Latest Posts

"La parola negata", di Luigi La Spina

La domanda può essere considerata provocatoria, ma qualche volta bisogna avere il coraggio di scavare senza pudore nell’inquietudine, perché nel suo profondo si possono trovare anche tracce di verità. Se la democrazia è soprattutto legata alla parola, al dialogo libero e sincero tra i membri di una comunità, non corriamo il pericolo di smarrirla, questa nostra democrazia, nella triste Italia d’oggi? Se il discorso pubblico diventa così faticoso, angosciante e, qualche volta, impossibile, si può ancora pensare, attraverso il confronto della ragione, di individuare compromessi condivisi ai problemi nuovi e difficili che le società contemporanee ci pongono?

È questo il dubbio, magari indecente ma ineludibile, che sorge quando si leggono le parole dei cartelli che si agitano nelle manifestazioni di protesta, quando si ascoltano quelle dei politici, vanamente in cerca di un senso, anche quando manifestamente non l’hanno; quando si sentono quelle di rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori, dai toni sempre drammatici e ultimativi, che invece appaiono vane e fastidiosamente ripetitive; quando quelle parole appaiono, lugubri e assurde, nei volantini dei terroristi.

Persino quando si avverte la pressione, esigente e diffidente, sulle bocche dei ministri, perché siano costretti a pronunciare la parola sbagliata, magari frettolosamente inopportuna, perché ci si possa avvolgere nelle spire di una polemica che non produrrà mai nulla di utile, di serio, di concreto.

Quella «lingua di legno» che si rimproverava ai politici e ai burocrati del secolo scorso, elusiva e ipocrita, sembra essersi trasformata, nell’Italia d’oggi, in una «lingua di fuoco», che apparentemente incendia le passioni e che, invece, è solo una fiammella fatua, come quella, innocua, che invano tenta di riscaldare le anime dei cimiteri. In un clima di profondo e motivato disagio sociale, sembra perduta la possibilità di esprimere un’opinione, magari del tutto opinabile, senza che si alzi subito, non la critica sul merito, ma la condanna per aver osato pronunciarla e, persino, pensarla.

Eppure, terminata finalmente la stagione di quelle ideologie che avevano sempre una certezza, per tutto e per tutti, ora ci troviamo davanti a un mondo, forse divenuto troppo grande e troppo complesso, dove i dubbi, invece, si accumulano, più di quanto si sciolgano. Dal ruolo delle religioni nella vita politica e sociale al problema della distribuzione delle risorse, tra popoli ex ricchi ed ex poveri; dalla questione delle fonti energetiche, in un futuro che non garantisce uno sviluppo illimitato a quella di una vita dell’uomo che si allunga imprevedibilmente, insieme conforto individuale e allarme sociale. Le risposte a questi interrogativi, proprio perché nessuno ha più la bussola della verità, dovrebbero essere tutte ammesse, tutte verificate dal riscontro dei fatti e dei numeri, tutte vagliate da un esame sereno della ragione. Non ci dovrebbero essere argomenti tabù, interlocutori impediti a esprimere un giudizio. Peggio, uomini e donne ancora oggi, ancora in Italia, che rischiano la vita per un’opinione, per un’appartenenza, per una fede. Persino per l’espressione di una identità, nazionale, religiosa o sessuale.

Gli esempi sono troppi e fa male pure ricordarne qualcuno. Il ricorso all’atomo non è più un’alternativa energetica discutibile, ma un’ipotesi che condanna alla pistola chi l’avanza. L’Alta velocità non dimostra un’utilità opinabile, ma in Valsusa è diventato un fantasma apocalittico, che non è possibile evocare neanche nelle scuole, là dove si insegna, o si dovrebbe insegnare, la civiltà del dialogo democratico. L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori forse è diventato marginale tra le cause della mancata crescita occupazionale in Italia, ma continua a suscitare proclami inutilmente retorici e drammatici.

La crisi delle rappresentanze sociali, evidente nel nostro Paese, aggrava l’impressione di un teatro dell’assurdo, dove i fronti polemici, immotivatamente aggressivi, non trovano più mediatori credibili, autorevoli, capaci di imporre soluzioni ragionevoli, compromessi sostenibili in un periodo sufficientemente lungo. Così il dialogo, quello vero, finalizzato al convincimento dell’interlocutore, finisce o per essere rifiutato o viene sollecitato solo come pretesto per dimostrare la colpa dell’avversario, ormai sinonimo di nemico.

La «parola negata» in una democrazia produce, tra l’altro, una conseguenza grave, perché giustifica la dittatura della maggioranza o, peggio, la dittatura dell’autorità. Se il pluralismo delle idee non è più ammesso alla competizione del consenso nell’opinione pubblica, è evidente che la forza del potere vincerà sempre. O attraverso l’insidia del «luogo comune», la più pericolosa trappola della mente, o attraverso la coercizione di una verità che cala dall’alto, da una cattedra, da un pulpito, da un consiglio d’amministrazione. Perché la libertà della lingua, anche quella più scomoda, è l’arma più forte di chi è meno forte. Paradosso dei nostri tempi è il fatto che sono i più deboli, a volte, a rifiutarla e a disconoscerne la potenza.

Se il discorso pubblico diventa in Italia così arduo, così improduttivo, sarà sempre più difficile trovare soluzioni concrete, rapide, realizzabili ai nostri problemi, perché la confusione delle lingue, la censura delle idee e la delegittimazione delle persone non ci consentirà di distinguere la realtà dalla sua brutta rappresentazione. Diceva un grande intellettuale europeo, il filosofo e musicologo Vladimir Jankélévitch: «Le cose rispettabili sono relative e contraddittorie, ma non lo è il fatto di rispettarle».

La Stampa 13.05.12

"Un modo per superare la crisi? Battere l’evasione fiscale", di Vincenzo Visco

Attenuatasi (per ora) la tempesta sui mercati, può essere utile cominciare di nuovo a discutere di problemi rilevanti per il nostro Paese. Nei giorni passati il sito di Repubblica ha reso pubblici i risultati di un sondaggio tra i lettori, al quale sembrano aver partecipato oltre 600.000 persone, che dovevano indicare le priorità politico programmatiche del Pd. Come era facile attendersi al primo posto si è collocato il tema “lavoro”, ma un numero di voti quasi eguale è andato alla “lotta all’evasione fiscale”, tema notoriamente ostico e fonte di dubbi, contraddizioni, polemiche, incertezze e imbarazzo in sede politica. La constatazione che la questione stia particolarmente a cuore agli elettori del centrosinistra, per quanto ovvia per molti, è comunque utile ai fini di una riflessione sia politica che strategica. Non è infatti casuale che negli stessi giorni il tema della legalità fiscale fosse all’ordine del giorno anche nel dibattito internazionale a proposito della crisi greca, Paese in cui il fenomeno è particolarmente diffuso, come confermano numerosi studi fra cui uno recente del Professor Shineider, uno dei massimi esperti del settore che, tra i Paesi Ocse, pone la Grecia al primo posto come entità dell’economia sommersa con oltre il 28% del Pil, seguita dall’Italia con il 26% (!). L’Italia non è la Grecia, si dirà, ed è vero: a differenza della Grecia, il nostro è un grande Paese industriale. Tuttavia i livelli di illegalità e corruzione nei due Paesi risultano molto simili (in verità la Grecia ha il vantaggio di non avere la malavita organizzata). In ogni caso nella crisi greca si è visto come sul piano sociale la sensazione di ingiustizia provocata dal comportamento egoistico e asociale di settori rilevanti (e privilegiati) della popolazione e delle classi dirigenti, possa provocare ribellione e rivolta, se si tratta di fare sacrifici che vengono considerati (e sono) a senso unico. Auguriamoci che l’Italia non debba mai
affrontare una crisi come quella greca; ma in caso di difficoltà sarebbe bene non avere un Paese socialmente diviso, e disporre di una strategia che possa unificare l’opinione pubblica. Anche in Italia il tema dell’evasione fiscale sta riemergendo carsicamente nel dibattito e nell’attività politica. Pochi hanno notato che il governo, dopo aver abolito e demonizzato tutte le misure antievasione introdotte dal governo Prodi, ne sta gradualmente e surrettiziamente recuperando alcune, come i limiti alle compensazioni automatiche debiti/crediti di imposta, che, secondo la Banca d’Italia, hanno contribuito a migliorare il fabbisogno nei primi mesi dell’anno o – udite, udite – l’elenco clienti-fornitori, previsto, sia pure per singoli settori discrezionalmente decisi dall’amministrazione (con seri rischi di scelte arbitrarie), nell’articolo 1 del DL 40, 2010. Del resto dopo la vicenda delle frodi carosello che hanno visto coinvolte Fastweb e Telecom, era difficile rinunciare al più semplice ed efficace strumento di controllo e continuare a far finta di niente. L’evasione fiscale in Italia è enorme: per i redditi non da lavoro dipendente e pensione essa può superare il 40-50%. Si tratta di almeno 100 miliardi di gettito evaso. Se si vedono i risultati (in verità notevoli) realizzati dai governi di centrosinistra nei periodi 1996-2000 e 2006-2007, si può ritenere che recuperare (almeno) una metà di quella cifra sia un obiettivo realistico, che ci porterebbe più vicini ai livelli prevalenti negli altri Paesi, a condizione che quanto fatto da un governo non venga disfatto subito dopo. La necessità di agire rapidamente e con determinazione è evidente soprattutto perché il nostro Paese dovrà affrontare prove difficili per risanare la finanza pubblica, rientrare dal debito e rilanciare l’economia. È inutile nascondere la testa sotto la sabbia. Ed è inutile illudersi di ottenere consenso facendo finta di non vedere, salvo indignarsi ritualmente una volta l’anno in occasione delle pubblicazione delle dichiarazioni dei redditi! È necessario quindi affrontare questo problema in maniera esplicita e radicale. In estrema sintesi, si tratta di cercare di creare per tutti i redditi una situazione di tracciabilità e di trasparenza analoga a quella che esiste oggi per i soli redditi di lavoro dipendente ed alcuni redditi di lavoro autonomo; il sistema dei
sostituti di imposta che si applica solo per questi redditi non è altro che un elenco fornitori che viene trasmesso dai datori di lavoro al fisco. L’uso diffuso di sistemi informatici rende l’operazione non solo possibile, ma anche poco costosa. E in verità non si capisce perché ciò che appare normale per alcuni contribuenti non debba esserlo per altri. Questa era la linea seguita da governo Prodi della passata legislatura; essa va ripresa. Del resto un recupero di gettito evaso rappresenta l’unica possibilità non solo per aiutare gli equilibri di bilancio, ma anche per riuscire ad attenuare gli elementi di eccessiva pressione e anche vessazione presenti oggi nel sistema fiscale italiano e nelle modalità di intervento della Agenzia delle entrate. Si è sostenuto che questi interventi sarebbero intrusivi e vessatori. Niente di più infondato. A meno che non ci si illuda di poter combattere e ridurre l’evasione col consenso degli evasori. In materia fiscale l’opinione pubblica, la gente, la nostra gente, sente il bisogno, e richiede, equità, giustizia e soprattutto onestà. E si aspetta dai suoi rappresentanti comportamenti conseguenti e coerenti

l’Unità 12.05.12

"Ecco un lavoro per ABC: urgente riformare l’agenzia", di Francesco Lo Sardo

Sistema sanzionatorio, calcolo degli interessi, l’aggio per l’agenzia, la rateizzazione. I toni possono apparire diversi, la sostanza è la stessa: con Equitalia, così, non si può andare avanti, si deve correggere la rotta. «Lo dobbiamo fare tenendo ferma la barra della lotta senza quartiere all’evasione fiscale. Lo dovremmo fare non come un cedimento, anche se non ci fossero i suicidi, l’esasperazione, la rivolta, le inaccettabili forme di violenza, dalle bombe alle botte: lo dobbiamo fare perché anche questo può far da volano all’economia», ragiona Pier Paolo Baretta, capogruppo Pd in commissione bilancio a Montecitorio. Concorda Maurizio Leo, del Pdl, ex direttore generale per gli affari giuridici e il contenzioso tributario dell dipartimento delle entrate al tesoro: Equitalia svolge una funzione essenziale «ma non è mica Garibaldi » e si potrà pur criticarne i metodi e suggerire interventi precisi, chirurgici, per girare pagina. I terzopolisti, poi, alzano ancora di più la posta: oltre ai correttivi sul piano tecnico-operativo, sollevano la questione del doppio incarico di Attilio Befera direttore generale dell’Agenzia delle entrate (ente proprietario al 51 per cento e controllore) e presidente di Equitalia (ente controllato), della «mancanza di un tetto ai dipendenti e ai consulenti, di un ente che non fa concorsi e assume in base a regole non chiare». Poi, certo, c’è l’opposizione – Idv e Lega – che cavalca la protesta di cittadini e imprenditori, soffia sul fuoco e usa toni ancor più accesi. Ma questa è un’altra storia. Quel che conta è invece che i partiti che sostengono la maggioranza hanno posto fin da dicembre la “questione Equitalia”: già nel decreto salva-Italia Pd e Pdl hanno imposto il taglio dell’aggio del 9 per cento (che va nelle casse di Equitalia) che si aggiunge a sanzioni (una forbice dal 100 al 200 per cento sugli importi dovuti) e agli intessi sui crediti da riscuotere. Ma anche solo per veder cancellato l’aggio, si dovrebbe attendere una sorta di spending review interna di Equitalia sui suoi costi, spese e ricavi a fine 2012. Invece occorre intervenire subito, dicono Pd, Pdl e Terzo polo. Il governo? «Non pervenuto », sospira Leo. «Questa ormai è materia per ABC…». E dire che in senato, a gennaio, l’esecutivo aveva dato parere favorevole al pacchetto di mozioni (Pd, Pdl, Terzo polo, Idv) sul sistema di riscossione crediti di Equitalia. Aumentare la rateizzazione, accelerare la cancellazione dell’aggio, ridurre ai casi più gravi l’ambito dei pignoramenti… I punti su cui intervenire sono molti, fino a «smontare il patto di stabilità per i comuni virtuosi, per permetter loro di pagare i debiti arretrati con i creditori. Fossero anche solo dieci miliardi, sarebbe ossigeno per l’economia. I ricavi di Equitalia, poi, si mettano tutti in un fondo per ridurre le tasse su lavoro e imprese», è la ricetta di Baretta. Se Monti esita, allora questo è davvero «un lavoro per ABC». Di chi altri, se no?

da Europa Quotidiano 12.05.12

*****

“Cresce la rivolta contro Equitalia. E il governo studia una via d’uscita”, di Gianni Del Vecchio

Giovedì Monti incontrerà Befera. L’esecutivo sblocca i crediti delle imprese verso lo stato. «Potevamo colpire alla ricerca del “consenso” lì dove il dente duole, per esempio qualche funzionario di Equitalia, ma con questa azione non siamo alla ricerca del “consenso”. Quella che adesso cerchiamo è complicità». È uno dei passaggi che si leggono nel documento della Federazione anarchica informale arrivato ieri mattina al Corriere della Sera in rivendicazione dell’attentato al manager di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi. Poche parole che contengono un messaggio agghiacciante: oggi come oggi ai terroristi non importa mettere nel mirino chi lavora per il Fisco, perché il tema è fin troppo popolare, e quegli anarchici che recentemente lo hanno fatto (a dicembre scorso il direttore generale della filiale romana, Marco Cuccagna, rimase ferito a una mano e agli occhi per l’esplosione di un pacco bomba a firma Fai) sbagliano alla grande. «Non consideriamo un referente i cittadini indignati per qualche malfunzionamento di un sistema di cui vogliono continuare a essere parte – precisano –. Scambiare rabbia e indignazione per un processo di rivolta allo status quo è segno di miopia rivoluzionaria».
Un ragionamento, questo, che ha una sua perversa logica: non conviene attaccare Equitalia perché a farlo ci pensano già i cittadini “normali, quelli pro-sistema. E i fatti, purtroppo danno loro ragione. Solo nella giornata di ieri sono accaduti tre gravi episodi ai danni degli agenti che si occupano di riscossione. A Napoli circa duecento persone hanno lanciato uova, vernice, sanpietrini, petardi, bottiglie e sacchetti della spazzatura all’indirizzo delle forze dell’ordine poste dinanzi alla sede di Equitalia. A Roma è arrivato un pacco bomba alla direzione generale, fortunatamente incapace di esplodere, pieno di polvere pirica ma senza innesco. A Melegnano, infine, nel milanese, due funzionari di 45 e 50 anni sono stati aggrediti da un imprenditore edile mentre conducevano una verifica fiscale.
Tre fatti che rappresentano plasticamente l’insofferenza del paese verso le ganasce di Equitalia, non a caso successi nelle tre aree geografiche, dal Nord al Sud, passando per il Centro. La rivolta fiscale infatti è ormai un’onda crescente difficile da fermare. Come ammesso dallo stesso capo di Agenzia delle entrate ed Equitalia, Attilio Befera, dal luglio scorso fino a oggi si sono verificati ben 270 atti di intimidazione. La gamma è quanto mai variegata: lettere con polveri strane, pacchi bomba pronti a esplodere o solamente dimostrativi, buste con proiettili, allarmi bomba, petardi e assalti agli uffici. Per non parlare dei suicidi, riusciti o tentati, da parte di imprenditori e commercianti, o gesti eclatanti come la presa in ostaggio di un funzionario dell’Agenzia delle entrate di Romano di Lombardia, nel bergamasco.
Insomma, un clima davvero infame, che sta facendo preoccupare, e non poco, Befera in persona. Giovedì lo ha detto chiaramente durante un convegno: «Noi applichiamo le leggi. Quindi sia il parlamento a modificare le regole in materia di fisco e riscossione». Se alla camera e al senato tutte le forze politiche, seppur con sfumature diverse di fatto sono d’accordo, la notizia di ieri è che Mario Monti si è reso conto della necessità di una via d’uscita. Il premier ha fatto sapere che giovedì prossimo incontrerà i vertici delle due agenzie, ed è presumibile che in quella sede presenterà delle misure per alleviare la morsa fiscale. Sicuramente arriverà con i tre decreti ministeriali approvati dal viceministro all’economia Grilli e dal ministro allo sviluppo Passera che sbloccheranno i crediti delle imprese verso la pubblica amministrazione. Una boccata d’ossigeno fortemente voluta da quest’ultimo, pur sempre nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica, per venire incontro soprattutto alle piccole e medie imprese. Del resto, in una giunta di Confartigianato a porte chiuse di qualche settimana fa, Passera disse chiaramente: «Su questa questione ci metto la faccia».

da Europa Quotidiano 12.05.12

"Addio al ticket sanitario. Arriva la franchigia", di Paolo Russo

In soffitta i vecchi ticket e basta assistiti con redditi da urlo ma esenti solo perché affetti da una patologia cronica. Via libera invece al nuovo sistema di pagamento «a franchigia» all’insegna della formula «pagare meno ma pagare tutti». Ad annunciare la rivoluzione dei ticket questa volta non sono le elaborazioni dei tecnici ma il Ministro della Salute in persona. «Stiamo pensando a una forma di franchigia che avrebbe tanti vantaggi e lavorando per ridurre gli svantaggi, presto formalizzeremo una proposta compiuta», annuncia Renato Balduzzi da microfoni di Radio Anch’ io, facendo capire alle Regioni che il Governo è pronto a giocare la carta delle nuove franchigie già nel 2013, anticipando così di un anno l’incasso dei 2 miliardi attesi per il 2014 dall’aumento dei ticket. Il sistema della franchigia, ha sottolineato il Ministro, «risolverebbe il problema delle esenzioni non legate al reddito» e risponderebbe ai criteri di «trasparenza, equità e tendenziale omogeneità». Idee già messe nero su bianco dall’Agenas, l’Agenzia dei servizi sanitari regionali del ministero, che ha elaborato la proposta partendo dal constatazione che oggi quasi un italiano su due è esente dai ticket. Così chi paga e ha bisogno di sanità oggi sborsa trai 500 e i mille euro l’anno. Troppo per poter pensare a ticket ancora più pesanti. Ecco allora le franchigie legate al reddito Isee di un importo pari al tre per mille del reddito. Quota che potrebbe aumentare per incamerare 2 miliardi in più. Al 3 per mille un pensionato con soli 10 mila euro pagherebbe i primi 30 euro di spesa sanitaria poi più nulla. Un lavoratore con 40 mila euro pagherebbe una franchigia di 120 euro, un professionista con 100 mila euro di reddito pagherebbe fino a 300 euro. Il sistema funzionerebbe scalando l’importo a carico dell’ assistito dalla tessera sanitaria. I correttivi ai quali stanno lavorando gli uomini del Ministro sono quelli di modulare il reddito in base al numero dei componenti della famiglia e alla presenza di anziani e disabili, mentre si ipotizza di scalare dalla quota a carico dell’assistito anche parte delle spese sostenute privatamente. Questo per evitare la fuga degli assistiti con redditi più alti proprio verso la sanità privata, lasciando invariati i costi di quella pubblica.

Sui nuovi ticket per ora le Regioni fanno orecchie da mercante ma intanto guardano con sospetto la decisione dell’Economia di bloccare il riparto dei 108 miliardi di fondo sanitario nazionale. Il timore è che la scure di Bondi sulla spesa per beni e servizi porti da subito a un taglio di 2 miliardi. Del resto lo stesso Balduzzi ha annunciato che «già nelle prossime settimane si potrà disporre di una codificazione dei prezzi medi di riferimento per migliaia di tipologie di acquisto». «E chi se ne discosterà – ha aggiunto – pagherà dazio».

In attesa di nuove sforbiciate il Governo ha intanto approvato un disegno di legge che consentirà ai titolari di farmacia di mantenere la direzione dell’ esercizio anche dopo i 65 anni di età, senza essere costretti ad attribuirla a un altro professionista, come previsto dal decreto sulle liberalizzazioni. Colpo di spugna anche al limite dei 40 anni di età per partecipare ai concorsi per ottenere una farmacia.

Nel frattempo il Tar di Reggio Calabria dichiara «irragionevole» il divieto di vendita di buona parte dei farmaci a pagamento nelle parafarmacie e chiama la Corte Costituzionale ad esprimersi. Decisione accolta con favore da Presidente della federazione delle Parafarmacie, Giuseppe Scioscia che però denuncia: «gli sconti sui medicinali previsti dal decreto restano una chimera in quasi tutte le farmacie».

La Stampa 12.05.12

"Se l´esattore diventa il nemico", di Francesco Merlo

Il sussulto più inquietante e significativo è quello degli operai di Termini Imerese che, rimasti senza lavoro, non hanno occupato la Prefettura o la Regione, cioè i tradizionali simboli dello Stato in periferia, ma gli uffici delle tasse, cioè «il fortilizio dello Stato reale» come sta scritto in un loro volantino. E se non c´è ancora l´assalto ai forni o l´incendio dei municipi, sono almeno 270 i ‘fuochi´ di rivolta contro Equitalia. E Dio ci liberi dai presuntuosi dell´ingegneria sociale che, epigoni di Procuste, vi vedono solo evasori da reprimere. Ma Dio ci salvi anche dai catastrofisti che confondono lo sbracamento e il collasso con gli orgasmi rivoluzionari di Tony Negri e con il “travaglio” populista di Beppe Grillo.
Una pulsione arcaica incendia l´Italia e diventa moderna. Nel gennaio scorso gli hacker rivoluzionari hanno bloccato il sito di Equitalia per 24 ore e lo scorso anno più di ventimila pastori sardi sono sfilati in corteo a Cagliari con lo slogan: «Chiudiamo Equitalia». Pastori e hacker sono a prima vista mondi incompatibili, i nomadi dell´Italia sottosopra, i randagi della civiltà itinerante dei boschi alleati con gli errabondi della Rete: è il futuro antico teorizzato da Attali.
Nel mezzo c´è la protesta introversa dei suicidi insolventi – tre al giorno – e quella estroversa dei sindaci che, soprattutto nel Nord, vogliono disdire i contratti con le agenzie delle entrate ed esigere direttamente le imposte con i propri uffici comunali.
Ma c´è pure il terrorismo classico, e infatti l´ennesimo pacco bomba, polvere pirica senza innesco, è arrivato ieri mattina alla direzione generale di Equitalia a Roma.
Da più di due anni, bombe a basso potenziale esplodono davanti alle sue sedi in tutto il Paese, a Napoli e a Olbia, a Foggia e a Modena… L´episodio più grave è ancora il pacco bomba che a Roma ferì al volto e a una mano Marco Cuccagna, direttore generale. Gli attentati sono quasi tutti rivendicati dalla “Federazione anarchica informale”. E il nome Equitalia è apparso ieri anche nella rivendicazione dell´agguato ad Adinolfi, amministratore dell´Ansaldo nucleare. Equitalia è nella loro prosa quel che l´imperialismo delle multinazionali era nella prosa dei brigatisti, una banalità come scorciatoia del pensiero.
La povertà di linguaggio di nuovo diventa piombo e nitroglicerina, e infatti “La ballata degli usurai di Stato” è un inno alla guerra di classe cantato nei “flash mob” organizzati dai “digitali creativi”, vecchi comizi con parole nuove, l´eversione in inglese pop d´avanguardia: «Non sono suicidi, sono assassini/ Banchieri: sfruttatori e strozzini/ Draghi Befera e Monti / con noi indignados farete i conti».
Come sempre accade nelle rivolte, cambia la maniera di esprimere la rabbia ma l´antagonista è sempre lo stesso: il fisco. E infatti non c´erano Marx e i Tupamaros ma Charles Bronson e Al Pacino nella testa di quel Martinelli che nel Bergamasco con un fucile a pompa e due pistole prese in ostaggio 15 persone, sparando in aria verso il soffitto come Tex Willer. Film americani e fumetti sono il paesaggio di una guerriglia privata. In casa di Martinelli, ora difeso dalla Lega, trovarono un vero arsenale, simile a quello di De Niro in Taxi Driver.
Eppure Equitalia ha corretto il passo dell´oca dei primi tempi, la tolleranza zero è stata abbandonata, si moltiplicano gli sportelli di consulenza, da ieri a Modena è in funzione il telefono amico per imprenditori in crisi, ed è stata introdotta la rateizzazione. Ma i metodi brutali, gli espropri, i pignoramenti e le ganasce fiscali hanno innescato malumori che ormai si diffondono come metastasi. Il centralino nazionale dell´associazione dei consumatori è preso d´assalto 24 ore al giorno. Don Ferdinando Mazzoleni, parroco di Villasanta in Brianza, ha lanciato un appello: «Non pagate le tasse». E a Vico Equense, il paese dell´imprenditore che si è ammazzato nel parcheggio del santuario di Pompei, il parroco e il sindaco guidano la rivolta che conquista le sacrestie, le pie donne, i vecchi sacerdoti.
C´è un´affinità con il brigantaggio più che con il Far West. La solidarietà con il bandito non è solo compassione per i suicidi. C´è anche l´avidità, il sentimento di fare bottino, l´idea dello Stato ladro come lapsus rivelatore di un´Italia impoverita ma pur sempre truffaldina. Cosi è sbucata fuori la Lega nelle valli del nord, contro le bolle d´accompagnamento e le verifiche fiscali, con i roghi dei libri contabili e dei blocchetti di fatture, parodia della rivolta americana contro le tasse inglesi, rozza imitazione della nascita degli Stati Uniti.
E sono infatti un brivido i risultati della ricerca delle associazioni studentesche anticamorra diffusi ieri. Il 70 per cento degli studenti di Napoli, Casalnuovo e Giugliano considera l´esattore di Equitalia «più pericoloso» del capoclan. Siamo in zone miste e dunque non sarebbe giusto parlare di questi ragazzi come degli studenti di Gomorra, ma la loro idea che la violenza mafiosa è selettiva e mirata mentre quella dello Stato è generalizzata, la loro convinzione che da un mafioso puoi avere scampo mentre dal fisco non puoi salvarti, echeggia e riproduce l´invettiva palermitana di Grillo contro lo Stato che strangola mentre la mafia si limiterebbe a taglieggiare. E non si capisce se è Grillo che li ha anticipati o se sono loro che lo hanno copiato.
Certo, se anche gli studenti si mettono sul terreno della jacquerie siamo davvero a un passo sia dall´assalto ai forni sia dalla caccia alle streghe. E infatti ieri alle porte di Milano, nel centro della ricca Melegnano, due ispettori fiscali sono stati presi a calci e a pugni, dentro l´ufficio di un commercialista, da un imprenditore tartassato e moroso. E qui il paesaggio non è plebeo, qui la sociologia non è camorrista ma siamo, al contrario, nel cuore italiano dell´Europa tedesca.
E c´è una voglia di impadronirsi di Equitalia nella pretesa di imporre agli uffici di Napoli la chiusura per lutto in solidarietà verso i suicidi. Alcuni mesi fa a Milano un trentina di giovani appartenenti al movimento “Corsari” e alla “Rete San Precario” fecero irruzione nella sede di Equitalia lanciando fumogeni e insultando dipendenti e funzionari: «Basta con lo strozzinaggio pubblico e con i profitti cumulati sulle spalle dei cittadini». Analoghi assalti si sono ripetuti a Torino e in altre città. E in un´azienda agricola di Lonigo (Vicenza) un esattore è stato sequestrato e malmenato.
Sono i fotogrammi di un film sull´idea che l´Italia ha della politica fiscale. L´agenzia di Napoli, che non ha accettato l´imposizione del lutto risarcitorio, ieri mattina è stata assaltata come una piccola Bastiglia, come la casamatta della linea gotica della Merkel: botte, sassi, cassonetti in fiamme, feriti. Giustamente Befera ha paura che in questa rivolta ci finisca tutto: ciascuno oramai vi porta dentro i conti che deve regolare con il mondo, e la pancia dell´Italia può diventare la nuova risorsa dei populismi di destra e di sinistra in corto circuito: penzolano gli impiccati di Storace.
Dopo quasi quattro secoli ritorna l´archetipo manzoniano degli untori. E gli esattori di Equitalia diventano i diffusori delle tasse e della povertà, della peste: «Pigliatelo, pigliatelo; che dev´essere uno di que´ birboni che vanno in giro a unger le porte de´ galantuomini… l´untore, dagli! dagli! Dagli all´untore! ».

La Repubblica 12.05.12

"Niente alibi, vanno presi sul serio", di Cesare Martinetti

Il volantino del «nucleo Olga» con il quale la federazione anarchica informale ha rivendicato il ferimento dell’ingegnere dell’Ansaldo Roberto Adinolfi è insieme un documento vecchio e nuovo. Vecchio non solo per la citazione di Michael Bakunin (che essendo russo si chiamava in realtà Michail) ma per una generale rievocazione del format dei volantini degli anni di piombo. Nuovo perché puro prodotto dal mondo di oggi, deserto di politica e di ideologie, senza nessuna speranza o progetto di un mondo regolato da un ordine nuovo, ma genericamente rivolto al «sogno» anarchico, di una società senza stati e senza gerarchie.

La frase chiave ci sembra questa: «…non siamo alla ricerca del consenso. Quella che adesso cerchiamo è complicità». Annunciando nuovi attentati, i criminali del «nucleo Olga» con queste parole vogliono dire che non sono interessati ad azioni dimostrative banalmente rivolte a «cittadini indignati per qualche malfunzionamento di un sistema di cui vogliono continuare ad essere parte». A loro non interessa un «democratico dissenso», né la «generosità che si trasforma in assistenzialismo».

Loro vogliono «colpire dove più nuoce, l’insurrezionalismo di facciata» non fa altro che legittimare il potere. Di qui la scelta di impugnare «una stupida pistola», il salto di qualità che il capo della Polizia Manganelli aveva annunciato qualche mese fa senza enfasi e senza ottenere evidentemente l’attenzione dovuta. Gli anarchici sono passati all’azione: basta con la poesia alienante, dalle armi della critica sono passati alla critica delle armi.

Il documento intitolato a Olga che è in realtà Olga Ikonomidou, una degli anarchici arrestati nei giorni scorsi in Grecia, ha una lunga parte chiaramente rivolta al movimento, italiano e internazionale, a gruppi e gruppuscoli informali aderenti al Fai/Fri, la federazione internazionale anarchica. Ha dunque un importante aspetto interno che ci interessa relativamente.

Decisivo ci sembra invece ragionare su quell’appello alla «complicità» chiaramente rivolto a quelle parti di società impegnate e sensibili, all’area grigia, indistinta dove la scomparsa della mediazione politica più tradizionale ha diffuso il verbo dell’antagonismo rendendo labili i confini della legalità. Roberto Adinolfi è stato colpito in quanto «stregone dell’atomo dall’anima candida» – scrivono gli anarchici di «Olga» -, tecnico della scienza pulita, agente di quel capitalismo che uccide con l’aiuto della scienza e della tecnologia, un «solo unico moloch».

Ansaldo nucleare, tentacolo Finmeccanica, mostruosa «piovra artificiale», Avio, Alenia, Galileo, Selex, i caccia bombardieri F35, i «terribili droni, aerei senza piloti», treni ad alta velocità che devastano il territorio, centrali nucleari come Fukushima, bio e nano tecnologie: di tutto questo si compone l’incubo di un mondo mostruoso e allucinato contro cui si leva la nuova anarchia. I suoi ragazzi a Genova «con una certa gradevolezza» – scrivono – hanno armato le loro mani e sparato contro l’ingegner Adinolfi, per restituire «una piccolissima parte delle sofferenze che tu – il documento in questo punto si rivolge direttamente alla vittima – uomo di scienza stai riversando sul mondo».

Non commetteremo l’errore di definire «deliri» – come accadde all’apparizione dei primi documenti Br negli Anni Settanta – i contenuti di questo volantino. Sono qualcosa da prendere molto sul serio: sono un progetto politico e criminale. Sappiamo come andò a finire allora. Questa volta potrebbe essere peggio perché non c’è un partito armato strutturato e dotato di una cultura politica – criminale e sanguinaria fin che si vuole – che però a un certo punto prende atto della sconfitta. Nel contesto di oggi c’è una rabbia sociale diffusa e caotica sulla quale giocano aspiranti rivoluzionari che – nel documento diffuso ieri – si dicono pronti alla galera e al martirio.

Tutto questo richiama il governo e le forze politiche ad una responsabilità massima e senza debolezze. Ma richiama anche tutti quelli che si muovono nel sociale e nei movimenti a sapere che dopo i colpi di pistola di Genova niente è più come prima: manifestare è giusto e legittimo, dare alibi e copertura a chi ha preso in mano le armi è criminale. Le Br cercavano il consenso e sono state sconfitte perché non lo hanno avuto; questi qui vogliono dei complici. Attenzione.

La Stampa 12.05.12

"La nuova stagione dei diritti", di Stefano Rodotà

Il fronte dei diritti si è appena rimesso in movimento. Obama ha affrontato senza reticenze il tema difficile dei matrimoni omosessuali, e lo stesso ha fatto François Hollande inserendolo nel suo programma e mettendo all´ordine del giorno quello ancor più impegnativo del fine vita. Di questa rinnovata centralità dei diritti dobbiamo tenere conto anche in Italia.
In che modo, però, e con quali contenuti? Qualche esempio. La recente sentenza della Corte di Cassazione sui matrimoni gay è un dono dell´Europa. Così come lo è l´avvio dell´estensione alla Chiesa dell´obbligo di pagare l´imposta sugli immobili. Così come può diventarlo l´utilizzazione degli articoli 10 e 11 del Trattato di Lisbona.
Mi spiego. La Cassazione ha potuto legittimamente mettere in evidenza il venir meno della “rilevanza giuridica” della diversità di sesso nel matrimonio, e il conseguente diritto delle coppie dello stesso sesso ad una “vita familiare”, proprio perché queste sono le indicazioni della Corte europea dei diritti dell´uomo e soprattutto dell´innovativo articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. Sappiamo, poi, che la norma sul pagamento dell´Ici da parte della Chiesa è andata in porto solo perché erano ormai imminenti sanzioni da parte della Commissione europea. E la discussione sui rapporti tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, tornata con prepotenza in Italia anche per effetto degli ultimi risultati elettorali, trova nel Trattato chiarimenti importanti, a cominciare dal nuovo potere che almeno un milione di cittadini può esercitare chiedendo alla Commissione di intervenire in determinate materie. Lo ha appena fatto il Sindacato europeo dei servizi pubblici che si accinge a raccogliere le firme perché l´Unione europea metta a punto norme che riconoscano come diritto fondamentale quello di accesso all´acqua potabile.
Scopriamo così un´altra Europa, assai diversa dalla prepotente Europa economica e dall´evanescente Europa politica. È quella dei diritti, troppo spesso negletta e ricacciata nell´ombra. Un´Europa fastidiosa per chi vuole ridurre tutto alla dimensione del mercato e che, invece, dovrebbe essere valorizzata in questo momento di rigurgiti antieuropeisti, mostrando ai cittadini come proprio sul terreno dei diritti l´Unione europea offra loro un “valore aggiunto”, dunque un volto assai diverso da quello, sgradito, che la identifica con la continua imposizione di sacrifici.
Questa è, o dovrebbe essere, una via obbligata. Dal 2010, infatti, la Carta ha lo stesso valore giuridico dei trattati, ed è quindi vincolante per gli Stati membri. Bisogna ricordare perché si volle questa Carta. Il Consiglio europeo di Colonia, nel giugno del 1999, lo disse chiaramente: «La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell´Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità. Allo stato attuale dello sviluppo dell´Unione, è necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l´importanza capitale e la portata per i cittadini dell´Unione». Sono parole impegnative. All´integrazione economica e monetaria si affiancava, come passaggio ineludibile, l´integrazione attraverso i diritti. Fino a che questa non fosse stata pienamente realizzata, al già mille volte rilevato deficit di democrazia dell´Unione europea si sarebbe accompagnato addirittura un deficit di legittimità. Si avvertiva così che la costruzione europea non avrebbe potuto trovare né nuovo slancio, né compimento, né avrebbe potuto far nascere un suo “popolo” fino a quando l´Europa dei diritti non avesse colmato i molti vuoti aperti da quella dei mercati.
Negli ultimi tempi questo doppio deficit si è ulteriormente aggravato. L´approvazione del “fiscal compact”, con la forte crescita dei poteri della Commissione europea e della Corte di Giustizia, rende ancor più evidente il ruolo marginale dell´unica istituzione europea democraticamente legittimata – il Parlamento. Oggi si levano molte voci per trasformare la crisi in opportunità, riprendendo il tema della costruzione europea attraverso una revisione del Trattato di Lisbona. In questa nuova agenda costituzionale europea dovrebbe avere il primo posto proprio il rafforzamento del Parlamento, proiettato così in una dimensione dove potrebbe finalmente esercitare una funzione di controllo degli altri poteri e un ruolo significativo anche per il riconoscimento e la garanzia dei diritti.
Non è vero, infatti, che l´orizzonte europeo sia solo quello del mercato e della concorrenza. Lo dimostra proprio la struttura della Carta dei diritti. Nel Preambolo si afferma che l´Unione “pone la persona al centro della sua azione”. La Carta si apre affermando che “la dignità umana è inviolabile”. I principi fondativi, che danno il titolo ai suoi capitoli, sono quelli di dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia, considerati come “valori indivisibili”. Lo sviluppo, al quale la Carta si riferisce, è solo quello “sostenibile”, sì che da questo principio scaturisce un limite all´esercizio dello stesso diritto di proprietà. In particolare, la Carta, considerando “indivisibili” i diritti, rende illegittima ogni operazione riduttiva dei diritti sociali, che li subordini ad un esclusivo interesse superiore dell´economia. E oggi vale la pena di ricordare le norme dove si afferma che il lavoratore ha il diritto “alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato”, “a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose”, alla protezione “in caso di perdita del posto di lavoro”. Più in generale, e con parole assai significative, si sottolinea la necessità di “garantire un´esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti”. Un riferimento, questo, che apre la via all´istituzione di un reddito di cittadinanza, e ribadisce il legame stretto tra le diverse politiche e il pieno rispetto della dignità delle persone.
Tutte queste indicazioni sono “giuridicamente vincolanti”, ma sembrano scomparse dalla discussione pubblica. Si apre così una questione che non è tanto giuridica, quanto politica al più alto grado. Il riduzionismo economico non sta solo mettendo l´Unione europea contro diritti fondamentali delle persone, ma contro se stessa, contro i principi che dovrebbero fondarla e darle un futuro democratico, legittimato dall´adesione dei cittadini. Da qui dovrebbe muovere un nuovo cammino costituzionale. Se l´Europa deve essere “ridemocratizzata”, come sostiene Jurgen Habermas, non basta un ulteriore trasferimento di sovranità finalizzato alla realizzazione di un governo economico comune, perché un´Unione europea dimezzata, svuotata di diritti, inevitabilmente assumerebbe la forma di una “democrazia senza popolo”. Da qui dovrebbero ripartire la discussione pubblica, e una diversa elaborazione delle politiche europee.
Conosciamo le difficoltà. L´emergenza economica vuole chiudere ogni varco. Dalla Corte di Giustizia non sempre vengono segnali rassicuranti. Lo stesso Parlamento europeo ha mostrato inadeguatezze sul terreno dei diritti, come dimostrano le tardive e modeste reazioni alla deriva autoritaria dell´Ungheria. Ma l´esito delle elezioni francesi, e non solo, ci dice che un´altra stagione politica può aprirsi, nella quale proprio la lotta per i diritti torna ad essere fondamentale. Di essa oggi abbiamo massimamente bisogno, perché da qui passa l´azione dei cittadini, protagonisti indispensabili di un possibile tempo nuovo.

La Repubblica 12.05.12