Latest Posts

Bersani: «Noi rafforzati e destra sconfitta», di Simone Collini

Bersani: «Compreso dagli elettori il nostro sostegno all’esecutivo Noi siamo leali ma ora ci ascolti di più». Soddisfatti per il risultato ottenuto, infastiditi per le reazioni degli alleati, preoccupati per altri dati registrati in queste elezioni. Al quartier generale del partito i dirigenti Democratici seguono lo scrutinio del voto amministra-
tivo con un misto di stati d’animo. Il Pd si conferma prima forza politica nella maggior parte delle sfide elettorali, e se nei 26 comuni capoluogo si partiva da una situazione di 18 a 8 per il centrodestra, adesso si va ai ballottaggi con una situazione ribaltata. Tutt’altro che rassicurante è però il calo dell’affluenza, l’aumento del voto di protesta, il livello di frammentazione registrato e, benché la cosa possa sembrare al limite del paradossale, anche il tracollo del Pdl. «È un voto a metà strada tra la disperazione greca e la speranza francese», sintetizza non a caso Massimo D’Alema sottolineando che il centrosinistra emerge quasi ovunque «come unico polo politico di governo». Tutto bene? Sì, a patto di sapere che il Pd «si troverà ad essere l’unico partito nazionale, con responsabilità di governo molto accresciute e in una situazione molto difficile». E che, come dice Pier Luigi Bersani ragionando sulla «riflessione» annunciata da Angelino Alfano e sul rischio ripercussioni sulla tenuta del governo Monti, bisogna augurarsi che dal risultato negativo del Pdl «non derivi un danno per il Paese».
RAFFORZAMENTO PD, TSUNAMI PDL
Il segretario del Pd segue lo spoglio delle schede nel suo studio al Nazareno, tra telefonate dai rappresentanti di lista dalle sezioni sparse in tutte Italia e un occhio alla televisione. Dallo schermo parla il leader del Pdl Alfano, che dice «nessuno può festeggiare», quello di Sel Nichi Vendola, per il quale «il centrosinistra non viene percepito come alternativa», quello dell’Idv Antonio Di Pietro, pronto a sostenere che «il voto premia i partiti che hanno fatto veramente opposizione». Bersani scuote la testa, poi esce dalla sua stanza e va in sala stampa, dove ad attenderlo ci sono telecamere e giornalisti. «Si sentono in questi minuti dei commenti piuttosto singolari, ma se si guardano i dati si vede chiaramente il senso di queste elezioni. In una situazione molto difficile, emerge come primo elemento un nettissimo rafforzamento del Pd e del centrosinistra in tantissime città italiane. Secondo, uno tsunami del centrodestra e terzo un’avanzata di Grillo. Questi sono i dati della realtà, che non possono essere annegati in un indistinto in cui avrebbero perso tutti».
A Bersani non sfugge che dal voto emergono «elementi di disperazione» e anche di «frammentazione», ma in questo quadro a tinte fosche «c’è anche un presidio», rappresentato dal buon risultato ottenuto dal Pd. «Non c’è materia per dire che tutti perdono perché se così fosse allora non c’è una strada in questo Paese. Non è vero che tutti perdono e una strada c’è. Noi, con una posizione scomoda, ci siamo caricati di responsabilità non nostre dice riferendosi al sostegno garantito al governo ma dati alla mano sentiamo di essere
stati compresi dagli elettori».
LEALTÀ A MONTI, ORA PIÙ ASCOLTO
I dati dicono che il Pd è l’unico partito che appoggia Monti ad uscire rafforzato da questo voto, di contro a un tracollodelPdleaunTerzopoloalpalo.E dicono che ad avvantaggiarsi di questa situazione sono soprattutto le liste di Beppe Grillo. Bersani non sottovaluta l’exploit del Movimento 5 stelle, anche se si dice convinto che ai ballottaggi, quando «servono risposte di governo affidabili», ci potrebbe essere un «ripensamento» da parte di molti elettori. Ma comunque vada tra due settimane, al «disagio» emerso dal voto e confluito soprattutto nel voto grillino va data una risposta. E se i consensi dati al Pd sono uno «stimolo» a proseguire nel sostegno a Monti, al governo Bersani ribadisce un sostegno «leale», ma lancia anche un chiaro segnale. «Se dall’Imu al Salva-Italia agli esodati si fosse ascoltato un po’ di più il Pd, il disagio sarebbe stato minore».
La preoccupazione per il quadro generale c’è. Una piccola soddisfazione è per il risultato di Bettola, il Comune di cui è originario Bersani, strappato al Pdl (e al Nazareno leggono anche col sorriso sulle labbra il risultato di Cassano Magnago, il paese d’origine di Umberto Bossi, dove la Lega non è arrivata al ballottaggio).

l’Unità 08.05.12

"Un'altra politica", di Massimo Giannini

Maggio francese, autunno italiano. Se l´esito delle presidenziali d´Oltralpe testimonia la speranza di un cambiamento nella governabilità, il risultato delle amministrative tricolori certifica l´evidenza di un´offerta politica sempre più frammentata e di una proposta di governo sempre meno scontata. Nove milioni di cittadini alle urne non equivalgono a una consultazione nazionale, ma sono un buon test per misurare il polso di un Paese che arriva a questa tornata elettorale in debito di forze e di risorse.
I “numeri” degli oltre mille comuni in cui si è votato riflettono con coerenza lo stato d´animo degli italiani. Sale alta l´onda dell´anti-politica, che spesso è domanda di un´altra politica. C´è una sfiducia profonda verso i partiti tradizionali, di cui il sintomo è il successo delle formazioni “anti-sistema”. C´è una disaffezione inquietante verso la stessa democrazia rappresentativa, di cui c´è traccia nell´aumento dell´astensionismo, per la prima volta più alto al Nord che al Sud. Ma sarebbe sbagliato sostenere che, a parte Beppe Grillo, non ha vinto nessuno e hanno perso tutti. C´è invece un primo dato politico che emerge, e che riguarda il centrodestra: è la disfatta totale del Pdl. L´eclissi finale del berlusconismo.
Il Partito del Popolo delle Libertà è quasi scomparso dalla geografia politica. Rispetto al 2007, di 157 comuni con oltre 15 mila abitanti il centrodestra ne governava 95, contro i 53 guidati dal centrosinistra. Oggi il rapporto è più che invertito. Su 26 comuni capoluogo il Pdl ne governava 15, contro gli 8 del Pd. Oggi ne tiene solo 3 al primo turno (Lecce, Gorizia e Catanzaro). In altri 9 (da Asti a Monza, da Trani ad Agrigento) va ai ballottaggi in netto svantaggio. In quelli che restano è già fuorigioco. Non solo: nella maggioranza dei comuni, il partito del Cavaliere ha percentuali di consenso che non superano il 10%. A Genova ha l´8,4. A Verona il 5,6. A Parma il 4,4. Persino a L´Aquila, dove l´ex premier a suo tempo ha costruito il mirabolante set propagandistico del post-terremoto, oscilla intorno al 6%.
Berlusconi è riuscito in un capolavoro al contrario. In dieci anni aveva trasformato Forza Italia (il vecchio partito «di plastica», proprietario e plebiscitario) in un partito quasi vero, sempre leaderistico ma per lo meno strutturato e presente sul territorio. Aveva costruito non «il partito di massa dei moderati» che aveva promesso, senza averne il dna né l´identità; ma comunque un «blocco sociale», una destra ideologica e populista pur sempre diffusa e maggioritaria nel Paese. Il trionfo del 13 aprile 2008 lo aveva consacrato «padrone» della Repubblica, con una maggioranza parlamentare senza precedenti nella storia. Oggi, nel Paese profondo, di quel patrimonio non resta quasi più nulla. Con la fine dell´avventura di governo, vissuta come puro esercizio del potere, la cifra politica del Cavaliere si è esaurita per sempre.
Proprio nel giorno in cui questa folle dissipazione si consuma, non può essere un caso che Berlusconi sia a Mosca, a incoronare per la terza volta l´amico Putin, zar di tutte le Russie. Un´assenza fisica, ma anche simbolica, che nessun Alfano può colmare. Persino il cantore Giuliano Ferrara è costretto ad ammettere che il Cavaliere «non parla perché non sa cosa dire», e che a questo punto «il Pdl è a rischio esistenziale». È vero: deve decidere se saprà e potrà sopravvivere alla fine del berlusconimo.
Ma non è solo questione del Popolo delle Libertà. L´intera metà campo della destra italiana esce a pezzi da queste amministrative. La Lega resiste, benchè travolta dagli scandali come un qualsiasi Psdi della Prima Repubblica. Ma in Lombardia perde ovunque, da como a Monza, e perfino a Cassano Magnago, il comune di Umberto Bossi. L´exploit di Tosi che riconquista Verona al primo turno non deve ingannare: molto più che il Carroccio, stravince la lista civica che porta il nome del sindaco, e che dello stesso Carroccio bossiano è una spina nel fianco. Dunque, la destra anomala conosciuta in questi anni non è più spendibile né ricomponibile. Il collante che la teneva insieme erano gli interessi, non i valori. Esplosa la crisi, economica e politica, non è rimasto più niente.
Il secondo dato politico rilevante riguarda il centrosinistra. Il Pd conferma un discreto recupero rispetto al 2007. Si tiene 4 comuni capoluogo (Brindisi, Taranto, Pistoia e La Spezia) e va al ballottaggio con buone possibilità in altri 18 comuni (da Parma a Belluno, da Brindisi a Lucca). Ma a Genova sostiene Marco Doria, che non era il suo candidato alle primarie. E comunque, in generale, anche se vince non sfonda. Né dove si presenta con la sinistra radicale di Vendola (che incassa un risultato complessivo tutt´altro che entusiasmante) né dove sperimenta l´alleanza con l´Udc di Casini (autentico «desaparecido» di questa tornata amministrativa, ballottaggio di Genova a parte).
Dunque, Bersani fa bene a rivendicare i progressi del suo partito. Ma nella prospettiva del 2013, anche nel centrosinistra rimane un´incognita gigantesca: qual è il progetto politico per rilanciare il Pd come partito «a vocazione maggioritaria»? E se oggi la principale forza progressista e riformista non supera il 25%, con chi si deve alleare per offrire agli italiani una credibile alternativa di governo? La foto è quella del Terzo Polo, le cui ambizioni si rivelano quasi sempre illusioni? O è quella di Vasto, di cui Di Pietro, forte del boom del sempiterno Orlando a Palermo, già esige una rimessa a fuoco a suo favore? Mentre incassa il buon esito di questo voto, il leader del Pd ha il dovere di dare una risposta seria agli elettori. Un dovere che adesso è ancora più stringente, se il centrosinistra vuole davvero candidarsi non solo a vincere, ma a governare nel 2013.
I risultati di oggi allontanano la prospettiva della governabilità. Il terzo dato politico forte (oltre alla crescita dell´Idv) è infatti l´affermazione del Movimento 5 Stelle, che va al ballottaggio a Parma e lo sfiora a Genova, ottiene quasi ovunque (Verona compresa) consensi che oscillano intorno al 10%. In tempi di malaffare e di malapolitica, l´affermazione di una forza anti-sistema come quella di Grillo era da mettere in conto. Ma l´entità va oltre le aspettative. Ha ragione Ilvo Diamanti a teorizzare che, almeno nelle amministrative, questo non si possa considerare un voto «anti-politico», visto che i candidati grillini nelle città (da Putti a Genova a Pizzarotti a Parma) sono portatori di proposte molto concrete e per niente qualunquistiche a livello locale. Ma se questo risultato dovesse essere bissato a livello nazionale, la situazione sarebbe ben diversa. Il comico genovese e i suoi elettori vanno rispettati. Ma finora l´inventore del Movimento 5 Stelle si è impegnato di più a incarnare il modello dell´Uomo Qualunque, che non a offrire una proposta convincente di governo del Paese.
Questo, dunque, è il panorama italiano che si delinea dalle urne. Un assetto politico polarizzato intorno a due ex «grandi partiti» che oscillano tra il 18 e il 25%, e polverizzato in una congerie di formazioni minori, per lo più antagoniste, anti-europee e difficilmente riconducibili a una logica di coalizione. In questo quadro, è persino difficile immaginare una riforma della legge elettorale che possa migliorare o semplificare l´offerta politica. Il voto, in altre parole, fotografa una crisi di sistema dalla quale è assai complicato immaginare una via d´uscita. Una crisi che ha riflessi importanti non solo sulla legislatura che verrà, ma anche su quella ancora in corso.
Questo risultato non aiuta affatto il governo Monti. Sul Professore rischia di chiudersi una morsa. Da un lato Berlusconi, che potrebbe essere tentato ancora una volta dalla «scorciatoia populista», come lasciano intendere le parole di Alfano: poiché quel che resta del Pdl sta pagando «un prezzo troppo alto» al governo dei tecnici, incline a somministrare al Paese sacrifici e tasse che la vecchia destra non proporrebbe mai, allora meglio optare per l´appoggio esterno, o addirittura per la rottura definitiva della «strana maggioranza» tripartita. Una scelta irresponsabile, e biecamente peggiorista, ma in fondo del tutto coerente con le pulsioni berlusconiane più estreme e disperate. Dall´altro lato i mercati, che potrebbero essere indotti dalla strategia delle mani libere della destra e dall´incertezza crescente sul dopo-Monti a punire l´Italia e il suo debito sovrano.
Sarebbe la bancarotta definitiva, politica e finanziaria. Non il maggio francese, ma la sindrome ateniese.

La Repubblica 08.05.12

"Riforma Brunetta: è ora di cambiare", di Pippo Frisone

Il 4 maggio governo e sindacati hanno firmato un’ipotesi d’accordo sul lavoro pubblico che verrà definitivamente sottoscritta nel corso di questa settimana. In stretta connessione con la riforma Fornero del mercato del lavoro, si gettano le basi per una sostanziale revisione della cosiddetta riforma Brunetta, alias dlgs.150/09. A dire il vero, il primo colpo sotto la cintura all’ex Min.della Funzione Pubblica glielo aveva sferrato il suo collega di governo Tremonti, neanche un anno dopo l’approvazione della riforma epocale del Pubblico Impiego. Premialità, fasce di merito, performance e guerra ai “travet” fannulloni, finirono subito in soffitta col blocco del contratto nazionale, assieme agli scatti d’anzianità e al rinnovo delle Rsu. Rimaneva sul campo la faccia feroce di quella riforma con l’inasprimento delle sanzioni disciplinari e il tentativo di mettere all’angolo le organizzazioni sindacali, indebolendo la contrattazione integrativa e le relazioni sindacali.

Il tentativo di far prevalere in questi tre anni una sorta di autoritarismo contrattuale, spostando i poteri a favore del datore di lavoro pubblico, si è infranto prima che nelle aule dei tribunali, negli stessi luoghi di lavoro, dove allo scontro ha prevalso quasi ovunque la buona prassi della contrattazione e del confronto democratico.

L’accordo del 4 maggio segna una significativa discontinuità col governo precedente.

Qualcuno si spinge a cantare il “de profundis” alla riforma Brunetta. Non è una partita facile.

Una volta definitivamente sottoscritto l’accordo verrà tradotto in ddl e inviato in Parlamento per l’approvazione. Non è assolutamente scontato l’appoggio del Pdl che vede mandare in soffitta larga parte della “sua riforma”.

Col nuovo accordo sono le relazioni sindacali a costituire la vera inversione di marcia.

Nei processi di mobilità saranno senz’altro coinvolte le OO.SS..Alle RSU va riconosciuto un ruolo determinante nei luoghi di lavoro, valorizzando pienamente la contrattazione integrativa.

Rispunta anche “ l’esame congiunto” nel tentativo di superare quel contenzioso non risolto tra poteri esclusivi della dirigenza e materie di contrattazione , come ad es.l’organizzazione del lavoro, l’assegnazione ai plessi per quanto riguarda il comparto scuola.

Maggiore autonomia alla dirigenza rispetto al potere politico da un lato e dall’altro “rigorosi sistemi di collegamento tra premialità e azione individuale”

E ancora sulla premialità “un miglior bilanciamento tra performance organizzativa e quella individuale” lascia intravvedere un intreccio forte tra performance della struttura e apporto individuale.

E in attesa della definizione dei nuovi comparti di contrattazione e che arrivino le tante auspicate risorse sulla premialità, si prepara il terreno ai prossimi rinnovi contrattuali nel pubblico impiego, fermo restando che l’ultima parola spetterà ancora una volta al Parlamento.

Basterà un anno per passare dalle parole ai fatti e aprire una stagione nuova che non mortifichi ancora una volta il lavoro pubblico, ridandogli dignità e fiducia ?

Noi ci auguriamo di si, anche se queste elezioni amministrative rischiano di far saltare il banco e mandare tutti a casa.

Se ciò accadesse, sarebbe l’ennesima occasione sprecata per un Paese che fatica a rialzarsi che non riesce più a realizzare il proprio domani.

da ScuolaOggi 08.05.12

Anche la scuola ha i suoi "esodati", da La Tecnica della Scuola

Con le leggi e riforme approvate dal governo Monti possono ritrovarsi già tra due anni senza stipendio e pensione. Il pericolo è reale: l’ex ministro Damiano ha inserito prof e Ata tra le categorie a rischio. Centinaia di dirigenti potrebbero esserlo già da settembre. Intanto il Miur torna a dare lo stipendio ai docenti inidonei di Lazio, Lombardia e Piemonte rimasti senza assegno per via della burocrazia. Per fortuna non figurano tra i 65.000 esodati conclamati, tutti i dipendenti vicini al pensionamento che usufruendo delle vecchie regole previdenziali avevano accettato esodi incentivati ma che per effetto della riforma pensionistica Fornero-Monti hanno ora alte possibilità di rimanere, anche per diversi anni, senza stipendio e pensione.
Però c’è anche il personale della scuola tra i dipendenti che potrebbero, nel futuro prossimo, annoverarsi tra quelli privati della possibilità di avere l’assegno lavorativo o pensionistico a fine mese: a seguito sempre delle norme dell’inasprimento dei requisiti per lasciare il servizio, ma soprattutto dell’applicazione della Legge di Stabilità 2012, attraverso l’approvazione della Legge 183/11, in vigore da dicembre, è infatti previsto che il personale della pubblica amministrazione in esubero possa essere messo in mobilità all’interno della regione. Chi di questi lavoratori non potrà essere ricollocato (soprattutto chi è avanti con l’età, quindi impossibilitato per scarsità di tempo ad acquisire nuovi titoli di studio e abilitazioni all’insegnamento) potrebbe scattare la cassa integrazione di 24 mesi a stipendio ridotto, al termine dei quali – qualora non vi fosse ancora collocazione alternativa – si potrebbe arrivare anche al licenziamento.
La legge, la stessa che “allo scopo di evitare duplicazioni di competenza tra aree e profili professionali, negli istituti di scuola secondaria di secondo grado ove sono presenti insegnanti tecnico-pratici in esubero”, prevede di accantonare “un pari numero di posti di assistente tecnico”, potrebbe determinare in pratica le condizioni per lasciare senza stipendio e senza pensione (come gli esodati) tutti i docenti soprannumerari che in tanti anni non ha avuto il modo o la forza per acquisire altre abilitazioni. E ricollocarsi. L’ultima “ciambella” di salvataggio l’ha lanciata pochi giorni fa il Miur, attraverso la pubblicazione del decreto numero 7, che permetterà di riconvertirsi sul sostegno dopo aver seguito con profitto 400-450 ore di corsi e tirocinio. E per conoscere i primi effetti di questa politica non occorre attendere troppo tempo: qualcuno potrebbe incappare nelle maglie della mobilità coatta biennale e con stipendio ridotto già nella prossima estate.
Insomma, i tempi del Testo Unico della scuola, in base al quale era previsto che, in caso di mutamenti ordinamentali e soppressione di insegnamenti, l’amministrazione avrebbe dovuto farsi carico della ricollocazione del personale in esubero, sembrano ormai messi nel dimenticatoio.
Del fatto che il pericolo non sia solo teorico sono convinti pure i sindacati. Secondo Domenico Proietti, segretario confederale della Uil con delega alle Politiche fiscali e previdenziali, “per i prossimi 4 anni, si prevedono altri 130mila lavoratori che si troveranno senza un salario e senza una pensione”. E tra questi, seppure indirettamente, potrebbero trovarsi pure docenti e Ata. Ma non solo. Nella scuola ci sarebbero anche altre situazioni a rischio. Un mese fa, ad esempio, l’Anp aveva denunciato il pensionamento coatto da parte dell’amministrazione di qualche centinaio di dirigenti scolastici, senza però aver adeguatamente verificato che questi avessero i requisiti per riscuotere l’assegno pensionistico.
Anche l’ex ministro Cesare Damiano, oggi capogruppo Pd in commissione Lavoro alla Camera, ha chiesto che nell’incontro di mercoledì prossimo, 9 maggio, con il ministro Elsa Fornero vengano finalmente previste delle “clausole di adeguamento automatico delle risorse che siano in grado di coprire le necessità che derivano dai numeri reali dei lavoratori che sono rimasti intrappolati, cioè senza stipendio e senza pensione”. Tra questi, Damiano annovera “lavoratori in mobilità, lavoratori che si sono licenziati individualmente dalle piccole imprese, esodati da Poste, Eni e Telecom, lavoratori della scuola e persone che continuano a versare contributi volontari per il raggiungimento della pensione”.
Intanto, tornano a sorridere quei docenti dichiarati permanentemente inidonei – in Lazio, Lombardia e Piemonte – e quindi dispensati dal servizio, a cui era stata sospesa la pensione a seguito di un “bug” normativo-burocratico, derivante in particolare dalle rigide indicazioni dell’Inps-Inpdap e dalla non avvenuta registrazione da parte degli organi di controllo. Dopo aver diverse sollecitazioni, soprattutto da parte dei sindacati, il Miur ha dato disposizione, attraverso una nota del 4 maggio, Prot. n. AOOODGPER 3391, di reinserire questo personale “nel posto su cui era stato precedentemente utilizzato (biblioteca, segreteria scolastica, ecc), revocando la dispensa già disposta e riattivando la partita di spesa fissa per il pagamento dello stipendio”. Il tutto in attesa che si comprenda se per gli stessi dipendenti, ormai ex docenti, si avrà ancora “la possibilità o meno di disporne la dispensa anche dopo l’entrata in vigore del DPR n. 171/2011”.

La Tecnica della Scuola 08.05.12

"Il ritorno dei fantasmi armati", di Benedetta Tobagi

Sembra un incubo, l’eterno ritorno dell’uguale. L’Ansaldo di Genova negli anni Settanta fu teatro di una serie di azioni e ferimenti, o meglio, “gambizzazioni”(neologismo coniato per i ferimenti alle gambe in cui si specializzarono i brigatisti, una modalità di attentato che massimizzava il dolore e l’umiliazione della vittima, costringendola a strisciare): Vincenzo Casabona, capo del personale dell’Ansaldo Meccanica, oggetto di un sequestro-lampo nel 1975, Carlo Castellano, capo della pianificazione, ferito dalle Br nel 1977, e Giuseppe Bonzani, direttore dello stabilimento G. T. Ansaldo, ferito, ancora dalle Br, nel 1979. Ieri, il rito macabro si è rinnovato.

L’amministratore delegato della sezione nucleare dell’Ansaldo è stato ferito. Ignoti gli attentatori, mancano le rivendicazioni, ma la “tecnica” è quella brigatista, dichiarano gli inquirenti, e il ministero dell’Interno esclude la pista personale.

Mancava solo il ritorno del terrorismo sulla scena di quest’Italia colpita dalla crisi e divorata dall’antipolitica: evocata da molti, ieri la violenza armata, parassita della democrazia, è tornata sulla scena, con il suo rituale, con la sua simbologia, in un luogo denso di storia. Adinolfi dirige la sezione nucleare: è stato colpito per quello specifico incarico? Gli attentatori forse hanno voluto inalberare una assurda bandiera anti-atomo, come se non ci fosse stato un referendum popolare che il 13 giugno si è già chiaramente espresso, con una vittoria schiacciante dei sì.

Ma è sempre così: gli attentati di terrorismo individuale calpestano e feriscono la democrazia, non solo la vittima. Quanti dirigenti, quanti capi reparto sono stati feriti o uccisi negli anni Settanta: attentati che rappresentavano la negazione dei principi di decenni di lotte sindacali.

Oltre ai ferimenti dell’Ansaldo, il pensiero corre ad un altro omicidio di matrice terroristica, che temo pochi ricordino: l’omicidio di Paolo Paoletti, ingegnere chimico, direttore dell’Icmesa, la famigerata “fabbrica dei profumi” che nel 1976 avvelenò Seveso con una nube tossica, una tragedia immane. Paoletti fu assassinato da Prima Linea il 5 febbraio del 1980. Le sette farraginose cartelle di rivendicazione spiegavano che era stato colpito perché ritenuto responsabile della tragedia di Seveso. Condannato a morte, in un Paese che ha ripudiato la pena di morte, e ovviamente senza processo: la violenza armata sequestrò la legalità, nella folle idea di farsi giudice ed esecutrice di una forma perversa di giustizia.

Oltre a Paoletti la vittima fu ancora una volta il metodo democratico, lo stato di diritto con i suoi processi: lento, ma unico titolato a individuare i responsabili di disastri industriali. Come è accaduto di recente con la storica, lungamente attesa sentenza di condanna della Eternit dello scorso febbraio.

Wolfgang Sofsky, nel suo illuminante Saggio sulla violenza, individua uno dei caratteri fondamentali della violenza nella sua impazienza – che è il contrario della faticosa pazienza richiesta dalla democrazia. La violenza lascia solo macerie a proprio monumento, continua Sofsky. E, aggiungerei, fomenta le tensioni, irrigidisce le posizioni: un frutto avvelenato in tempi in cui c’è bisogno di profondere il massimo degli sforzi nel confronto civile, nella ricerca di soluzioni alla crisi economica e sociale.

Gli anni Settanta, con il terrorismo, ce li siamo lasciati alle spalle, dopo un percorso lungo e doloroso per il Paese. Giova ricordare che non esiste più il brodo di coltura ideologico che alimentò il terrorismo, né l’abitudine diffusa alle pratiche violente. Ci auguriamo che nessuno cerchi di strumentalizzare l’attentato di ieri criminalizzando altre forme di dissenso, o addirittura il disagio sociale. Piuttosto, l’orrore che abbiamo provato di fronte alle immagini di Adinolfi, troppo uguali alle foto in bianco e nero di oltre trent’anni fa, è un campanello d’allarme che deve riattivare tutti i sensori della società.

Le date creano coincidenze significative, e suggeriscono un’ultima riflessione. Domani, 9 maggio, si celebrerà la Giornata della memoria dedicata alle vittime del terrorismo. Una ricorrenza fortemente voluta dal presidente Napolitano per aiutare la faticosa elaborazione dei traumi collettivi del nostro recente passato. Il ferimento di Genova, che riproduce nelle sue modalità la miriade di ferimenti che hanno costellato la stagione degli anni Settanta e Ottanta, ci fanno meglio comprendere l’importanza del rito civile che come ogni anno si svolgerà domattina al Quirinale.

La Repubblica 08.05.12

"Due assassini su uno scooter. Tornano gli incubi del passato", di Michele Brambilla

Quelli del 26 marzo 1971 che in via Bernardo Castello ammazzarono il portavalori delle case popolari Alessandro Floris. Uno studente fotografò l’agguato da una finestra e quell’immagine diventò il simbolo della follia che stava per esplodere. I due assassini appartenevano al primo gruppo di lotta armata nato in Italia: si chiamava XXII Ottobre.

Da quel giorno si scatenò l’inferno. Il sostituto procuratore Mario Sossi, che sosteneva l’accusa al processo contro la banda XXII Ottobre, verrà rapito a Genova dalle Brigate rosse il 18 aprile del 1974 e rilasciato solo il 23 maggio successivo. Il procuratore generale Francesco Coco, che non aveva ceduto al ricatto dei brigatisti (scarcerare i terroristi detenuti in cambio della liberazione di Sossi) sarà ucciso, insieme con gli uomini della sua scorta, l’8 giugno del 1976. Qualcuno dice che Genova fu la culla delle Brigate rosse. Di certo il bilancio della colonna genovese, nata nel gennaio 1975, è terrificante: nove omicidi, sedici ferimenti, vari attentati e aggressioni.

Genova ancora una volta sarà una culla? Il ferimento di Roberto Adinolfi un nuovo drammatico inizio? Nessuno in città ci vuole credere.

Il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo e presidente della Conferenza episcopale italiana, era un giovane prete negli anni bui del brigatismo genovese. Ci riceve all’Istituto superiore di scienze religiose di via Serra, in centro, prima di una conferenza. «Esprimo la mia sincera vicinanza, anche nella preghiera, al dottor Adinolfi e alla sua famiglia. Ho sentito notizie di una guarigione rapida e senza gravi conseguenze», sono le sue prime parole. Poi l’analisi: «È un fatto di violenza e come sempre la violenza distrugge solo, e non costruisce nulla».

Sa che il momento è brutto, e vuole commentare anche il dato sull’astensionismo, a Genova particolarmente alto: «È un dato che rincresce, questa disaffezione alla politica non è un segno bello». Ma non vuole credere che tutto questo l’antipolitica, la crisi, l’agguato – sia il segno che a Genova e in Italia stia per tornare il terrorismo: «In quegli anni, dal Sessantotto in poi, ero all’università: ho visto e vissuto quella stagione, che mi sembra però esprimesse un carattere ideologico e quindi una matrice molto diversa da quella di oggi. Non credo che ci siano identificazioni da fare».

Al comitato elettorale di Marco Doria incontriamo Mauro Passalacqua. Era un sindacalista della Fiom e ha un ricordo nitido di quegli anni: il primo maggio del 1976 passò la notte in fabbrica, all’Ansaldo, perché le Brigate rosse avevano annunciato un attentato e bisognava vigilare. Anche lui pensa che non ci siano analogie possibili. «Io il clima lo trovo completamente diverso». Perché gli operai allora stavano peggio? «No, stavano meglio. C’era un grande movimento di massa e si lottava per grandi conquiste: lo statuto dei lavoratori, i contratti di categoria, la contingenza. Oggi siamo in una fase di difesa».

«Quella di oggi – continua – è una società violenta, e c’è molta disperazione: ma nei luoghi di lavoro non c’è simpatia per i violenti». Allora sì, c’era simpatia, e qualche inconfessabile complicità. «A un certo punto si fece una riflessione. Perché è verissimo che, prima, nelle fabbriche c’erano aree di ambiguità. Arrivammo alla conclusione che il terrorismo era il nemico mortale della classe lavoratrice. E lo isolammo. Lasciammo sul campo il compagno Guido Rossa». Come tutti i vecchi sindacalisti, Passalacqua ricorda bene il giorno dei funerali dell’operaio dell’Italsider Guido Rossa, ammazzato dalle Br il 24 gennaio del 1979 per aver denunciato un collega che distribuiva volantini con la stella a cinque punte. C’erano duecentocinquantamila persone e il presidente Pertini, a quei funerali: forse fu proprio quel giorno che all’eversione cominciò a mancare la terra sotto i piedi.

Era una guerra. Il 28 marzo 1980 la colonna genovese delle Brigate rosse subì una sconfitta militare forse decisiva. I carabinieri fecero irruzione nel covo di via Fracchia, un appartamento intestato a un’insospettabile signora, e nello scontro a fuoco che ne seguì furono uccisi quattro brigatisti. Qualcuno parlò addirittura di una strage programmata: di certo quel giorno si capì che lo Stato non aveva più esitazioni, e si incrinò il mito dell’inviolabile struttura clandestina delle Br.

«Chi ha vissuto quella stagione non ha di quegli anni la visione edulcorata che hanno tanti intellettuali di sinistra», dice Alfredo Biondi, a quei tempi politico liberale e avvocato di parte civile in tanti processi contro i terroristi. Come ha vissuto il ferimento di Adinolfi? «Ricordando tante cose: il suocero di mio figlio, Felice Schiavetti, era presidente degli industriali di Genova e fu gambizzato. Nel covo di via Fracchia c’era una lista con il mio nome, e una mappa del mio quartiere».

«Vuol sapere chi è Roberto Adinolfi?», ci dice il suo parroco, don Fernando Primerano: «Vive in un condominio normalissimo in un quartiere medio, non ostenta nulla, lui e la moglie vengono in parrocchia a fare i corsi per i fidanzati. Una persona umile, sempre pronta al servizio». Eppure, gli hanno sparato. Pochi o tanti che siano, quelli che non distinguono fra uomini e simboli sono tornati.

La Stampa 08.05.12

"Troppe insufficienze fanno male", di Mario D'Adamo

Rapporto Eurydice: l’Italia è tra i pochi paesi ad avere ripristinato la valutazione in decim. Nella maggior parte dei sistemi scolastici europei le scale di valutazione, organizzate per lo più su cinque – sei gradi alfabetico-numerici o per serie di giudizi, prevedono un maggior numero di voti positivi rispetto a quelli negativi, di solito uno o al massimo due. È un modo per graduare meglio giudizi favorevoli ed evitare nei confronti di quelli negativi gli inutili e scoraggianti accanimenti del nostro sistema di valutazione in decimi, che dal 2008 è stato esteso anche alla scuola primaria e secondaria di primo grado con la riforma del ministro Gelmini.

Un conto, infatti, è giudicare semplicemente non sufficienti i risultati di un alunno in una materia o in un elaborato di quella materia, un conto, ben più pesante, qualificarli con voti al di sotto del cinque. Inevitabilmente un voto molto negativo viene caricato di effetti emotivi e implicazioni che non aiutano lo studente a risollevarsi. Per trent’anni, fino all’anno scolastico 2007/2008 compreso, abbiamo giudicato generazioni di studenti della scuola dell’obbligo con un solo giudizio negativo (insufficiente) e con quattro giudizi positivi (sufficiente, buono, distinto, ottimo). Oggi abbiamo abbandonato questo sistema che altri paesi, imitandone la filosofia, hanno invece adottato o stanno per adottare. Dal prossimo anno scolastico in Svezia, ad esempio, verrà introdotto un sistema di voti da A a F, dove F corrisponde a un giudizio negativo, mentre giudizi positivi decrescenti vanno da A a E. Le più diverse soluzioni si possono trovare nell’organizzazione dei giudizi finali al termine dei cicli scolastici e, soprattutto, delle relative certificazioni: valutazioni solo di scuola, certificazioni solo di competenze e conoscenze acquisite, commissioni esterne o enti valutatori che rilasciano qualifiche di carattere nazionale. Sono alcune differenze del sistema di valutazione che emergono dall’ultimo fascicolo del bollettino di informazione internazionale, edito dalla rete Eurydice, sui sistemi scolastici europei 2012. Diciannove schede relative ad altrettanti stati illustrano la situazione dei paesi esaminati, ogni scheda si occupa di scuola dell’infanzia, primaria, secondaria inferiore e superiore, di durata dell’obbligo scolastico. Ci sono paragrafi sul curricolo, sull’organizzazione scolastica (calendario, orario delle lezioni giornaliero e settimanale, ecc.), su valutazione e certificazione, sui criteri di ammissione ai vari ordini di scuola. Il bollettino si può scaricare dal sito di Indire (http://www.indire.it/eurydice/content/index.php?action=read_cnt&id_cnt=13267), il cui presidente, Antonio Giunta La Spada, dirige anche lo staff dell’unità italiana di Eurydice.

Gli autori di questo rapporto, ma anche quelli di tutti gli altri già editi (studi tematici, statistiche, confronti fra i calendari scolastici, i salari del personale, le strutture nazionali, ecc.), vogliono fornire ai decisori politici e agli operatori stimoli e riflessioni per affrontare problemi che, a quanto pare, sono comuni a tutte le società e ai corrispondenti sistemi scolastici. E così apprendiamo che quest’anno si conclude il periodo nel quale i Paesi Bassi si sono posti l’obiettivo ridurre del cinquanta per cento l’abbandono scolastico rispetto al 2002. Per conseguire il risultato si prevede che tutti gli studenti, anche se hanno superato i diciotto anni, continuino a formarsi per conseguire almeno una qualifica di base di livello secondario superiore. L’Olanda è uno dei paesi in cui l’obbligo dura di più, 13 anni, comincia prima, a cinque anni, e può essere anticipato a partire già dai quattro. Negli ultimi due anni dell’obbligo, però, è sufficiente che i giovani frequentino la scuola secondaria anche solo due giorni la settimana, mentre chi ha già un contratto di formazione pratica può frequentare un giorno e lavorare il resto della settimana. Anche in Belgio, Germania e Polonia l’obbligo dura fino ai diciotto anni e può essere assolto a tempo parziale negli ultimi due anni, solo in Portogallo e Ungheria l’obbligo fino ai diciotto anni è a tempo pieno. In genere l’obbligo scolastico inizia a sei anni ma in almeno dieci paesi è stato anticipato ai cinque, l’ultima a farlo la Polonia nel settembre scorso, mentre in Lettonia inizia addirittura a quattro anni. L’organizzazione dell’istruzione e l’obbligo scolastico sono strutturati in modo diverso. In dieci paesi l’obbligo viene assolto in scuole a struttura unica, senza cesure fra il livello primario e quello secondario. In altri la struttura è simile alla nostra: un primo ciclo di scuola primaria, un secondo di scuola secondaria inferiore e un terzo di scuola secondaria superiore, in tutto o solo in parte obbligatoria. Il modello di scuola elementare a tempo pieno come lo conosciamo in Italia con due insegnanti titolari non è praticato negli stati esaminati nel rapporto, mentre è più diffusa la presenza dell’insegnante unico affiancato da insegnanti specialisti di religione, di educazione fisica e musicale e di lingua straniera. Non in tutti i paesi, infine, gli alunni e le rispettive famiglie possono liberamente scegliere l’indirizzo di scuola secondaria superiore: spesso devono rispettare le indicazioni del consiglio dei docenti della scuola di provenienza o, addirittura, basare la scelta sugli indirizzi di scuola presenti nella zona di residenza (Grecia).

ItaliaOggi 08.05.12