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"La scuola che vogliamo: un posto dove crescere, maturare, migliorarsi", di Sofia Sabotino*

Viaggio nelle associazioni studentesche. Sofia Sabatino (RdS): una scuola che possa diventare un punto di ritrovo sociale e che possa rivoluzionare ogni singolo quartiere e quindi, scuola per scuola, tutta l’Italia. E’ difficile entrare nell’ottica di una scuola completamente nuova, ma il modello che immaginiamo in realtà può sembrare utopico e irraggiungibile solo se lo paragoniamo alla scuola Italiana, in altri paesi europei quello che descriviamo è già la normalità.

Prima di tutto la scuola che immaginiamo è pubblica e gratuita, per d’avvero come dice la nostra Costituzione. Lo studente e la famiglia che gli sta alle spalle non dovrebbe sborsare nemmeno un euro per far studiare il proprio figlio, in questo modo tutti potrebbero veramente accedere all’istruzione, cosa che purtroppo oggi non è ancora garantita a una fetta ampissima di studenti.

La Scuola che vogliamo esce fuori dagli schemi attuali ed è un sistema istruzione che forma non solo lo studente per l’università o per il mondo del lavoro consegnandogli determinate conoscenze, ma è una scuola che pone come sua priorità la formazione degli individui in quanto cittadini, facendo in modo che ogni studente abbia modo di esprimere liberamente le proprie capacità, e sia lui stesso parte attiva del proprio percorso di formazione. Attore protagonista della vita scolastica e non spettatore.

La scuola che vogliamo è una scuola che va al nostro ritmo, non a quello dei nostri genitori o dei nostri nonni, è una scuola in cui l’apprendimento deve essere un processo partecipato. Si deve superare definitivamente l’idea di lezione frontale e costruire la lezione in maniera da coinvolgere tutti gli studenti e rendere l’apprendimento un processo collettivo del gruppo classe, anche se comunque indirizzato dall’insegnante.

Per questo la scuola che vogliamo deve essere innanzitutto un luogo diverso, propedeutico ad un’idea di apprendimento differente, con aule circolari per azzerare l’idea di lontananza tra docente e studente e accrescere quanto più l’idea di partecipazione, con laboratori, palestre, piscine, spazi comuni, biblioteche, aule studio.

La scuola che vogliamo deve essere un luogo dove valorizzare le capacità di ogni singolo studente, costruendo percorsi di formazione individuali per ogni ragazzo, che seguito da un tutor di riferimento deve essere in grado di scegliere consapevolmente il proprio percorso formativo. Proprio per questo immaginiamo un biennio unitario, garanzia di conoscenze di cittadinanza di base, con la possibilità di scegliere corsi facoltativi a scopo orientativo, per poter al triennio essere in grado di compiere una scelta consapevole sul proprio percorso di studi. Nel triennio ogni studente deve poter affiancare ad alcune materie obbligatorie, altre facoltative di formazione più specifica.

Inoltre è necessario sicuramente pensare ad una riforma dei programmi che sono gli stessi ormai da troppi anni, non concedono l’elasticità necessaria di cui un sistema scolastico così pensato ha bisogno e soprattutto sono troppo lontani dal mondo che viviamo ogni giorno.

Anche il sistema di valutazione dello studente deve cambiare. La bocciatura, intesa come misura esclusivamente punitiva, che nella maggior parte dei casi non aiuta in alcun modo a superare le lacune e finisce per essere esclusivamente causa dell’abbandono scolastico, deve essere superata. Sostituita da forme di recupero delle lacune nelle singole materie che non siano preclusive del continuo del percorso scolastico generale. Il recupero delle lacune deve essere sicuramente seguito da parte dei docenti con maggiore attenzione lavorando sulle difficoltà singole di ogni ragazzo.

Il sistema di valutazione, esclusivamente numerico, è decisamente limitativo. Un numero non può e non deve essere l’espressione delle capacità di uno studente. La valutazione nella scuola che vogliamo, deve essere frutto di tutto il percorso di apprendimento, della partecipazione in classe, del proprio percorso personale al di fuori della scuola e non solo della verifica, deve essere narrativa e vedere una partecipazione attiva dello studente da valutare e dell’intero gruppo classe.

Alla partecipazione in classe e nel processo di apprendimento, deve fare seguito anche la partecipazione sempre maggiore degli studenti negli organi decisionali della scuola, a partire dal Consiglio d’Istituto dove la presenza studentesca andrebbe incrementata sensibilmente.

La scuola che vogliamo è una scuola che non inculca nozioni ma che crea coscienza critica, per questo crediamo che l’obbligo scolastico debba essere innalzato fino a 18 anni, combattendo l’abbandono scolastico e investendo risorse per fare in modo che non un solo ragazzo non arrivi a compiere i suoi 18 anni a scuola, nello stesso tempo però togliendo un anno di scuola, per metterci al passe coi nostri coetanei europei. Tutto questo sistema scolastico non può in alcun modo essere scisso da una visione nuova e migliore dell’intera vita studentesca e giovanile.

La scuola che vogliamo deve essere non solo una scuola, ma un centro culturale per tutta la città o il quartiere, un luogo di cultura aperto tutto il giorno, fornito di bar, mense, palestre, biblioteche e tutti gli strumenti necessari per diventare il luogo dove ogni ragazzo (e non solo) può spendere il proprio tempo, anche al di fuori degli orari scolastici.

La scuola che vogliamo deve essere un posto dove crescere, maturare, migliorarsi, una scuola che possa essere vissuta dalla mattina alla sera, e che possa diventare un punto di ritrovo sociale e culturale e che possa rinnovare e rivoluzionare ogni singolo quartiere e quindi, scuola per scuola, tutta l’Italia.

*Portavoce nazionale Rete degli Studenti

www.partitodemocratico.it

"E il centrodestra vuole bloccare l´anticorruzione", di Liana Milella

Il Pdl fa melina e si mette di traverso sul ddl anti-corruzione, su cui il Guardasigilli Paola Severino ha messo la faccia, e cerca di sbarrare la strada pure alla legge Palomba, il ripristino del vecchio falso in bilancio, punito d´ufficio fino a cinque anni, rilanciato dall´Idv e ben visto da Severino, Pd, Fli, Udc, e perfino dalla Lega. A colpi di emendamenti e di richieste di chiarimenti e di rinvii, il Pdl cerca di terremotare l´arrivo in aula dei due provvedimenti, in calendario per il 28 maggio.
Oggi, nelle commissioni congiunte Affari costituzionali e Giustizia di Montecitorio, si potrebbe approvare il ddl anti-corruzione, tant´è che il presidente della Giustizia Giulia Bongiorno ha insistito per convocare la seduta alle 10 e proseguire fino al momento del voto. Ma il Pdl, in più di un conciliabolo ben visibile durante i lavori d´aula, si prepara a frenare fino allo stop. Piano ben studiato perché oggi Severino potrà solo dare il parere sui sub-emendamenti, poi deve partire per gli Usa, e a quel punto non resta che una manciata di giorni.
I berlusconiani hanno un obiettivo, azzerare il piano anti-corruzione del ministro della Giustizia e mandare il ddl in aula con il vecchio testo uscito dagli uffici dell´ex Guardasigilli Angelino Alfano, e recisamente bocciato dalle toghe. Nessun aumento di pena per i delitti di corruzione, quindi prescrizione invariata rispetto a oggi, né nuovi reati come traffico di influenze e corruzione tra privati.
Il verbo «sopprimere» è il protagonista del Pdl barricadiero. Quello di deputati come Francesco Paolo Sisto e Manlio Contento, entrambi avvocati, che hanno firmato nell´ultima settimana, e ancora ieri, gli emendamenti che cancellano quello di Severino e il falso in bilancio proposta dall´Idv. Ufficialmente il Pdl non si butta nella mischia, l´avvocato Niccolò Ghedini privilegia la strategia dello «stare a guardare», la mette in pratica il capogruppo alla Giustizia Enrico Costa. Ma ad agire sono Sisto e Contento. Venerdì scorso, allo scadere del termine per le modifiche al ddl anti-corruzione, ecco la proposta di Sisto di punire la concussione solo qualora vi sia un passaggio di denaro e di un´altra «utilità patrimoniale». In fumo il processo Ruby e la concussione di Berlusconi. Ieri lo stesso Sisto è tornato ad agire. Suoi, e di Contento, i 20 emendamenti sul falso in bilancio che snaturano del tutto la proposta dell´Idv e spaccano la già fragile maggioranza. Da una parte il Pd, con Donatella Ferranti, dichiara di «stare» con l´Idv, deciso anche a «rendere più efficace e circostanziata quella proposta». Dall´altra una nuova raffica all´insegna del «sopprimere», proprio com´era accaduto venerdì sulla corruzione. Un solo compromesso stavolta, punire il falso in bilancio fino a tre anni, una mediazione al ribasso tra i due attuali e i cinque richiesti dall´Idv e da tutti gli altri. Dice Sisto: «Proprio in questo momento di suicidi, non ci possiamo permettere di strangolare gli imprenditori con una legge smaccatamente contro di loro». Un colpo di cesoie e l´anti-corruzione va in fumo.

La Repubblica 10.05.12

"Chi non vuole cambiare", di Claudio Sardo

E’ falso dire che alle recenti elezioni amministrative «hanno perso tutti i partiti e ha vinto Grillo». È falso perché il Pd si conferma la prima forza nazionale e, pur con le sue serie difficoltà, il perno di un centrosinistra oggi nettamente prevalente. Mentre invece Pdl e Lega sono divisi e in rotta, e il Terzo polo non riesce a catalizzare il voto moderato. È falso perché Grillo, nonostante il grande balzo di consensi, soprattutto al Nord, è da tempo il capo di un nuovo partito (che intende crescere approfittando proprio del fatto che il Movimento 5 stelle non vince e che può presentarsi come l’alternativa più radicale a chi governa).
La tesi è falsa, ma soprattutto è insopportabile il suo contenuto ideologico: i partiti sono tutti uguali, la politica è inutile o dannosa, il conflitto sociale è negato o comunque gli viene negata una legittima rappresentanza nelle istituzioni. Tutto è ridotto a politologia, come se non fosse la drammaticità della crisi il primo fattore di sfiducia e di apprensione nelle famiglie e nei ceti più deboli. Non stupisce che questa teoria sia propagandata, con un coro perfettamente intonato, da Libero, dal Fatto quotidiano e dal Giornale: purtroppo, nel dibattito pubblico sono entrate così tante tossine di destra da erigere a maestri il Berlusconi e il Bossi dei primi anni 90 (proprio nel momento in cui vengono pensionati). Anche loro dileggiavano la politica e i partiti, anche loro si mostravano come non-politici e come non-partiti: sono poi diventati l’antipolitica di governo. E il disastro lo stiamo ancora pagando. Certo, la ribellione verso un
sistema destrutturato e incapace di offrire progetti alternativi di fronte alla crisi ha valide ragioni. Così valide da convincere molti elettori: il voto va sempre capito e rispettato. Ma non è ripercorrendo la strada di Berlusconi con nuovi cavalieri che l’Italia potrà invertire la rotta e avviare una ricostruzione. Piuttosto bisognerebbe usare quest’ultimo scampolo di legislatura per cancellare il Porcellum e dare anche all’Italia un sistema europeo: non sarà la risposta finale alla domanda di rinnovamento, ma è la sola strada per raggiungerla. Tuttavia c’è una cosa ancora più insopportabile degli opportunismi di chi lucra sulla crisi senza neppure tentare di risolverla. È la schizonofrenia di certe élite nazionali. Finché pontifica contro i partiti chi cerca di salire sul carro di Grillo o chi, da destra, vuole usarlo per ridimensionare le proprie responsabilità nel declino italiano, si può capire. Ma l’assurdità è che da noi pezzi importanti delle classi dirigenti – le stesse che fino a pochi mesi fa applaudivano Tremonti e facevano la fila per inchinarsi a Berlusconi – da un lato incoraggiano la lettura del «Grillo vincitore contro tutti i partiti» e dall’altro danno lezioni circa la necessità di continuare la Grande coalizione anche nella prossima legislatura, rigorosamente con governi tecnici.
Ieri Alfredo Reichlin su l’Unità ha citato il «sovversivismo della classi dirigenti» di Gramsci. C’è una malattia antica nel capitalismo italiano e in certi salotti della borghesia. Ma oggi
abbiamo uno spettro davanti a noi: è la Grecia. Come si può pretendere di delegittimare i partiti (indicandoli come una corporazione unica e negando le differenze sociali) e di chiedere loro, al tempo stesso, di sostenere un governo tecnico che li
escluda a tempo indeterminato? C’è un limite all’indecenza. Seguendo questa strada si finisce esattamente in Grecia, come
dimostrano le recenti elezioni in quel Paese. Se vuole salvarsi l’Italia deve imboccare invece un’altra strada: quella francese. Dove alle elezioni si sono misurate due alternative, esplicitamente antagoniste, ancorate a progetti europei, entrambe legittime. Lo sbocco della transizione italiana, dunque la linea di marcia del governo Monti, non può che essere questa: il rinnovamento dei partiti comincia da un progetto plausibile, strettamente connesso a un programma di dimensione europea. I partiti che possono governare, imprimendo una svolta dopo il fallimento delle attuali leadership europee, devono avere un forte legame sovranazionale. Questa è a sfida. E chi vuole bene all’Italia deve darsi da fare perché nel 2013 si confrontino due vere, serie alternative. Solo così gli elettori saranno messi nelle condizioni di contare. Quando il voto non vale o vale poco, tutto il peggio emerge: dall’occupazione del potere al ribellismo più sterile. Noi invece vogliamo il cambiamento.

l’Unità 10.05.12

"Il centrosinistra non basta ma il premier stavolta tocca al Pd rappresentiamo anche i moderati", intervista a Pier Luigi Bersani di Goffredo De Marchis

Non puntiamo mica a rifare l´Unione. Ci rivolgiamo a intellettuali, autorità morali, società civile. Il centrodestra non sarà Montezemolo o Passera ma un misto di Le Pen, Sarkozy e Lega. «Il candidato premier tocca a noi. Il Pd vuole allargarsi e aprirsi, il centrosinistra non è sufficiente per governare. Noi puntiamo a un patto di legislatura più ampio. Ma la guida la proporrà il Partito democratico». Preoccupato per la situazione italiana, triste per la morte di Cevenini. Ma Pier Luigi Bersani, dopo il voto amministrativo, vede il traguardo. Con tutta la consapevolezza di un sistema quasi al collasso.
C´è veramente da festeggiare se il Pd tiene ma non cresce?
«Non mi riconosco nelle analisi che leggo e sento in questi giorni. Quando si parla di amministrative si contano quanti comuni uno vince e quanti ne perde e i raffronti si fanno con le precedenti comunali. Il Pd ottiene una vittoria nettissima al primo turno e si presenta in vantaggio per il secondo».
Con molti candidati che non vengono dal Pd.
«Nella stragrandissima maggioranza sono espressione del Pd. Laddove non lo sono per noi è un onore sostenerli. Vogliamo essere l´infrastruttura del centrosinistra, abbiamo inventato le primarie per metterci al servizio della coalizione. A Milano ha vinto Pisapia e il Pd ha ottenuto il record storico di voti. Si vede che la gente ci capisce meglio di alcuni analisti».
Insomma, avete vinto.
«Ma non lo dico per orgoglio di partito. Lo dico perché sono preoccupato. Temo che qualcuno coltivi l´illusione schumpeteriana di una distruzione creativa del sistema politico. Sfasciamo anche l´unico che è rimasto in piedi perché arriverà qualcosa di buono. Significa fare gli apprendisti stregoni su un problema che può franare addosso a tutti».
Bisogna farsi carico anche del crollo del centrodestra?
«Dobbiamo guardare chi incrocia l´effetto dello tsunami che ha colpito Pdl e Lega. Lo fa il Terzo polo? No. Lo fa il centrosinistra? No. Questo conferma due cose. Il transito da un campo all´altro in Italia è molto limitato. E pensare che la crisi del centrodestra possa portare acqua a posizioni centrali o tecnocratiche è un´illusione assoluta. A destra c´è un vuoto, ma l´elettorato non è scomparso. È in cerca di autore e la risposta che cerca non sarà un pranzo di gala, non avrà l´abito della festa».
Cioè non sarà un professore o Passera o Montezemolo?
«Sarà l´incarnazione di una proposta che mi auguro minoritaria ma somiglierà a quelle forze che in Europa interpretano tendenze regressive e populiste. No Unione, no tasse, no immigrati. Un misto di Le Pen, Sarkozy e Lega nostrana».
Perché non ci prova il Pd a occupare il vuoto moderato?
«Ci proviamo. Il centrosinistra per la prima volta può sfondare il muro di gomma tra guelfi e ghibellini che è radicato nella storia d´Italia. È una responsabilità nuova e il Partito democratico non basta. Vogliamo essere più aperti nei programmi e nelle proposte. Ci rivolgiamo a intellettuali, autorità morali, rappresentanti della vita economica per dire diamoci la mano. Penso a un rassemblement democratico contro il ripiegamento difensivo della destra».
Metterete in lista gli esterni?
«Assolutamente sì, saranno liste aperte. Ma non guardo solo a intese elettorali, non puntiamo mica a rifare l´Unione. Penso a una società civile che vuole far parte di questa scommessa. Il Pd si mette a disposizione».
Uno spazio che rischia di essere già occupato da Grillo.
«Il suo è un voto gonfiato dalla protesta ma non c´è solo protesta in quel partito. C´è anche una domanda di stili nuovi di partecipazione, di sobrietà della politica, di cura dei problemi del territorio. Alle provocazione di Grillo rispondo con durezza. Ma il mio atteggiamento verso il movimento 5 stelle è di attenzione. Non abbiamo guerra da fare con loro. Ci sono domande che lì non possono trovare risposta di governo».
A Monti ha detto che non si vede niente di positivo da mesi. È una minaccia?
«Abbiamo scarpinato per l´Italia e c´è una situazione acutissima di sofferenza. Al governo ribadisco lealtà, ho una sola parola. Ma dico: attenzione. Il voto dimostra che nel Paese ci siamo dappertutto. Allora ascoltateci».
Cosa avete da dire?
«Con la vittoria di Hollande Monti ha ora lo spazio e l´autorevolezza per aprire nuovi tavoli di confronto in Europa. Ma i tempi della crescita non sono compatibili con la situazione italiana. Monti deve insistere sulla mini golden rule per sbloccare investimenti. E occorre affrontare subito il tema dei pagamenti alle imprese per far arrivare un bel po´ di miliardi di liquidità nel giro di poche settimane. Infine va risolta l´ingiustizia intollerabile degli esodati».
Monti però ha appena confermato la linea del rigore.
«Mica diciamo di far saltare i conti. Se c´è da trovare qualche soldo, troviamolo».
Si può pensare a un rinvio del pareggio di bilancio?
«Se ci danno la golden rule, probabilmente non ce ne sarà bisogno. Ma vedo che la Spagna si prepara a ricontrattare quell´obiettivo. Facciamolo anche noi se serve».
Il voto anticipato non vi tenta?
«Anche per strada qualcuno mi chiede: perché non vuoi andare a votare ad ottobre? Rispondo così: siamo ancora in una situazione delicatissima, abbiamo la possibilità di giocarci una partita in Europa e di correggere un po´ le nostre politiche interne per metterci in una zona di ulteriore sicurezza».
Tanto ci penserà il Pdl a staccare la spina.
«Non entro nel campo avverso. Ma non possono scaricare sull´Italia i loro problemi. E non possono pensare di andare avanti tendendo imboscate al governo».
Casini vi avverte: non verremo mai con la foto di Vasto. Con chi lo fate lo schieramento più largo?
«Non inseguo le dichiarazioni quotidiane. Mi affido ai processi di fondo. Quando la dialettica sarà tra un polo democratico e uno che dà risposte regressive ognuno si assumerà le sue responsabilità. Il Pd vuole allargare ma sa di dover essere il baricentro di una proposta alternativa. Anche rinunciando a qualcosa di suo».
Lasciando la candidatura alla premiership a un moderato?
«No. Il dato che si ricava da queste elezioni è che tocca al Pd. Saremo noi a proporre un nome. Non per metterci al comando ma per rendere un servizio e guidare questa fase. Il guidatore lo dobbiamo scegliere noi».
A Palermo il centrosinistra rischia di frantumarsi a meno che voi non scegliate Orlando
«Il candidato è Ferrandelli. Se decidi di fare le primarie le rispetti. Ma aggiungo che si è esaurita la fase politica di Lombardo in regione. Il gruppo dirigente siciliano del Pd deve lavorare per avere al più presto le elezioni».
Il punto dirimente alla fine è sempre quello dell´affidabilità di un centrosinistra con Sel e Idv. È in grado di governare?
«Il voto locale ci dice che non c´è un centrosinistra autosufficiente. La solidità e la credibilità di governo nascono da un centrosinistra affidabile e da un patto di legislatura più ampio. Teniamo fermo questo punto e ci si convincerà che non esiste una strada diversa, non ci sono altre risposte».

"Esodati, c'è il decreto. I sindacati protestano", di Massimo Franchi

Sugli esodati è quasi rottura. Dopo due ore e mezzo di confronto, a tratti teso, i sindacati contestano apertamente la decisione del governo di emanare un decreto interministeriale solo per i primi 65mila lavoratori. Alla fine dell’incontro Susanna Camusso e Raffaele Bonanni hanno incontrato i lavoratori che attendevano notizie davanti alla sede del ministero. «Siamo insoddisfatti», ha detto Bonanni. Più dura Camusso: «Il ministro ha presentato un decreto che non va bene e che deve cambiare perché non dà garanzie a tutti, crea disparità», ha detto sottolineando che l’esecutivo deve trovare i soldi. «Continueremo la mobilitazione», ha aggiunto. Per Camusso la soluzione deve essere «previdenziale » per tutti coloro che hanno fatto accordi entro la fine del 2011. Per queste, secondo il segretario della Cgil, non è pensabile un percorso di allungamento degli ammortizzatori sociali ma solo una funzione previdenziale: «Non abbiamo parlato di estensione degli ammortizzatori – ha detto – perché non é questa la strada, né è stato minimamente affrontato problema ricongiungimenti onerosi». Molto critico anche il segretario dell’Ugl Giovanni Centrella: «Il decreto è di una iniquità totale, bisogna continuare a discutere per trovare una soluzione per tutti i lavoratori, non solo i 65 mila», ha aggiunto. Il decreto sui primi 65mila esodati sarà emanato entro la fine di maggio. L’incontro ministero-sindacati si è concluso intorno alle 20 con una contrapposizione praticamente identica a quando era cominciato. Da una parte Elsa Fornero, inamovibile dalla sua posizione: i “salvaguardati” per il 2011 (addirittura fino al 2013, secondo quanto riferito al tavolo da un suo dirigente) sono 65mila e per far andare in pensione queste persone alle regole pre-riforma sarà emanato un decreto interministeriale con il benestare del dicastero dell’Economia. Per tutti gli altri (235mila secondo gli stessi dati dell’Inps, almeno 100mila nel 2012) al momento non ci sono né soluzione né alcuna risorsa prevista. La ministra è consapevole della sua situazione e al tavolo non l’ha nascosto: «Mi prendo tutta la impopolarità di un provvedimento impopolare, il vincolo sulle risorse non può essere messo in discussione, per quelli che sono fuori dal decreto si vedrà». La prossima settimana (ma Fornero inizialmente voleva emanare il decreto nel giro di due-tre giorni) ci sarà la convocazione di un tavolo tecnico per limare i criteri che, ad oggi, ribadiscono come siano coperti solo i lavoratori che hanno sottoscritto un accordo prima dell’entrata in vigore della riforma delle pensioni, il 4 dicembre, lasciando fuori, ad esempio, i lavoratori pre-pensionati dell’Irisbus di Valle Ufita (il cui accordo è stato sottoscritto il 14 dicembre), con i sindacalisti che nelle stesse ore del vertice si confrontavano senza novità a poche decine di metri nella sede del ministero dello Sviluppo economico. Dall’altra parte del tavolo Cgil-Cisl-Uil e Ugl hanno incalzato unitariamente la ministra, strappando almeno questa nuova convocazione, seppur di carattere tecnico.

RIFORMA LAVORO EMENDATA Ore di trattative e di bozze per gli emendamenti alla riforma del mercato del lavoro. I relatori Castro (Pdl) e Treu (Pd) stanno chiudendo l’accordo con governo e maggioranza per le modifiche da apportare al testo. La prima preoccupazione del Pd è quella di aumentare gli ammortizzatori sociali per i precari, in primis i co.co.pro. «La partita – spiega Cesare Damiano – è quella sull’innalzamento dell’aliquota previdenziale al 33% che è troppo alto per le vere partite Iva e che deve invece essere accompagnato da un ammortizzatore più corposo per le “finte” partite Iva, prevedendo l’estensione del mini-Aspi anche per i questi lavoratori assieme ai co.co.pro». Oggi è il giorno decisivo: «È in corso un lavoro serio e duro, ancora non concluso, ma è nostra intenzione arrivare domani (oggi, Ndr) con un prodotto», afferma Maurizio Castro (Pdl). Per quanto riguarda le proposte di modifica dell’esecutivo, la speranza è che «siano modulari» ai nostri. Una speranza rispettata fino ad un certo punto, visto che da parte sua il governo si appresta a presentare ben 27 emendamenti. Per quanto riguarda l’articolo 18 si punta a intervenire sui licenziamenti disciplinari: si elimina il riferimento alle previsioni di legge, contestato da Confindustria. Sempre per quanto riguarda i licenziamenti si interviene sulle modalità con cui la comunicazione al lavoratore deve essere effettuata. Si prevede la possibilità di una sospensione di 15 giorni della procedura conciliativa in caso di «legittimoe documentato impedimento» del lavoratore ad essere presente all’incontro. Arriva poi una conferma: il governo elimina la norma del Ddl (quella che il ministero del Lavoro aveva definito «un refuso») che avrebbe fatto saltare l’esenzione dai ticket sanitari per i disoccupati. E per il congedo di paternità si prevede che sarà obbligatorio un giorno, saranno facoltativi e in accordo con la madre gli altri 2 giorni. Tutta la partita riforma del lavoro però sta rischiando di vedersi dilatare i tempi a causa del calendario del Senato. L’iter verrà fortemente rallentato dalla riforma Costituzionale che assorbirà i lavori dell’aula. L’approvazione della riforma entro l’estate è dunque messa in forte dubbio e non è detto poi che la Camera non modifichi ulteriormente il testo, costringendo ad una terza lettura al Senato in pieno autunno.

AGRICOLI,LAPROTESTAPAGA Ieri invece la protesta dei lavoratori agricoli ha prodotto buoni risultati. La manifestazione unitaria di Flai Cgil, Fai Cisl e Uila ha riempito piazza Santi Apostoli a Roma. La richiesta dei sindacati era quella di ridurre la presenza voucher, «il cui uso è aumentato del 400% mentre il lavoro nero non è diminuito», e di modificare la mini-Aspi, il nuovo ammortizzatore sociale che andrà a sostituire l’indennità di disoccupazione a requisiti ridotti (oggi usato da centinaia di migliaia di braccianti stagionali). Il mini-Aspi si ridurrebbe di un buon 25% e di alcuni mesi di durata. La protesta ha sortito un buon effetto visto che dopo l’audizione dei sindacati in commissione Lavoro al Senato, l’impegno è quello di modificare in senso positivo entrambe le norme: meno possibilità di ricorso ai voucher per gli imprenditori agrari (non si potranno usare per i lavoratori presenti nelle liste del lavoro stagionale) e aumento dell’assegno e della durata del mini-Aspi. In cambio lo strumento dei voucher (una sorta di “buono” in cui il lavoratore viene usato per una determinata prestazione) dovrebbe venire esteso ad altri settori che ora usano contratti stagionali, come il turismo e il commercio.

l’Unità 10.05.12

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«Copertura di due anni per 65 mila esodati», di Roberto Bagnoli

Entro maggio arriverà il decreto per risolvere il problema degli esodati. Riguarderà una platea di 65 mila persone, cioè tutti quei lavoratori che hanno fatto un accordo di uscita con l’azienda e che raggiungeranno i requisiti per accedere alla pensione con le vecchie regole entro il 2013. Lo ha annunciato il ministro del Welfare Elsa Fornero ai sindacati durante l’incontro di una paio d’ore di ieri pomeriggio precisando che «il vincolo delle risorse non può essere messo in discussione». Ai sindacati che obiettavano la limitatezza del provvedimento insistendo sull’opportunità di proteggere tutti (senza mettere cifre nel decreto perché magari nel primo biennio gli esodati sono 68 mila) il ministro ha risposto che «per quelli che sono fuori si vedrà». Aggiungendo, secondo quanto hanno riferito i partecipanti alla riunione di prendersi «tutta l’impopolarità di un provvedimento impopolare».
La Fornero aveva fatto autocritica già in mattinata, partecipando all’assemblea delle Confcooperative, quando aveva riconosciuto di essere in «ritardo nell’attenzione ai più sofferenti e ai più deboli: qui ammetto qualche mia responsabilità». Sempre durante il suo intervento il ministro aveva rivelato che, con i suoi collaboratori, si era chiesta «perché la riforma non è piaciuta molto» arrivando alla conclusione «che c’è troppa diffidenza tra le parti e ognuno tende a guardare i costi che gli competono». «Rispetto alla riforma delle pensioni, con quella del lavoro — ha continuato il ministro — abbiamo scelto la strada del dialogo, è faticoso, non ci sono abituata».
Una ammissione decisamente disarmante che ha spiazzato fino a un certo punto i sindacati. «Meglio tardi che mai — ha commentato il segretario generale della Cgil Susanna Camusso — ma i mea culpa servono a poco se non cambia l’orientamento». Netto anche il giudizio del Pd. Per il responsabile economia e lavoro Stefano Fassina, «il ministro Fornero dovrebbe prendere in considerazione l’ipotesi che l’impopolarità possa derivare da iniquità e da errori fatti, le risorse vanno trovate per tutti gli esodati». «Abbiamo già indicato ipotesi di copertura — ha continuato — il governo riconosca l’errore, ripresenteremo in Parlamento emendamenti di correzione».
Intanto al Senato, dove è in corso l’iter di approvazione del disegno di legge sulla riforma del lavoro, ieri si è saputo che sono 27 gli emendamenti messi a punto dal governo. Per ora sono solo bozze non ancora depositate e che trattano modifiche in parte già annunciate sull’articolo 18 (cancellazione della tipizzazione legale e la semplificazione per l’appello dei lavoratori licenziati). Ci sono anche risorse aggiuntive di circa 200 milioni (da spalmare su più anni) per gli ammortizzatori per i cocopro. Confermate le tutele per le partite Iva al di sotto di 18 mila euro l’anno e il salto del «causalone» per i contratti a tempo determinato anche oltre i sei mesi.
L’impianto della riforma progettata dal governo resta indigesto per il mondo delle imprese. Secondo una ricerca fatta da Swg per conto dell’associazione italiana per la direzione del personale il 69% dei manager dà un giudizio negativo ritenendo la riforma «con alto impatto sulla vita delle imprese, scarso su occupazione e investimenti».

Il Corriere della Sera 10.05.12

"L'elettorato riformista e i sacrifici del PD", di Miguel Gotor

Il Partito democratico ha buone ragioni per ritenersi soddisfatto dei risultati di questa prima tornata delle amministrative. E la questione non riguarda tanto il successo elettorale che apparirà più chiaramente tra due settimane, quando la logica dei ballottaggi premierà in prevalenza i suoi candidati o quelli della coalizione di centrosinistra di cui fa parte. In realtà, i motivi di ragionevole ottimismo sono diversi e più profondi in quanto concernono il posizionamento del Pd nel sistema attuale e la solidità, forse sottovalutata, della sua azione politica.
Anzitutto, il risultato rivela che non solo i militanti, ma anche gli elettori hanno compreso il sostegno dato al governo Monti. Non era un passaggio facile né scontato e in questi mesi i dirigenti intermedi e locali, quelli che, al di fuori dei circuiti mediatici, costituiscono il corpo effettivo di un partito, si sono spesi in un lavoro continuo e oscuro per spiegare le ragioni di quella scelta. Come sempre, la realtà si è rivelata più complicata delle prove in laboratorio che avrebbero voluto trasformare l´esperienza del governo Monti in un eden tecnocratico e post-politico nel quale tutti si sarebbero dovuti riconoscere. In particolare sulla questione della riforma del mercato del lavoro, il Pd è riuscito a valorizzare il significato della sua posizione di responsabile sostegno a Monti, senza il quale l´Italia, parcheggiata in panne da Berlusconi sul ciglio del burrone, sarebbe precipitata in una crisi senza ritorno.
In secondo luogo, i risultati dei soggetti politici alla destra e alla sinistra del Pd confermano un dato troppo spesso ignorato: oggi in Italia esiste una forza popolare e nazionale che, per la prima volta nella storia del Paese, ha un elettorato riformista di massa, propriamente di centrosinistra. Prova ne sia che il Terzo polo delude e certo non sfonda, mentre alla sua sinistra, dove il Pd nelle elezioni del 2008 fece terra bruciata, esiste oggi un variegato campo di forze di carattere leaderistico (da Vendola a Di Pietro, dalle liste civiche dei sindaci a parte dell´elettorato grillino) che supera il 15% dei voti.
Ciò nonostante, il Pd continua a pescare i suoi voti e a rimescolarli, in un´area sociale e politica riformista, favorevole a una proposta di governo di segno progressista. Al di là della loro quantità, che sarebbe sbagliato disprezzare perché corrisponde a quella dei principali partiti riformisti europei, quei voti hanno una loro qualità intrinseca in quanto possono costituire il perno su cui costruire un nuovo progetto di governo fondato sull´alleanza tra riformisti, moderati e le espressioni di nuovo civismo vive nella società civile.
Se il Pd avesse ascoltato le sirene di tanti interessati osservatori, i quali gli hanno insistentemente chiesto di scegliere tra il Terzo Polo e la cosiddetta foto di Vasto, avrebbe sbagliato alla grossa regalando, in un caso oppure nell´altro, praterie elettorali al campo moderato o alla sinistra radicale. Invece, proprio nella posizione in cui sta, il Pd è disturbante, non tanto come partito, che ha i suoi evidenti problemi, peraltro comuni a tutti i grandi partiti organizzati d´occidente, ma come proposta politica nazionale e di segno socialmente interclassista. Anzi, oggi è forse l´unico soggetto che continui a fare politica, ossia a organizzare un´area più vasta del suo consenso come partito, rappresentando un centro di gravità e di attrazione. Può perdere le primarie, può diminuire i suoi voti di lista, ma sono sacrifici tattici, che avvengono dentro un disegno strategico più ampio, appunto di segno riformatore.
Certo, si dirà che Bersani fa di necessità virtù e prova in questo modo a trasformare la sua debolezza in forza, ma non è necessario rimandare ai classici manuali di tecnica politica e militare, da Machiavelli a Sun-Tzu, per sapere che proprio questa è da secoli una delle strategie di lotta più efficaci. Bersani è consapevole dei limiti della forza che rappresenta e non fa, come si dice dalle sue parti, «lo sborone», ma fa politica, che è un´altra cosa, nella saggia consapevolezza di non essere circondato da giganti del pensiero.
La terza ragione di ottimismo è quella che in realtà deve maggiormente preoccupare il Pd perché si riferisce al funzionamento del sistema nel suo insieme. La prevedibile implosione del Pdl toglie al Pd un punto di riferimento sul quale fare leva, rischia cioè di mettere in crisi la tecnica di combattimento utilizzata finora da Bersani che non può più utilizzare l´energia dell´avversario per convertirla in suo favore. Nell´anno che resta alle elezioni, si apre quindi per il Pd la sfida per definire meglio i programmi e i contenuti di una proposta di governo che deve essere il più possibile sintetica e unitaria. Quanto sta avvenendo nel Pdl, però, non deve sorprendere giacché corrisponde a una precisa strategia di Berlusconi che punta a costituire un partito roccaforte del 15-18% per ottenere una rappresentanza parlamentare di fedelissimi utile a tutelare i propri interessi economici, finanziari, giudiziari e politici che continuano a essere rilevanti.
Purtroppo, se il quadro non cambia modificando l´offerta politica in quel campo, l´unica strada da percorrere per la destra italiana sarà quella di puntare all´ingovernabilità, ossia di far abortire la prossima legislatura, trasformandola in una sorta di «caos calmo». Eppure, sullo sfondo di queste alchimie c´è l´Italia, con la crisi economica che batte e l´inadeguatezza delle sue forme politiche, un Paese che oggi si trova a un bivio. Da un lato, può imboccare una strada “franco-spagnola”, con un ordinamento in grado di garantire la governabilità e l´alternanza per affrontare la crisi e, dall´altro, precipitare in una deriva “alla Greca”, con l´implosione del sistema e l´avanzata dei radicalismi di destra e di sinistra. Uno scenario che in questo Paese, per ragioni storiche e culturali che riguardano la qualità di parte delle sue classi dirigenti, solletica appetiti e interessi profondi, a destra come a sinistra.
Per questi motivi, e come rivela anche l´allarmante ritorno del terrorismo a Genova, la strada davanti a Bersani è ancora dura e tutta in salita poiché coincide con le speranze e le possibilità, sempre difficili in Italia, di una proposta riformatrice in questo Paese: egli può contare su un quadro europeo mutato dopo il successo di Hollande e sulla saggezza dell´elettorato italiano, il che in una democrazia non è poco, ma potrebbe non essere abbastanza.

La Repubblica 10.05.12

"Suicidi, nessuna emergenza dovuta alla crisi", di Fabio Tonacci

«Non c´è nessuna emergenza suicidi dovuta alla crisi economica». Il sociologo Marzio Barbagli la mette giù così, quasi brutalmente, con la sicurezza di chi ha in tasca le statistiche corrette. Epurate cioè da interpretazioni fuorvianti o da ondate emotive. I 38 suicidi tra piccoli imprenditori contati dalla Cgia di Mestre dall´inizio dell´anno ad oggi sono un dolore per le famiglie, ma «non rappresentano un´anomalia a fronte delle 1300 persone circa che nello stesso periodo si sono tolte la vita in Italia. I suicidi in questa categoria sociale c´erano anche negli anni passati, più o meno con la stessa frequenza».
A sostegno del suo ragionamento, Barbagli porta i dati delle autorità sanitarie sulle cause di morte in Italia e in Grecia. Il tasso di suicidio nel nostro Paese nel 2009 era 6,6 – cioè 6,6 casi ogni 100 mila abitanti – per un totale di circa 3800 all´anno. In linea con gli anni precedenti. In Grecia nel 2009 il tasso era ancora più basso, intorno al 3,5. «E non ci sono evidenze scientifiche che provino un qualche aumento – sostiene Barbagli – Italia e Grecia sono i Paesi più aggrediti dalla crisi, ma anche quelli dove ci si suicida meno rispetto al resto d´Europa». Le statistiche così ricavate però si fermano, attualmente, al 2009. «È vero – osserva Barbagli – ma le difficoltà economiche partono già nel 2008 con il caso Lehman. In Grecia nel 2009 il pil calò di 5,4 punti, la disoccupazione passò dal 7,7 al 9,5 per cento. Eppure i suicidi furono 391, meno del 2006».
E in questo senso va anche l´ultima indagine dell´Istat, pubblicata sull´edizione online di Wired. È basata su una fonte diversa, il presunto movente indicato dalle Forze dell´ordine. Nel 2010 l´Istat ha contato così 3048 suicidi, di cui 1412 per malattia, 324 per cause affettive e 187 per motivi economici. L´anno precedente con la stessa motivazione ne erano stati classificati di più, 198 su 2986 casi. Nessuna epidemia suicida in corso, dunque.
Eppure non tutti sono d´accrodo. Il Secondo Rapporto Eures parla chiaramente di aumento «esponenziale dei suicidi per assenza di un´occupazione nel periodo che va dal 2006 al 2010». Da una media di 270 nel triennio 2006-2008 si sarebbe passati ai 362 casi nel 2010. Ma è ancora il professor Barbagli a cancellare tutte queste cifre dalla lavagna.
«Gli studi basati sul movente indicato dalle Forze di polizia – dice – risultano inaffidabili perché sottostimano il fenomeno di un 25 per cento. E chi va a fare i rilievi sul cadavere offre per forza di cose un´indicazione grossolana del motivo del suicidio». Che non è mai unico, ma è il risultato di una serie di fattori scatenanti spesso tenuti nascosti, quali depressione, situazioni familiari difficili, salute precaria. L´impulso ad aggrapparsi alla crisi per spiegare un suicidio per certi versi è una reazione umana, che rende il gesto più accettabile.
L´ultima bacchettata di Barbagli è per giornali e televisioni. «Dare risalto a queste storie porta all´”effetto Werther”, dal nome del protagonista suicida del libro di Goethe. Alla fine del diciottesimo secolo, alcune persone si uccisero e furono ritrovate con quel libro in mano. Oggi ci sono 56 studi internazionali che dimostrano l´effetto emulazione. Nasce proprio dal modo in cui vengono diffuse queste notizie. Agisce non su chi già valutava il suicidio, ma su chi non ci pensava affatto. I media, tutti, dovrebbero essere più responsabili».

La Repubblica 10.05.12

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“Chi suicida chi”, di Massimo Gramellini

Ci mancava il dibattito sui suicidi: di chi è la colpa se le persone in crisi si ammazzano, di Monti o di Berlusconi? La responsabilità di quei gesti non è di nessuno. La scelta di togliersi la vita attiene a una zona insondabile del cuore umano che ha a che fare con la fragilità, il dolore, la paura: mondi troppo profondi per farne oggetto di gargarismi politici. La responsabilità della situazione sociale che fa da sfondo agli atti disperati è invece piuttosto chiara. Negli ultimi vent’anni l’Italia è stata governata – bene o male non so, ma governata – soltanto dal primo governo Prodi. Il resto è stato un susseguirsi di agguati, proclami, scandali e cialtronate. Gli altri governi di sinistra hanno pensato unicamente a farsi del male. Berlusconi ai fatti propri. La riforma liberale dello Stato, vagheggiata in centinaia di comizi, si è rivelata la più tragica delle sue bufale. Non poteva essere altrimenti, dato che gli alleati del Nord non volevano il risanamento ma la dissoluzione del Paese e quelli del Sud prendevano i voti dalla massa di mantenuti che qualsiasi riforma seria avrebbe spazzato via.

Monti si è presentato al capezzale di un paziente curato per vent’anni con flebo d’acqua fresca, facendosi largo fra mediconzoli corrotti e infermiere in tanga. Ha riportato serietà nel reparto e messo gli antibiotici nella flebo. Se avesse avuto l’umanità di un Ciampi, si sarebbe anche seduto a far due chiacchiere col malato per tirarlo su di morale. D’accordo, Monti non è Ciampi. Però non ha ucciso nessuno. L’Italia l’hanno suicidata i partiti.

La Stampa 10.05.12