», di Mario Lavia

Il sindaco: qui non ci si rassegna, stiamo reagendo alla crisi. Quanto morde la crisi in una città sospesa fra un passato iper-industriale e un futuro post-industriale come Torino? Quanto sono reali i rischi di una ripresa della violenza? E come stanno rispondendo la politica, i partiti? Piero Fassino governa il capoluogo piemontese da un anno, dalla trionfale vittoria del 2011.
Com’è stato l’annus horribilis visto da Torino, sindaco Fassino?
La crisi è profonda anche qui, non c’è dubbio: le imprese in affanno, la disoccupazione molto alta. La vita delle famiglie è più precaria, perché è più precario il lavoro e il futuro dei figli. Però ho potuto constatare quante energie si possono mettere in movimento per contrastare la crisi.
Da qui, da Roma, ci si immagina una città brumosa e intristita…
Torino non è una città piegata dalla crisi. Anzi, ha una capacità reattiva straordinaria. Girando in lungo e in largo Torino non ho trovato una persona che mi dicesse: aspettiamo tempi migliori. Al contrario, c’è voglia di dare una risposta positiva. Questa è una città molto dinamica, che non ha smesso di investire: abbiamo completato la prima linea della metropolitana, abbiamo concluso la progettazione della seconda, per fare un esempio. C’è uno sforzo per trasformare le aree dismesse in opportunità nuove riqualificando il tessuto cittadino. E potrei continuare.
Continui pure.
Investiamo molto nella cultura, non c’è settimana in cui non si realizzi un evento culturale. C’è stato la settimana scorsa il Festival internazionale del jazz, poi il Salone del libro che ha avuto un enorme successo, ci saranno le iniziative sulla legalità nel ventesimo anniversario dell’assassinio di Falcone… E questo perché penso che la cultura sia un grande motore dello sviluppo, la città che vede un ritorno positivo in termini di lavoro, turismo, opportunità, creatività. Quindi Torino è un esempio che dimostra che la crisi non richiede un atteggiamento di rassegnazione o di attesa ma la messa in campo di azioni positive.
E gli operai torinesi nell’era Marchionne come stanno?
Bisogna vedere le cose reali. Alla Bertone l’investimento concordato si sta realizzando, a Mirafiori si stanno attrezzando le linee per le nuove produzioni dal 2013. Bisogna avere chiaro che con la fusione Fiat-Chrysler è nato un gruppo nuovo, e quando nasce un gruppo nuovo le aziende non restano come prima, è normale che sia così. Non si deve avere paura di tutto questo ma creare le condizioni perché la Fiat rimanga qui, perché sia conveniente che resti. È molto più importante questo che non interrogarsi su quando va via e se va via… Quest’ultimo modo di ragionare è frustrante.
Torino però è sempre più nervosa, per non dire di peggio. La violenza, le contestazioni, il movimento No-Tav che resta un problema aperto.
Ma anche sulla Tav io vedo un’evoluzione positiva. È stata importante la determinazione con cui il governo Monti ha riaffermato il valore strategico dell’opera. Questo ha consentito di superare una fase in cui si diceva che, sì, la Tav era importante ma lo si diceva sostanzialmente dentro un dibattito un po’ rituale. Con Monti è arrivata la chiarezza: dobbiamo realizzare la Tav, peraltro con un progetto nuovo che è stato approvato dopo una lunghissima discussione, meno invasivo, gestito in modo compatibile con l’ambiente.
Ma secondo lei il movimento può essere contenitore di violenza e forse peggio?
La dimensione del movimento mi pare si stia restringendo a gruppi che fanno una battaglia ideologica, non di merito. Bisogna continuare a parlare con tutti, certo. Ci sono frange che non disdegnano forme di intimidazione e di violenza, che vanno assolutamente isolate perché minano la solidità della convivenza civile.
Però, Fassino, lei ricorda benissimo quello che accadde a Torino negli anni Settanta, quel clima, il terrorismo: cosa le viene in mente in questi giorni?
Certo, ci penso sempre a quel periodo, a quei giorni di 35 anni fa in cui i terroristi assassinarono Carlo Casalegno, l’avvocato Croce. Nei giorni scorsi a Genova il terrorismo si è rifatto vivo con le stesse modalità, e sembra tornare un fenomeno che pensavamo archiviato. È chiaro che per loro uno spazio non c’è: e però c’è chi spara. Vuol dire che non si deve abbassare l’azione di contrasto dello stato.
E in più la disperazione, questo susseguirsi di suicidi…
Mi sono chiesto perché tutto questo. Non è la prima crisi che vive l’Italia. La risposta è che la politica, i corpi intermedi, i sindacati, prima erano più forti: chi perdeva il lavoro sapeva che qualcuno lo avrebbe aiutato. Non ci si sentiva soli. Oggi si è più deboli, manca quella solidarietà e chi è disperato è preda di ogni pensiero… Ecco, bisogna fare in modo che nessuno si senta solo, preda della disperazione.
I partiti in tutto questo sono al punto più basso.
Non mi piace questa espressione, sa di antipolitica… È vero che soprattutto dopo il voto del 6 maggio, come avevo previsto, il Pdl si è dissolto, perché senza il collante-Berlusconi ha smarrito la sua ragion d’essere. Berlusconi può fare delle dichiarazioni ma ormai è fuori. La Lega è in crisi, il Terzo polo in difficoltà: l’unica certezza, pur con tutte le critiche, è il Pd. Che fa bene a sostenere Monti nel suo sforzo di far fronte alla crisi.

da Europa Quotidiano 16.05.12