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Napolitano "Fare subito la riforma elettorale", di Umberto Rosso

«È ineludibile». Così il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, definisce la riforma della legge elettorale. Ma tra i partiti è stallo. Il Pd: disposti a mediare sul doppio turno. Il Pdl è diviso. Poche, maledette e subito. Le riforme ferme sul tavolo dei partiti vanno approvate senza perdere ancora tempo prezioso, prima che cali il sipario sulla legislatura. Lo vuole Giorgio Napolitano. A cominciare dalla legge elettorale, «nodo essenziale da sciogliere, e mi pare da tutti considerato assolutamente ineludibile», e dalla modifica del finanziamento pubblico. E sul fronte istituzionale il presidente della Repubblica chiede che vada in porto «il pacchetto limitato ma significativo già presentato in Senato», rispetto al quale «non c´è che da auspicare un sollecito svolgimento dell´iter parlamentare». Il capo dello Stato, in un altro lunedì nero per la borsa, va a Milano alla Consob ad ascoltare la relazione annuale e a raccogliere da vicino gli umori del gotha economico-finanziario che lo accoglie al gran completo in piazza Affari. Il presidente della Consob Vegas attacca «la dittatura dello spread», che vanifica «nei fatti» il principio del suffragio universale. Echi “tremontiani”, ma Napolitano ridimensiona l´uscita di Vegas: «E´un modo di dire, non una lettura catastrofista». Annus horribilis per i nostri mercati, come dice ancora il capo della Consob? «Ce ne sono stati tanti per la mia generazione di anni orribili, anche peggio di questo. Che certo è stato brutto, ma ci sono le condizioni per venirne fuori. Occorre fiducia».
Servirebbe anche sul versante politico che, dopo il vertice al Colle con Monti, il presidente Napolitano prova ancora una volta a scuotere. Facendo sue le parole del costituzionalista Michele Anais che, sul Corriere della Sera, dice: meglio poche riforme che un altro rinvio. La prospettiva che resti in piedi il Porcellum è considerata disastrosa dal presidente della Repubblica. Tanto più inammissibile quanto più tutti i partiti hanno appunto «riconosciuto come ineludibile, essenziale» la modifica dell´attuale meccanismo elettorale che sottrae agli elettori la scelta dei propri parlamentari. E infatti, anche ieri, il suo richiamo-ultimatum è stato subito accolto da un coro di sì, dal Pd, al Fli, al Terzo Polo, e qualche distinguo dal centrodestra. Insieme al capitolo costi della politica, «che in queste ore è arrivato in discussione» sottolinea Napolitano, possono fornire la scossa per ridare credibilità ai partiti. Per rimettere la politica, come chiede il ministro Riccardi che accoglie nel pomeriggio il capo dello Stato alla Cattolica, al centro di «una visione del futuro».
Bersani commenta: «Siamo assolutamente d´accordo con il capo dello Stato, l´attuale legge elettorale va superata, ad essa risale per larga parte il distacco dei cittadini dalla politica». Il Pd ha rilanciato il doppio turno. Dopo il monito di Napolitano, però, il segretario democratico assicura: «Siamo disponibili a una mediazione, purché garantisca un chiaro indirizzo per il governo». Tuttavia non ci sono passi avanti. Oggi riprendono i contatti tra i tecnici. «Noi sherpa – dice Violante – dopo i ballottaggi consegneremo un nuovo testo ai leader». Alfano, Bersani e Casini a quel punto dovranno decidere. Stamani c´è poi la prova del nove delle riforme istituzionali al Senato. Vizzini, il presidente della commissione, si sfoga: «I partiti sappiano che se non cambiano il Porcellum e non votano l´accordo sulle riforme, gli converrà fare campagna elettorale per corrispondenza. Perché perdono la faccia. Per guadagnare tempo noi possiamo lavorare anche in notturna». Il Pdl però è diviso. Quagliariello, il più possibilista sul doppio turno, se la deve vedere con Gasparri ma anche con Verdini che fanno muro. Il pessimismo è forte. «Non si capisce il gioco del Pdl – dicono nel Pd – ci dicono che prima ci vuole l´accordo sulla legge elettorale e poi si andrà spediti sulle riforme, ma ufficialmente hanno posto la questione al contrario». E poi c´è il taglio dei parlamentari. Tutti lo vogliono, nessuno lo fa.

La Repubblica 15.05.12

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“Votare con il Porcellum sarebbe un suicidio nazionale”,
di Cristoforo Boni

Non si può tornare a votare con il porcellum. La riforma elettorale è necessaria. E il pressing sulle forze politiche e sul Parlamento è un’azione patriottica del presidente della Repubblica. I tempi sono drammaticamente stretti. E sulle spalle abbiamo tanti, troppi fallimenti: si può dire che l’intera Seconda Repubblica sia stata una transizione incompiuta.
Anche oggi gli interessi divergenti dei partiti e la crescente frammentazione spingono verso il nulla di fatto. Ma non ci si può arrendere. Votare con il Porcellum vuol dire minare alle fondamenta anche la prossima legislatura. Vuol dire che la politica italiana continuerà a essere malata: e se la delegittimazione è già arrivata fino a questo punto, figuriamoci se anche le prossime elezioni non dovessero produrre un esito chiaro e un governo stabile! Purtroppo, al di là delle dichiarazioni di principio, molti puntano a far fallire le riforme. I sostenitori del Porcellum sono più di quelli che lo dichiarano apertamente. Tra loro ci sono quelli che gridano all’inciucio non appena qualcuno si mette a cercare un compromesso. E ci sono coloro che, pur di far saltare il modello del governo parlamentare (indicato dalla nostra Costituzione), riciclano i miti berlusconiani del premier eletto direttamente dal popolo e del maggioritario di coalizione.
Per cambiare la legge elettorale in tempi rapidi è necessaria una larga intesa. Per tornare finalmente in Europa sono anche necessarie alcune riforme costituzionali, tali da stabilizzare i governi. Il sistema perfetto non esiste. Tuttavia, con la buona volontà il traguardo è raggiungibile. La bozza Violante è già una soluzione mille volte migliore della legge attuale. Si può ancora migliorare, ma non si prendano pretesti per far saltare il tavolo. È una buona notizia che Udc e Pdl stiano in queste ore esaminando la proposta iniziale del Pd sul cosiddetto «modello ungherese». Lo schema di base resta quello tedesco (con circa metà dei seggi attribuiti con riparto proporzionale e metà attraverso collegi uninominali maggioritari): la diversità sta nel fatto che i collegi uninominali verrebbero assegnati con il doppio turno, in modo da favorire e premiare le coalizioni preelettorali. Quel testo può ancora essere migliorato. Ma sarebbe un antidoto alla frammentazione della rappresentanza, senza tuttavia annullare l’autonomia delle forze intermedie.
In ogni caso la riforma deve, senza forzature e senza coalizioni coatte, portare l’Italia alla condizione delle principali democrazie europee: dove i candidati nei collegi uninominali sono di partito e dove la sera del voto sono chiari il nome del futuro premier e la coalizione che formerà in Parlamento.
Se la legislatura dovesse concludersi senza riforme (compresa la riforma del finanziamento dei partiti), anche il giudizio futuro sul governo Monti volgerà al negativo. Il successo del governo tecnico sta nella normalità che consegnerà all’Italia alla fine del mandato. Se ci fosse ancora bisogno di tecnici e di grandi coalizioni, vuol dire che il Paese sarà più malato. E più vicino alla Grecia.

l’Unità 15.05.12

"Il dossier: un ragazzo ogni 4 sotto la soglia di povertà. I figli dei disoccupati i più a rischio" di Mariagrazia Gerina

Non è un paese per bambini quello in cui persino nascere da genitori giovani diventa un fattore di rischio. È l’Italia, che lascia scivolare un ragazzino ogni quattro (22,6%) al di sotto della soglia di povertà. E che lascia che l’asticella si abbassi ancora drammaticamente tra i nati della generazione «precaria». I figli dei trentenni, perennemente in cerca di vera occupazione, sono i più esposti alla crisi. La povertà ne colpisce uno ogni due. L’Italia non dà chance ai giovani. E quelli di loro che decidono di mettere su famiglia non riescono a dare sicurezze economiche ai loro figli. Risultato: il 47,8% dei minori nati da genitori under 35 sono inesorabilmente poveri.
Va peggio solo a chi nasce in Calabria, dove la povertà infantile galoppa sulla soglia del 60%, o in Sicilia (59,6%). E a i figli degli immigrati che, a qualunque latitudine nazionale, devono fronteggiare un rischio di povertà pari al 58,6%. Mentre praticamente spacciati sono i figli dei disoccupati: il 79% non si salva dalla povertà. Che colpisce i minori italiani più degli adulti (con un 8,2% di spread).
Percentuali che fanno paura. E che collocano l’Italia agli ultimi posti delle classifiche internazionali. «Il paese di Pollicino», lo definisce il Dossier curato da Save the Children per mettere davanti alla coscienza nazionale le cifre di un vero e proprio abbandono. La povertà si sta mangiando l’infanzia. E l’Italia fin qui ha fatto ben poco per salvarla, investendo in interventi per le famiglie appena l’1,4% del Pil rispetto al 2,3% che è la media europea. Un intervento pubblico che ha spostato di poco l’asticella, facendo avanzare l’indice di rischio dal 3% al 3,8%, mentre in Inghilterra schizzava al 14,5%, in Francia al 13,5%, in Germania all’11,1%.
Più a rischio degli altri sono i minori che vivono con un solo genitore: poveri, uno ogni tre. E il fatto che quel genitore, di solito, sia donna, non è un caso. Famiglie indifese davanti alla crisi. Più esposte quelle più numerose: mentre per le altre l’incidenza di povertà dal 2006 è aumentata del 2,7% per le famiglie con tre o più minori è aumentata del 4%. E la povertà come ricorda Save non è solo economica. È anche mancanza di asili, di servizi, di opportunità. In Italia, il livello di istruzione dei genitori penalizza i figli in misura tre volte maggiore rispetto alla Germania. Insomma, le opportunità o te le dà la famiglia o non te le dà nessuno. Neppure la scuola. Tanto più che il 18,9% dei ragazzi tra i 16 e i 24 anni, raggiunta la terza media, la abbandona.
«Subito un piano nazionale di lotta alla povertà minorile», chiede Save the Children, consegnando al paese il suo Dossier della “vergogna”. Guardare in faccia l’Orco è il viatico necessario della campagna che Save the Children rivolge a partire da oggi al governo e al paese. Titolo: «Ricordiamoci dell’Infanzia». L’Italia fin qui se ne è ricordata ben poco.

l’Unità 15.05.12

"Niente ritardi. La sfida democratica si vince con l'unità", di Guglielmo Epifani

Come era stato per Ezio Tarantelli prima e con Marco Biagi dopo, il terrorismo tornava a colpire persone inermi, validi studiosi che nella loro attività pubblica svolgevano un ruolo di raccordo e di elaborazione attorno a delicati provvedimenti giuridici ed economici. Ogni anniversario di queste ed altre vittime del terrorismo non è mai stato soltanto un doveroso atto di memoria e di rispetto verso chi ha pagato con la vita il proprio spirito di servizio per il Paese e le sue istituzioni Ha sempre rappresentato, insieme, anche l’espressione della volontà di continuare a vigilare per prevenire ogni possibile forma dell’uso della violenza e del terrorismo, nella coscienza dell’assurdità e inaccettabilità dei suoi metodi e delle sue finalità. Il ferimento del dirigente dell’Ansaldo a Genova ad opera della federazione anarchica internazionale, riporta tutto il Paese dentro quella cappa fatta di interrogativi, attese, preoccupazioni che si sperava messa definitivamente dietro le spalle. Ci si chiede giustamente di fare luce sulla natura e l’identità del nuovo terrorismo, dei suoi collegamenti internazionali, soprattutto con gli ambienti eversivi operanti in Grecia; si studiano le modalità, il linguaggio ed i contenuti della rivendicazione, mettendoli a raffronto con quelli vecchi. Si discute del clima sociale che la crisi provoca e del suo rapporto con il ricorso alla violenza. Da parte del governo si stanno studiando tutte le misure da prendere per prevenire altri atti e cercare di saperne di più degli ambienti e dei personaggi che gravitano attorno alle sigle che hanno rivendicato l’agguato. Proprio perché il quadro è questo occorre però da subito dire alcune cose, non dirne altre, e soprattutto fare. Innanzitutto è logico e anche necessario rendersi conto della portata relativamente nuova di questa forma di terrorismo, che per molti versi sembra molto diversa da quella conosciuta in Italia. Ma non si può discutere né la pericolosità né la gravità di quello che rappresenta. La novità semmai ne accentua la forza e la portata eversiva, e anche la difficoltà di riorientare indagini e prevenirne le azioni. I primi atti di questo tipo risalgono al 2003, in un contesto sociale ed economico molto diverso dalla drammaticità della crisi di oggi. Si sono poi susseguiti con regolarità costante e con modalità da violenza per così dire misurata. Eppure, forse proprio per questo, nulla o poco si è potuto scoprire e disvelare. Perché questo? Per sottovalutazione? O per superficialità? Per la portata ristretta delle azioni compiute? In ogni caso, da oggi non è più tollerabile alcuna forma di ritardo. E prima ancora che di mezzi eccezionali serve tornare all’investigazione efficace e coordinata sugli ambienti e le reti di collegamento. La stessa questione del rapporto tra la scelta della violenza e la crisi sociale in corso va usata con attenzione e senza approssimazioni. Non è la crisi all’origine di questa rete eversiva ma percorsi e ideologie che risalgono almeno a 10 anni fa. Ma la crisi può essere usata per intensificare le azioni o allargare le complicità. E questo pone a tutti il dovere della nettezza dei giudizi e l’assenza di qualsiasi forma di giustificazione. La decisione dello sciopero nelle aziende del gruppo di Finmeccanica e i presidi dei lavoratori di fronte ai propri luoghi di lavoro rappresentano la prima e importante risposta che andava data, a partire da Genova, città dove per giovedì prossimo è prevista una grande manifestazione contro la violenza ed il terrorismo. In un tempo segnato dalla difficoltà di tenuta di tanti corpi di rappresentanza e di fragilità di una parte del sistema politico ed istituzionale, e nel cuore di una crisi che sembra aver cancellato razionalità ed efficacia nel governo dei processi economici e monetari e indebolito la funzione decisionali della politica e delle responsabilità di governo, la sfida alla democrazia la si vince con la partecipazione e con l’impegno diretto di ognuno. Nel presidio di Genova la risposta alla violenza si univa alla preoccupazione per il futuro dell’azienda e della occupazione. Finmeccanica è un’azienda strategica per il Paese. Le decisioni che si stanno prendendo possono avere ricadute pesanti. Qui forse davvero è il caso che governo e Parlamento intervengano e si ascoltino le ragioni del sindacato.

l’Unità 15.05.12

"Ecco come creare lavoro", di Luciano Gallino

Le preoccupazioni espresse dal ministro Passera circa le conseguenze nefaste della disoccupazione di massa dovrebbero far riflettere molti nel governo, in Parlamento e nei partiti. Di là dai numeri, la disoccupazione comporta povertà, perdita della casa, criminalità, denutrizione, abbandoni scolastici, antagonismo etnico, famiglie spezzate e altri problemi sociali. Ne parlava in questi termini già vent´anni fa un economista che si è battuto a lungo per dimostrare che la disoccupazione è un male assai peggiore del deficit (era William Vickrey, premio Nobel 1996). Sentirle riecheggiare ora nelle dichiarazioni di un ministro di primo piano fa pensare se non sia giunto il momento di attribuire alla creazione diretta di occupazione un peso, nella politica economica e sociale, non minore di quello attribuito finora al deficit e al debito pubblico.
Ho richiamato mesi fa su queste stesse colonne quali caratteristiche dovrebbe avere la creazione diretta di occupazione. Lo Stato assume direttamente, tramite un´apposita agenzia, il maggior numero di disoccupati e di precari, che però vengono gestiti dal punto di vista operativo da enti locali. Gli assunti dovrebbero venire occupati in programmi di pubblica utilità diffusi sul territorio e ad alta intensità di lavoro. C´è solo da scegliere, dagli acquedotti che perdono il 40 per cento dell´acqua che distribuiscono alle scuole per metà fuori norme di sicurezza, dal riassetto idrogeologico del territorio alla tutela dei beni culturali. Il salario offerto dovrebbe aggirarsi sul salario medio o poco al disotto, cui andrebbe aggiunto il costo dei contributi sociali per sanità e previdenza. In totale, circa 25.000 euro l´anno a testa. Volendo cominciare con un numero capace di incidere positivamente sulla situazione, bisognerebbe ipotizzare l´assunzione di almeno un milione di persone, per un costo totale di 25 miliardi l´anno. Non molto, a fronte dei 7 milioni di persone disoccupate o maloccupate indicate dal ministro Passera, ma comunque un miglioramento.
Dinanzi a una proposta del genere si affollano le obiezioni. Mi soffermerò su alcune delle più ovvie: nessun Paese ha mai attuato interventi statali di simile scala; il loro costo sarebbe insostenibile; ce lo vieta l´Europa.
Interventi del genere, su scala assai maggiore, sono stati effettuati negli Usa durante il New Deal. Con una disoccupazione che sfiorava il 25 per cento, tra il 1933 e il 1943 tre agenzie statali – la Civil Works Administration, la Federal Emergency Relief Administration e la Works Progress Administration – diedero lavoro a parecchi milioni di persone al mese. E non per scavare buche che altri poi riempivano. Quegli occupati costruirono o ristrutturarono 400.000 chilometri di strade, 4.000 chilometri di fognature, 40.000 scuole, 1000 aeroporti, e piantato un miliardo di alberi. Centinaia di migliaia di disoccupati furono avviati al lavoro nel volgere di tre mesi dalla creazione di dette agenzie. Da notare che gli Stati Uniti contavano allora 125 milioni di abitanti, poco più del doppio dell´Italia di oggi. C´è qualche lezione da imparare guardando a quel periodo.
Affermare che il costo della creazione diretta di un milione di posti di lavoro sarebbe insostenibile è privo di senso ove non si proceda a stendere un piano economico che tenga conto di almeno tre elementi. I primi due si contrastano a vicenda. Infatti, da un lato occorre considerare che vi sarebbero spese aggiuntive: i servizi per l´impiego, ad esempio, andrebbero potenziati per metterli in grado di gestire i progetti locali. D´altro lato, si potrebbe scoprire che molti neo-occupati costano meno di 25.000 euro l´anno, perché vi sarebbero aziende disposte volentieri a pagarne la metà o un terzo, così come recuperi di fondi potrebbero venire dalla cessazione del sussidio di disoccupazione per i neo-assunti, o dai cassintegrati che a fronte della conservazione del posto nell´azienda d´origine scelgono liberamente di lavorare a 1.200 euro al mese invece che stare a casa con 750. Ma l´elemento da considerare è che l´occupazione non è un costo: è un fattore che crea ricchezza. Come scriveva un altro economista, J. M. Keynes, che vedeva nella disoccupazione il peggiore dei mali: “L´insieme della forza lavoro dei disoccupati è disponibile per accrescere la ricchezza nazionale”.
Quanto all´obiezione che sarebbe l´Europa, cioè la Ue, a vietarci di creare occupazione in modo diretto, essa è mezza vera, ma un rimedio ci sarebbe, e mezza falsa. Il divieto di creare occupazione appare insito non tanto nella lettera, quanto nel dispositivo di rientro dal debito pubblico previsto dal Trattato di stabilità firmato dal governo italiano e da 24 altri governi Ue a Bruxelles nel marzo scorso (anche noto come “Patto fiscale”). Il Trattato dovrebbe entrare in vigore, previa approvazione dei rispettivi parlamenti, il 1° gennaio 2013. L´articolo 4 prevede che un Paese avente disavanzi eccessivi – ossia con un debito che supera il 60 per cento del Pil – operi “una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all´anno”. Poiché il debito dell´Italia supera il 120 per cento del Pil, pari a oltre 1.900 miliardi, essa dovrebbe ridurre il suo debito giusto della metà, cioè 950 miliardi. Si tratta quindi di ridurre il debito di 1/20° di tale somma, vale a dire 45 miliardi l´anno. Quanto basta per assicurare al nostro Paese non solo un ventennio di recessione, bensì di miseria nera, impedendo di destinare alla creazione di occupazione un solo euro. Resta soltanto da sperare che qualcuno in Parlamento si renda conto di quale trattato capestro il governo italiano ha firmato, e si adoperi per impedirne l´approvazione. Come forse faranno i francesi dopo la vittoria di Hollande.
D´altra parte, chi volesse insistere sulla necessità di creare occupazione per evitare guai nel prossimo futuro, potrebbe trovare appoggio proprio nel Trattato istitutivo della Ue (che il citato Patto fiscale, secondo alcuni giuristi, calpesta in diversi modi). La versione consolidata di esso, del 2008, contiene infatti una “Dichiarazione concernente l´Italia”, la n. 4 9, che recita testualmente: “Le parti contraenti… ritengono che le istituzioni della Comunità debbano considerare, ai fini dell´applicazione del trattato, lo sforzo che l´economia italiana dovrà sostenere nei prossimi anni, e l´opportunità di evitare che insorgano pericolose tensioni, in particolare per quanto riguarda la bilancia dei pagamenti o il livello dell´occupazione, tensioni che potrebbero compromettere l´applicazione del trattato in Italia”. Se il ministro Passera crede davvero che sia a rischio la tenuta economica e sociale del Paese, ci sono due o tre cose di cui dovrebbe discutere con i suoi colleghi e il presidente del Consiglio.

La Repubblica 15.05.12

"La minaccia e i bluff della Grecia" di Stefano Lepri

La cura di sola austerità nell’area euro è sconfitta, ad opera degli elettori di diversi Paesi e regioni. Su come integrarla, si apre ora una stagione di faticosi negoziati, forse di maldestri compromessi. Ma per la Grecia è urgente essere pronti a tutto. E occorre distinguere le realtà dalle minacce e dai ricatti che si incrociano in queste ore.
Punto primo. La Grecia non è in grado di sopravvivere da sola; non più di quanto potrebbe ad esempio – per avere un’idea delle dimensioni – una Calabria separata dall’Italia.

Senza aiuti dall’Europa e dal Fondo monetario, presto non avrebbe soldi né per pagare gli stipendi degli statali né per comprare all’estero ciò che serve ad andare avanti, tra cui alimenti e petrolio.

Punto secondo. Dopo la ristrutturazione a carico dei privati, oggi circa la metà del debito greco è in mano all’Europa o al Fondo monetario. Quindi se la Grecia non paga, ci vanno di mezzo soprattutto i contribuenti dei Paesi euro, cioè noi tutti (in una stima sommaria, circa un migliaio di euro a testa).

Punto terzo. Il ritorno alla dracma sarebbe vantaggioso solo nella fantasia di economisti poco informati, per lo più americani. Trapela ora che il governo Papandreou aveva commissionato uno studio dal quale risultava che perfino i due settori da cui la Grecia ricava più abbondanti introiti, turismo e marina mercantile, non sarebbero molto avvantaggiati da una moneta svalutata.

Punto quarto. L’incognita vera è quali danni aggiuntivi, oltre al debito non pagato, una eventuale bancarotta della Grecia causerebbe agli altri Paesi dell’area euro (in primo luogo crescerebbero gli spread ). Di certo le conseguenze sarebbero asimmetricamente distribuite: più gravi per i Paesi deboli, in prima fila il Portogallo poi anche Spagna e Italia; meno gravi per la Germania.

Non c’è risposta certa alla domanda presente nelle teste di tutti i ministri dell’Eurogruppo riuniti ieri sera a Bruxelles – se convenga di più sostenere la Grecia o lasciarla andare a fondo. A prima vista, almeno per l’Italia la solidarietà sembra meno costosa del diniego; eppure, guardando nel futuro, una Grecia non risanata diventerebbe una palla al piede.

Fa bene perciò ragionare sulle alternative; e occorre farlo in modo politico, dato che due crisi politiche qui si intrecciano, una dei meccanismi decisionali europei, un’altra dei partiti greci.

Ad Atene, un sistema politico crolla, come nell’Italia di 20 anni fa, ma le scelte minacciano di polarizzarsi in modo più pericoloso. Occorre chiedersi se la sconfitta dei due ex partiti dominanti, Nuova Democrazia e socialisti, sia dovuta ai tempi troppo stretti del risanamento chiesto dall’Europa, o non soprattutto al modo iniquo e inefficiente con cui i sacrifici sono stati distribuiti tra i cittadini, proteggendo clientele e centri di potere.

L’Europa aveva preteso tempi più stretti di quelli ritenuti opportuni dal Fmi proprio perché non si fidava dei politici greci in carica. Ora non se ne fidano più nemmeno gli elettori. I loro voti si sono spostati verso politici emergenti i quali però raccontano una bugia: che la Grecia può ricattare gli altri Paesi in modo più efficace, minacciando di trascinarli nel baratro se non apriranno di nuovo il portafoglio.

Dal lato opposto, sta alla Germania e agli altri Paesi rigoristi dimostrare che il ricatto è vano perché nel baratro non ci cadremo. Ovvero, occorre che mettano le carte in tavola, specificando quali gesti di solidarietà compirebbero verso gli altri Paesi deboli nel caso ad Atene si formasse un governo deciso al braccio di ferro. Altrimenti dire ai greci «o mangiate questa minestra, o saltate dalla finestra» si rivelerebbe un bluff , come già tendono a ritenere i mercati.

La Stampa 15.05.12

"Il doppio turno è la soluzione", di Massimo Giannini

Falsità, malafede, opportunismo. C´è il peggio del peggio, nella psicopatologia italiana delle riforme quotidiane. La classe politica le evoca, le auspica, le moltiplica. Servono tutte: quella istituzionale, quella costituzionale, quella elettorale. Ma non se ne fa nessuna. Giorgio Napolitano, per l´ennesima volta, è costretto a lanciare il suo appello: fatele, sono ineludibili. I partiti plaudono, condividono. Ma, ancora una volta, eludono. Eppure, con un po´ di buon senso e buon gusto, non sarebbe difficile fare l´unica cosa che serve al Paese: «macellare» finalmente il Porcellum, e varare una legge elettorale maggioritaria a doppio turno.
Per quello che vale (ma qualcosa deve pure valere), il voto amministrativo del 6 maggio ha prodotto una mappa geo-politica più disorganica e frammentata che mai. Se nel 2013 si votasse con il sistema attuale e il risultato delle elezioni nazionali fosse lo stesso, l´Italia rischierebbe un governo probabile, ma una governabilità impossibile. L´ultimo frutto avvelenato del berlusconismo, che continua a far danni anche dopo la sua eutanasia. Solo in questo Paese è stato possibile tollerare che alla vigilia delle elezioni del 2006 un Parlamento già quasi sciolto ma pur sempre militarizzato dal Cavaliere cambiasse in corsa le regole del voto, con l´unico obiettivo di evitare una sconfitta sicura e sonora della destra. E solo in questo Paese è stato possibile accettare che un leghista ministro della Repubblica di nome Calderoli dicesse in tv, in prima serata, «quella legge l´ho scritta io, è una porcata».
Lo è a tutti gli effetti. Un mostro giuridico, che produce caos e svilisce la democrazia rappresentativa. Mescola proporzionale e super-premio di maggioranza, presidente del Consiglio praticamente eletto dai cittadini e parlamentari «nominati» dalle segreterie di partito. Il Porcellum si doveva fermare. Forse avrebbe potuto farlo l´allora capo dello Stato Ciampi, negando la firma a una legge «irrazionale», e dunque incostituzionale. Forse avrebbe potuto farlo anche la Consulta, dando via libera a un referendum popolare che aveva il suggello di oltre 1 milione e 200 mila firme di altrettanti italiani ansiosi di abrogare quella legge «ad coalitionem», e dunque immorale.
Le cose, purtroppo, sono andate diversamente. Sono passati quattro mesi da quel 12 gennaio, quando la Corte costituzionale bocciò i due quesiti. Da allora tutti i partiti hanno promesso solennemente che, senza più la «pistola» referendaria alla tempia, avrebbero varato una riforma elettorale finalmente seria, coerente e condivisa. Parole al vento. Come quelle sulla riforma del finanziamento pubblico e sul dimezzamento del numero dei parlamentari. Con un´aggravante in più: mentre la riduzione delle Camere esige una riscrittura costituzionale, con la procedura «rafforzata» e molto più articolata dell´articolo 138, la revisione del sistema elettorale si può fare con legge ordinaria, che volendo può essere molto più semplice e rapida.
Purtroppo non è quello che le «nomenklature» hanno in testa. Di riforma elettorale, forse, si ridiscuterà dopo i ballottaggi. Nel frattempo, circolano bozze se possibile anche peggiori della «porcata» calderoliana. Altri «saggi», dopo i molti che in questi anni si sono rovinosamente cimentati, sfornano ipotesi. Le più disparate, e anche disperate. Ritorno al proporzionale, ma con una quota di collegi uninominali. Modesto premio di maggioranza per chi vince, ma con bassa soglia di sbarramento per chi perde. Indicazione del premier sulla scheda, ma nessun vincolo di coalizione prima del voto. Ora si sente ragionare di un ritorno al maggioritario, naturalmente ricucinato in salsa italiana: cioè con il mantenimento di una quota proporzionale, e con l´introduzione di micro-collegi sul territorio.
Pasticci ingestibili, in cui si saltabecca dal sistema tedesco allo spagnolo, recuperando un po´ di francese ma conservando un briciolo di israeliano (unico Paese al mondo in cui si è sperimentata l´elezione diretta del premier) e un pizzico di paraguayano (unico Paese al mondo in cui si sono attribuiti due terzi dei seggi al partito con più voti e il rimanente terzo si è distribuito proporzionalmente tra le altre liste). Pasticci ingiustificabili, in cui l´unica esigenza manifesta, anche se ovviamente non confessata, è quella di cucire il nuovo sistema sul profilo dei partiti attuali, che cercano di sopravvivere a se stessi, e sulle poltrone degli eletti di oggi, che cercano riconferme per la prossima legislatura.
In questo scempio democratico, in cui tutto conta fuorché il diritto dei cittadini di scegliere alla luce del sole gli eletti, le coalizioni e i governi, basterebbe alzare lo sguardo, e vedere quanto è appena accaduto in Francia con la vittoria di Hollande. Un primo turno in cui ognuno fa la sua corsa, comprese le ali estreme della destra lepenista. Un secondo turno dove ci si coalizza, e si sceglie uno dei due schieramenti. Va così: uno vince, l´altro perde. Tutto si semplifica, tutto funziona. Si chiama maggioritario a doppio turno, i francesi ci eleggono sia l´inquilino dell´Eliseo sia il Parlamento. Ha garantito e garantisce governabilità e alternanza alla Quinta Repubblica, fin dal 1958.
Cosa impedisce a questo sciagurato Paese di mutuare banalmente quel sistema, magari aggiungendovi la sfiducia costruttiva e il potere del premier di revocare i ministri? Perché il Pd, che pure nel luglio 2011 l´ha inserito nel suo programma dopo il via libera unanime dei suoi gruppi parlamentari, non cavalca con forza il maggioritario a doppio turno? Perché la sinistra non la smette di avventurarsi su un´impervia «via tedesca», nella malsana convinzione che questo serva a incastrare il centro in uno schema non proprio innovativo, mirato al ripristino del vecchio «trattino» di cossighiana memoria?
È il tempo della generosità e della responsabilità. Merce rara, in un establishment incapace di capire che la tigre dell´anti-politica si doma solo con la buona politica. Ma se da qualche parte esistono ancora, i riformisti hanno a portata di mano la più facile e utile delle riforme. La rilancino, per il bene della democrazia. La sostengano, in nome del bipolarismo. Gli italiani gliene saranno grati.

La Repubblica 15.05.12

Carpi (mo) – Iniziativa: "verità storica verità giudiziaria: il caso dei crimini nazifascisti in Italia 1943-1945"

Carpi Ex Sinagoga via G. Rovighi 57

Intervengono:
Silvia Buzzelli, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Marco De Paolis, Procuratore Militare della Repubblica di Roma
Andrea Speranzoni, Avvocato del Foro di Bologna
Coordina
Marzia Luppi, Direttore Fondazione ex Campo Fossoli
Saranno presenti
On. Manuela Ghizzoni
Demos Malavasi, Presidente Consiglio provinciale di Modena
Claudio Silingardi, Direttore Istituto storico di Modena
Roberto Tincani, Coordinamento vittime strage 18 marzo 1944
Incontro pubblico in occasione della pubblicazione del volume
La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia
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