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Edilizia, settore da rilanciare «Serve legalità», di Giuseppe Vespo

Quando ero piccolo guardavo i turisti passeggiare sotto la pioggia per le vie di Pompei », racconta ai suoi colleghi Costantino da Boscoreale. «Oggi quando piove a Pompei guardo crollare i muri: il parco del Vesuvio è diventato una discarica a cielo aperto, e da terra d’origine protetta la nostra è diventata terra di “monnezza” protetta. Ecco i frutti di una sciagurata gestione del territorio». Genova, Teatro della Gioventù. La Fillea-Cgil riunisce i suoi delegati e Costantino Aniello è il primo a salire sul palco. Prima di lui, Silvano Chiantia, segretario degli edili Cgil nel capoluogo ligure ha aperto i lavori dell’assemblea ricordando il disastro dell’alluvione che a novembre di un anno fa ha colpito le Cinque Terre e Genova. Un triste riferimento subito colto dal suo compagno delegato napoletano, che di «gestioni sciagurate» sembra intendersene. «Quando ho cominciato a lavorare portavamo alla luce reperti storici – racconta Costantino – oggi anche la nostra cooperativa deve sottostare alle logiche della cementificazione». Ma non basta: «Da noi l’edilizia è morta: su trecento, tra soci e dipendenti della Edil Atellana, la metà siamo in mobilità». Una parola, e una condizione, comune nel mondo della crisi, che nel settore dei cantieri ha già fatto sparire quattrocentomila posti di lavoro. In pochi anni, secondo i dati degli edili Cgil, i fatturati delle imprese sono calati ai minimi storici e gli investimenti segnano un meno trenta per cento. Non ci sono sconti neanche per i più famosi, per i marchi che hanno segnato parte dello sviluppo di questo Paese. Ce lo ricorda Donato Suffoletta, arrivato a Genova da Pesaro, dove è dipendente della Iterby, azienda controllata dal gruppo Berloni. «Su cento dipendenti, 94 siamo in cassa straordinaria – dice il delegato – L’azienda è in difficoltà ma sta provando a rilanciarsi, ad innovare.È l’unica strada da seguire. Dalle nostre parti, salvo Scavolini che è un’eccellenza perché ha investito in tecnologia, tutti soffrono la crisi. Il gruppo Berloni ha dovuto chiudere il settore delle camerette, dove lavoravano 170 operai diretti. E alla fine dell’anno, se la cassa in deroga non verrà rinnovata nella nostra provincia parecchia gente rischia di ritrovarsi in mobilità». Storie comuni, cartoline dal fronte del lavoro che arrivano da angoli lontani del Paese, anche dalle zone più ricche, che se fosse per le cronache nazionali sembrerebbero immuni alla impasse economica generale. Simone Cavalieri è di Rovereto. È un archeologo, delegato Fillea ma disoccupato ormai dal 2009. La sua, e quella dei suoi colleghi rimasti a spasso, è una vicenda finita in Tribunale. Una storia che, racconta Simone, riguarda 24 professionisti che non lavorano più, che non entrano più in cantiere da quando hanno scoperto che l’azienda nella quale erano impegnati non applicava loro il contratto dell’edilizia, quello di riferimento per gli archeologi,ma quello degli studi professionali. Simone e i suoi colleghi chiedono spiegazioni, si mobilitano, e alla scadenza i loro contratti a termine non vengono rinnovati. Così decidono di raccontare tutto con una lettera alla provincia di Trento. Da allora non hanno più un impiego. Noi diciamo «no» all’«edilizia stracciona e dell’irregolarità», dice dal palco il segretario generale della Fillea-Cgil, Walter Schiavella, un attimo prima di esprimere la sua solidarietà all’Ance, l’associazione dei costruttori, che ieri ha pubblicamente chiesto al governo i dovuti pagamenti da parte delle amministrazioni pubbliche. «Una pratica che ha prodotto drammi sociali, economici e purtroppo anche personali – la definisce Schiavella – D’altra parte però vogliamo chiedere a quelle stesse imprese più coerenza nel dare sostanza all’idea di edilizia moderna e sostenibile, dando seguito ai principi condivisi degli Stati Generali delle Costruzioni». È questa la via tracciata dalla Fillea per uscire dalla crisi: «Innovazione, risparmio energetico e un modello basato sulla sostenibilità ambientale e sociale». Tutti obiettivi che rientreranno nella piattaforma che il sindacato cercherà di costruire unitariamente a Filca-Cisl e Fenal-Uil per il rinnovo del prossimo contratto di categoria. Per un settore che il governo potrebbe aiutare «allentando il patto di stabilità dei Comuni che hanno soldi in cassa e favorendo gli investimenti», conclude Susanna Camusso, segretaria Cgil nel suo intervento.

l’Unità 16.05.12

"Se la destra sceglie Grillo" di Curzio Maltese

La crisi che si abbatte con crescente ferocia sulla vita dei cittadini europei ha avuto negli ultimi mesi un solo effetto positivo. È il ritorno sul tavolo dell´Unione del grande assente di questi anni, la Politica. La Politica con la maiuscola, quella che da quando esistono le democrazie si fonda sulla distinzione fra una destra e una sinistra. Il voto in Francia e in Germania, nel più popoloso e decisivo degli stati federali tedeschi, la Renania settentrionale-Westfalia, ha riportato al centro del dibattito pubblico, dopo anni di ambiguità, pensiero unico e fumose «terze vie» di fuga, un´alternativa secca e concreta fra l´Europa vista da destra o da sinistra. Insomma fra un´Europa ancorata alla visione liberista dominante nell´ultimo decennio, sia pure transitata dalle promesse e dai sogni di arricchimento collettivo allo spettro di un´austerità permanente, e un´idea di Unione più equa e solidale, impegnata a rilanciare la grande invenzione democratica del Welfare nella nuova realtà del mercato globale.
Questo confronto di grandi visioni alternative fra destra e sinistra, che pareva archiviato in politica, è tornato a dividere gli elettori francesi, chiamati a scegliere fra i programmi di Hollande e Sarkozy, e promette di essere il leit motiv della prossima campagna per il cancellierato in Germania fra Angela Merkel e Hannelore Kraft. Ma non in tutta Europa la crisi ha avuto questo effetto. Nelle ultime elezioni in Grecia il confronto politico storico fra destra e sinistra si è spostato su un piano del tutto diverso. E disastroso. Il confronto in Grecia non è politico, fra una sinistra e una destra portatrici di visioni alternative, ma post o piuttosto pre politico, fra un governo «tecnico» nel quale si confondono una destra e una sinistra percepite come uguali dall´opinione pubblica, e un´opposizione altrettanto indistinta, dove un comune linguaggio populista accomuna le estreme radicali. Un quadro politico devastante che a molti e purtroppo ragionevoli pessimisti ricorda la Repubblica di Weimar.
L´Italia è oggi, come quasi sempre nella nostra storia, a un bivio, al confine fra le due Europe. La crisi economica e la parentesi del governo tecnico può rivelarsi un´occasione straordinaria per la politica italiana di riformarsi e di tornare a offrire l´anno prossimo agli elettori un´alternativa chiara fra riformismo e liberismo, sinistra e destra. Oppure può diventare il definitivo pretesto per scivolare nel caos weimariano della Grecia, l´annichilimento della politica e la ricomposizione del conflitto sociale fra un indistinto rigorismo «tecnico» e un altrettanto indistinto populismo «né di destra né di sinistra».
La nostra scelta è decisiva per il futuro di tutti. Nel treno dell´Unione, più importante di qualsiasi Tav, l´Italia è il vagone che collega la locomotiva franco-tedesca al resto dell´Europa. Staccare il vagone italiano significa porre fine al viaggio. Ora, i piccoli segnali che arrivano in questi giorni, in queste ore, dalla provincia elettorale impegnata nel ballottaggio delle amministrative, sono inquietanti. A Parma, eletta dal movimento di Grillo a Stalingrado del movimento, i grillini si starebbero organizzando a ricevere sottobanco l´appoggio del moribondo partito di Berlusconi. In linea con una campagna elettorale condotta da Grillo sul filo di un assoluto cinismo. Il proprietario del marchio 5 stelle è stato capace in queste settimane di passare dall´elogio incondizionato del governo Monti al dileggio del medesimo come «servo delle banche» e «frutto di un golpe», dall´apologia degli evasori fiscali alla difesa d´ufficio di Bossi e «family» («vittime di un complotto della magistratura»), dal corteggiamento degli xenofobi («la cittadinanza ai figli d´immigrati non ha senso») a quello della mafia. Perché tutti votano, anche evasori fiscali, leghisti delusi, xenofobi e i mafiosi. E il voto, come la pecunia, non olet. Per contro, alle truppe del berlusconismo in rotta non par vero di salire su un altro carro populista, piuttosto che rimboccarsi le maniche e costruire la vera destra liberale assente in Italia dal Risorgimento.
Sia chiaro che l´eventuale e rovinosa deriva greca dell´Italia non potrebbe essere responsabilità esclusiva dei demagoghi. Almeno al cinquanta per cento sarebbe da condividere con una sinistra che non ha trovato il coraggio di rinnovarsi, nei programmi e negli uomini, come hanno saputo fare i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi dopo anni di sconfitte. Hanno, abbiamo tutti un anno di tempo. Una seconda chance, come dimostra la Grecia di oggi, non è prevista.

La Repubblica 16.05.12

"Scuola, con la Gelmini tagli per tutti, si salvano solo i prof. di religione" di Salvo Intravaia

La spesa pubblica per l’istruzione è in calo. Ne risentono docenti, insegnanti di sostegno e personale. Salvi solo i presidi e gli insegnanti di religione. Mentre si riducono i loro alunni. I dati nella relazione 2012 della Corte dei Conti. Spesa pubblica per stipendi degli insegnanti in calo, ad eccezione di presidi e prof di Religione. Nell’interregno gelminiano 2009/2010, l’unica spesa statale riguardante la scuola che ha subito incrementi è quella relativa agli insegnanti di Religione e ai presidi. Il resto della truppa – docenti a tempo indeterminato, supplenti, docenti di sostegno e personale Ata – ha dovuto fare i conti con un calo della spesa annuale pro-capite.

A certificarlo è la Corte dei conti, nella sua “Relazione 2012 sul costo del lavoro pubblico”. Basta scorrere la tabella 17 per avere una percezione precisa di ciò che è accaduto agli stipendi degli operatori della scuola durante l’ultimo governo Berlusconi.

Per tutte le categorie prese in esame, nel biennio 2009/2010 campeggia un segno meno: meno spesa pro-capite per lo stipendio e quasi sempre anche meno retribuzione totale. Gli unici a “salvarsi” sono stati i docenti di Religione cattolica e i dirigenti scolastici.

Passando in rassegna le sole “voci stipendiali” della tabella sulla Spesa annua pro-capite per retribuzioni, lo Stato – attraverso il taglio delle ore di lezione e delle classi, incrementando il numero di alunni per classe e saturando l’orario di cattedra con 18/22 ore settimanali – ha risparmiato sui docenti di ruolo il 2,7 per cento. E’ andata peggio ai supplenti annuali (meno 12,1 per cento) e a quelli fino al termine delle attività didattiche, che hanno fatto registrare un meno 7,1per cento.

Anche per gli stipendi dei docenti di sostegno e del personale amministrativo, tecnico e ausiliario, complessivamente lo stato ha speso meno. Mentre la spesa erogata per pagare gli stipendi ai docenti di Religione, nello stesso periodo, fa registrare un incremento del 2,1 per cento rispetto al 2009 e addirittura del 10 per cento rispetto al 2008: 466 milioni di euro per i quasi 14 mila docenti di Religione a tempo indeterminato, cui occorre aggiungere gli stipendi degli oltre 12 mila supplenti.
E dire che nello stesso periodo 2008/2010 gli alunni italiani “avvalentisi”, come si chiamano quelli che optano per le lezioni di Religione, si sono ridotti di 80 mila unità. Com’è possibile?

Anche la spesa per pagare gli stipendi dei presidi si è incrementata notevolmente: più 11,5 per cento in un solo biennio. “I dati rilevati – si legge nella relazione – evidenziano una forte diminuzione della spesa complessiva, anche al lordo degli arretrati, che tuttavia presenta indici disomogenei a seconda delle diverse categorie di personale. Cresce, in primo luogo, la spesa per i dirigenti scolastici in relazione al rinnovo contrattuale, siglato a metà dell’esercizio 2010. In coerenza con gli obiettivi assegnati al contratto, volti al riallineamento delle retribuzioni del personale dell’area V con quelle del restante personale dirigenziale”. Ma sulla spesa pro-capite per i docenti di religione, che nonostante il calo degli alunni si è incrementata, anche i magistrati contabili preferiscono sorvolare.

da repubblica.it

"Camera, ostruzionismo del Pdl a rischio il ddl corruzione" da repubblica.it

Lavori a rilento sul ddl anticorruzione 1 pensato dal ministro della Giustizia Paola Severino. In un’ora, questa mattina, le commissioni Affari Costituzionali e Giustizia della Camera hanno votato un solo emendamento a causa della raffica di interventi da parte del Pdl che questo provvedimento vede come il fumo negli occhi. Puntando a far arrivare in Aula il testo arrivato dal Senato nella formulazione dell’ex ministro del governo Berlusconi Angelino Alfano. “E’ in atto un ostruzionismo sciocco e becero”, ha commentato Antonio Di Pietro. Pier Luigi Mantini (udc) parla di “ostruzionismo strisciante e velato”. Donatella Ferranti (pd) attacca “un ostruzionismo vergognoso il cui unico scopo non può che essere di portare in aula il vecchio ddl Alfano”. Il Pdl, invece, si difende e parla di “assalto giustizialista”.

L’unica cosa concreta della seduta odierna è stato alla fine il voto che ha bocciato il subemendamento 500.111 del pidiellino Francesco Paolo Sisto, che interveniva per ridurre la pena minima per il reato di peculato: 23 favorevoli, 32 contrari, astenuta la Lega.

“Oggi abbiamo avuto una seduta che è durata un’ora e mezza con il risultato di aver votato un solo emendamento, se fate il conto di quanti altri emendamenti abbiamo da votare capirete le mie preoccupazioni” dice la presidente della commissione Giulia Bongiorno (fli) – Il mio auspicio è
che si riesca a chiudere senza dilatazioni dei tempi e ritengo importante la seduta di giovedì quando tornerà anche il ministro Severino. La mia preoccupazione dopo la seduta di oggi c’è ancora tutta e anzi è ancora maggiore”.

Il testo del ddl è confermato per l’aula il 28 maggio senza la formula “ove concluso l’esame”, e questo vuol dire che potrebbe andarci senza mandato ai relatori e senza aver completato le votazioni, quindi nella versione arrivata dal Senato.

da repubblica.it

Africa, il potere è donna "Salveremo il continente" di Pietro Veronese

Crescono le figure di riferimento femminili all´interno della società Capi di Stato, economiste, premi Nobel: vincono sfidando i pregiudizi. In Mali c´è una nomade a tessere le fila della rivolta dei Tuareg: la sua casa è diventata il luogo centrale della politica del Paese. Per ognuna di loro raggiungere la vetta è stata una battaglia contro culture conservatrici e patriarcali. In Africa è l´ora delle matriarche. Donne leader, donne che comandano, figure di riferimento della società. Donne di potere, anche. In Liberia è stata rieletta per un secondo mandato di sei anni la presidente Ellen Johnson Sirleaf, prima africana della storia a capo di uno Stato. In Malawi le si affianca adesso Joyce Banda, succeduta al presidente Mutharika, stroncato da un infarto. Il mese scorso, con una mossa anch´essa senza precedenti storici, i Paesi in via di sviluppo hanno presentato un loro candidato alla presidenza della Banca Mondiale. L´iniziativa ha avuto vita breve e ancora una volta, secondo tradizione, la poltrona è andata al nome indicato degli Stati Uniti. Resta agli atti però che quel candidato era una donna, un´africana: la nigeriana Ngozi Okonjo-Iweala, ministro delle Finanze del suo Paese. Non sarà presidente della World Bank, ma resta una delle personalità politiche più potenti del continente.
Perfino tra i Tuareg, la cui cultura tradizionale è considerata tra le più patriarcali e maschiliste d´Africa, spicca – unica donna – la figura di Nina Wallet Intalou, bella e fiera dirigente del Movimento di liberazione nazionale dell´Azawad, che ha proclamato di recente una repubblica indipendente nel nord del Mali. In questo periodo, riferisce un´inviata di Le Monde da Nouakchott, la capitale mauritana, la casa di Nina è un crocevia di nazionalisti Tuareg e diplomatici europei. Lei tesse le fila. È una donna celebre e chiacchierata, alla quale sono stati attribuiti in passato numerosi amanti altolocati: tra di essi il libico Gheddafi, illazione che Nina smentisce con sdegno.
Non manca, in questo pantheon femminile africano, l´alloro del Nobel per la Pace. Nel 2011 ha incoronato tre donne, due delle quali – oltre alla yemenita Tawakkul Karman – sono africane: la Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee, militante pacifista, anche lei liberiana. Erano state precedute nel 2004 dalla keniana Wangari Maathai, recentemente scomparsa.
La nostra visione dell´Africa fa molta fatica ad emanciparsi dagli stereotipi; ma quando si tratta di donne questi luoghi comuni sono a loro volta confusi e contraddittori. Sappiamo infatti che quasi ovunque nella società africana la donna è relegata in una posizione subalterna, subordinata, sottomessa, anche se un po´ ovunque c´è chi si ribella contro questo stato di cose. Ma sappiamo anche che la donna è la forza trainante della società e dell´economia, che il lavoro agricolo è quasi sempre affidato a lei, così come il piccolo commercio, così come la sussistenza delle famiglie rurali, che costituiscono la stragrande maggioranza degli africani: sono le donne – e le ragazze – a raccogliere la legna, a trasportare l´acqua, a cucinare, ad accudire i piccoli. Senza il lavoro delle donne l´Africa si fermerebbe.
Non è quindi sorprendente che persone come la Johnson Sirleaf, Joyce Banda o le altre si siano distinte negli anni all´interno delle loro società, come attiviste, militanti, professioniste; ma quello che è straordinario è che siano riuscite a primeggiare, ad assurgere a posizioni di eminenza assoluta. È stata, per ciascuna di loro, una battaglia. Contro pregiudizi, mariti violenti, superiori che ne hanno sfruttato il carisma tentando poi di ricacciarle nell´anonimato della sconfitta; e anche contro la solitudine e le debolezze personali (Leymah Gbowee ad esempio non fa mistero della sua lotta per liberarsi dalla dipendenza dall´alcol); contro la devastante fatica di essere insieme buone madri e protagoniste della scena pubblica; contro l´impegno di doversi sempre dimostrare all´altezza “malgrado” il fatto di essere donne.
I lettori italiani hanno a disposizione da pochi giorni l´autobiografia della capofila di questa piccola ma illustre, e crescente, schiera di matriarche: Un giorno sarai grande, di Ellen Johnson Sirleaf (traduzione dall´inglese di Francesco Regalzi, Add editore, 448 pagine, 18 euro). È un libro nel quale si avverte, qui e là, che è stato scritto con finalità politiche da una leader che esercita tuttora responsabilità di statista: è, in certi passaggi, apologetico. Ma nell´insieme è un libro che si divora come un romanzo, sia per le sconvolgenti vicende politiche della Liberia, segnate a partire dal 1989 da due devastanti guerre civili; sia per la storia personale della protagonista e della sua lotta per sfuggire alla sorte che la voleva confinata per sempre nel ruolo sacrificale di moglie e di madre: sposa a 17 anni, madre di quattro maschi prima di compierne 23. Racconta la Sirleaf che quando era nata da pochi giorni «un vecchio saggio» predisse che un giorno «sarebbe stata grande». L´aneddoto rimase oggetto di scherzi e di battute nel lessico famigliare per anni, quando nulla lasciava presagire il luminoso destino di Ellen. Eppure il vecchio saggio aveva visto giusto. Morale: donne africane, la vostra fortuna dipende da voi.

La Repubblica 15.05.12

Verso i ballottaggi del 20 e 21 maggio

Domenica e lunedì prossimo ci saranno i ballottaggi che metteranno chiarezza sull’esito delle elezioni Amministrative 2012. Dopo un primo turno molto soddisfacente per il centrosinistra e per il Partito Democratico, il voto del 20 e 21 maggio sarà determinante per ribaltare completamente i risultati di 5 anni fa che vedevano le destre al governo in 18 dei 26 capoluoghi di provincia. Domenica e lunedì prossimo ci saranno i ballottaggi che metteranno chiarezza sull’esito delle elezioni Amministrative 2012. Dopo un primo turno molto soddisfacente per il centrosinistra e per il Partito Democratico, il voto del 20 e 21 maggio potrebbe ribaltare completamente i risultati di 5 anni fa che vedevano le destre al governo in 18 dei 26 capoluoghi di provincia.

Su 26 capoluoghi di provincia andati al voto il 5-6 maggio 2012, 7 candidati hanno vinto al primo turno, di cui tre di centrodestra, uno della Lega e tre del centrosinistra che riesce a strappare al centrodestra Brindisi al primo turno. Gli altri sindaci eletti al primo turno sono espressione delle stesse giunte uscenti.

Salvo a Belluno, dove i candidati al primo turno sono risultati praticamente appaiati, nei 19 ballottaggi di domenica prossima, in 12 comuni capoluogo il centrosinistra si presenta con un risultato di primo turno decisamente superiore a quello della coalizione avversaria.

In altri 5 ballottaggi è invece in testa la coalizione di centrodestra e in due ballottaggi si confrontano coalizioni di centro e di centrodestra. Caso inverso a Palermo dove due candidati di centrosinistra saranno protagonisti del confronto elettorale decisivo.

In ben 10 casi il centrosinistra è riuscita ad ottenere, al primo turno, il maggior numero di voti al candidato sindaco in comuni con giunta uscente di centro destra. Solo a Cuneo e Frosinone le coalizioni uscenti di centrosinistra non sono in testa al primo turno.

In 7 comuni capoluogo le coalizioni uscenti si sono confermate al primo posto nel primo turno: 3 di centrodestra e 4 di centrosinistra.

Qui la lista dei candidati che correranno nei ballottaggi, i loro risultati al primo turno e il colore delle giunte delle amministrazioni comunali uscenti.

"Violenza sulle donne la proposta e l'appello", di La 27esima ora

«Non sta succedendo a me». Luisa, 38 anni, toscana, dice di essere andata avanti per mesi con quel pensiero fisso. Mesi durante i quali il fidanzato, da cui attendeva un figlio, alternava momenti di tenerezza a scatti di ira, carezze e botte.
Chi lavora con le donne maltrattate spiega che dalla fase «non sta succedendo a me» passano quasi tutte.
Quasi tutte le donne vittime di quelle violenze che nascono — e si ripetono — nella coppia.Sono 59 le donne uccise in Italia dal partner o dall’ex partner nel 2012: nei primi quattro mesi del 2007, cinque anni fa, erano state «solo» 29. Questi numeri raccontano un’emergenza nazionale. Anche perché gli omicidi, spesso, sono solo l’ultimo atto di anni di abusi, vessazioni, maltrattamenti. Storie quotidiane, ci insegna la cronaca. Storie che possono capitare a chiunque.
«La violenza dei numeri, le responsabilità di tutti» è la lettera aperta che verrà consegnata oggi al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dalle «Donne in rete contro la violenza», un’associazione che raggruppa 60 centri dei 130 esistenti nel Paese. Un doppio appello: affinché la lotta alla violenza tra le pareti domestiche diventi una priorità per il governo e affinché non vengano tagliati i fondi ai centri che quelle donne soccorrono. E proteggono.
Vergogna, sensi di colpa, un «silenzio assordante» — come scrive la psicologa Patrizia Romito — circondano questi reati: secondo l’Istat solo il 7% viene denunciato. Quando i lividi non si possono nascondere, è «la donna che sbatteva nelle porte», come racconta lo scrittore inglese Roddy Doyle nel testo portato in scena da Marina Massironi.
«Mi picchiava e io lo scambiavo per un gesto d’affetto: credevo che lo facesse perché mi amava. Pensavo di meritarlo», racconta Sara, 50 anni, romana, che dopo dieci anni di sevizie e referti in ospedale si è ritirata all’ultimo dal processo per maltrattamenti contro il marito.
Un passato lontano, un’eredità difficile che si pensava alle spalle? O in via di naturale superamento collettivo? E’ vero il contrario. Non è un caso se un omicidio su due avviene nelle tre maggiori regioni del Nord – Piemonte, Lombardia e Veneto – dove il lavoro femminile è più diffuso e più forte è l’aspirazione delle donne all’autonomia. Non è un caso se il momento più a rischio si rivela quello della separazione o della chiusura del rapporto: «L’odio tira fuori il suo muso di assassino quando, per una ragione qualsiasi, lei non sta più dentro il quadro in cui lui l’ha messa e pretende che rimanga: il quadro disegnato da un misto di oscure aspettative e di ovvie comodità», sintetizza la filosofa Luisa Muraro.
La psichiatra francese Marie France Hirigoyen, nel suo libro Molestie morali, dimostra che c’è sempre un momento preciso in cui tutto parte: un evento, anche solo una frase che punta ad abbattere consapevolezza e desideri. Sono le spie di un’ossessione malata, destinata a crescere. Se si avessero le chiavi per decodificare i segnali, imboccare il tunnel che porta a diventare vittime di violenza sarebbe meno semplice. Capire significa salvarsi. Ed è importante che capiscano l’entità del rischio le persone che per prime incontrano le donne: medici di base, vigili, poliziotti. Formazione, protezione, sostegno legale, psicologico e materiale: i centri antiviolenza oggi sono i luoghi dove trovare tutto questo.
I centri, però, sono a rischio: dei 60 che fanno parte della rete Dire (14 mila donne ogni anno chiedono il loro aiuto), 5 sono già chiusi e 20 soffrono per una costante diminuzione di fondi. Anche le altre realtà che operano sul territorio affrontano le stesse difficoltà. E non esiste una legge nazionale che garantisca la continuità e l’omogeneità degli interventi.
Esiste — per ogni problema che colpisce un gruppo sociale, piccolo o grande che sia — una «fase A» in cui solo chi è coinvolto direttamente, chi ne sente il peso in prima persona, avverte il dovere di parlarne e cercare soluzioni. Ed esiste una «fase B» in cui il dibattito si approfondisce, coinvolgendo parti più estese della comunità. Il tema della violenza sulle donne nel nostro Paese sembra ancora relegato in quella prima fase, la «pre-maturità». Una faccenda di donne per le donne. Oggi la chiamata alla responsabilità da parte degli uomini è sostenuta da poche voci. Ma è tempo che gli alibi e gli steccati cadano, che vengano svuotati gli stereotipi che determinano poi certi comportamenti maschili, perché quello che Lea Melandri chiama «il fattore molesto della civiltà» — quel groviglio fra amore e violenza che inchioda le donne nel ruolo delle perdenti — venga sezionato e dipanato, filo dopo filo. C’è una cultura da cambiare. Intanto, proteggiamo quel poco che abbiamo: i centri antiviolenza.
Dei centri, delle donne, degli uomini, parleremo in un’inchiesta che cercherà di raccontare le storie e le contraddizioni degli equilibri di potere fra i sessi, aprendo uno spazio di riflessione. Alla ricerca di soluzioni possibili.

La 27esima ora è un blog multiautore del «Corriere della Sera»