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"Flc-Cgil: la scuola non sopporta più tagli. L’11 maggio presidio davanti al Miur", da La Tecnica della Scuola

Per chiedere all’amministrazione di attuare soluzioni che mettano l’istruzione “in condizione di riprendersi”. Invitate tutte le figure professionali, compresi dirigenti e Dsga. Ma anche studenti e famiglie. Il sindacato ammette che nel settore vi sono sprechi e disfunzioni, solo che tagliando indistintamente rimangono in vita. La scuola ha subìto tagli su tagli e ora non ne può più”. Con questo slogan, venerdì 11 maggio la Flc-Cgil ha dato appuntamento al personale della scuola, ma anche agli studente e alle famiglie davanti al ministero dell’Istruzione: a partire dalle 10,30, lungo viale Trastevere, il sindacato confederale promette che saranno presenti anche “dirigenti scolastici e direttori amministrativi che non ce la fanno più a far quadrare bilanci vuoti”.
Tutti insieme organizzeranno un presidio che, secondo gli organizzatori, servirà anche a chiedere a politici e amministratori del Miur di attuare delle soluzioni per mettere il comparto dell’istruzione “in condizione di riprendersi”.
Al presidio parteciperanno tutte le figure professionali della scuola: “gli assistenti amministrativi – si legge nel sito della Flc-Cgil – che non ne possono più di molestie burocratiche e carichi di lavoro ingestibili, gli assistenti tecnici che non ne possono più di laboratori obsoleti o inesistenti, i collaboratori scolastici che non ne possono più di dividersi tra pulizie, assistenza ai disabili, accoglienza, i docenti che non ne possono più di aule affollate, di collette per l’offerta formativa, di non sapere dove sarà la loro scuola”.
Uno dei provvedimenti più contestati sarà sicuramente l’applicazione della “Spending review”, che secondo alcune fonti potrebbe togliere alla scuola pubblica una cifra non lontana da un miliardo di euro complessivi.
Una manovra di questa portata in un altro periodo, soprattutto ad inizio anno scolastico, avrebbe probabilmente convinto la Flc-Cgil anche a far incrociare le braccia al personale. Solo che ad una manciata di settimane dalla fine dell’anno scolastico, i rischi di andare incontro ad uno “sciopericchio”. Con un risultato non troppo diverso da quello incamerato in questi giorni dai Cobas con gli scioperi organizzati per boicottare i test Invalsi: le adesioni alla protesta del sindacato di base non hanno superato un punto percentuale. Meglio allora accontentarsi di un presidio. Soprattutto se allargato a tutte le componenti scolastiche.
“Il Governo – ha denunciato Domenico Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil – sta per varare nuovi tagli sulla scuola. Questa volta l’affondo sarebbe sulle spese di funzionamento e delle segreterie che verrebbero gestite ‘a mezzo’ tra più istituti. Il risparmio annunciato sarebbe di circa un miliardo di euro. È una strada sbagliata. Nella scuola non c’è più niente da risparmiare”.
Il sindacato però ammette anche che nella scuola vi sarebbero effettivamente “sprechi e disfunzioni”. Ed anche delle soluzioni, da individuare, per “creare le condizioni per un migliore funzionamento. Per questo non c’è da tagliare, ma fare 10 semplici cose, subito e a costo quasi zero. La scuola vuole vivere e non sopravvivere. La scuola non è un costo, è un’opportunità – conclude il sindacato – per le persone e per il paese”.

La Tecnica della Scuola 11.05.12

"Salario base per i cocopro. Soldi se si perde il lavoro", di Giuseppe Vespo

E’ stato il giorno dei precari, dentro e fuori dal Parlamento, con la generazione mille euro (quando va bene) che si ritrova fuori dal Senato, la ministra Fornero che va in videochat a spiegare la sua idea di Lavoro e la «coppia di fatto », come si definiscono i relatori alla riforma della stessa ministra, Tiziano Treu (Pd) e Maurizio Castro (Pdl), che presenta gli emendamenti al disegno di Legge. È da queste proposte che vengono fuori le novità più importanti per chi lavora a termine. Si va dal salario base per i collaboratori a progetto all’una tantum per i parasubordinati che perdono il lavoro, che sarebbe una sorta di indennità di disoccupazione un po’ più corposa di quella prevista in questo momento. C’è qualche misura per contrastare l’abuso delle (finte) partite Iva, ma per contro si paga qualche dazio alla tanto richiesta flessibilità in entrata. In questo senso, il primo contratto di lavoro a tempo determinato potrà essere stipulato per un anno, e non più al massimo per sei mesi, e soprattutto non ci sarà bisogno di specificare i requisiti per i quali quel contratto viene proposto e stipulato. Si tratta degli stessi requisiti che, quando non venivano rispettati, potevano essere impugnati dal lavoratore davanti al giudice. Nuovi emendamenti – in aggiunta ai 43, tra quelli del governo e quelli dei relatori – potranno essere presentati fino ad oggi pomeriggio, mentre nelle intenzioni della Commissione il pacchetto dovrà essere consegnato al Parlamento giovedì. L’obiettivo è di rispettare i tempi richiesti dall’Europa e di licenziare la riforma, così come auspica la Fornero entro giugno. I presupposti sembrano esserci: i partiti di maggioranza appaiono soddisfatti del lavoro fatto finora. «Negli emendamenti – dice a questo proposito Anna Finocchiaro – sono raccolte molte delle proposte del Pd: la promozione della buona flessibilità a tutela dei co.co.pro e delle partite iva; l’estensione degli ammortizzatori sociali ai lavoratori precari; la previsione del salario base per lavoratori a progetto e partite Iva e di un’indennità una tantum più cospicua per chi, fra questi, perde il lavoro». Ma nella maggioranza c’è anche chi storce il naso, come l’ex ministro del Welfare Maurizio Sacconi, che annuncia: «Non parteciperò più ai lavori parlamentari » sul ddl Lavoro. Il motivo di tanto risentimento sembra risiedere nella scarsa incidenza della riforma, a giudizio del parlamentare Pdl, sull’articolo 18: la «riforma disegnata dal governo a seguito di un lungo confronto con le parti sociali – dice Sacconi – si è configurata inizialmente come una diffusa modifica della legge Biagi, che pure ha generato occupazione, anche se compensata da una modesta modifica dell’articolo 18». Soddisfatta la presidente uscente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che fino a qualche giorno fa criticava il testo del governo mentre oggi lo ritiene migliorato e addirittura utile.

SALARIO BASE PER ICO.CO.PRO Per i lavoratori a progetto, e più in generale per tutti i cosiddetti parasubordinati, viene inserito il principio della giusta retribuzione. Il salario minimo sarà calcolato sulla media tra le tariffe del lavoro autonomo e dei contratti collettivi di lavoro, e dovrà essere «adeguato alla quantità e qualità del lavoro eseguito». INDENNITÀDI DISOCCUPAZIONE L’attuale una tantum per i parasubordinati che perdono il lavoro verrà rafforzata. Si tratta di una misura sperimentale che durerà tre anni. I relatori Treu e Castro stimano che per un parasubordinato che ha lavorato almeno sei mesi, l’una tantum dovrebbe aggirarsi attorno ai sei mila euro e verrebbe erogata nell’anno successivo a quello lavorato.

VEREPARTITEIVA Per contrastare l’abuso delle (finte) partite Iva, saranno considerate «vere» quelle che nell’arco di un anno dichiereranno un reddito lordo di 18mila euro. Inoltre, le collaborazioni non dovranno durare più di otto mesi, il corrispettivo pagato non potrà essere superiore all’80 per cento di quello dei dipendenti, e il lavoratore non potrà avere una scrivania in azienda, mentre potrà usufruire del telefono aziendale. Negli studi professionali, nel commercio e nell’agricoltura, torneranno i voucher, ma saranno numerati e dovranno indicare data ed orario. Torna anche il famoso Job on Call, il lavoro a chiamata. Stavolta basterà inviare un sms alla direzione provinciale del lavoro per attivarlo. In caso di mancato avviso, però, i datori di lavoro rischiano da 400 a 2400 euro di multa. Il lavoro a chiamata sarà libero per gli under 25 e per gli over 55. CONTRATTIATEMPOPIÙLUNGHI La durata del primo contratto a tempo determinato, che può essere stipulato senza che siano specificati i requisiti per i quali viene richiesto (la causale), passa da sei mesi a un anno. Le pause obbligatorie fra uno e l’altro, per evitare che il rapporto diventi a tempo indeterminato, diminuiscono: da novanta a trenta giorni per i contratti fino a sei mesi e da sessanta a venti giorni per i contratti più lunghi. SINDACATI Diverse le posizioni dei sindacati. Alle proteste della Cgil si oppone il plauso del segretario della Cisl, Girgio Santini, per le misure «positive» previste in favore di co.co.co. e partite Iva. Mentre il segretario dell’Ugl, GiovanniCentrella, accoglie «con soddisfazione l’emendamento sulla compartecipazione dei lavoratori agli utili dell’azienda», che però dovrà essere definito dal governo con una legge

l’Unità 11.05.12

"Il dramma dei suicidi oltre le cifre" di Mario Calabresi

La nostra paura del futuro aumenta ogni giorno, c’è una continua perdita di fiducia e di speranza e l’attenzione degli italiani è calamitata dalle notizie di chi si toglie la vita, le più lette in assoluto nelle ultime settimane. Un lettore di Modena, rappresentativo delle centinaia di e-mail che arrivano qui al giornale da settimane, mi scrive angosciato che «suicidi per motivi economici, fallimenti di impresa e debiti anche fiscali, stanno aumentando di giorno in giorno in maniera preoccupante». Il presidente del Consiglio e il primo partito della sua maggioranza duellano sulle responsabilità della crisi e sulle sue conseguenze, evitando solo di pronunciare la parola suicidio, di gettarsi addosso l’accusa più grave e infamante.

Ma stiamo discutendo di un fenomeno davvero nuovo, che non conoscevamo prima, esploso soltanto negli ultimi tre mesi, o di qualcosa che per anni non abbiamo visto e abbiamo sottovalutato? I numeri sembrano dare ragione alla seconda ipotesi e ci dicono quanto la nostra percezione dei fatti possa cambiare influenzata dalle nostre ansie e dall’enfasi con cui le notizie vengono date sui mezzi di informazione.

Se guardiamo al 2010, l’anno più vicino su cui ci siano cifre ufficiali, scopriamo con spavento che ci sono stati 3048 suicidi, di cui, secondo l’Istat, 187 «per motivazioni economiche». Uno ogni due giorni, una frequenza apparentemente maggiore di quella che abbiamo registrato dall’inizio dell’anno (nel 2012 i casi di questo tipo sembrerebbero essere una quarantina). Secondo l’istituto di ricerche economiche e sociali, l’Eures, le morti dettate da ragioni di fallimenti, debiti e disoccupazione nel 2010 erano addirittura una al giorno. La prima cosa che mi colpisce è il silenzio che abbiamo dedicato a queste persone, li abbiamo lasciati andare via senza accorgercene, senza nemmeno saperlo, senza che nessuno si stringesse alle loro famiglie. Alcuni di loro forse hanno conquistato una notizia nelle pagine locali, per molti altri solo il silenzio della sepoltura.

Tutta colpa dell’informazione, che prima ha sottovalutato e adesso gonfia? Ma se i suicidi non sono aumentati, allora cosa sta succedendo? La risposta, come quelle che sono davvero credibili, non si può racchiudere in una parola ma ha più motivazioni.

La prima si può spiegare leggendo l’ultima notizia arrivata ieri: a Pompei un imprenditore edile si è sparato nel parcheggio del Santuario lasciando una lettera di scuse per la famiglia e una di accuse contro Equitalia.

Ecco che cosa è cambiato: prima il suicidio, che è innanzitutto un dramma personale e familiare si teneva nascosto, c’era la vergogna di pubblicizzarlo, il dolore era muto e il silenzio totale. Perfino i giornali hanno sempre mostrato pudore. C’era poi nella nostra tradizione e nella dottrina cattolica il problema dei funerali, che potevano essere negati a chi si toglie la vita.

Oggi, invece, chi sceglie questo gesto estremo e senza ritorno lasciando lettere di denuncia fa sentire la rabbia del proprio gesto, lo trasforma in un atto di accusa. E le famiglie non nascondono più ciò che è successo, alcune hanno preso il coraggio di parlare, di aprire le porte ai giornalisti, di fare perfino manifestazioni pubbliche. Lo fanno perché sentono che la società può comprendere e di certo non accuserà e non metterà all’indice e nessuno si sognerà di negare esequie in Chiesa.

Ma soprattutto tutti noi siamo più attenti e ricettivi perché la crisi tocca tutti, almeno a livello di ansie e insicurezze, oggi è il malessere diffuso a fare da amplificatore.

Non si può però nascondere il rischio insito in questa mediatizzazione, il pericolo di stimolare un effetto emulazione. Due giorni fa sul sito Internet del mensile Wired è apparsa un’analisi molto ben fatta, in cui il direttore del dipartimento di Neuroscienze dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano Claudio Mencacci, spiegava come «Studi epidemiologici internazionali dimostrano con certezza che le notizie dei suicidi da crisi economica, se presentate in modo sensazionalistico, inducono altri suicidi, innescando un pericoloso effetto domino».

Così se anche i numeri ci possono dimostrare che non siamo di fronte ad un fenomeno nuovo, è fondamentale e urgente trattarlo con cautela per non farlo esplodere ulteriormente. La prima responsabilità di chi fa informazione è di non far crescere una retorica che stimoli e giustifichi i gesti estremi.

Ma, come ha scritto su queste pagine Massimo Gramellini, è tempo che il governo e le forze politiche se ne facciano carico, agiscano per creare condizioni di speranza per il futuro, prospettive di crescita, e mettano in campo politiche nuove capaci di arginare il fenomeno. Perché se è vero che il numero dei suicidi non è aumentato è altrettanto vero che adesso sappiamo: conosciamo la disperazione, è sotto i nostri occhi ogni giorno e non possiamo più avere alibi o far finta di non vedere. Gli italiani hanno bisogno di un traguardo, di immaginare la luce in fondo al tunnel.

La soluzione non è certo quella di cercare colpevoli, soprattutto non nelle file di chi si limita a far rispettare le leggi che sono uguali per tutti e non accettano favoritismi, ma dovrebbe essere quella di cercare responsabili. A ogni livello: nel governo, nella politica, nell’amministrazione delle tasse e delle riscossioni, nelle banche, ma anche nei giornali, come nelle famiglie e in ogni comunità. Abbiamo bisogno di rigore ma anche di umanità e di capacità di comprendere e distinguere.

Tutto questo deve essere fatto non solo per chi è adulto e segnato dalla crisi, ma anche per le generazioni più giovani che stanno crescendo in un clima che nega alla radice la possibilità di costruire un Paese migliore.

Ogni volta che incontro un gruppo di ragazzi di una scuola o universitari che si affacciano al mondo del lavoro faccio sempre la stessa domanda: «Se vi dico la parola futuro cosa pensate?». Non ce n’è uno che mi dia una risposta positiva, incoraggiante o colorata. Le parole che sento ripetere sono: «Paura, incertezza, precarietà». I più intraprendenti mi dicono che se ne vogliono andare all’estero, che fuggiranno appena sarà possibile.

Questo gli è stato trasmesso dalla televisione, dalla scuola, dalle famiglie e questo pessimismo è diventato il loro cibo quotidiano. È chiaro che non ce lo possiamo permettere, non possiamo crescere una generazione nel messaggio che dal fondo di questo pozzo non si riemergerà mai.

La passione e la fiducia nella vita sono l’ingrediente fondamentale con cui si concima il futuro, non esistono altre soluzioni che ci possano salvare dalla disperazione.

La Stampa 11.05.12

"Il disagio della Fornero", di Chiara Saraceno

La ministra Fornero ammette che il governo ha sottovalutato le difficoltà delle persone e delle famiglie più vulnerabili, pensando che l´uscita dalla crisi sarebbe stata più rapida. E riconosce che la riforma delle pensioni, nella sua durezza e radicalità di attuazione, ha provocato non pochi disagi agli individui e famiglie coinvolte. In effetti, è l´unico caso a mia conoscenza in cui non c´è stato un periodo di transizione. E la questione degli esodati rimane largamente irrisolta. Quella della ministra è stata una ammissione onesta, anche se forse troppo tardiva, che la medicina che lei ed il governo di cui fa parte hanno creduto necessario somministrarci non è ugualmente amara per tutti e qualcuno rischia di non trarne alcun giovamento, al contrario. Il ministro Passera si è spinto molto più in là, tratteggiando una situazione a tinte fosche, dove la metà della popolazione sarebbe a forte rischio, con conseguenze per la tenuta della coesione sociale. Confesso un certo stupore e persino disagio. Se a fare questa valutazione fossero i sindacati o l´opposizione, si direbbe, anzi si è detto fino a ieri, che esagerano. Se poi a fare questa valutazione fosse qualcuno dei partiti che sostengono il governo si direbbe che ne mettono irresponsabilmente in gioco la tenuta in un periodo ancora difficile per la nostra economia e per la nostra credibilità internazionale. Da un ministro, tanto più “dello sviluppo” ci si aspetterebbe che non si limitasse ad una denuncia della gravità della situazione, ma indicasse anche strategie per superarla. E bisogna dire che di queste strategie si è visto ben poco, finora.
Di più, l´Europa, da riferimento severo ma giusto per tutte le misure prese fin qui, nelle dichiarazioni di Passera, ma anche, sia pure meno platealmente, in quelle di Monti, sembra rovesciarsi nel colpevole della situazione in cui ci troviamo. Si veda l´invettiva di Passera contro l´Europa che parla di sviluppo ma non fa nulla in questa direzione. Il giusto richiamo di Monti a Berlusconi sul fatto che l´inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione era stata una decisione presa dal governo da lui, Berlusconi, presieduto vale anche per il governo dei tecnici (oltre che per il Parlamento che lo ha votato). Ha accettato senza discussioni le imposizioni di Bruxelles e della cosiddetta troika, presentandole agli italiani come non solo necessarie, ma buone. Negoziare ora, ex post, la possibilità che le spese per investimenti stiano fuori dal patto di stabilità e presumibilmente non contino ai fini del pareggio di bilancio mi sembra una mossa opportuna, ma debole. Che cosa succederà se ci dicono di no?
Sono ben consapevole che questo governo si è trovato ad operare in una situazione difficilissima, di cui non ha responsabilità e che le soluzioni non sono dietro l´angolo. Ma quanto la incapacità di riconoscere da subito i pesanti e disuguali costi sopportati dai cittadini ha dato l´impressione di una distanza insieme culturale e sociale tra governo e la maggioranza dei cittadini, questo improvviso rovesciamento di atteggiamento (per altro solo verbale) dopo i risultati elettorali rischia di produrre più sconcerto che consenso, oltre ad aumentare l´ansia. Rischia di apparire un segnale di impotenza, se non un tentativo di captatio benevolentiae. Proprio perché la situazione è molto seria, abbiamo bisogno di un governo, di ministri, capaci di ascoltare senza arroganza, di modificare le proprie decisioni se necessario, ma anche di indicare soluzioni valutate per la loro fattibilità e costi. Dopo essersi troppo a lungo affidati alla popolarità che derivava al governo dalla percezione di scampato pericolo condivisa da molti cittadini, anche il governo e i singoli ministri devono fare i conti con la realtà complessa non solo dei conti pubblici e degli accordi internazionali, ma della vita e degli umori dei cittadini cui devono rendere conto. Tra arroganza e populismo più o meno sfiduciato ci sono alternative più costruttive. Richiedono forse un po´ più di umiltà e sobrietà intellettuale e civile.

La Repubblica 11.05.12

"Obama e i gay, idealismo e calcolo politico" di Gianni Riotta

Il sì ai matrimoni omosessuali è il primo atto storico di Barack Obama. In piena campagna elettorale per la Casa Bianca 2012, schiera il Partito democratico in quello che è oggi, con l’aborto, il più urticante scisma culturale tra progressisti e conservatori, 50% a favore, 48% contro. Il Presidente ha detto: «È per me importante affermare che le coppie omosessuali debbano potersi anche sposare», subito schermando la sua decisione dietro Marines gay al fronte; funzionari del suo staff «monogami e fedeli, con bambini» clandestini perché non eterosessuali; le figlie Malia e Sasha con compagne di scuola figlie di gay.

Obama ha cambiato parere da quando, in campagna per il Senato 2004, disse: «Per la mia fede religiosa credo che il matrimonio sia sacramento che lega un uomo a una donna». Nel saggio «L’audacia della speranza», 2006, farà un passo in avanti, nel suo stile cerebrale: «Non è impossibile che la mia scelta di non voler sostenere i matrimoni gay sia fuori rotta». Infine il sì netto.

Ci sono nella svolta di Obama una dose di idealismo e una di calcolo politico, come sempre per ogni presidente in carica. Nella corsa che lo opporrà al repubblicano Mitt Romney a novembre, Obama ha un deficit grave, aver fatto poco per il sogno di un’America più saggia e giusta. L’economia, con la peggiore crisi dal 1929, gli ha impedito le riforme, perfino la sanitaria è a rischio davanti alla Corte Suprema. Il mondo arabo ha gestito da sé le sue rivoluzioni, la pace in Medio Oriente non è più vicina che sotto G.W. Bush, in Iraq e Afghanistan si gestiscono ritirate strategiche e, come diceva Churchill, le ritirate non vincono la guerra.

Il sofferto consenso ai matrimoni gay sventola per la base liberal, i giovani che l’hanno sostenuto con passione, la bandiera dei diritti. Al tempo stesso però Obama delega ai singoli Stati di votare, o no, una legge sui matrimoni non etero. Nella storia americana il dilemma se un diritto debba essere affermato da Washington, a livello federale, o dagli Stati, è drammatico. La guerra civile 1861-1865, che ha fatto più morti di tutti gli altri conflitti Usa, s’è accesa proprio per lo scontro fra Stati sulla schiavitù: Lincoln era disposto a lasciarla in vigore nei vecchi Stati del Sud, ma la polemica sulla sorte degli schiavi fuggiti al Nord, e l’introduzione dell’odioso sistema nei nuovi Stati dell’Unione, risultarono impossibili da mediare. Solo a metà guerra, con il Proclama di Emancipazione, Lincoln fa del tema diritto civile universale.

Il calcolo politico di Obama è dunque sottile e non privo di rischi. Sa che i militanti democratici si galvanizzeranno, la comunità gay è ricca dei suoi più generosi finanziatori. Radicalizzando il voto, caricatura i repubblicani da parrucconi estremisti, capaci nelle primarie dell’Indiana di bocciare l’esperto senatore Lugar per eleggere il conservatore Mourdock, legato ai populisti Tea Party. Obama sa però anche che gli elettori afro e latinoamericani, suoi sostenitori di prima linea, sono spesso ostili alle nozze gay, anatema per cattolici ed evangelici nelle comunità rurali. Gli esperti di «metadata», che analizzano le conversazioni sui social network, Facebook, Google, twitter, siti e microblog, confermano al Presidente che il voto 2012 si decide sull’economia (ieri dati così così su import/export e occupazione). Quindi meglio «parlare alla Storia» su un tema non cruciale per la Casa Bianca. Il vicepresidente Biden, cattolico, s’è detto favorevole alle nozze gay pochi giorni fa, gli analisti di «metadata» hanno setacciato le reazioni Web e, forte del loro scudo digitale, Obama è sceso in campo.

Se ora Romney, pressato dai conservatori, lancerà un emendamento costituzionale contro le coppie gay, la campagna devierà dai temi della crisi e del lavoro: sollievo per Obama. Un referendum in tal senso è passato martedì in North Carolina ed altri simili sono in vigore in 30 Stati. Una mezza dozzina di Stati, fra cui New York, permettono nozze gay, altri voteranno il referendum a novembre.

Ad Obama la critica ultras del New York Times , che ogni domenica pubblica la popolare rubrica di cronaca mondana dei matrimoni gay bene di Manhattan: il foglio progressista lo pungola per non avere proclamato come «diritto universale» il matrimonio tra coniugi dello stesso sesso, sotto l’egida del 14˚ emendamento alla Costituzione «uguale protezione dei cittadini». A suo tempo l’emendamento fu impugnato quando nel Sud bianchi e afroamericani non potevano sposarsi. Obama, politico fine, non lo usa per non esacerbare il clima.

Questo è il quadro politico e a novembre vedremo se Obama ha ben interpretato l’umore americano dai «metadata» Web. Resta però nei libri di storia che, nel maggio 2012, un Presidente degli Stati Uniti d’America ha proclamato il diritto alle nozze tra cittadini omosessuali. Per molti americani è vittoria politica, per tantissimi altri fine di un personale tormento, una privata ingiustizia. Cultura, fedi religiose, politica, economia, scuola, famiglia, Welfare, le forze armate, l’intera società americana muoverà adesso sulla strada aperta da Obama. Comunque la si pensi in Europa, com’è affascinante il carisma di una Repubblica che, da due secoli e mezzo, insegue, tra cadute e conquiste, l’uguaglianza e la felicità dei diritti universali, davanti a Dio e alla legge.

La Stampa 11.05.12

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“La bandiera dei diritti civili che sventola sulla Casa Bianca”, VITTORIO ZUCCONI

Nel buio di tempeste economiche, finanziarie, sociali che sembrano travolgere e nascondere tutto, il Presidente Obama riprende coraggiosamente la rotta di quei valori civili che le ansie materiali sembravano aver fatto dimenticare.
Il suo riconoscimento del diritto di tutti i cittadini in quanto tali, non perché omosessuali o eterosessuali, ma perché cittadini a unirsi di fronte alla legge senza sottoporsi a esami dei cromosomi come gli atleti olimpici, fa rivedere il meglio di un leader che la navigazione a vista di questi anni aveva ridimensionato a uomo politico. Il figliol prodigo del liberalismo americano è tornato.
Poiché, come è vero dalle rivolte delle suffragette tra l´800 e il 900, passando per quel ´68 che in America ebbe inizio, per l´eguaglianza razziale, per il femminismo, per il diritto della donne a scegliersi e non a subire la maternità, tutte le rivoluzioni di costume e di valori sono cominciate negli Stati Uniti, il segnale che arriva dalla Casa Bianca è qualcosa che parla oltre i confini di questa nazione o i calcoli dell´opportunità elettorale, che pure esistono e sono ben visibili. Nel meglio e nel peggio, il mondo che noi chiamiamo Occidente e ormai si estende anche oltre, tende sempre a seguire l´esempio dell´America, la nazione che ancora oggi conserva l´egemonia culturale su un mondo che ha prodotto molte potenze militari ed economiche, ma non ancora modelli civili alternativi.
Il gesto di Barack Obama è stato voluto, cercato esplicitamente, non sfuggito di passaggio. La Casa Bianca aveva convocato con urgenza una giornalista del network Abc, amica personale di Michelle Obama, per fare questo annuncio e per calare questa carta che ha immediatamente sparigliato la partita elettorale con il suo futuro e ormai certo avversario, il repubblicano Mitt Romney.
Alcuni commentatori hanno rimproverato una certa timidezza, a Obama, il suo essersi rifugiato in una formula classica, quella del deferire agli stati dell´Unione la scelta definitiva, dimenticando che questa era la prima volta nella storia degli Usa che un capo dello stato, la persona che incarna costituzionalmente il pontificato laico americano, osava dire quello che lui ha detto. «Sono scoppiato a piangere – ha scritto Andrew Sullivan, gay, nel suo seguitissimo blog – come se fossi uscito da un ghetto».
Ma come tutte le sortite coraggiose in materia di valori e di diritti, anche questa ha un profitto e un prezzo. Il profitto è la speranza di riconquistare quel voto della importante, ricca e militante comunità di gay e lesbiche che tanto avevano contribuito, in propaganda, voto e dollari, al successo di Obama nel 2008. Un grande donatore su sei che aiutano e finanziano il partito Democratico è gay. Nei primi 90 minuti dopo la diffusione dell´intervista, un milione di dollari in piccole donazioni individuali è affluito nella casse della campagna elettorale del presidente. Mentre Romney, il suo avversario, era costretto a ripetere solennemente che per lui «il matrimonio può essere soltanto fra un uomo e una donna», anche se sarebbe pronto a «estendere benefici e privilegi riservati alle persone sposate anche alle coppie gay».
Quando è stato chiesto quali fossero questi benefici e diritti, non ha risposto.
Il rischio è quello di alienarsi, nello scambio, una parte fondamentale del suo elettorato, gli afro americani. È infatti nell´America di colore insieme con quella più fondamentalista, che si arrocca la resistenza più tenace alle nozze fra cittadini dello stesso genere, come dimostrò il referendum abrogativo in California, passato proprio grazie al contributo elettorale degli afroamericani. Ma ormai la «linea nella sabbia», la discriminante su questo che viene considerato come l´ultimo dei diritti civili ancora non estesi a tutti, è stata tracciata e sarà impossibile per Obama ritirarsi o cancellarla. Il livello di polarizzazione fra le parti opposte è talmente alto che nulla può peggiorarlo, dunque tanto vale sfidarlo dicendo le cose giuste.
La speranza del Presidente, nel compiere questo passo che è inevitabile definire storico, è che la lenta, ma sicura evoluzione del pubblico verso il riconoscimento di questi diritti civili sia ormai andata oltre le barriere e i tabù religiosi o culturali. E che la Corte Suprema, davanti alla quale sta proprio il ricorso dello stato contro il referendum della California anti nozze gay, stabilisca che la negazione del matrimonio a due cittadini nella pienezza dei loro diritti sia una violazione dello spirito e della lettera della Costituzione. Lo stesso Obama, nello spiegare come sia arrivato ad attraversare questo Rubicone, ha usato la parola «evoluzione». La mia, ha detto, è stata «un´evoluzione»
Il rischio, tuttavia, rimane ed è alto. L´odio che ribolle nel ventre profondo dell´America, soprattutto nel Sud, e che vede in lui l´anticristo da esorcizzare a ogni costo, troverà nuovo carburante in questo annuncio, leggendovi l´ennesima riprova della sua empietà e della sua estraneità al «mainstream», al corso principale della storia e dell´anima nazionali. Basterà per controbilanciare l´eruzione di odio il ritorno a casa di quell´elettorato progressista, liberal, che minacciava di disertare le urne a novembre?
Forse, ma questi sono calcoli elettorali e da sondaggisti che fra qualche anno serviranno ai saggi dei politologi. Nella storia della civiltà americana resterà invece, per sempre, l´affermazione solenne e al massimo livello che dopo l´abolizione della schiavitù, dopo l´estensione del voto alle donne, dopo l´assalto alla segregazione di nome e di fatto, dopo l´abrogazione del divieto di matrimoni interazziali, un presidente fuori dall´ordinario ha avuto il coraggio civile di dire quello che un cristiano dovrebbe leggere nel Libro: «La regola d´oro della mia religione e del messaggio cristiano è: «Tratta gli altri come vuoi che gli altri trattino te» ha detto. Welcome home, bentornato a casa, Barack Hussein Obama…

La Repubblica 11.05.12

"Beni culturali, ora sconti fiscali", di Andrea Carandini

La cultura oltrepassa il mantenimento materiale della vita ordinaria. Rappresenta l’aspetto libero, disinteressato e immateriale dell’esistenza. La cultura trasfigura la realtà, attira le cose nell’ordine superiore dello spirito e forma un mondo immaginario, che interpreta e rappresenta il mondo della soddisfazione dei bisogni. La cultura ha fini e soddisfazioni solamente in sé, ma interrompendo il fare di tutti i giorni arricchisce e ordina l’esistenza umana, per cui è indispensabile alla stessa vita ordinaria.

La cultura oltrepassa dunque il suo ambito e ha effetti sulle attività utilitarie, quindi anche sull’economia. Solo in tale prospettiva di autonomia della cultura, che deriviamo anche della nostra Costituzione, ha senso un’economia applicata alla cultura. La crisi attuale della cultura sta nella sua riduzione diffusa a stereotipi del tutto puerili. E’ una cultura scontata, volgare e falsa, priva di responsabilità, dignità e stile, posta al di sotto della vita ordinaria, mentre dovrebbe stare al di sopra. Ricostruire la cultura in Italia è un compito essenziale e urgentissimo, che riguarda la libertà civica, la libertà individuale, l’equità sociale, la vita materiale della Nazione.

Secondo la Costituzione, la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione, per cui lo Stato è direttamente e in primo luogo coinvolto nella protezione dei beni culturali. Ma la Repubblica sembra aver rinunciato ad attuare questo principio fondamentale della nostra Carta.

Pochi dati, che tutti possono intendere. Dal Ministero per i beni culturali dipendono 120 archivi, 50 biblioteche, 17 direzioni regionali e 90 soprintendenze. Si tratta dunque di 277 centri di spesa. Per l’anno 2012, il Ministero dispone soltanto di 114 milioni di euro per gli investimenti. Se dividiamo questa cifra per i centri di spesa, si ottiene per ciascuno la cifra umiliante di 411 mila euro annui. Se poi togliamo a questa cifra i 29 milioni destinati a Ales(società in cui sono stati accorpati gli ex lavoratori socialmente utili) scendiamo a un totale di 85 milioni di euro. Il Ministero è oggi in grado di spendere 426 milioni l’anno, che è la media delle uscite di cassa negli ultimi tre anni. Mancano pertanto 312 milioni. 30 milioni circa potrebbero essere recuperati, se i fondi di Arcus potessero confluire nel bilancio del Ministero. Ma ora è sopravvenuto un taglio di quasi 9 milioni. In questa situazione, comprenderete perché mi sono permesso di proporre che la metà dei c.d. rimborsi elettorali siano destinati dal Governo alla cultura. Altrimenti si rinuncia al mantenimento del patrimonio culturale della Nazione. Questo deve essere ben chiaro.

Ma non basta. Bisogna anche varare una fiscalità di vantaggio per i beni culturali. Il Governo ha approvato di recente lo schema di disegno di legge recante la delega per la revisione del sistema fiscale. E’un’occasione che non va persa. Si tratta, in primo luogo, di pensare a un’ Iva agevolata: l’attuale regime non prevede alcun tipo di agevolazione volta a favorire interventi conservativi sui beni culturali. Serve, in secondo luogo, un nuovo regime riguardo alle detrazioni e deduzioni fiscali dall’imposta dei redditi. Serve, in terzo luogo, un regime fiscale agevolato per le sponsorizzazioni. Questi temi implicano aspetti specifici e proposte operative che sarebbe forse tedioso esporre in questo luogo. Allego pertanto una relazione tecnica sui suddetti argomenti, sperando che possa essere utile ai fini che Il Sole si propone. Concludo proponendo che le risorse non utilizzate, che giacciono nelle contabilità speciali a disposizione degli uffici del Ministero, non vengano sottratte al suo bilancio, in modo che il Ministero stesso possa ricavare, in tutto o in parte, i mezzi necessari a coprire il programma di fiscalità di vantaggio che qui propongo.

IL REGIME FISCALE DEI BENI CULTURALI.
PROPOSTE PER UNA FISCALITA’ DI VANTAGGIO.

1. La necessità storica di una fiscalità di vantaggio per i beni culturali.
Il nostro Paese attraversa un periodo di particolare difficoltà economica e sociale. Temi all’ordine del giorno in tutte le sedi di pubblico dibattito sono il risanamento dei conti pubblici e il rilancio dell’economia, in nome dei quali sono richiesti ai cittadini sacrifici notevoli, talora ai limiti della sostenibilità.

L’attuale Governo, costretto all’adozione di drastiche misure nella iniziale fase di gravissima emergenza economica in cui l’Italia versava al momento del suo insediamento, punta ora ad una radicale e altrettanto necessaria revisione dei conti pubblici, mediante la cosiddetta spending review, allo scopo di individuare gli sprechi e le voci di spesa non necessarie che possono essere tagliate.

Si tratta di un obiettivo ambizioso e difficile, che deve essere perseguito, a mio avviso, tenendo presenti le finalità di risanamento e sviluppo ma anche i valori fondanti della nostra collettività e l’immagine di società futura che siamo in grado di prefigurare. Per costruire una tale immagine non possiamo che tornare alle nostre radici, attingere alla civiltà e alla cultura che abbiamo costruito nei secoli, che costituiscono il nostro maggiore orgoglio e il più prezioso dei nostri beni comuni.
E’ venuto quindi il momento di proporre con forza all’agenda dell’Esecutivo il tema di una rinnovata e autentica fiscalità di vantaggio per i beni culturali, da indicare quale potente strumento di crescita culturale, sociale ed economica del Paese.

2. La delega fiscale: un’occasione da non perdere.
Il principio del vantaggio fiscale per le attività di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale è già attualmente sotteso alla legislazione tributaria e trova positiva emersione in una serie di disposizioni vigenti.
Ci si riferisce, in particolar modo, alle previsioni del Testo Unico delle Imposte sui Redditi concernenti ipotesi di detrazioni dall’imposta, per le persone fisiche, e di deduzione dall’imponibile, per le persone giuridiche, con riferimento alle spese per il restauro di beni vincolati e alle erogazioni liberali , nonché alla recente disposizione che prevede l’abbattimento del cinquanta per cento della base imponibile dell’IMU per i fabbricati di interesse storico o artistico di cui all’articolo 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio .

Le suddette disposizioni non hanno carattere episodico e non rispondono a scelte contingenti del legislatore, ma sono finalizzate a dare piena attuazione al valore costituzionale primario della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione, sancito dall’articolo 9 della Costituzione.

Al riguardo, bisogna tenere presente che il Governo ha recentemente approvato lo schema di disegno di legge recante la delega per la revisione del sistema fiscale. La proposta normativa, che dovrà ora iniziare il suo iter parlamentare, prevede il necessario riordino delle spese fiscali, facendo salve, tra le altre, le priorità della tutela del patrimonio artistico e culturale. Si tratta di una specificazione importante, perché, sancisce, se non altro, la necessità di mantenere in vigore le agevolazioni fiscali attualmente previste.

Occorre, tuttavia, segnalare fin d’ora che un’eventuale interpretazione restrittiva della suddetta disposizione da parte del legislatore delegato, limitata al semplice – e pur apprezzabile – sforzo di tenere ferme le disposizioni vigenti, non può essere ritenuta soddisfacente.
L’indicazione che permette di offrire specifica considerazione, nel contesto della riforma fiscale, alla cosiddetta “eccezione culturale” dovrà, viceversa, essere intesa dal successivo decreto legislativo delegato in una più ampia lettura, e declinata in modo da derivarne un sistema integrato e coordinato di disposizioni volte a inaugurare una nuova e autentica fiscalità di vantaggio per i beni culturali.
In tale prospettiva, si reputa utile formulare alcune indicazioni e proposte operative.
3. IVA agevolata.
Il regime attuale dell’imposta sul valore aggiunto non prevede alcun tipo di agevolazione diretta a favorire gli interventi conservativi aventi ad oggetto i beni culturali.

Le agevolazioni fiscali in vigore per le attività di manutenzione, restauro e ristrutturazione non tengono conto dell’ eventualità che il bene interessato presenti un interesse culturale.

In particolare, è prevista l’applicazione dell’aliquota ridotta del 10% per le prestazioni di servizi dipendenti da contratti di appalto relativi alla realizzazione di interventi di restauro e risanamento conservativo, di ristrutturazione edilizia e di ristrutturazione urbanistica, nonché per l’acquisto dei beni, escluse le materie prime e semilavorate, forniti per la realizzazione dei suddetti interventi . Invece gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria beneficiano di uguale regime agevolato solo se realizzati su fabbricati a prevalente destinazione abitativa ovvero, limitatamente a quelli di manutenzione straordinaria, se eseguiti su edifici di edilizia residenziale pubblica.

Tale quadro normativo presenta notevoli criticità.

Anzitutto, come si è anticipato, il legislatore dimostra di non tenere in nessuna considerazione la circostanza che il bene oggetto dell’intervento presenti un particolare pregio, ciò che meriterebbe invece una agevolazione ulteriore rispetto alle ordinarie attività di recupero del patrimonio edilizio esistente.

Ma vi è di più. Secondo l’interpretazione delle suddette disposizioni fornita dalla stessa Agenzia delle entrate, le agevolazioni in questione non spettano per le attività aventi ad oggetto aree e manufatti archeologici, in quanto il regime fiscale premiale è subordinato dalla legge alla circostanza che il recupero abbia ad oggetto “edifici, organismi edilizi, ovvero di lotti, isolati e reti stradali”.

Infine, nessuna agevolazione IVA è prevista per gli interventi di restauro di beni culturali mobili, che, quindi, scontano necessariamente l’aliquota ordinaria, recentemente elevata al 21%.

E’ evidente che la logica sottesa alla disciplina normativa vigente è unicamente quella di favorire da un lato il recupero del patrimonio edilizio esistente, dall’altro lo sviluppo del settore edilizio. Tali finalità non possono però non accompagnarsi, in un Paese come l’Italia, a previsioni di maggior favore nei confronti degli interventi volti non solo alla conservazione, ma anche alla valorizzazione del patrimonio culturale, come, ad esempio, l’ulteriore riduzione dell’IVA al 4%.

Le agevolazioni dovrebbero, poi, necessariamente includere anche gli interventi di manutenzione ordinaria e, soprattutto, straordinaria dei beni vincolati, nonché il restauro dei beni culturali mobili e delle superfici decorate.

Si tratta di misure che – da un lato – favorirebbero la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale, dall’altra permetterebbero la ripresa economica di un settore – quello del restauro – cui oggi si affacciano con interesse tanti giovani in cerca di occupazione.
Per altro verso, tali misure costituirebbero la giusta contropartita offerta dallo Stato ai privati proprietari “gravati” dall’imposizione dei vincoli e dal correlativo regime di tutela.
4. Nuovo regime delle detrazioni e deduzioni fiscali dall’imposta sui redditi.
Altro settore che merita apposita considerazione – e ponderata rivisitazione – è quello delle agevolazioni fiscali previste in materia di imposta sui redditi delle persone fisiche.
Come si è anticipato, il d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, recante il Testo Unico delle imposte sui redditi, consente alle persone fisiche la detrazione dall’imposta dovuta, per un importo pari al 19%, delle spese per la manutenzione, protezione o restauro delle cose vincolate (art. 15, comma 1, lett. g)), nonché delle erogazioni liberali in favore di interventi su beni culturali o di iniziative culturali (art. 15, comma 1, lett. h)).

Per le persone giuridiche, il regime fiscale è, nelle medesime ipotesi, più favorevole, poiché è consentita non già la mera detrazione dall’imposta dovuta, bensì la deduzione dell’intero importo dalla base imponibile su cui avviene il calcolo del tributo (art. 100, comma 2, lett. e) ed f), del TUIR).
Con riferimento a queste disposizioni, si registrano importanti recenti interventi normativi, tutti diretti a incentivare il ricorso alle agevolazioni in argomento.

Anzitutto, l’art. 40, comma 9, del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, ha introdotto significative misure di semplificazione delle procedure in materia di agevolazioni fiscali per i beni e le attività culturali, prevedendo la sostituzione dei relativi adempimenti burocratici con un’autocertificazione, salvi i necessari controlli successivi a campione da parte dell’Amministrazione.

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In secondo luogo, l’art. 42, comma 9, del medesimo decreto legge ha fatto giustizia della previgente disposizione normativa – di dubbia legittimità costituzionale – che impediva l’integrale riassegnazione al Ministero per i beni e le attività culturali delle somme erogate dai privati a titolo di liberalità. La nuova previsione stabilisce ora espressamente che le somme versate all’erario da soggetti pubblici e privati per uno scopo determinato, rientrante nei fini istituzionali del Ministero, siano assegnate alla predetta Amministrazione e da questa destinate necessariamente allo scopo per il quale sono state elargite.

Si auspica che l’adozione di queste misure possa consentire finalmente di raggiungere l’intero plafond destinato alle agevolazioni fiscali richiamate, che finora sono state utilizzate in misura nettamente inferiore rispetto ai mezzi di copertura previsti nel bilancio dello Stato.
Ma, nell’ottica di un complessivo ripensamento del sistema fiscale, anche queste misure meriterebbero di essere potenziate.

Un primo obiettivo, minimale, dovrebbe essere almeno quello di consentire anche alle persone fisiche l’integrale deduzione degli importi dalla base imponibile dell’imposta, come già previsto per le persone giuridiche. Si tratterebbe di una innovazione che si stima possibile adottare senza particolari difficoltà per il bilancio dello Stato, atteso che, come si è detto, lo stanziamento complessivo in bilancio per le agevolazioni sopra indicate non è mai stato integralmente sfruttato.
Ma una vera fiscalità di vantaggio per la cultura potrebbe e dovrebbe richiedere uno sforzo ulteriore.

Non si può non richiamare, in proposito, la disciplina vigente in Francia (art. 238 bis del Code général des impôts), che prevede la ben più incisiva misura della detraibilità dall’imposta dovuta, nella misura del 60%, dei versamenti effettuati dalle imprese soggette all’imposta sui redditi o all’imposta sulle società in favore, tra l’altro, di opere o di organismi di interesse generale aventi carattere culturale o concorrenti alla valorizzazione del patrimonio artistico, ovvero in favore dei musei di Francia, o ancora a beneficio dell’apposita “Fondazione del patrimonio” – deputata a promuovere la conoscenza, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale nazionale – per il fine specifico di sovvenzionare i lavori da eseguire su immobili di pregio non destinati allo sfruttamento commerciale.
5. Regime fiscale agevolato per le sponsorizzazioni.
Un altro capitolo che merita di essere affrontato in occasione dell’attuazione della delega fiscale attiene al regime delle sponsorizzazioni di beni culturali, disciplinate in via generale dall’articolo 120 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché, per alcune specifiche fattispecie, dagli artt. 26, 27 e 199-bis del Codice dei contratti pubblici.
Si tratta di un’attività che merita di essere ampiamente incentivata, poiché consente di reperire risorse da destinare ad interventi di conservazione o valorizzazione di beni culturali a all’organizzazione di iniziative culturali senza gravare sulle finanze pubbliche.
Al contempo, si è altresì in presenza di un settore economico molto promettente, che può svolgere anch’esso un ruolo non secondario nella ripresa economica, se si considera che l’attività di sponsorizzazione di beni culturali spesso è organizzata ricorrendo ad intermediari, società di pubblicità, imprese specializzate nell’organizzazione di eventi promozionali presso luoghi della cultura, e via dicendo.

Infine, occorre tenere presente che la sponsorizzazione degli interventi aventi ad oggetto il nostro patrimonio culturale suscita notevole interesse anche presso imprese straniere e, soprattutto, multinazionali, le quali considerano spesso strategica l’associazione del proprio nome, marchio, immagine, attività o prodotto al restauro di un monumento particolarmente noto. In questo senso, la promozione, mediante adeguati strumenti, delle sponsorizzazioni di beni culturali può costituire anche un prezioso strumento per favorire l’investimento di imprese straniere in Italia.

Anche in tema di sponsorizzazioni si registrano recenti interventi normativi mirati a promuovere il ricorso, da parte delle pubblica amministrazioni, a tale strumento contrattuale. Si segnalano, in particolare, le disposizioni dell’articolo 2, comma 7, del decreto legge 31 marzo 2011, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 maggio 2011, n. 75, il quale detta disposizioni di semplificazione delle procedure per il ricorso alla sponsorizzazione al fine della realizzazione del programma straordinario e urgente per Pompei, nonché il già citato art. 199-bis del Codice dei contratti pubblici , anche questo volto a dettare disposizioni finalizzate a disciplinare in via generale e in modo chiaro il corretto iter per la stipulazione di contratti di sponsorizzazione di beni culturali, così agevolando le amministrazioni che intendano farvi ricorso.
Nessun intervento legislativo, invece, ha ancora provveduto a chiarire una volta per tutte il regime fiscale applicabile alle suddette sponsorizzazioni, che continua ad essere incerto, con grave danno per gli operatori economici interessati.

In proposito, il TUIR non detta una disciplina specifica per i contratti di sponsorizzazione, ma distingue, all’art. 108, comma 2, le spese di pubblicità e di propaganda, “deducibili nell’esercizio in cui sono state sostenute o in quote costanti nell’esercizio stesso e nei quattro successivi”, e le spese di rappresentanza, “deducibili nel periodo d’imposta di sostenimento se rispondenti ai requisiti di inerenza e congruità stabiliti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, anche in funzione della natura e della destinazione delle stesse, del volume dei ricavi dell’attività caratteristica dell’impresa e dell’attività internazionale dell’impresa”.

Si pone, pertanto, il problema, spesso di difficile soluzione, di stabilire se e in che misura le spese per sponsorizzazioni possano rientrare nell’una o nell’altra tipologia di spese deducibili. Il tema è particolarmente complesso, e può solo segnalarsi, in questa sede, che secondo l’interpretazione prevalente le spese di rappresentanza si caratterizzerebbero per la gratuità, per cui non sarebbero qualificabili come tale le spese per sponsorizzazioni, in quanto originanti da contratti a prestazioni corrispettive.

Le sponsorizzazioni dovrebbero, quindi, rientrare nella fattispecie delle spese di pubblicità. In proposito, va, però, segnalato come l’amministrazione finanziaria abbia ritenuto, specie con riferimento alle sponsorizzazioni sportive, che le stesse possano considerarsi di natura pubblicitaria e inerenti alla produzione del reddito solo se direttamente finalizzate allo scopo di promuovere il prodotto dell’impresa sponsor, mentre nelle altre ipotesi non sarebbero deducibili.

In tale incerto quadro normativo sarebbe auspicabile un intervento del legislatore, allo scopo di consentire sempre l’integrale deduzione, almeno ai fini dell’imposta sui redditi, delle sponsorizzazioni finalizzate alla realizzazione di interventi di tutela o valorizzazione di beni culturali o di iniziative culturali.

6. Spending review.
In conclusione di questo intervento bisogna ritornare al punto da cui si è partiti, ovvero l’esigenza di una radicale revisione della spesa pubblica, allo scopo di evitare l’incremento della pressione fiscale sui cittadini.
In proposito, uno sforzo potrebbe essere compiuto anche da parte del Ministero per i beni e le attività culturali, soprattutto mediante la riallocazione delle risorse non utilizzate giacenti nelle contabilità speciali a disposizione degli uffici, e che derivano da stanziamenti non impegnati, da residui perenti o da economie realizzate nelle procedure di gara per la stipulazione di contratti pubblici.

E’ mia opinione che, con specifico riferimento a quella Amministrazione, tali risorse non debbano essere sottratte al bilancio del Ministero, ma riallocate in modo razionale. In tal senso, proprio dalla revisione della attuale destinazione delle somme già disponibili lo stesso Ministero potrebbe ricavare, in tutto o in gran parte, i mezzi finanziari di copertura dell’ambizioso programma di fiscalità di vantaggio che si è inteso suggerire.

Ciò consentirebbe di reinserire nel circuito virtuoso dell’economia risorse al momento non utilizzate o allocate in modo non adeguato, favorendo anche lo sviluppo, mediante le agevolazioni che si sono indicate, di tutti i settori costituenti la cosiddetta “industria culturale”. Si tratta di un comparto della nostra economia – quello direttamente o indirettamente legato al nostro patrimonio culturale – che, in base a tutti i dati disponibili, non solo non sembra soffrire della crisi economica imperante, ma risulta, anzi, in netta crescita negli ultimi anni.

E’ quindi da ritenere che un intelligente investimento dello Stato in cultura, mediante misure da attuare senza nuovi oneri tributari per la collettività, nel senso indicato, costituirebbe certamente un moltiplicatore di ricchezza che potrebbe fare da volano alla ripresa economica del Paese.
Al contempo, l’investimento in cultura rilancerebbe l’immagine del Paese all’estero, con ulteriore beneficio per l’economia generale.

Non da ultimo, una speciale attenzione del legislatore alla cosiddetta “eccezione culturale” avrebbe, nell’attuale momento storico, un valore simbolico fondamentale, poiché varrebbe a sancire definitivamente l’esigenza – sempre più diffusamente avvertita dalla collettività – di una considerazione specifica, nell’ambito del nostro ordinamento giuridico, alle esigenze di tutela del patrimonio culturale, che rappresenta la fondamentale matrice identitaria e il tratto caratterizzante, universalmente riconosciuto, della civiltà che il nostro Paese è stato in grado di esprimere nel corso dei secoli.

Andrea Carandini è archeologo e presidente del Consiglio superiore del MiBAC. Questa è un’anticipazione dell’intervento che il professore terrà oggi alle 18 al Salone del Libro di Torino.

Il Sole 24 Ore 10.05.12

"Finalmente arriva la dieta", di Fabrizia Bagozzi

Licenziato in commissione il testo che dimezza i soldi ai partiti. Salvo sorprese, la legge sui partiti arriverà in aula la prossima settimana, come da calendario. Con Grillo che tallona, il secondo turno delle amministrative alle porte e il Dottor Sottile che incombe con il suo Libro Bianco sull’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, le forze di maggioranza hanno probabilmente messo la parola fine al tormentone sulla riduzione (anche se non all’azzeramento) del finanziamento pubblico. E a un percorso che si è andato dipanando in questi mesi fra titubanze e intoppi.
Intoppi perché il primo testo ABC ha dovuto affrontare autorevoli rilievi (l’ufficio studi della camera, il presidente della Cassazione Lupo) nonché lo stop leghista al binario iperveloce del vaglio in sede legislativa. Titubanze, perché, anche se dopo il caso Lusi, Bersani e Casini sono partiti velocemente a chiedere una legge che puntasse alla trasparenza dei bilanci e a un sistema di controlli molto più stringente, c’è voluta l’onda lunga dell’affaire Belsito per convincerli (portandosi dietro anche Alfano) che, pur senza cedere a facili populismi, un segnale di dimagrimento al paese piegato dalla crisi andava dato.
Il passo decisivo l’ha fatto Bersani mettendo sul piatto il dimezzamento secco (da 182 milioni di euro a 90), e a partire da subito, dalla tranche di luglio. Il Pdl (nonostante le dichiarazioni di Alfano sul finanziamento all’americana e sul nuovo partito senza fondi pubblici) non era dell’idea, la trattativa è stata serrata, ma alla fine si è convinto. E, sia pur con fatica, il segnale – su cui comunque le polemiche non mancheranno – è finalmente arrivato.
Dunque ieri la commissione affari costituzionali ha licenziato il testo. I finanziamenti non vengono azzerati, come avrebbero voluto con sfumature diverse Italia dei valori e Lega. Perché la politica e la democrazia hanno un costo. Ma se ne prevede la sostanziale decurtazione, per l’esattezza il dimezzamento, da subito. La proposta di legge prevede poi, fra l’altro, che i finanziamenti vadano solo a chi ha uno statuto pubblico e ha ottenuto almeno un eletto (parlamento nazionale, europeo o consiglio regionale), ma – su proposta di Vassallo – per evitare i cambi di casacca, solo se si è stati eletti sotto il proprio simbolo.
Stretta sulle sanzioni, che includeranno la decurtazione dei fondi anche per le donazioni. E via libera alla commissione di controllo sui bilanci che sarà composta da cinque magistrati, tre della Corte dei conti, uno della Cassazione e uno del Consiglio di stato. Mentre per le donazioni (dai 50 ai 10mila euro) è prevista una detrazione fiscale pari al 38%. Idv e Lega già annunciano battaglia, mentre il Carroccio chiede che Amato riferisca del suo lavoro a Montecitorio.
Ma ieri i partiti hanno fatto argine a qualcosa che, nel clima lacrime e sangue e a pochi giorni dal secondo turno, avrebbe scatenato una nuova ondata di indignazione. Anche se il ministro Giarda ha smentito, il governo ha sondato in commissione finanze della camera (dove si discute il decreto sulle comissioni bancarie) la possibilità di reinserire nel testo l’emedamento bocciato al senato sulle cosiddette pensioni d’oro per i manager pubblici (calcolo delle pensioni in base allo stipendio percepito prima dell’entrata in vigore del tetto degli stipendi). Allora il Pd aveva votato a favore, in nome della lealtà al governo e anche perché, disse, la cosa non avrebbe comportato un aggravio di spesa, anzi avrebbe provocato problemi per i probabili ricorsi.
Ma aveva avvisato: qualora la camera lo avesse ritenuto un errore, pronti a cambiare. È andata così. Niente pensioni d’oro.

da Europa Quotidiano 10.05.12