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"Perché dobbiamo fermare l´odio che uccide le donne", di Clio Napolitano

Caro direttore, i fatti di cronaca di queste settimane hanno riportato al centro dell´attenzione il tema della violenza sulle donne, tema che può essere analizzato da tanti punti di vista: sociologico, psicologico, pedagogico e statistico. In ciascuno di questi campi si possono fare analisi diverse anche tra specialisti di ciascuna di queste discipline. Ma ritengo importante che di tali problemi si possa discutere anche tra non specialisti. Ad esempio quando si legge che nel nostro Paese gli atti di violenza sulle donne sono drammaticamente aumentati, io mi chiedo se in termini statistici ciò non sia dovuto al fatto che le norme introdotte nel nostro ordinamento abbiano incoraggiato la denuncia da parte delle vittime di tali reati, tenuto conto che la maggior parte di essi vengono commessi nell´ambito familiare, il più difficile da penetrare.
Tenuto conto che già esistono nel nostro ordinamento leggi abbastanza severe in materia e che gli atti di violenza sulle donne assumono tante modalità diverse e vengono attuati i tanti diversi contesti, mi chiedo se sia necessario pensare a nuove fattispecie di reato o ad aggravanti.
A mio parere sarebbe forse più incisivo accelerare le procedure relative alla condanna del colpevole o dei colpevoli, una volta che la donna abbia trovato il coraggio di denunciare il reato e di affrontare il processo la cui lentezza è cosa nota.
Un´ultima considerazione: mi ha colpito sempre in relazione ai recenti fatti di cronaca l´uso della parola “femminicidio” per indicare una insana concezione del genere femminile come presupposto dell´atto di violenza, diverso dal reato di omicidio.
Non ho dubbi che questo tipo di violenza affondi le sue radici nella discriminazione di genere, in una concezione proprietaria della donna, in un certo maschilismo presente nella nostra società.
Tuttavia mi chiedo: le donne che tra tanti innumerevoli pregi hanno anche quello della fantasia, non potrebbero inventare un´altra parola, avendo istintivamente colto in “femminicidio” una intonazione di disprezzo? Oppure si tratta di una diversa sensibilità generazionale?

La Repubblica 09.05.12

"Chi ha paura delle elezioni", di Barbara Spinelli

Tutti ricordiamo le parole che Roosevelt pronunciò il 4 marzo 1933, appena eletto. La crisi che s´accingeva a fronteggiare era simile alla nostra, e disse: «La sola cosa che dobbiamo temere è la paura stessa: l´indicibile, irragionevole, ingiustificato terrore che paralizza gli sforzi necessari per convertire una ritirata in avanzata». Dopo le elezioni in Francia, Italia, Grecia, potremmo applicare la frase ai timori suscitati in molte capitali dai verdetti delle urne. «La sola cosa che l´Europa deve temere, oggi, è la paura che i tribunali elettorali suscitano nei governanti, nei partiti classici, in chiunque difenda lo status quo pensando che ogni sentiero che si biforca e tenta il nuovo sia una temibile devianza».
È con grande sospetto infatti che si guarda al nuovo Presidente socialista, e non solo quando in gioco è l´economia. Anche la sua politica estera è temuta: la volontà di uscire fin da quest´anno dall´Afghanistan, il rifiuto opposto nel 2009 quando Sarkozy decise di rientrare nel comando militare integrato della Nato. Ma il mutamento che maggiormente indispone e terrorizza è il rinegoziato del patto fiscale (fiscal compact) approvato a marzo da 25 Stati dell´Unione. È qui il nodo più difficile da sciogliere.
I capi d´Europa non troveranno salvezza che in simili mutamenti, ma cocciutamente rifiutano quel che li può salvare, considerandolo dinamite. Si sentono destabilizzati nelle loro certezze, e poco importa se son certezze empiricamente confutate, se la Merkel dovrà retrocedere comunque, perché senza socialdemocratici il fiscal compact non passerà in Parlamento. Giungono sino a dire che la formidabile spinta a cambiare politica è antipolitica, o conservatrice. In Grecia il partito d´estrema sinistra (Syriza, Coalizione radicale della sinistra) è divenuto il secondo partito, superando i socialisti del vecchio Pasok, e il suo leader, Alexis Tsipras, sta tentando di formare un governo. Anche lui è tacciato di antipolitica, eppure è un europeista che profetizza il precipizio nella povertà e nel risentimento degli anni ‘30, se Angela Merkel non capirà la speranza racchiusa nella rabbie popolari. «L´Europa ha disperatamente bisogno di un New Deal stile Roosevelt»: non è disfattismo quello di Tsipras, ma ardente appello a un´Unione più forte.
Di questa paura del nuovo converrà liberarsi, in Europa e America, perché anch´essa è terrore irragionevole, non già volontà di ripensare gli errori ma, come la chiamava Tommaso d´Aquino, chiusa non-volontà, nolitio perfecta. Non è un magnifico status quo quello che Hollande vuol rimettere in questione, non è una stabilità radiosa, che avrebbe dato chissà quali buoni frutti. Le urne dicono questo: il bisogno di Europa, di una politica che salvi il continente dal naufragio della disperazione sociale e di una guerra di tutti contro tutti. Il continuo accenno alla Grecia come spauracchio – e capro espiatorio – agitato dai nostri governi a ogni piè sospinto, non è altro che ritorno al vecchio bellicoso equilibrio di potenze nazionali, tra Stati egemoni e Stati protettorati.
Hollande ha in mente non solo l´economia, ma anche l´inerte mutismo europeo su pace e guerra. In Afghanistan la guerra iniziata dall´Occidente sta finendo in catastrofe, come ha spiegato con efficacia il generale Fabio Mini sul Corriere della sera: «È una guerra che stiamo combattendo con onore al fianco degli americani fingendo di non vedere che l´hanno già perduta. Sono stati sconfitti sul campo di battaglia nel 2003, quando dovettero coinvolgere la Nato per l´incapacità di gestire la violenza dei talebani e la corruzione del governo che avevano instaurato. Sono sconfitti ogni giorno sul campo dell´etica militare per l´incapacità di gestire l´eccesso di potenza, la frustrazione e i comportamenti degli squilibrati».
Lo stesso vale per la Nato: strumento che dopo la guerra fredda ha subito modifiche radicali, imposte da Washington e mai seriamente discusse tra europei. Da alleanza difensiva puramente militare, la Nato è divenuta un organo eminentemente politico, che esporta democrazia senza riuscirci, secernendo caos e Stati deboli, dipendenti o riottosi. Non stupisce dunque il fastidio manifestato da Hollande verso la scelta che ha coinvolto Parigi in un comando militare dominato dalla declinante potenza Usa. È bene che un Paese europeo di prima importanza chieda di fermarsi, e si interroghi sul punto cui siamo arrivati: che critichi lo status quo mentale che è dietro le guerre occidentali e dietro alleanze surrettiziamente snaturate. L´Unione, la Nato, i nostri rapporti col nuovo mondo multipolare: la mutazione già è avvenuta; sono la politica e l´Europa a esser sordo-mute, non all´altezza.
Queste battaglie di politica estera, così come le battaglie per un´Europa che sappia resistere alle forze disgregatrici dei mercati, dovranno tuttavia partire da un´unione di forze, da istituzioni comuni che durino più dei governi e diano sicurezza ai cittadini tutti. Che non si limitino più a eseguire gli ordini degli Stati più forti, e di un´ortodossia che non tollera pensieri eretici. Per questo Hollande non va lasciato solo, alle prese con le paure che suscita a Berlino o nelle accademie. Sul tema pace-guerra, come sulle discipline di rigore, occorre che gli Europei si radunino e definiscano senza paura i loro interessi, e le lezioni che vogliono trarre dai voti dei giorni scorsi.
Cosa dicono in ultima istanza le urne, oltre al rifiuto dell´austerità? Dicono che un numero crescente di elettori, a destra e sinistra, cede al richiamo del nazionalismo, della xenofobia, dell´antipolitica perché, pur conoscendo i disastri del richiamo, non vede formarsi uno spazio pubblico, un´agorà europea, in cui vien disegnato un nuovo ordine mondiale. Perché vedono candidati spesso corrotti, oppure governanti ingabbiati in dottrine economiche calamitose e in un ordine mondiale obsoleto, somma caotica di vizi e impotenze nazionali. Non vedono un´Europa ambiziosa, che proponga un modello di pace mondiale e non sia il Leviatano di Hobbes: potere sganciato dalle leggi civili, in assenza del quale (questa la sua propaganda) la vita è destinata a esser «solitaria, povera, incattivita, brutale, e corta». Grillo in Italia non è insensibile a questi richiami, anche se tanti suoi candidati e amministratori non credo siano d´accordo.
La sera della vittoria, alla Bastiglia, Hollande ha annunciato che la Francia vuol divenire un modello in Europa. Ma il grande salto qualitativo lo compirà il giorno in cui, negoziando con i partner, comincerà a esigere che l´Europa in quanto tale divenga modello. Quando dirà: tornerete ad avere fiducia nell´Unione creata nel dopoguerra, perché le abbiamo dato una voce unica e un governo federale dotato di risorse sufficienti a rilanciare l´economia al posto degli Stati costretti al rigore.
La volontà di ripensare la questione pace-guerra ha senso solo se partirà dall´Unione, non da un Paese isolato. L´idea di Kohl, quando nacque l´euro, va ripresa, continuata. La Germania sacrificò il marco sovrano, sperando nell´Europa politica e nella difesa comune. Il no di Mitterrand scatenò nei tedeschi diffidenze che perdurano. Quella stortura va corretta. Non dimentichiamolo: il federalismo europeo è ben più inviso a Parigi che a Berlino.
Lo stesso si dica per le politiche, che non possiamo più delegare agli Usa, verso paesi arabi, Palestina, Russia. Occorre che l´Europa decida se vuol divenire potenza. Una potenza che non getti fuoribordo Atene, trattando i deboli come perdenti in guerra. La fierezza d´esser europei cresce solo così: risuscitando il modello sociale, l´ambizione politica degli inizi. Facendo di tutto perché i presenti tumulti popolari non siano un´occasione di regresso, ma si convertano in ripresa e ricominciamento.

La Repubblica 09.05.12

"Il federalismo che può salvare l´Europa", di Giuliano Amato, Jacques Attali, Emma Bonino e Romano Prodi

Una grave crisi politica e sociale travolgerà i paesi dell´Euro se essi non decideranno di rafforzare la loro integrazione. La crisi della zona Euro non è iniziata con la crisi greca ma è esplosa molto prima, quando è stata creata un´unione monetaria senza unione economica e fiscale. e nel contesto di un settore finanziario drogato da debiti e speculazione. Certo, i debiti pubblici sono esplosi in questi ultimi trent´anni ma sono gli squilibri fra i paesi della zona Euro che hanno determinato la situazione attuale.
Da una parte, un insieme costituito dai paesi del Nord Europa con la Germania in testa ha costruito la sua economia sulla competitività e le esportazioni. D´altra parte, i paesi della periferia hanno utilizzato deboli tassi di interesse per alimentare la loro domanda interna e costruito la loro economia su settori di beni non esportabili o meno sottoposti alla concorrenza esterna, come il settore immobiliare.
L´esplosione della crisi greca ha messo in luce questi difetti strutturali, creando una crisi di fiducia nella sostenibilità dei debiti pubblici: i creditori hanno scoperto l´insostenibilità degli squilibri nella zona Euro (…).
La mancanza di coordinamento e i piani di salvataggio adottati volta per volta non permettono di rendere compatibili il rigore finanziario e la crescita economica. Peggio ancora i tagli alle spese, cercando di realizzare dei guadagni immediati, colpiscono soprattutto le spese sociali e gli investimenti, condizionando negativamente il futuro.
Questo clima di incertezza frena la domanda e le famiglie preferiscono risparmiare in previsione di future tasse. Contemporaneamente, le banche limitano i crediti al settore privato per risanare i loro bilanci. Cosicché il rilancio non può venire né dalla domanda né dagli investimenti privati né dagli appalti pubblici. (…) Se lo scenario attuale si perpetuerà nel tempo, l´Euro non potrà più disporre dei mezzi per resistere alle tendenze centrifughe ed alla crescita dei populismi. La fine dell´Euro sarà allora solo questione di tempo. L´Unione europea non potrà uscire da questa crisi senza un cambio di paradigma.
Un´altra via di uscita è possibile. Essa consiste nel correggere gli squilibri dell´Unione economica e monetaria superando le insufficienze del trattato di Lisbona per andare al di là del coordinamento fra Stati membri. Essa consiste nel denunciare, ridurre e progressivamente annullare i costi della non-Europa.
Per giungere a questi risultati occorre rilanciare la produttività attraverso riforme strutturali, in particolare nel settore dei servizi ed investimenti in progetti generatori di crescita. (…) Per questa ragione è urgente creare dei project bonds, cioè del debito buono, finanziando esclusivamente progetti generatori di futuri redditi. La Banca europea degli investimenti (Bei) si potrà senza difficoltà assumere a proprio carico questi progetti sulla base di proposte della Commissione europea.
Occorre circoscrivere poi i debiti del passato mutualizzandone una parte, come proposto dal Consiglio degli esperti tedeschi o dall´Istituto Bruegel. (…) All´interno di questa logica occorrerà rafforzare la cooperazione fra la Commissione e i ministeri del Tesoro nazionali nel quadro di un´autorità fiscale europea e nella prospettiva di creare un Tesoro europeo utilizzando il metodo applicato alla Bce che fu preceduta dall´Istituto monetario europeo. Si tratta di una nuova tappa verso la creazione di un governo dell´economia europea con un ministro federale delle finanze.
Ma gli investitori acquisteranno i project bonds solo se i mezzi per rimborsarli non proverranno dal contributo volontario dei paesi della zona Euro, perché aumenterebbe il loro debito. Soltanto un´imposta europea nel quadro di un bilancio federale potrà dare credibilità adeguata a questo strumento di crescita. Per finanziare il bilancio federale si può pensare a un punto in percentuale dell´Iva, a una carbon tax e a una tassa sulle transazioni finanziarie. (…)
Nessuna imposta potrà essere tuttavia decisa senza legittimità democratica e senza risolvere la crisi di fiducia fra l´Unione europea e i suoi cittadini (…). L´euro non potrà sopravvivere senza un progresso politico democratico decisivo. Noi chiediamo che i deputati europei della zona Euro si riuniscano immediatamente – aperti alla partecipazione di altri deputati europei che lo vorranno – per precisare il cammino che dovrà essere intrapreso da oggi alle elezioni europee nel 2014. Sulla base delle proposte che saranno elaborate, noi chiediamo ai deputati europei di promuovere l´organizzazione di assise interparlamentari sull´avvenire dell´Europa a partire dalla zona Euro, che accoglieranno delegazioni del Pe e dei parlamenti nazionali come era stato proposto da François Mitterrand davanti al Parlamento europeo alla vigilia della caduta del Muro di Berlino. Questo federalismo di necessità darà vita ad una vera Europa politica e sociale, le cui istituzioni garantiranno un giusto equilibrio fra politiche monetarie e di bilancio, la stimolazione dell´attività economica, le riforme strutturali della competitività e la coesione sociale rafforzata. La sopravvivenza dell´Euro passa attraverso un governo economico europeo ed un bilancio europeo di crescita.
Solo il federalismo sarà capace di evitare il fallimento dell´Euro e le sue conseguenze disastrose sulla vita di tutta l´Unione europea. Esso aprirà agli europei la via verso un´Europa giusta, solidale e democratica in grado di garantire il suo spazio centrale nel mondo.
Hanno firmato, tra gli altri, Enrique Barón Crespo, Rocco Cangelosi, Jean-Marie Cavada, Fabien Chevalier, Daniel Cohn-Bendit, Stefan Collignon, Catherine Colonna, Pier Virgilio Dastoli, Monica Frassoni, Evelyne Gebhardt, Pauline Gessant, Sandro Gozi, Ulrike Guérot, Guillaume Klossa, Pascal Lamy, Philippe Laurette, Jo Leinen, Anne-Marie Lizin, Alberto Majocchi, Pasqual Maragall, Philippe Maystadt, Yves Mény, Haris Pamboukis, Alberto Quadrio Curzio, Barbara Spinelli, Francisca Sauquillo, Anna Terrón, Jacques Ziller

La Repubblica 09.05.12

"Vincere sulle macerie", di Stefano Menichini

Il popolo del centrodestra non esiste più. L’unico successo dell’intera avventura berlusconiana – l’aver dato a metà del paese un’identità prima inesistente – svanisce nel nulla, mentre l’artefice è distante, distratto, disinteressato. Una gigantesca voragine si apre nel mercato elettorale e solo una forza politica riesce a recuperare una parte dell’enorme diaspora. Ma non è una vera forza politica: è un movimento che si è messo in favore di vento e che risponde alle logiche della personalizzazione e del radicalismo che in effetti erano presenti nel calderone di Berlusconi e in quello di Bossi, la cui crisi procede parallela.
Così sono Grillo e l’astensionismo i dati che, sul piano meramente elettorale, saltano agli occhi dal turno amministrativo. Entrambi – gli studi sui flussi lo confermeranno – a scapito soprattutto del Pdl e della Lega.
L’incapacità di intercettare la delusione post-berlusconiana (e la vaghezza delle direzioni che questa delusione prende) è il vero neo dell’evidente e atteso successo del Pd.
Stavolta non ci sarà bisogno di aspettare i ballottaggi per capire l’impatto politico nazionale del voto amministrativo. Passato lo tsunami, il Partito democratico rimane l’unico partito in piedi. Il bilanciamento col Pdl è ormai mera finzione, retaggio parlamentare di un’epoca cancellata. I democratici non sono solo primi in Italia, lo sono ormai anche nel Nord un tempo impenetrabile. Per vie contorte e per meriti non tutti loro, sono finalmente quella forza centrale nel paese che era nella missione originaria.
Solo che, per parafrasare Bersani, questo è davvero un «vincere sulle macerie», laddove le macerie sono anche quelle del progetto di Casini di reinventare un centrodestra a sua immagine e leadership.
Questa situazione rappresenta un grave problema: da domani il Pd sarà l’unico contraltare a un turbinio di cose diverse, un mix di speranze, istanze radicali e pura rabbia distruttrice.
Si rafforzerà inevitabilmente la tendenza, già evidentissima, a fare del Pd il bersaglio preferito degli anatemi contro i costi e le inefficienze della politica. Si acuirà la polemica contro provvedimenti del governo che il Pd, sempre più in solitudine, si troverà a dover difendere. E si esagererà la confusione – che per carità, c’è – dell’ipotetica coalizione di centrosinistra candidata alle elezioni nazionali.
A proposito di quest’ultimo punto, l’unico forte motivo di imbarazzo in vista dei ballottaggi è in realtà Palermo, dove Orlando ha giocato poco pulito contro le primarie ma ha dimostrato di avere ancora (incomprensibilmente, lo confessiamo) presa sulla città. Vale però la pena di ricordare che già in passato, in situazioni analoghe tipo Napoli, Bersani ha dimostrato una certa agilità nell’archiviare senza grossi danni gli infortuni dovuti allo scarso spessore del suo quadro dirigente locale.
Legittimo – soprattutto dopo il poderoso terremoto elettorale europeo – chiedersi se queste amministrative rimbalzeranno pericolosamente contro il governo Monti.
Non certo per quanto riguarda il Pd, che anzi ha adesso tutto l’interesse a fare tesoro della vittoria di Hollande per bilanciare le politiche di rigore di Monti con forti iniziative per la crescita e l’occupazione. Monti in realtà è già su questo binario da tempo, e ne sta facendo la ragione di protagonismo internazionale. Da domani, però, qualsiasi passo visibile in questa direzione sarà rivendicato da Bersani come conseguenza dei mutati equilibri continentali e, appunto, della nuova assoluta centralità del Pd in Italia.
Tanto meno il Terzo polo potrà essere fattore di instabilità. L’immaturità del progetto di Casini è palese, e i risultati elettorali spiegano anche il perché: il flusso originato dallo scioglimento del ghiacciaio elettorale berlusconiano si riversa in contenitori più estremi, più radicali, o nel puro e semplice rifiuto del voto. Non c’è niente da fare: anche se l’analisi sulla fine del bipolarismo all’italiana era corretta, non sono questi i tempi in cui la domanda di cambiamento possa orientarsi verso Casini, Fini e Rutelli.
Ovviamente, sempre a proposito della tenuta del governo, c’è l’incognita Pdl. Ma è destinata a rimanere tale per un bel po’, forse per sempre. Lo scioglimento del partito è un dato di fatto, al quale Berlusconi dovrebbe dare presto il suggello. Il Pdl rimane un enorme contenitore di ceto politico (già in lotta per le spoglie) il cui popolo è però in fuga in ogni direzione. Alfano ha ragione solo in parte, quando individua nell’appoggio al governo la causa principale della sconfitta elettorale. In realtà era un’utopia sperare che il tempo diluisse e magari neutralizzasse le conseguenze del fallimento del governo di centrodestra. Il conto arriva, Berlusconi lo aspettava ed è stato lesto a non farsi trovare all’appuntamento con gli esattori.
Lo stesso discorso vale per la Lega. Diamanti e diplomi fasulli sono arrivati solo a rendere più esplosiva una crisi di strategia forse definitiva: a che cosa serve, adesso, la Lega? Tante dotte e benevolenti analisi sul “sindacato di territorio”, fresche di pochi mesi, già affondano nella melma delle batoste di Monza e Cassano Magnago. Il notevolissimo successo di Tosi a Verona non cancella questa realtà. Casomai spalanca interrogativi sulla Lega “diversa” di cui parla un po’ a casaccio Maroni: quella impersonificata da Tosi è una Lega quasi neanche padana. E allora?
Il grande cambiamento di scenario al quale stiamo assistendo è in fondo l’evento, previsto, della fine del berlusconismo e della ricollocazione di tante forze, pulsioni, interessi. C’era chi se l’aspettava tumultuoso, chi lo sognava regale e ordinato, chi fangoso e inquinato, chi lineare cioè un semplice transito di consenso e potere da centrodestra a centrosinistra.
La transizione italiana non è nessuna di queste cose. È piuttosto una frammentazione priva di ordine, senza che vengano avvistati agenti riunificatori. Grillo contiene ovviamente in se stesso il germe dell’impossibilità a proporsi come alternativa effettiva, e del resto lo dice.
Questa sorta di blow-up italiano affida al Pd una responsabilità enorme e un compito più difficile di quanto la sua leadership aveva sempre pensato. Non si tratta (più) di vincere in un confronto fra alternative: nel 2013 potrebbe anche non presentarsi alcuna alternativa solida, senza che per questo le cose diventino più facili.
Il grande compito, una vera missione, è la ricomposizione di questo quadro in pezzi che è l’Italia. Senza considerare irrilevante alcun frammento, senza consegnare ad alcuno la rappresentanza del disagio, della protesta o, all’opposto, dell’ansia di pacificazione.
Volendo, è un po’ il lavoro che si è assegnato domenica sera François Hollande. Il paradosso italiano è che la (difficile) riunificazione francese appare almeno pensabile, avendo avuto di fronte e dopo aver sconfitto un Sarkozy, cioè una buona metà del paese. Riunificare fra le macerie, e in una grande confusione di interlocuzione politica, sembra oggi davvero una missione impossibile.

da Europa Quotidiano 08.05.12

"Ecco come Tremonti ci è costato un punto di Pil", di Bianca Di Giovanni

Scarsa trasparenza dei costi «effettivamente e globalmente sostenuti e dei risultati realmente conseguiti». Così si esprime la Corte dei Conti in un’audizione sulle cartolarizzazioni di immobili varate dal governo Berlusconi all’inizio degli anni 2000.

Sui risultati realmente conseguiti si è fatta piena luce subito dopo il ritorno al governo del duo Berlusconi-Tremonti nel 2008. A qualche mese dal ritorno in via Venti Settembre del ministro «creativo» la Ragioneria ha contabilizzato una perdita di un miliardo e 700 milioni che metteva la parola fine all’avventura sciagurata delle Scip, le società veicolo di quelle che furono annunciate come le più grandi operazioni di cartolarizzazioni mai viste in Europa.

Un «buco» miliardario, rimasto per lo più nascosto nelle carte impolverate dei contabili, mentre le cronache cominciavano a parlare di rigore e sacrifici. Alla fine della fiera di sofisticate operazioni finanziarie, ha pagato Pantalone. Forse oggi, in tempi di spending review, varrebbe la pena inserire nella lista degli sprechi anche quei «buchi» nascosti lasciati in eredità dal centrodestra.

Con gli stessi toni altisonanti che annunciavano la vendita «virtuale» degli immobili, qualche anno più tardi il superministro dell’Economia si scagliava contro la speculazione e i rischi che le banche avevano scaricato sui consumatori. Tacendo che proprio con le Scip il rischio finale era rimasto in capo allo Stato, ovvero a tutti i contribuenti onesti.
Quel miliardo e 700 milioni sono stati certamente una parte minuscola rispetto ai 100 miliardi di manovre fatte sulle spalle degli italiani dal 2008 a oggi. Ma pensare che quella somma equivale a circa la metà dell’Imu sulla prima casa (per l’appunto la casa che il Pdl considera «sacra), oggi fa tremare i polsi. Così come leggere i rilievi della Corte dei Conti. La scarsa trasparenza si riscontra anche negli immobili oggetto di cartolarizzazione, di cui compaiono ben quattro liste non completamente coincidenti.

«Il secondo ordine di osservazioni conclusive – prosegue la Corte – attiene al completo affidamento della gestione dei contratti a fornitori esterni di servizi, con effetti di carenze nei monitoraggi dei costi e dei benefici pubblici e di limitato effetto di internalizzazione di buone pratiche in tema di pianificazione e gestione strategica degli attivi pubblici».

Insomma, lo Stato ha abdicato al suo ruolo, consegnando «chiavi in mano» al privato asset importanti del suo patrimonio. Il risultato è stato disastroso. A proposito di chi chiede l’arretramento della cosa pubblica. I magistrati contabili bocciano senza appello anche la cartolarizzazione dei giochi, anche quella finita nel dimenticatoio della politica.

«L’operazione è risultata chiaramente costosa ed inidonea – scrivono – a dare un contributo positivo al miglioramento dei conti pubblici. Infatti non ha avuto nessun effetto positivo sull’indebitamento netto ed ha, per converso, fatto aumentare il debito per 3 miliardi di euro nel 2001». Se si sommano questi risultati a quelli delle Scip, si arriva a quasi 5 miliardi andati in fumo per via delle scelte «creative» di Giulio Tremonti. Ma soldi a parte (che pure pesano eccome), il limite maggiore dell’operazione è stato quello di aver mantenuto il rischio in capo al «cedente», ovvero lo Stato e gli enti di previdenza già proprietari degli immobili.
«Un esempio estremo sotto questo profilo – continuano i giudici – è quello della cartolarizzazione dei proventi futuri del lotto e del superenalotto, per la quale si è registrata a consuntivo la cessione di un importo di future entrate (oltre 27 miliardi) superiore 9 volte il corrispettivo iniziale corrisposto dalla società veicolo allo Stato italiano (3 miliardi)».

Insomma, lo Stato ha incassato subito 3, i privati 27. Così come lo Stato centrale si è accollato il rischio delle perdite sulle cartolarizzazioni, è toccato agli enti locali assumersi quello relativo agli strumenti derivati, l’altra partita giocata dall’ex ministro dell’Economia nella fase in cui credeva (ancora) nelle magie della finanza.

Fu lui infatti ad aprire la strada all’acquisto di prodotti finanziari opachi e ad alto rischio da aperte delle amministrazioni locali, con una disposizione inserita nella Finanziaria relativa al 2002. Salvo poi inserire nella Finanziaria per il 2009 un divieto esplicito a sottoscrivere nuovi contratti: evidentemente in quell’anno il ministro si era già convertito a nemico dei mercatisti.

La scommessa
Quanto è costata al Paese quella scommessa ad alto rischio? Le cifre circolate l’anno scorso parlavano di perdite tra i 6 e gli 8 miliardi, a fronte di un’esposizione complessiva degli enti locali di circa 40 miliardi. Le operazioni sono state effettuate da 18 Regioni, 58 province, 54 capoluoghi e circa 700 Comuni. Molti amministratori hanno denunciato vere e proprie truffe da parte degli intermediari.

Molti di loro erano stranieri, e grazie a questo sfuggivano ai controlli nazionali. Insomma la penisola è stata terra di conquista. E tra cartolarizzazioni e derivati, l’Italia governata dal centrodestra ha perso quasi un punto di Pil.

l’Unità 08.05.12

Prodi: "L'Ue diventi più forte. Altrimenti salta tutto", di Fabio Martini

Per temperamento Romano Prodi non ha mai coltivato allarmismi, ma stavolta proprio lui, il cultore dell’«adagio adagio», dice che «siamo ad un bivio della storia europea», non c’è più tempo da perdere, perché gli spiriti antieuropei emersi in Grecia accelerano una svolta in «tempi brevi», senza la quale l’Europa rischia «l’implosione». La diagnosi è cruda e chiara: «Poiché gli Stati nazionali hanno perso sovranità e non hanno la forza di opporsi da soli all’aggressività dei mercati», devono «riacquistare la sovranità persa, conferendola ad una Unione più forte» e finalmente dotata delle armi per spegnere l’incendio. Sempre in giro per il mondo – reduce da un convegno internazionale ad Addis Abeba sul futuro dell’Africa e pronto a ripartire per la Cina e gli Usa – l’ex presidente della Commissione europea si tiene sempre aggiornato sulle cose dell’Europa, conosce da vicino i leader, le loro virtù, i loro limiti.

Nell’autunno del 2005 Hollande la invitò al congresso socialista di Le Mans, lei spiegò ai francesi le virtù delle Primarie appena vinte in Italia, loro ascoltarono e poi sei anni dopo vi hanno imitato: si sono ricordati?

«Il Ps, che era un partito chiuso, è rinato attorno alle Primarie che loro stessi hanno definito “à l’italienne”. Si può dire che abbiamo fatto scuola. Poi bisogna vedere se noi abbiamo imparato da noi stessi».

Hollande non sembra avere il carisma di Mitterrand e neppure le rigidità del socialista protestante Jospin: le sembrano tempi propizi per un leader normale?

«Di questi tempi essere “Monsieur Normal” aiuta. Certo, può esserci un interrogativo legato alla mancanza di esperienze di governo ma proprio per questo aspettiamolo alla prova. Siamo in una fase storica nella quale ad un leader di governo è richiesta la capacità di far sinergia, piuttosto che solitarie doti messianiche. E’ il momento delle leadership cooperative poi magari, se li vorranno, torneranno i leader solitari».

In tutta Europa non si è creata un’attesa eccessiva su Hollande, quasi avesse chissà quali qualità taumaturgiche?

«Quelle qualità non le ha nessuno. La Francia deve tornare a fare la Francia e tutte le dichiarazioni del nuovo Presidente dimostrano una maggiore libertà nella scelte delle alleanza e dei contenuti rispetto al predecessore. Spero che Hollande capisca quanto sia utile stringere rapporti più stretti con Spagna e Italia, superando, la politica del rapporto solitario con la Germania. Assieme alla quale la Francia continuerebbe a fare la parte del parente povero».

I capisaldi dell’Italia di Monti sono disciplina di bilancio e più concorrenza nel mercato unico: da questi orecchi la Francia non ci sente, anzi non bisognerebbe richiamarla ad una maggiore reciprocità?

«Sì, è vero servirebbe più reciprocità, ma da questo punto di vista non penso ci potranno essere grandi novità. Ma sicuramente servono piattaforme comuni tra Italia, Spagna e Francia, accettate dalla Germania».

Oramai tutti parlano di crescita: come si fa a riempire questa parola di significato e di fatti?

«La crisi che stiamo vivendo è la più grave dal 1929 e va ben oltre l’euro. E’ il concetto stesso di sovranità ad essere entrato in crisi. La politica interna ed economica oramai è determinata dallo spread, dall’aggressività dei mercati. Ma tutto questo segna la fine di un’epoca e richiede contromosse adeguate».

La sua cura?

«La cura europea è molto semplice. Siccome nel mondo nessuno, salvo Cina e Stati Uniti, è immune da questi attacchi, per riacquistare la sovranità persa bisogna conferirne ad una Unione abbastanza grande che sia capace di resistere, l’Unione europea. Non c’è mica scelta: sei grandi o non resisti. Non si attaccano gli Stati Uniti perché sono un cane grande? Bene anche l’Europa deve diventarlo».

Facile a dirsi, ma come si diventa un cane che fa paura?

«Eurobond, rafforzamento della Banca centrale, politica energetica comune e poi potremmo – continuare ancora a lungo. Il problema è volerle queste cose».

In fondo le elezioni regionali sono andate malino ma non malissimo per la Merkel: perché dovrebbe cambiare la sua politica europea?

«Perché anche la Germania da qualche mese è in crisi anche lei, sostanzialmente va a zero. Certo, la Merkel ragiona sui tempi brevi, ma ora è arrivato il tempo di guardare oltre l’angolo».

Quando ha ascoltato il commiato di Sarkozy, le è tornato alla mente la violenta contestazione della legittimità della vittoria dell’Unione nel 2006 da parte di Berlusconi?

«Non amo sprofondarmi in ricordi, ma certo quello resta un capitolo tristissimo. Lo fecero per iniziare ad indebolire il governo. Berlusconi se ne avvantaggiò, incurante di danneggiare il Paese».

La Stampa 08.05.12

L'argine-Pd contro l'esasperazione", di Federico Geremicca

Un cumulo di macerie politiche. E in mezzo ai rottami di partiti che non ci sono più (il Pdl), di movimenti messi in ginocchio dai loro stessi errori (la Lega) e di esperimenti rivelatisi nelle urne espedienti mediatici o poco più (il Terzo polo) solo il Pd sembra reggere l’urto dell’esasperazione popolare. Il Pd si conferma – e adesso di gran lunga – il primo partito del Paese. Non che il voto non abbia riservato amarezze anche ai democratici di Pier Luigi Bersani, com’era prevedibile: ma a fronte della polmonite che ha colpito gli altri, quel che turba il Pd può esser per ora considerato un semplice seppur fastidioso raffreddore. E nulla più.

Le vicende di Palermo e Genova, certo, non sono esaltanti. Nel capoluogo siciliano il candidato Pd vincitore delle primarie va sì al ballottaggio, ma è più che doppiato dall’inossidabile Leoluca Orlando: comunque la si pensi, un leader vero, passato indenne attraverso cambi Repubblica (sindaco nella Prima e salvo terremoti anche nella Seconda) e cambi di partito; e a Genova, ferita ancora sanguinante, i democratici devono assistere al trionfo di Marco Doria, l’uomo che ha sconfitto alle primarie le due candidate del Pd. Qualche altra delusione, certo, è arrivata qua e là: ma nulla di paragonabile alla vera e propria messa in liquidazione che ha ridotto il Pdl a forza minore e la Lega – salvo Verona – ad un esercito in rotta anche al Nord e nelle sue troppo enfatizzate valli.

Ci si potrà interrogare a lungo intorno al risultato ottenuto dal partito di Bersani: si potrà, cioè, andare a cercare il pelo nell’uovo oppure dettagliare complicate spiegazioni circa la sua capacità di resistenza di fronte alla slavina che ha investito l’intero sistema politico. Ma forse varrebbe la pena di accontentarsi – per il momento – di analisi semplici, a cominciare da quella che riguarda – in fondo – la natura stessa del Pd: l’unico partito realmente strutturato lungo tutta la penisola e che – erede di due forze storiche e diversamente ideologiche (la Dc e il Pci) – gode di un residuo «voto di appartenenza» che ne permette la tenuta anche in momenti difficili come quello in questione.

Solo stamane, facendosi largo nella miriade di liste civiche e di formazioni di questo o quel sindaco, sarà probabilmente possibile avere percentuali più attendibili e capaci di indicare con precisione lo stato di salute del Pd. Ma due cose appaiono chiare fin da ora: che saranno moltissime le amministrazioni (anche importanti) che passeranno dal centrodestra al centrosinistra e che il voto – per la sua carica dirompente – consegna ai democratici certo buone soddisfazioni, ma anche un problema di non poco conto: e cioè il rapporto da tenere (da continuare a tenere) con il governo di Mario Monti.

Ieri, a scrutinio ancora in corso, Pier Luigi Bersani ha confermato sostegno e lealtà all’esecutivo tecnico di SuperMario, chiedendo solo che il Pd venga ascoltato un po’ di più e le sue proposte valutate con meno sufficienza. Ma non è dal rapporto diretto col premier e i suoi ministri che, presumibilmente, arriveranno insidie e difficoltà: il problema (l’eventuale problema) rischia piuttosto di esser determinato dalla possibile reazione di Berlusconi e di quel che resta del Pdl all’indomani di un voto che è assai più di un ultimatum o di un avvertimento.

Quel che lo stato maggiore del Pd può temere è una netta e brusca presa di distanze del Popolo della libertà dal governo Monti. Non una reazione, naturalmente, che arrivi fino al punto di rovesciare il tavolo e aprire una crisi, ma un cambio di passo, di atteggiamento che trasformi la sua fiducia e il suo sostegno in qualcosa di simile (se non di peggio) a un appoggio esterno. Questo consegnerebbe al Pd (e ad un Terzo polo deluso e ferito) la quasi esclusiva responsabilità di tener in vita il governo: con tutto quel che ne potrebbe seguire in termini di popolarità, consenso e tenuta della sua base elettorale.

Lo si vedrà, e non occorrerà molto. Per ora, il Pd può annotare come la sua alleanza con partner di sinistra (Vendola e Di Pietro) tenga nient’affatto male; come il Terzo polo si ridimensioni, trasformandosi quasi in un alleato «aggiuntivo»; e come Beppe Grillo e il suo movimento stiano prepotentemente uscendo dalla rete per trasferirsi massicciamente nelle urne. Successi, problemi e insidie, insomma. Con i quali è assai più facile fare i conti, però, dopo un risultato che ha visto l’avversario degli ultimi 20 anni finire al tappeto e perdere il match per ko. Non una cosa da poco, onestamente.

La Stampa 08.05.12

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“Un no ai partiti non alla politica”, di Massimo Gramellini

Si può buttarla sul ridere e dire che Grillo non è una sorpresa: in fondo sono vent’anni che gli italiani votano un comico. Oppure strillare contro la vittoria dell’antipolitica, come fanno i notabili del Palazzo e i commentatori che ne respirano la stessa aria viziata. Ma conosco parecchi nuovi elettori di Grillo e nessuno di loro disprezza la politica. Disprezzano i partiti. E credono, a torto o a ragione, in una democrazia che possa farne a meno, saltando la mediazione fra amministrati e amministratori.

La storia ci dirà se si tratta di un gigantesco abbaglio o se dalla rivolta antipartitica nasceranno nuove forme di delega, nuovi sistemi per aggregare il consenso.

Ma intanto c’è questo urlo di dolore che attraversa l’Italia, alimentato dalle scelte suicide e arroganti compiute da un’intera classe dirigente.

Non si può certo dire che non fosse stata avvertita. I cittadini stremati dalla crisi hanno chiesto per mesi alla partitocrazia di autoriformarsi. Si sarebbero accontentati di qualche gesto emblematico. Un taglio al finanziamento pubblico, la riduzione dei parlamentari, l’abolizione delle Province. Soprattutto la limitazione dei mandati, unico serio antidoto alla nascita di una Casta inamovibile e lontana dalla realtà. Nel dopoguerra il grillismo meridionale dell’Uomo Qualunque venne dissolto dalla Dc di De Gasperi nel più semplice e intelligente dei modi: assorbendone alcune istanze. Purtroppo di De Gasperi in giro se ne vedono pochi. La limitazione dei mandati parlamentari è da anni il cavallo di battaglia dei grillini. Se il Pdl di Alfano l’avesse fatta propria, forse oggi esisterebbe ancora. Ma un partito che ai suoi vertici schiera reperti del Giurassico come Gasparri e Cicchitto poteva seriamente pensare di esistere ancora? Il Pd ha retto meglio, perché il suo elettorato ex comunista ha un senso forte delle istituzioni e dei corpi intermedi – partiti, sindacati – che le incarnano. Ma se il burocrate Bersani, come ha fatto ancora ieri, continuerà a considerare il grillismo un’allergia passeggera, lo tsunami dell’indignazione popolare sommergerà presto anche lui.

La riprova che il voto grillino è meno umorale di quanto si creda? Grillo non sfonda dove la politica tradizionale riesce a mostrare una faccia efficiente: a Verona con il giovane Tosi e a Palermo con il vecchio Orlando (percepito come un buon amministratore, magari non in assoluto, ma rispetto agli ultimi sindaci disastrosi). La migliore smentita alla tesi qualunquista di chi considera i grillini dei qualunquisti viene dai loro stessi «quadri». Che assomigliano assai poco a Grillo. Il primo sindaco del movimento, eletto in un paese del Vicentino, ha trentadue anni ed è un ingegnere informatico dell’Enel, non un arruffapopoli. E i candidati sindaci di Parma e Genova non provengono dai centri sociali, ma dal mondo dell’impresa e del volontariato. Più che antipolitici, postpolitici: non hanno ideologie, ma idee e in qualche caso persino ideali. Puntano sulla trasparenza amministrativa, sul web, sull’ambiente: i temi del futuro. A volte sembrano ingenui, a volte demagogici. Ma sono vivi.

Naturalmente i partiti possono infischiarsene e bollare la pratica Grillo come rivolta del popolo bue contro l’euro e le tasse. È una interpretazione di comodo che consentirà loro di rimanere immobili fino all’estinzione. Se invece decidessero di sopravvivere, dovrebbero riunirsi da domani in seduta plenaria per approvare entro l’estate una riforma seria della legge elettorale, del finanziamento pubblico e della democrazia interna, così da lasciar passare un po’ d’aria. Ma per dirla con Flaiano: poiché si trattava di una buona idea, nessuno la prese in considerazione.

La Stampa 08.05.12