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"Concorso a tre punte per il ruolo", di Emanuela Micucci

Un modulo a tre punte, con maxiconcorso e abilitazione riservata ai docenti precari con 360 ore di servizio. Questa la formazione messa in campo da mister Profumo per arruolare nuovi docenti e combattere il precariato. In attesa della riforma del sistema di reclutamento, il ministro dell’istruzione Francesco Profumo ha annunciato nei giorni scorsi due tornate di concorsi.

La prima sarà bandita «entro l’anno», ha detto, per un numero di posti tra 5.000 e 8.000, in base a quanti ne autorizzerà il ministero dell’economia. Vi potranno partecipare i docenti abilitati e i vincitori saliranno in cattedra nell’anno scolastico 2013-14. Così da far fronte alle esigenze delle classi di concorso con le graduatorie effettivamente esaurite. «Ma già nella prossima primavera faremo un altro bando», annuncia , «al quale potranno accedere anche i nuovi abilitati», cioè i 20.067 che avranno frequentato con successo i corsi di tirocinio formativo attivo (Tfa). I vincitori di questa seconda più consistente tornata di concorsi entreranno in servizio nel 2015-16. «La mia idea dopo è quella di dare una cadenza biennale ai concorsi, per regolarizzare tutto il sistema», che avrà proprio nell’abilitazione e nel concorso a cattedre i due momenti più importanti, «certi, con cadenza regolare e sicura», assicura. Svuotando le graduatorie. Inoltre, gli insegnati precari potranno contare sulla revisione delle classi di concorso, terminata dal Miur riducendole a 50-60, e sui controlli ministeriali alle graduatorie ad esaurimento, dove persone iscritte da anni, pur avendo rinunciato a insegnare, hanno diritto a essere nominati. Ma non è tutto. «Saranno ammessi in aula, a fine anno, al primo corso di tirocinio per conseguire l’abilitazione i docenti con almeno 3 anni di servizio, come previsto anche da una direttiva europea». E come stabilito da un emendamento del Fli al decreto semplificazioni votato lo scorso marzo, che però chiedeva l’accesso diretto ai tirocini ai docenti di ogni ordine e grado, compresi gli insegnanti tecnico pratici. La procedura privilegiata per accedere alla docenza è invece riservata ai docenti di medie e superiori che hanno maturato almeno 360 giorni di servizio. Per loro nessuna prova selettiva né selezione d’ingresso ai TFA, perché “nella realtà il tirocino l’hanno già fatto”, spiega Profumo riconoscendone l’esperienza lavorativa. Al termine del corso, che dovrebbe prevedere la frequenza di moduli speciali seguiti nelle università, dovranno superare la prova finale, come tutti gli altri tirocinanti, per conseguire l’abilitazione. Canale preferenziale che, però, secondo il direttore nazionale di Diesse Frabrizio Foschi, è smentito dal regolamento sui Tfa (DM n. 249/2010), ormai immodificabile entro il 4 giugno, termine per l’iscrizione alle selezioni. Una «sanatoria del corpo docente» a cui è contraria l’associazione delle scuole non statali Aninsei di Confindustria. Intanto, per tre anni continueranno a entrare in ruolo i vecchi insegnati abilitati, compresi quelli che hanno acquisito l’abilitazione con i concorsi fino al 1999 e prima della nascita delle SSIS. Docenti esperti ma formatisi molti anni fa, mentre il Miur vorrebbe creare un modello moderno di concorso che ponga grande attenzione al docente, alla sua attitudine a insegnare, al suo modo di stare in aula stimolando gli studenti con modalità nuove, come la tecnologia. Il modulo Profumo è accolto con discreto favore dai sindacati. Occorre passare subito ai fatti, dice la Uil Scuola di Massimo Di Menna, servono «concreti provvedimenti,che hanno, a nostro parere, carattere di urgenza».

da ItaliaOggi 08.05.12

"Il Cavaliere dileguato", di Filippo Ceccarelli

E nel frattempo la leadership di Berlusconi è evaporata. Se ne coglie qualche residuo a Mosca, dove nel giorno della più severa sconfitta del Pdl il Cavaliere ha assistito all´insediamento di Putin.E a questo proposito egli si è fatto scrupolo di notificare all´opinione pubblica che nella cerimonia, di cui ha ammirato la solennità, «a me è stato dato il posto d´onore, ero in prima fila dietro le first lady». Come dire, forse, che era in seconda fila.
Per il resto, liquidate le elezioni con il minimissimo indispensabile, l´ex presidente del Consiglio e presidente plenipotenziario e a vita del Pdl ha proseguito il suo tour di onori e spettacoli moscoviti come se quello che accadeva in Italia, e in particolare al povero Alfano, non lo riguardasse proprio. Non che tale pervicace estraniarsi, specie per un combattente come lui, sia la condotta più normale del mondo. Vero è che la dissimulazione rientra appieno nelle logiche della politica. Ma certo ripensando ai tanti possibili e anche truculenti esiti su cui per anni la pubblicistica s´è interrogata e variamente esercitata – Piazzale Loreto, senatore a vita, Idi di Marzo, fuga ad Antigua, finale del film «Il Caimano» – la riduzione allo stato gassoso del berlusconismo appare oggi una prospettiva abbastanza singolare nel suo plausibile svolgimento.
O almeno. Anche senza ricorrere alle leggi della fisica e all´evidente ribollire dell´acqua ben oltre le consuete temperature, le ultimissime testimonianze sullo stato d´animo lasciano individuare qualcosa di più serio della prevedibile e già espressa disaffezione. Nell´ultima settimana c´è chi ha descritto Berlusconi con la scrivania coperta di stenografici di intercettazioni – che assecondando la consueta nevrosi quantificatoria lui ha calcolato in un metro cubo di carte. Con altri si è concesso un sintetico sfogo sull´unico comizio tenuto in questa disastrosa campagna elettorale: «Io non sono più spendibile, non ho alcuna intenzione di ricandidarmi, l´altro giorno sono stato a Monza e mi sono stancato, stufato».
In Russia va senz´altro meglio. E´ la seconda volta che vola a Mosca dall´inizio dell´anno. I potenti di laggiù lo tengono in palmo di mano e tutti pensano che a parte gli affari del gas (come da resoconti divulgati della diplomazia americana), la notte i suoi gentili ospiti lo facciano anche divertire, come piace tanto a lui, ma senza i rischi nostrani: paparazzi invadenti, avidi prosseneti e amichette linguacciute. In compenso ieri mattina un giornalista americano l´ha visto e subito fotografato.
Diffusa in tempo reale su twitter, l´immagine consegna un Berlusconi piuttosto impettito, abito e sorriso d´ordinanza. Ripreso dall´alto e all´ombra di un colossale body-guard, sta salutando qualcuno che non si vede. Ma intanto, più qui grandinavano i risultati della debacle, e più quella foto sembrava rivelare in sé qualcosa di vagamente simbolico, un attimo di inespresso straniamento e una specie di passaggio: come se l´uomo che ha governato e sgovernato l´Italia negli ultimi tre anni e mezzo stesse prendendo congedo non solo da un´epoca, ma dalla sua stessa funzione nella vita politica italiana.
E´ possibile che nel corso della giornata si sia reso conto che la sua lontananza parlava più forte di quelle quattro parole auto-consolatorie che ha ritenuto di diffondere dopo la cena al Cremlino – e pure in questo caso il Cavaliere, così attento alle forme conviviali, ha tenuto a far sapere: «Ero seduto al tavolo con Putin». Ma questo rafforzato e ostentatissimo privilegio d´ospitalità non riesce minimamente a cancellare l´impressione invero bislacca di un leader sconfitto che si occupa delle Olimpiadi invernali di Soci 2013; e questo, per giunta, quando dal Palazzo di Giustizia di Milano filtravano amene narrazioni orgiastiche e paganeggianti sull´ostensione della statuetta di Priapo a villa San Martino; e dalla testimonianza di una ragazzetta colà invitata dall´ineffabile Emilio Fede arrivava una rivelazione che al punto in cui è arrivato il tran-tran del Rubygate può suonare perfino liberatoria: mentre scendevamo nella sala del bunga bunga, il presidente mi ha toccato il sedere.
E dire che qui lo aspetterebbero tante incombenze, drammaticamente lasciate a metà: il film su se stesso e per il quale non trova il regista giusto; il cambio del nome del Pdl, che va avanti ormai da più di un anno; il nuovo inno, pochissimo suonato, ma già ampiamente sbertucciato: pare abbia come titolo «Gente che resiste», e sul Foglio è già uscita una parodia del testo che fa: «Noi gente che spera e lotta/ e ormai si astiene dalla mignotta»…
Bisogna ammettere che fuori da Palazzo Chigi non è una vita né bella né facile. Nel teleduello Sarko e Hollande giocano a scaricaBerlusconi; qui c´è sempre qualche Lavitola o Tarantini che incombe, senza contare Fede, la Minetti, Lele Mora o qualche olgettina dissidente; né più si avverano le rosee profezie della graziosa tele-sensitiva bulgara. Altro che «padre nobile»! Aveva promesso il Cavaliere appena due mesi fa: «Farò il presidente del Milan, dell´Università liberale e me ne andrò in giro per il mondo a costruire ospedali». Ecco: il Milan ha perso lo scudetto; a villa Germetto si è esibita Eve la Plume in un autentico burlesque; e quanto agli ospedali da costruire, prima si vede e poi si crede.

La Repubblica 08.05.12

«Vent’anni di populismo senza popolo», di Mario Tronti

L’uso della parola populismo ha oggi. per lo più, un significato negatico. chi fa politica populista non si definisce populista, viene piuttosto chiamato populista da chi lo combatte. Il populismo ha d’altra parte dei quarti di nobiltà storica. Pensiamo al populismo russo, una stagione che sta poi all’origine di una grande storia; al populismo nordamericano, tra l’altro molto legato a una prima formazione del partito politico; al populismo sudamericano, tutt’altro che defunto.
C’è però da marcare una differenza di fondo tra populismi di ieri e di oggi. I populismi storici avevano sempre l’idea di riportare la storia all’indietro, cioè di ritorno a una tradizione, nazionale o popolare, polemici quindi contro tutti i meccanismi dello sviluppo. I populismi di oggi sono esattamente il contrario: nascono in polemica con i retaggi del passato, vogliono innovare, non conservare. Anche se poi servono più alla conservazione che all’innovazione. Sono ad esempio nemici del Novecento, perché vedono e denunciano lì una storia irripetibile e comunque da non ripetere, la storia dei grandi partiti, delle forme organizzate della politica, dello Stato, con le sue regole e procedure e mediazioni, parlamentari, istituzionali. È difficile dire se è il populismo a produrre antipolitica, o se è l’antipolitica a produrre populismo. Certo si tratta ormai di due pulsioni strettamente intrecciate, che si alimentano a vicenda e a vicenda si sostengono, contribuendo a una deriva degli attuali sistemi politici verso una sorta di autodistruzione. In questo senso, c’è l’opportunità e la necessità di ripercorrere il processo che, dagli anni 80 in poi, è venuto avanti sotto il segno di categorie contingenti agitate come valori assoluti, quali innovazione, modernizzazione, nuovi inizi vari, dovunque e comunque.
Il problema è come salvare il concetto di popolo dalla deriva populista. Il rischio è che anche nei partiti, che una volta erano partiti di massa, che si chiamavano partiti popolari, vinca una involuzione di tipo elitistico, con slittamenti in alto verso la autoreferenzialità del ceto politico e in basso verso una cetomedizzazione del riferimento sociale. È chiaro che ci sono state trasformazioni profonde nella realtà di popolo, per le economie più sviluppate, dagli ultimi decenni del 900 in avanti. (…) Eppure tutte le trasformazioni non sono arrivate a distruggere il fondamento popolare anche delle più avanzate delle società contemporanee. Il lavoro diffuso e disperso sul territorio, il lavoro precarizzato, la mancanza di lavoro, la stessa immaterializzazione di molte attività e di molte figure di lavoro, la comune persistente condizione di sfruttamento e di alienazione, che si allarga dal lavoratore manuale al lavoratore della conoscenza, non fa, oggettivamente, da sola, già popolo, ma rende possibile la costituzione in popolo di praticamente tutte le persone che vivono di lavoro.
Anche quello di popolo è in fondo un concetto politico secolarizzato, assieme agli altri concetti politici moderni: sovranità, Stato, diritto. Popolo nasce come ordine sacro. Nelle Scritture, il Signore dice ad Abramo: ti darò un popolo. Jacob Taubes ci ha ricordato come, tanto per Mosè come per Paolo, si sia trattato di fondare un popolo, il popolo ebraico, il popolo cristiano. Personalità profetiche ed entità collettive storiche. Marx, a nome del movimento operaio, non ha forse fondato un popolo, il popolo del lavoro, i lavoratori come soggetto politico, capace di grande storia? La mia tesi è che un popolo, o viene fondato, o, se si autoinveste di propri idoli, come il vitello d’oro, allora produce populismo. Il capo di oggi non è il Principe machiavelliano, portatore di una missione, è il punto in cui si rapprende e si esprime un senso comune di massa, pulsionale, emotivo, vittima passiva di un precedente trattamento molto spesso mediaticamente orientato. Nel momento in cui non si è stati più capaci di dare voce alla società, di fare società con la politica, cioè di organizzare masse attive in lotta per i propri bisogni e interessi, ecco, da quel momento è venuta avanti una deriva populista.
Il populismo di oggi è legato molto più a condizioni esterne al popolo, che alla espressione di suoi intimi convincimenti. Non ci sarebbe spazio per il populismo senza il primato dei grandi mezzi di comunicazione, senza questa presa egemonica del virtuale sul reale, senza la dittatura del messaggio mediatico, che ha il compito di creare opinione e distruggere orientamenti. Il populismo di oggi è un populismo senza popolo. E mentre la categoria di popolo chiedeva e produceva pensiero, accade il contrario per la prassi del populismo, che nega in radice la riflessione, essendo pura e dura pulsione. Avete mai visto un capo populista che abbia bisogno di forze intellettuali di riferimento? Le «masse popolari» che diventano la «gente», esprime, lessicalmente, un passaggio, di fatto, dal tempo della politica come azione collettiva direttamente al suo opposto, all’agire cieco di individui massificati e subalterni.
Una versione più estesa di questo articolo uscirà sul prossimo numero della Rivista delle politiche sociali

da l’Unità

«Il valore dei simboli. Perché la politica non può farne a meno», di Roberto Esposito

Esce il saggio di Gustavo Zagrebelsky sulle ragioni della disaffezione verso i partiti. L´emancipazione delle democrazie dalla religione non significa perdita di dimensione mitica. I movimenti esibiscono segni e sigle privi di energia, di messaggi riconoscibili e forti sul nostro futuro

Dove nasce questa disaffezione alla politica che pervade fino all´orlo le nostre società? Cosa allontana sempre di più il linguaggio dei politici da quell´intreccio di impulsi, emozioni, speranze che plasma la nostra esperienza? E perché, forse mai come oggi, l´onda lunga della politica sembra gonfiarsi nello tsunami dell´antipolitica – per riprendere l´efficace metafora usata da Scalfari nel suo editoriale del 30 aprile? Una risposta penetrante a queste domande è fornita adesso dall´ultimo saggio di Gustavo Zagrebelsky, appena edito nelle Vele di Einaudi col titolo Simboli al potere. Politica, fiducia, speranza. Certo, a fomentare tali umori antipolitici, ci sono gli eterni privilegi della “casta”; i fenomeni, sempre più vistosi, di corruzione; la difficoltà, da parte dei partiti, di uscire da una lunga fase di stallo, elaborando proposte credibili di governo. Ma c´è anche qualcosa di più e di più profondo che attiene al loro lessico – come un tarlo interno che lo depaupera e lo consuma, lo svuota e lo appiattisce su un piano di superficie, privandolo di spessore e linfa vitale.
Si tratta di quella fenomeno degenerativo che Zagrebelsky sintetizza con il termine di “de-simbolizzazione”. Diversamente da autori come Rawls o Habermas, che vedono nella politica un´attività guidata da procedure razionali, egli riconosce nella dimensione simbolica una riserva di senso fondamentale dell´agire collettivo. Come è stato messo in luce dalla grande cultura sociologica di Weber e Durkheim, ma anche dalle fondamentali ricerche storiche di Marc Bloch ed Ernst Kantorowicz, la fenomenologia del potere è inaccessibile se separata dalla funzione che in esso gioca la sfera del mito. L´emancipazione della politica dall´ancoraggio religioso, conseguente alla secolarizzazione, non significa affatto perdita di dimensione mitica, come ha ingenuamente supposto la tradizione illuministica, contrapponendo frontalmente mythos e logos. Secondo lo stesso Weber, del resto, è proprio dalla “gabbia di acciaio” della burocratizzazione che si è generata per reazione, nei primi decenni del Novecento, l´esigenza di una nuova politica carismatica, con gli esiti, anche tragici, che conosciamo. La conseguenza che se ne deve trarre è che ogni volta che si è preteso di ridurre la politica a semplice pratica amministrativa, soffocando la sua originaria carica energetica, questa si è rovesciata in pulsione aggressiva, disponibile ad essere usata da chiunque se ne fosse impadronito attraverso nuovi miti irrazionali.
Zagrebelsky intensifica questa linea di ragionamento, riconoscendo nel simbolo un´entità a doppia faccia, in continuo transito tra realtà soggettiva e istanze oggettive, positivo e negativo, passato e futuro. Canale di accesso del soggetto verso una dimensione inafferrabile con i soli strumenti razionali, esso, una volta oggettivato in norme e istituzioni, diventa un potente fattore di integrazione sociale. Senza il simbolo, se si riducesse l´esperienza umana all´astrattezza della pura ragione calcolante, non potrebbe esistere né società né politica. Perché alla base di entrambe vi è quella capacità di rimando a qualcosa d´altro, quella spinta progettuale, che costituisce insieme la condizione e il significato della vita collettiva. Symbolon, come raccontato nel Simposio di Platone, è il risultato della riunione di due parti disgiunte che, dichiarando la propria insufficienza, si congiungono in un intero che le comprende nella forma dell´attrazione reciproca. Ma senza mai perdere la loro tensione costitutiva, senza mai riposare in una pace definitiva. Perché dietro la faccia in luce del symbolon si affaccia sempre la minaccia oscura del diabolon – di una nuova, e più letale, scissione tra diversi che si interpretano come assoluti opposti. Lo stesso pronome “noi” – che unisce i distinti in un´appartenenza comune – porta dentro di sé un potenziale contrasto col “voi”. È perciò che Zagrebelsky ricorda, con Simmel, che, per fare società, non basta il “due”, diviso tra amore ed inimicizia, ma serve il “tre”, in cui i contrasti soggettivi si sciolgono nell´oggettività di istituzioni terze.
Al continuo pendolo tra soggetto e oggetto fa riscontro il passaggio, interno allo stesso simbolo, da una valenza positiva ad una negativa e viceversa. Di grande suggestione è l´esempio, centrale nella nostra tradizione, della Croce – passata senza soluzione di continuità da segno, nudo e spoglio, di dolore e contrizione a simbolo di trionfo e anche di persecuzione nei confronti di miscredenti ed eretici, per poi di rifluire in una sorta di insignificanza, misera posta in gioco di lotta politica tra schieramenti avversi. Per non parlare della sua terribile perversione nella croce uncinata nazista, che pure accese la fiamma dell´entusiasmo in un intero popolo, mobilitandolo contro altri miti contrapposti. Come ricorda anche Chiara Bottici in Filosofia del mito (Bollati Boringhieri), se si leggono in sovrapposizione Il mito dello stato di Cassirer e Le riflessioni sulla violenza di Sorel, si coglie il segreto perno intorno al quale uno stesso simbolo aggressivo sembra ruotare su se stesso, trascorrendo da un polo all´altro del quadrante ideologico del tempo.
L´ultima dialettica cui Zagrebelsky riconduce la dinamica simbolica è quella che va dal passato al futuro. Certo il simbolo affonda la sua radice in una falda originaria – nel riferimento al mondo naturale o ad un´esperienza vissuta e dunque già passata. È in tal modo che esso acquista quella forza legittimante che lo pone a fondamento di norme ed istituzioni – in mancanza della quale queste poggerebbero sul vuoto della pura effettività o su una obbligatorietà senza giustificazione. Ma per potere, appunto, persuadere gli uomini ad obbedire alle legge, i simboli che le sostanziano devono essere rivolti al futuro, portare dentro un modello di società, parlare non solo alle generazioni presenti, ma anche a quelle che verranno. È di Franz Rosenzweig l´acuta osservazione che, a differenza della monarchia, vincolata alla continuità biologica della successione dinastica, il meccanismo elettorale della democrazia è portato a rompere il filo tra le generazioni. Zagrebelsky riconduce questo dato istituzionale a quel deficit simbolico che costituisce la malattia più insidiosa delle democrazie contemporanee.
Torniamo così alla questione iniziale dell´antipolitica. Anch´essa naturalmente lavora sui simboli. Ma su simboli vuoti di contenuto, costruiti nel deserto simbolico dell´attuale politica. Certo, partiti e movimenti continuano ad esibire segni, sigle, emblemi – disegni di fiori, piante o animali. Ma privi di energia, di valori riconoscibili, di messaggi forti sul nostro futuro. Pure sagome senza vita, affidati a studi pubblicitari interessati soltanto all´efficacia della grafica, alla grammatica dei sondaggi e al riempimento multicolore delle schede elettorali.
Nel momento in cui i partiti smarriscono la loro rilevanza simbolica, l´antipolitica tende ad impadronirsene spostando la linea del conflitto dall´ambito dei progetti di società a quello dello scontro, privo di contenuti, contro la stessa politica. Stretta tra le ricette tecniche di pura amministrazione dell´esistente e le aspirazioni di movimenti senza programmi e senza prospettive, la politica continua a perdere terreno. Ma ciò che può apparire un destino dipende pur sempre da attitudini ed opzioni che è ancora possibile, e necessario, mutare.

da La Repubblica

«Il futuro? Per gli italiani è un vampiro», di Carlo Buttaroni

Se un eccesso di senso dominava il mondo della modernità, la postmodernità si caratterizza, al contrario, per il dissolvimento di quei significati unificanti che, fino a pochi decenni fa, tracciavano una linea tra passato e futuro. Il mondo appare, oggi, disperso in una miriade di frammenti difficili da ricostruire e da collocare, caratterizzato dallo sfaldamento di certezze che erano in grado di indicare all’individuo sentieri certi, delimitati, definitivi. La nostra epoca è caratterizzata da una molteplicità irriducibile, da un mutamento veloce che non può essere in alcun modo ricondotto a una matrice univoca di senso e di significati. E pare affermarsi un nichilismo tenue, dove una ragione universale sembra non dominare più il tutto e dove la frammentazione è il sentimento dominante. Un’epoca in cui l’individuo appare come un soggetto debole, costretto a convivere con una libertà e un’autodeterminazione che non sa più utilizzare nel momento in cui guarda il futuro davanti a sé.

ETERNO PRESENTE
E, forse, la crisi del nostro tempo nasce proprio da qui, da un deficit di senso e di futuro, dalla difficoltà di cogliere una direzione e una motivazione univoca fondante. Ci siamo ritirati dal futuro e collocati in un eterno presente. Un presente che paradossalmente tende ad autodefinirsi come epoca del “post”, cioè del “dopo”: post-moderna, post-industriale, post-ideologica. Ma la “fine” sembra l’unica cosa certa di questo “dopo”, mentre del “nuovo inizio” non vi è traccia. Per l’individuo disorientato, figlio di un pensiero in fuga tra sentieri interrotti, senza valori universali ai quali ispirarsi, il futuro è una minaccia più che un’opportunità. E per potersi adattare a uno scenario che propone continue dissolvenze, ricorre a cambi d’identità che gli permettono di apparire sulla scena dell’immagine e della superficialità. Fotogrammi e parole che galleggiano in superficie, tra un tweet e un social network, mentre in profondità la coscienza vive un profondo senso di solitudine.
All’interno di questo quadro non vi sono edificazioni né verità, ma solo un pensiero debole che deve rinunciare a stabilirsi su premesse salde, su quelli che un tempo erano descritti come i fondamenti del sapere. perché se un sapere c’è, oggi è senza più nuclei forti. E forse, senza verità. Una crisi dell’ideologia che pare segnare un punto di non ritorno. Al grande racconto del novecento si sostituisce una pluralità di narrazioni, il cui senso e la cui logica non sono più garantiti da un’idea di fondo o da verità stabili e riconosciute. Nella prospettiva postmoderna si assiste all’eclissi di filosofie che offrivano risposte a ogni domanda, partendo da posizioni spesso dogmatiche e dottrinali ma comunque orientanti, e al venir meno di ogni progetto di emancipazione. Un’epoca che pare contraddistinta da una generalizzata caduta delle tensioni progettuali e ideali, non solo delle prospettive politico-ideologiche, ma anche etiche e religiose.
Questo ha immediatamente riflessi sulla politica che, dovendo rinunciare a fondamenti ideologici, deve farsi sempre più mediatica e in un certo senso virtuale. È la politica che ha instaurato un regime videocratico, che insegue gli indici di ascolto, che teme i sondaggi (tranne quando sono favorevoli) e che diventa sempre più social (network) oriented. L’immagine tende a sostituire la realtà, per cui si assiste a una progressiva spettacolarizzazione della politica: la seduzione dell’immagine diviene preponderante sui contenuti. Il segno più evidente è il passaggio da un sistema composto da pochi, grandi e stabili attori sociali, che ormai sembrano incapaci di interpretare le tensioni attuali, a uno frammentato, in cui operano gruppi più piccoli e fluidi e un allargamento dei temi attorno a cui i gruppi stessi si formano e si mobilitano. Persino nell’arte assistiamo all’impossibilità di sopravvivenza di qualsiasi forma di “grande stile” e più probabilmente proprio alla morte di ogni stile. Ma il discorso è ancora più ampio: il partito, la chiesa, il paese, la cerchia di persone con le quali si condivideva la vita quotidiana, sono realtà comunitarie che si erodono ogni giorno di più di fronte al paradosso dell’omologazione che nasce dall’isolamento. Una frammentarietà sociale che vede lo sgretolarsi delle comunità di appartenenza di carattere geografico, sociale, religioso, politico, un tempo punti di riferimento. E i riflessi si trasferiscono non solo sulle grandi vicende economiche, politiche e sociali che fanno appunto la storia, ma anche sui piccoli accadimenti quotidiani che hanno a che fare con la vita individuale di ciascuno e con la percezione della propria identità. Nelle storie personali si riflette, infatti, l’interruzione della continuità del tempo, la sua progressione fatta di una miriade di fili che s’intrecciano e costituiscono appunto la storia. La crisi, cioè, dell’idea che il nostro presente sia orientato, abbia un senso in rapporto a una missione da compiere, a un progetto da portare avanti. Un presente che non ha più memoria del passato e che non progetta il futuro, perché appare impossibilitato a sistematizzare passato e futuro in un’esperienza coerente. Anche a livello politico, del resto, è proprio l’assunzione del presente come unico orizzonte storico – e dunque la scomparsa del futuro – che esclude quelle politiche di emancipazione che hanno caratterizzato le pulsioni del secolo scorso. E si sente l’assenza di un pensiero politico lungo, interprete di un’idea e un progetto che vada oltre il presente, proprio nel momento in cui la società ha bisogno di ripensare un modello di sviluppo
intorno al quale definire i suoi percorsi. Anche le categorie “tradizione” e “progresso” risultano inservibili, poiché l’esistenza si dilata in una sequenza di momenti unici, senza che vi sia necessariamente coerenza tra quelli che li precedono e quelli che li anticipano, dove il tempo altro non è che il passaggio dal presente al presente, dove non c’è progresso,ma semplicemente transito. Ed è questo eterno presente che sembra aver sostituito la storia.
Un appiattimento che si riscontra nelle coscienze sradicate e inquiete dell’oggi, e che è da mettersi in relazione proprio alla perdita della dimensione della memoria storica e della speranza. Anche il passato perde le sue coerenze e diventa un baule di possibilità, tutte ugualmente valide, in cui recuperare pezzi, frammenti, particolari sbiaditi, da utilizzare a seconda dei casi. del passato non si ha più un’immagine omogenea, poiché nell’epoca dell’eterno presente non si ha più a che fare con un corpo di convinzioni coerenti. E la stessa importanza di “ciò che è stato” – al pari di “ciò che sarà” – cambia di segno passando da una fiducia smisurata nel futuro, com’è stato nel secolo scorso, alla paura angosciante che caratterizza l’oggi. Un pensiero che non colloca più il passato in un corso necessario, che spinge l’individuo al presente e che, con la stessa forza, lo porta verso il futuro. D’altra parte il programmare, il progettare grandi mete, inevitabilmente non si addice a un pensiero debole. Ma come spesso accade, dal caos può scaturire una tensione che porta a trovare nuovi equilibri. Perché il soggetto che si viene a trovare solo, di fronte a se stesso, se da una parte riconosce la propria condizione disorientata, dall’altra non rimane immobile nella disperazione o nell’angoscia generata dalle molteplici contraddizioni che faticano a trovare una sintesi unitaria. Bensì reclama un nuovo inizio che pare offrirsi con il ricorso all’etica, alla responsabilità verso gli altri, che significa anche tentativo di uscita da un paradigma egoistico di pensiero, tipico della nostra epoca.
IL BISOGNO DI UN’ETICA PUBBLICA
La crisi delle ideologie spinge nella direzione di una rivendicazione della concretezza dell’individuo e di un richiamo alle grandi questioni della vita, innanzitutto a quelle che concernono le scelte personali relative alla nascita, la morte, la sofferenza, la cura e le relazioni con gli altri. Sembrano, anzi, queste le domande più urgenti che pone il presente. E sono domande che sembrano riproporre non solo l’attualità dell’etica, ma anche della filosofia in generale, che fanno riemergere con forza le questioni sull’uomo, partendo dall’esperienza concreta della sofferenza, nutrita dal desiderio
incancellabile dei singoli protagonisti e di intere masse umane, di dare senso e valore, qualità, dignità alla propria vita e alla storia comune.
Il problema della fondazione e giustificazione dei valori – e forse delle scelte morali – costituisce uno dei problemi essenziali del nostro tempo. È proprio sul piano etico, perciò, che si prospetta l’esigenza di un superamento della visione frammentaria della realtà e della razionalità. Le nuove tematiche accusano i limiti di una morale costruita su una ragione autosufficiente, incapace di vedere le ragioni degli altri. Denunciano anche i confini di una ragione tecnico-funzionale basata sulla priorità dell’oggetto, incapace di riconoscere le singolarità delle coscienze e la dimensione che in esse riveste la capacità per l’individuo di essere soggetto responsabile delle proprie scelte. A queste sfide, un pensiero frammentato e disincantato stenta a trovare risposte, mentre emerge nella solitudine delle coscienze il bisogno di essere riconosciuti e di essere chiamati per nome. Non più, dunque, un’ideologia che intende omologare tutto e tutti, ma l’accoglimento delle diversità e delle molteplicità. la tolleranza come atteggiamento dominante, il rispetto delle differenze, la rinuncia agli assolutismi politici e religiosi: ecco la vera svolta che può venire dal “dopo” postmoderno.

da L’Unità

«Nelle città l’affluenza cala del 6%», di Natalia Lombardo

La percentuale di votanti alle ore 22 di ieri è stata del 49,6% contro il 55,8 del 2007. A Genova, Palermo, Verona e Parma le sfide principali. Un test nazionale per le future alleanze

È di ben sei punti il calo di affuenza alle urne registrato alle 22 di ieri per le elezioni amministrative: ha votato il 49,6 per cento degli aventi diritto, rispetto al 55,86% delle precedenti consultazioni del 2007.
Un calo molto forte, il 6,2% anche se alle 19 l’affluenza era sotto di un punto e quattro: 37,72% contro il 39,11 e alle 12 di due punti: 13,06 %, rispetto alla media del 15,48 del 2007. Sono le prime elezioni amministrative al tempo del governo tecnico, che comunque riguardano 9 milioni e 231mila elettori. Le sfide più significative sono a Genova, Palermo, Verona, Parma, Verona e Monza; si presentano più che mai come un test sul quadro politico in movimento, dal quale dipenderanno anche le future alleanze, tanto più a seconda di quanto si sposterà l’asse politico: attualmente infatti 18 Comuni capoluogo sono governati dal centrodestra (con la Lega) e 8 dal centrosinistra.
I Comuni al voto sono 768, in totale 942, compresi quelli delle regioni a statuto speciale, la Sicilia e il Friuli Venezia Giulia; 26 sono i capoluoghi di provincia. I seggi saranno aperti anche oggi dalle 7 alle 15, gli eventuali ballottaggi si svolgeranno tra due settimane, il 20 e il 21 maggio. Tra le città con più abitanti dove si vota ci sono Piacenza, Catanzaro, Taranto, Rieti, Frosinone.
ARIA DI CAMBIAMENTO
Consapevole della situazione non facile, ma comunque piuttosto ottimista, Pier Luigi Bersani, che, nella «sua» Piacenza, prima di recarsi al seggio nella scuola Pezzani con la moglie Daniela e la figlia Margherita, ha osservato come ci sia «rabbia in giro, la si può capire,
c’è disagio. E questo lascerà un segno su questo appuntamento elettorale», ma proprio il voto sul territorio può portare «acqua fresca e pulita alla politica», quindi, ha proseguito il segretario del Pd, «mi aspetto che su queste elezioni ci sia un segno di disagio, ma insieme un segno molto forte di cambiamento e di fiducia». Fiducia che lui stesso ha sentito durante la campagna elettorale, «ho registrato anche una volontà positiva. C’è voglia di tornare ai fondamentali: il lavoro, l’onestà, la correttezza e una buona politica».
A Parma, il cui Comune è commissariato dopo che le proteste dei cittadini con le pentole avevano costretto l’ex sindaco del Pdl, Vignali, alle dimissioni per le vicende giudiziarie e gli scandali: qui l’affluenza alle urne alle 12 ha avuto un calo clamoroso del 4% con il 14,92% rispetto al 19,2 del 2007 (sempre comunque di due punti superiore al dato nazionale), ma ha recuperato nel rilievo delle ore 19: 40,25% contro il 42,25%. Il centrosinistra punta alla ripresa della città emiliana, con il candidato Vincenzo Bernazzoli, che corre contro Elvio Ubaldi (lista civica ed ex sindaco di Parma), mentre il Pdl va da solo con il ciellino Paolo Buzzi e la Lega con Andrea Zorandi.
In queste amministrative il Pdl e la Lega si presentano con liste separate alle urne e quest’ultima, in solitaria, è lacerata al suo interno dopo gli scandali. Il massimo del conflitto con il Senatur si catalizza a Verona, dove il maroniano Flavio Tosi, popolarissimo, è sostenuto da una sua lista civica. C’è poi l’irrompere del movimento di Beppe Grillo che cerca di assorbire, alimentandolo, il sentimento antipolitico, e dai sondaggi è dato al 7 per cento.
LA GALASSIA LISTE CIVICHE
Il Pd nei sondaggi risulta essere il primo partito (dato che ovviamente vorrebbe acquisire) e in prevalenza si presenta con l’alleanza della cosiddetta «foto di Vasto», ovvero la vendoliana Sinistra e Libertà e l’Italia dei Valori.
Pier Luigi Bersani punta a una ripresa proprio da Genova, dove alle primarie del centrosinistra a sorpresa ha avuto la meglio Marco Doria, pur candidato di Sel, ma qui comunque il segretario Pd ha concluso la sua campagna elettorale, e ci si aspetta una vittoria al primo turno sui ben 13 candidati. A L’Aquila il sindaco uscente di centrosinistra, Massimo Cialente, spera a una riconferma.
Esiste comunque una galassia di liste civiche sparse ovunque che potrebbe avere l’effetto, al primo turno, di disgregare i risultati dei partiti maggiori o di renderli difficilmente calcolabili.
IL REBUS SICILIANO
Complicato il quadro a Palermo, dove c’è stato un forte calo di affluenza registrato alle 19: ha votato il 36,46% contro il 40,16% del 2007 (un calo del 3,7); alle 12 era andato alle urne il 12,91% degli elettori (15,5% del 2007). Per il centrosinistra corre Fabrizio Ferrandelli, ex Idv (espulso dal partito di Di Pietro perché si è candidato autonomamente) e vincitore delle primarie; la sfida è con Leoluca Orlando, ex sindaco di Palermo e big dell’Italia dei Valori, che ha voluto comunque tornare in campo.
Anche la Lega però ha i suoi guai, dopo lo scandalo sull’uso dei finanziamenti, i diplomi albanesi del Trota e la guerra interna tra Bossi e Maroni. A Verona Tosi punta alla riconferma, mentre è tutto da vedere il risultato a Cassano Magnago, dove vivono Bossi e figliolo e anche Rosi Mauro.
Il Pdl è piuttosto disgregato e confida soprattutto nei comuni del Mezzogiorno. È la prima verifica elettorale del segretario Angelino Alfano, abbandonato da Silvio Berlusconi che, dopo l’unico comizio a Monza (dove per altro cura altre sue ambizioni urbanistiche) è volato a Mosca da Putin, che ieri ha fatto arrestare tre leader dell’opposizione.
L’Udc potrà testare il suo sostegno totale al governo Monti, che potrebbe essere penalizzante, e l’alleanza con Fli e Api. Come Terzo Polo si misura solo in cinque città capoluogo Belluno, Genova, Pistoia, Rieti e Trapani. Qui correrà da solo con un proprio candidato, senza schierarsi né col centrosinistra, né con il centrodestra.

da L’Unità

«Il voto ai sindaci evita il crollo di partecipazione», di Renato Mannheimer

È bene ricordare che i risultati delle consultazioni locali non sono immediatamente comparabili con quelle nazionali e proiettabili a questo livello. Specie perché sia i contenuti su cui si vota, sia l’offerta in termini di liste e di candidati, sono spesso molto legati alle specifiche realtà territoriali. In altre parole, nello scegliere la propria opzione, si ha molto più di frequente presente la figura di questo o quel candidato o il dibattito su questo o quel problema locale. Occorrerà tenere presente questi elementi nell’interpretare i risultati. Resta il fatto che, malgrado i limiti nella possibilità di dare loro un valore pienamente politico, i risultati delle amministrative hanno sempre dato luogo a indicazioni che vengono reinterpretate sul piano nazionale. Ad esempio, riguardo ai dati sull’astensione che, in effetti, dipendono anche dal clima politico e sociale nazionale. Secondo le prime rilevazioni giunte nella serata, avrebbe votato complessivamente nella giornata di domenica, poco più del 49% degli aventi diritto. Nelle passate amministrative, questa percentuale aveva invece raggiunto quasi il 55%. La differenza, attorno al 6%, è dunque significativa, anche se non comporta quel crollo di partecipazione che alcuni osservatori si attendevano. Se questo calo nell’afflusso alle urne trovasse conferma anche oggi, esso potrebbe essere anche ricondotto ai fenomeni di disaffezione dalla politica — e dai partiti in particolare — di cui tanto si è parlato in questi giorni. È noto che il livello di fiducia verso i partiti è sceso al minimi, che altrettanto si è verificato nei confronti delle principali istituzioni rappresentative, che l’interesse stesso verso la politica si è contratto. Ma, come si è detto, c’è chi si aspettava una crescita dell’astensionismo ancora maggiore, nell’ordine del 10%. Se la misura rilevata domenica sera fosse invece confermata, la differenza in positivo andrebbe ricollegata alla specificità della consultazione locale, alla presenza di liste espressione del territorio e di problematiche più immediatamente riconducibili agli interessi immediati dei cittadini. Ciò che ci suggerisce come nel momento in cui l’offerta politica interessa e coinvolge maggiormente gli elettori, si può registrare, in certe occasioni, una attenuazione del fenomeno progressivo allontanamento dalla politica e dalle sue vicende.

da Il Corriere della Sera