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"Intervista a Bersani: «Ha unito sinistra e centro Un modello anche per l'Italia»", di Monica Guerzoni

Bersani: foto di Vasto o Casini? Con Hollande sia Mélenchon sia Bayrou

ROMA — «È una grande soddisfazione, una bella notizia per l’Europa».
Per scaramanzia non ha voluto parlare fino all’apertura delle urne, ma alle otto di sera Pier Luigi Bersani è «ovviamente» contento. Il socialista Hollande ha detronizzato Sarkozy e lanciato la «campagna elettorale europea» dei progressisti, che nel 2013 potrebbe portarlo a Palazzo Chigi.

Spera in un’onda lunga per la sinistra, segretario?
«È una vittoria che attendevo. Penso possa essere un passo determinante per invertire un ciclo decennale di governo delle destre e per trattenere quelle tendenze populiste regressive che, in una crisi così acuta, insorgono in Europa. Ora si può imboccare una strada di cambiamento».

Lei ci ha creduto da subito, è salito sul palco con lui, ha firmato a Parigi il manifesto dell’Europa progressista. Quanto le somiglia, Hollande?
«Non lo so… Si dice che sia arrivato il momento della normalità, della sobrietà e se è così dico alla buon’ora. Non è solo una questione di rapporto personale tra me e Hollande, quel che ci unisce, anche con il leader della Spd tedesca Gabriel, è un dato politico, una incredibile convergenza di idee e proposte. I progressisti esprimono leadership che hanno un carattere più collettivo, non giocano sulla personalizzazione. Avendo avuto Berlusconi siamo stati i primi a fare i conti con lo stile populista e infatti abbiamo cominciato a costruire partiti aperti, con un profilo nuovo».

Dopo la Francia sarà l’Italia a svoltare a sinistra?
«La vittoria di Hollande nasce dalla confluenza di elettorato di sinistra e di centro democratico, contro una destra fortemente condizionata da una pulsione reazionaria. La saldatura tra forze di sinistra e forze moderate costituzionali è un tratto di fondo della situazione europea ed è l’alternativa al ripiegamento regressivo della destra. Ma quando ne parlo, in Italia, mi si chiede sempre quale foto preferisco…».

La foto di Vasto, con Vendola e Di Pietro, o quella con Casini?
«Lo trovo stucchevole e vorrei far notare che Bayrou e Mélenchon hanno votato tutti e due per Hollande. Io ho fatto appello a un patto di legislatura e ne stiamo costruendo le condizioni».

Con Di Pietro o senza?
«Io non arruolo e non escludo nessuno, ma voglio che il centrosinistra appaia come un solido partito di governo. Quando sento Di Pietro dirmi “ti aspetto sulla sponda del fiume” rispondo, con il sorriso sulle labbra, che aspettare è una posizione comoda, ma non è mica detto che poi io passi…».

Lei è molto fiducioso sui risultati delle Amministrative, ma un Pd più forte e un Pdl indebolito non rischiano di destabilizzare il governo?
«Credo proprio di no. Io mi ritengo già abbastanza in salute, ma un Pd più in salute ancora è in grado di svolgere meglio il ruolo e non credo che il Pdl voglia prendersi la responsabilità di far saltare Monti come rimedio a mali elettorali. Non mi aspetto effetti particolari sul governo, che anzi, con gli spazi europei che si aprono, può guadagnare in vitalità».

Forse gli elettori gradirebbero, visto il calo di consensi. Lei ha detto che non trama alle spalle, ma è sicuro che la vittoria di Hollande non le farà venir voglia di votare?
«Io ho detto una parola ed è quella. Sostenendo il governo Monti ci siamo caricati di responsabilità non nostre, con generosità. Il problema sono i problemi del Paese. L’azione di governo dovrebbe mostrare una comprensione piena del risvolto drammatico della crisi e dare segni concreti che si vuole risolvere il tema dei pagamenti e degli esodati. E consentire ai comuni di fare un po’ di investimenti. Se si fosse presa la nostra proposta su Imu e pensioni non saremmo in questa situazione. Il che non farà venir meno la mia lealtà».

Con Hollande al posto di Sarkozy l’Europa sarà più solidale?
«Nessuno può più credere che ci si salvi da soli. A poco a poco sembrerà assurdo anche in Germania e si farà largo l’idea di una Europa comunitaria, che usa strumenti comuni per affrontare la crisi. Non è più possibile che a pagare siano solo il lavoro e il welfare».

Cosa vi siete detti dopo la vittoria con Hollande?
«Che Italia e Francia devono lavorare insieme».

Riuscirete a imporre la piattaforma dei progressisti?
«Uno può essere di destra o di sinistra, ma quella piattaforma può solo essere un vantaggio per l’Italia. Partiamo da una tassa sulle transazioni finanziarie, poi project bond ed eurobond, potenziamento della Banca europea di investimenti e coordinamento delle politiche economiche nazionali».

Con la rottura dell’asse «Merkozy» integrare il fiscal compact diventa un obiettivo possibile?
«Sì, diventa possibile e mentre accade è ora di considerare anche la tempistica. Sentirò Monti e Hollande, ma già al Consiglio europeo di giugno dobbiamo adottare qualche misura che abbia un primo impatto sulla recessione e faccia ripartire gli investimenti, penso a una mini golden rule».

Hollande vuole una stretta sulle banche e una forte patrimoniale sui redditi, è un piano compatibile con Monti?
«Bisogna distinguere tra le proposte nazionali e la politica europea, sulla quale ci possono essere significative convergenze. Non c’è bisogno di un valzer di alleanze tra Italia, Francia o Germania. Io vedo un tavolo nuovo, dove Monti potrà inserire le sue idee sulla crescita e la Francia vorrà avere voci amichevoli a sostegno della sua piattaforma».

In Grecia la sinistra radicale si rafforza e i partiti che sostengono i tecnici crollano. Può accadere da noi dopo Monti?
«Non lo penso, l’Italia non è la Grecia. Ma dico attenzione, perché quei fenomeni drammatici di radicalizzazione sono segnali che vanno colti. La tedesca Bild ha titolato “La Grecia sceglie il caos” e io lo trovo indecoroso. Se non arricchiamo le discussioni economiche con una visione politica, va a rischio l’idea di Europa».

Pensa mai alla fine che fece la gioiosa macchina da guerra di Occhetto?
«Ho idee sufficienti per tranquillizzare su questo punto. E se non fossi convinto io stesso che si può rispondere positivamente a quel dubbio, mi riposerei. Non si può riscrivere la storia, il centrosinistra è quello di D’Alema, Prodi, Ciampi, Padoa-Schioppa… È una storia di governi riformatori e non di gioiose macchine da guerra».

da Il Corriere della Sera

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“Il pressing di Bersani: «Monti colga l’occasione»”, di Simone Collini

Ora può esserci la «svolta» di cui l’Europa ha bisogno. E ora anche Monti può cogliere l’«opportunità» offerta dal cambio della guardia all’Eliseo, lavorando con un «alleato prezioso» per «incalzare» la Germania sulla crescita. È questo il ragionamento che, appena annunciata la vittoria in Francia di François Hollande, si fa nei partiti italiani, di centrosinistra e non. Se l’entusiasmo del Pd era scontato (Pier Luigi Bersani tra l’altro a metà marzo è volato a Parigi per firmare insieme a Hollande e al segretario della Spd tedesca Sigmar Gabriel una piattaforma programmatica comune dei progressisti europei), il Pdl già dopo il primo turno delle presidenziali d’oltralpe si era segnalato per il repentino voltafaccia, scaricando il «ventennale amico» (Berlusconi dixit) Nicolas Sarkozy e lanciando apprezzamenti per il leader socialista. E ieri c’è stato un degno seguito, al punto che il primo commento in lingua italiana del voto francese, a urne aperte e sulla base degli exit-poll belgi, è stato quello del coordinatore del Pdl Sandro Bondi, per il quale «il successo di Hollande può aprire uno spiraglio per correggere quegli accordi che contribuiscono a peggiorare la recessione economica in cui è avvolta l’Europa» (e pazienza se quegli accordi sono stati firmati dal governo italiano quando era presidente del Consiglio Berlusconi).
STOP A DESTRA E POPULISMI
Il discorso è più serio per quel che riguarda il centrosinistra. La vittoria di Hollande apre per il Pd prospettive fino a non molto tempo fa tutt’altro che pacifiche. Sia nel senso che ora è possibile un’inversione di rotta delle politiche europee, finora centrate sul rigore e la disciplina di bilancio per iniziativa soprattutto dell’asse Merkel-Sarkozy, sia nel senso che ora c’è la dimostrazione che un’alleanza tra progressisti e moderati è non solo possibile (il centrista François Bayrou si è schierato al secondo turno con Hollande) ma anche vincente. Con tutto quel che può significare per le vicende nostrane, in vista delle politiche del 2013.
«È una vittoria che attendevamo ed è un passo determinante per invertire il ciclo disastroso dei governi delle destre e anche per sconfiggere i venti populisti e regressivi che si fanno sentire in Europa», dice Bersani guardando al risultato francese. Ora l’Italia, per il leader del Pd, «deve cogliere tutte opportunità che verranno dalla nuova situazione politica». Un discorso che riguarda il governo ma non solo.
Hollande può infatti essere un grande alleato, per Monti, per «incalzare» (il verbo è stato usato dal presidente del Consiglio) Merkel verso politiche per la crescita: «E spero non sfugga a nessuno dice Bersani che l’Italia ha tutto da guadagnare da un avanzamento della piattaforma dei progressisti europei, che riesce anche a individuare obiettivi di crescita da affiancare a un rigore che se è cieco ci porta a una recessione indomabile».
Un primo test, in questo senso, può venire dalla ratifica in Parlamento del “Fiscal compact”, fortemente voluto dall’asse Merkel-Sarkozy e che Hollande in campagna elettorale aveva annunciato di voler riformare. Il Pd non farà mancare il suo voto favorevole, ma Bersani è convinto che il governo debba sfruttare l’effetto del voto francese per integrare il trattato con misure a favore della crescita. «Sono certo che Monti vorrà cogliere tutti gli spazi per un cambiamento delle politiche europee», è il suo ragionamento. «Il Fiscal compact può essere emendato per diventare praticabile e sostenibile. E l’Italia ha tutto l’interesse a cogliere ogni spazio perché ciò sia possibile».
PROGRESSISTI E MODERATI
Ma la vittoria di Hollande, leader del partito socialista francese a capo di un’alleanza che va dall’esponente di sinistra Jean-Luc Mélenchon al centrista Bayrou, dice anche altro per Bersani: «È così impensabile quello che diciamo anche in Italia chiede retoricamente il leader Pd e cioè che la ricostruzione del Paese possa essere affidata a un incontro tra forze progressiste e anche moderate contro il populismo delle destre fallimentari?».
UDC CAUTA, SEL ENTUSIASTA
La vittoria di Hollande viene però commentata in modo diverso da Casini e Vendola, con il leader centrista che si limita a un conciso «la vittoria di Hollande può essere salutare per l’Europa, ho più dubbi che lo sia per i francesi», e con il leader di Sel che esulta: «La sinistra che difende l’Europa sociale, l’Europa dei diritti e del welfare, vince ovunque».
Berlusconi, tanto più dopo la vittoria di Hollande, continua a spargere la voce che il Pd voglia andare al voto in ottobre. È una tattica, che dà fiato a chi come Vendola e Di Pietro chiede al Pd di staccare la spina al governo, e che punta ad inaugurare sotto il segno dell’instabilità la prossima legislatura. Una trappola in cui Bersani non cade. «Non attribuisca a noi intenzioni sue», è la replica all’ex premier. La vittoria socialista in Francia non fa cambiare i piani del Pd, dal punto di vista dei tempi: «Sosteniamo Monti fino al 2013».

da l’Unità

«Fassina: ora una svolta Il governo deve rinviare il sì al “Fiscal compact. E rallentare il processo-riduzione del deficit», di Fabio Martini

Il primo, tangibile rimbalzo in Italia della vittoria socialista in Francia si può misurare attraverso le parole di Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, che non si limita a compiacersi per la vittoria di Hollande, ma si spinge oltre: «A questo punto credo che il governo italiano debba sintonizzarsi sulla novità francese, disponendosi, da una parte a rinviare l’approvazione in Parlamento del Fiscal compact, dall’altra rallentando il processo verso la riduzione del deficit».
Parole impegnative ma meditate quelle di un raggiante Stefano Fassina, coriaceo assertore di una linea di sinistra dentro il Pd, ma anche parole destinate ad aprire qualcosa più di un dibattito accademico.

Era da 23 anni che un socialista non conquistava l’Eliseo: che segno è?
«E’ il segno che si riapre una prospettiva progressista in tutta l’area Euro e cambia l’agenda in Europa. Anche alla luce dei risultati in Grecia».

Della piattaforma di sinistra con la quale Hollande è riuscito a vincere, c’è qualcosa che può essere importato in Italia?
«Una piattaforma di buonsenso più che di sinistra. Esce battuta la linea della cieca austerità portata avanti dalla Bce che sta portando tutti a fondo e dunque va “importata” la linea opposta, quella che potrà salvarci dal naufragio. E d’altra parte non si capirebbe l’endorcement a favore di Hollande da parte del Financial Times e di così tanti interlocutori non progressisti».

I socialisti francesi sono i più «conservatori» della tradizione e ora anche i più vincenti: cosa importerebbe delle loro ricette di politica interna?
«La concezione che loro hanno del rapporto tra austerità, diseguaglianza e crescita e su questo c’è piena sintonia con il Pd e gli altri partiti progressisti europei».

Ma il tema dell’austerità in realtà non è più italiano che francese?
«No, non è così. La recessione si sta allargando a macchia d’olio in tutta Europa e lo stesso Sarkozy si era impegnato ad adottare manovre correttive. E in ogni caso il fattore più rilevante è che cambia l’agenda in Europa».

Cambia anche vista da Palazzo Chigi?
«Certamente. Occorre che l’Italia si predisponga a rinviare l’approvazione del Fiscal compact».

Ma l’Italia non è la Francia…
«Già, ma il rinvio è stato chiesto anche dalla Spd e i socialisti francesi hanno già detto che non sono disponibili ad una semplice ratifica prima della verifica da completare nel corso del vertice europeo di fine giugno. Anche noi dovremmo rinviare l’approvazione a dopo l’estate, dopo che saranno stati fatti significativi passi avanti in direzione dello sviluppo. Ma serve anche altro. Va rivisto, subito, il percorso verso la riduzione del deficit, in modo che almeno un punto del Pil sia indirizzato in spese per investimenti già nel 2012».

Vuol dire che finora avete sostenuto Monti col naso turato?
«Monti si è trovato con un cappio al collo, “preparato” da Berlusconi e le scelte sbagliate di politica economica sono state il prezzo politico per tornare a sedersi con la Merkel. Ma ora i tempi sono maturi per una svolta in tutta Europa».

E’ Bersani l’Hollande italiano?
«Certo. Lui ha vinto senza leaderismi, con una grande squadra, un partito vero e l’investitura delle Primarie».

da La Stampa

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«Finalmente la sinistra ripudia il liberismo. Ora una nuova agenda», di Ronny Mazzocchi

SARÀ NECESSARIO ANCORA QUALCHE GIORNO PER CAPIRE COSA CAMBIERÀ IN EUROPA DOPO QUESTO CURIOSO ELECTION DAY. Per varie ragioni sono infatti andate al voto Italia, Francia, Germania e Grecia, a cui bisogna aggiungere il grande successo del Partito laburista inglese alle elezioni amministrative della scorsa settimana. Ma un dato sembra ormai certo: la sinistra europea, dopo una lunga fase di appannamento che l’ha condotta quasi ovunque all’opposizione, è tornata in campo. Lo sta facendo con una ritrovata capacità di proporre un’analisi autonoma non più presa a prestito dalla cultura neoliberale. Termini come uguaglianza, diritti e lavoro sono tornati prepotentemente di moda nel vocabolario dei progressisti, dopo essere stati ingiustamente marginalizzati se non addirittura banditi durante i ruggenti anni Novanta. Ma è soprattutto nel campo delle politiche europee che osserviamo le maggiori discontinuità rispetto al recente passato.
La sinistra sembra essersi finalmente emancipata da quell’asfissiante visione tecnicistica che aveva ridotto l’europeismo alla mera esaltazione del mercato unico, della competitività e dei vincoli contabili, per proporsi come forza garante di un rilancio di quel progetto comunitario affogato nelle paludi dell’austerità e dell’egoismo nazionale in cui è stato condotto dai partiti conservatori nell’ultimo decennio. La prova elettorale di questi giorni e soprattutto l’esito delle presidenziali francesi misurerà la capacità di trasformare questa ritrovata autonomia culturale in un credibile progetto politico.
Sarà innanzitutto necessaria una grande lucidità nell’individuare, nel quadro più generale di una riforma delle istituzioni comunitarie, politiche e azioni capaci di portare al più presto il vascello europeo fuori dalla tempesta. Se tutti ormai parlano di politiche per la crescita come panacea di tutti i mali, bisogna prendere sul serio l’ammonimento posto ieri da Leonardo Domenici su queste pagine, ovvero che ad una nuova fase di sviluppo bisogna arrivarci vivi e questo non è affatto scontato.
Se è dato per acquisito almeno fra i progressisti che la causa della crisi in cui ci troviamo non è l’eccesso di indebitamento pubblico, ma il gravissimo dissesto del sistema finanziario privato, è evidente che il suo risanamento è condizione necessaria e imprescindibile per arrestare la caduta della produzione e dell’occupazione. Il risanamento richiederà varie forme di intervento pubblico, dall’assorbimento dei debiti privati non più esigibili alla ricapitalizazione di alcune banche private. Ma affinché la riparazione tenga, è necessario che ai titoli pubblici dei Paesi dell’euro venga restituita affidabilità e qualità finanziaria per tutto il tempo necessario agli investitori privati per ricostruire la loro piena operatività sui mercati. Il portafoglio di qualsiasi investitore, infatti, richiede la presenza di una solida base di attività prive di rischio, senza le quali non è possibile nemmeno calcolare in modo credibile i prezzi e quindi i temibili spread. Nella vita economica, però, non c’è niente di assolutamente privo di rischio ed è necessario inventarlo attraverso quello che Paul Samuelson riferendosi alla moneta chiamava «espediente sociale».
A questo scopo occorre creare quella base finanziaria pubblica priva di rischio, sottraendola dalle forze di mercato a partire innanzitutto dalle agenzie di rating e sottoponendola a un regime di prezzi amministrati dalle istituzioni responsabili della stabilità monetaria e finanziaria. Gli strumenti tecnici ci sono e varie sono le proposte in campo, prima fra tutte la messa in comune di parte del debito pubblico europeo con meccanismi di compensazione capaci di non penalizzare i Paesi virtuosi. L’importante è scegliere in fretta, già nelle prossime settimane. Senza questo importante passo, sia le manovre fiscali di consolidamento dei conti pubblici che eventuali piani di rilancio della crescita saranno inutili. Mettere in cima all’agenda questo tema può essere il primo segnale che, con i progressisti al governo dell’Europa, l’uscita dalla crisi non sarà più soltanto uno slogan con cui aprire i resoconti ufficiali dei meeting europei.

da l’Unità

«Ora si sposta l´asse della Ue Mario corregga la linea Merkel», intervista a Franceschini di Goffredo De Marchis

Franceschini: “L´avanzata dei progressisti avrà delle ricadute concrete sulle scelte della Ue”. Assurde le regole di Merkel e Sarkozy. Con la massima crisi non ci può essere anche il massimo di austerità. Il doppio turno alla francese garantisce maggiore rappresentatività. Il Pdl ci pensi

ROMA – Dario Franceschini festeggia la vittoria di Hollande e dei progressisti. Una vittoria che può «spostare l´asse europeo, ripristinare la superiorità della politica sui mercati e concentrare gli sforzi sulle persone e le famiglie che non ce la fanno più, oltre che sul rigore». In Italia anche Mario Monti è chiamato a dare un segnale nuovo.
E in vista del nostro dibattito sulla legge elettorale il capogruppo del Pd alla Camera osserva: «Il voto proporzionale in Grecia e nel Land tedesco esprime una totale ingovernabilità. Il doppio turno francese invece garantisce rappresentatività e una scelta di governo. Il Pdl ci rifletta su».

Davvero pensa che cambieranno subito le politiche europee?
«La Francia è un Paese assolutamente centrale nell´Unione. Il successo di Hollande perciò non può non avere un effetto immediato. È il primo passo. I prossimi passi saranno le elezioni in Italia e in Germania. L´avanzata dei progressisti avrà delle ricadute concrete sulle scelte della Ue. Le scelte non sono immutabili, variano con le impostazione dei governi».

In Italia però governa ancora Monti.
«Spero che anche il nostro governo lavori per correggere la vecchia linea guidata da Merkel e da Sarkozy. Ma il punto è che qualsiasi politica nazionale o transnazionale sembra oggi imposta dai mercati. Loro dettano le regole e sono regole assurde. Come quella per cui nel momento di massima crisi delle persone ci dev´essere anche il massimo di austerità. Una ricetta che porta alla recessione e anche alla più concreta disperazione di migliaia di cittadini».

A proposito di mercati: e se oggi arriva la botta dalle Borse?
«Mi interessa di più Parigi invasa dai cittadini in festa. La politica e i governi li decidono i popoli non i mercati È ora di cominciare a invertire con coraggio questa influenza. È la prima grande battaglia tra progressisti e conservatori. L´Europa non può affrontare una fase come questa solo sull´austerità».

Può fare qualcosa a breve anche Monti?
«L´Italia ha il dovere di andare avanti sul pareggio di bilancio..».

Quel pareggio che il vostro alleato Hollande vuole far slittare in Francia.
«Noi rispettiamo un accordo europeo ma l´Europa può correggere quella scelta. Non facciamo confusione però: chi ha un debito gigantesco, come noi, deve andare avanti con politiche di risanamento. Ma mi aspetto che il governo Monti prenda atto che ci sono milioni di italiani che non hanno più soldi per mangiare. A quelle persone la destra pensa di poter dire: aspettate la crescita. Noi pensiamo che servano politiche di welfare immediate».

Quali?
«Il ricavato della positivissima lotta all´evasione positiva può aiutare chi il reddito non ce l´ha proprio, le fasce di povertà assoluta e i disoccupati, anziché essere orientato a ridurre l´aliquota dei redditi bassi. Un ruolo fondamentale lo possono giocare i comuni. Lo Stato dovrebbe trasferire risorse vincolate al fondo sociale degli enti locali. E allentare il patto di stabilità interno consentendo di far lavorare migliaia di piccole imprese».

Sta pensando anche a una riduzione dell´Imu?
«Sull´Imu ha ragione Bersani: allentiamola spostando il carico sui grandi patrimoni. In generale il governo è chiamato a siglare un patto istituzionale con i sindaci. È l´unica rete che può gestire il disagio sociale e il rapporto con la vita reale».

Puntate sul voto anticipato in ottobre?
«Assolutamente no. La missione che noi abbiamo affidato a Monti è arrivare alla fine della legislatura».

Ipotizzando per il dopo una Grande coalizione?
«Il Pd vuole vincere le elezioni. Completato il lavoro di Monti, si tornerà allo scontro fisiologico tra conservatori e progressisti. Non ci sarà nessuna grande coalizione».

Il voto greco è pericoloso?
«È molto preoccupante. Insieme con il risultato delle elezioni nello Schleswig-Holstein, a noi italiani dovrebbe anche dire che i sistemi proporzionali, per quanto corretti, portano rischi di frammentazione e ingovernabilità, a differenza del doppio turno. Il Pdl farebbe bene a rifletterci sopra».

da La Repubblica

«Il politico di professione che distingue destra e sinistra», di Michele Prospero

È un socialista moderato quello che conquista l’Eliseo turbando non poco il sonno della grande borghesia (non solo) francese con la sua proposta scioccante di una elevata tassazione delle grandi fortune finanziarie. Con un padre di estrema destra e una madre di sinistra, Hollande sin da studente maturò la scelta della militanza attiva, dapprima a fianco dei comunisti, e poi avvicinandosi ai socialisti. Dopo i primi passi nella scuola cristiana, la laurea in giurisprudenza e un periodo di studi in America, hollande si diploma nella celebre scuola dell’alta amministrazione (l’Ena) e diventa anche docente di economia. Il suo percorso di “specialista più politico” mette insieme una severa formazione burocratica e una collaudata esperienza amministrativa. Con la sua prestigiosa carriera politica (per 11 anni è stato il segretario del Ps, deputato, vicepresidente di regione, sindaco) Hollande archivia la stagione dell’antipolitica che in Francia celebrò i suoi fasti soprattutto nelle presidenziali del 2007. Si fronteggiarono allora «Sarko l’americain», che aveva accentuato la presidenzializzazione del partito e imposto la selezione del candidato all’Eliseo con le primarie, e Ségolène Royal. I due campioni del marketing che privilegiavano la leggerezza della comunicazione, in luogo di programmi pesanti ed esibivano lo strumentario dei sondaggi per farsi avanti, avevano imposto la prima campagna presidenziale dal frizzante segno post-politico.
Con Hollande torna invece alla ribalta la figura del politico sperimentato, che sbaraglia un presidente uscente come Sarkozy, ritenuto un cavallo di razza della magica video-politica. L’anticarisma, il «capitano di pedalò» lo ha definito il leader tribunizio della sinistra radicale, è in realtà un politico misurato e prudente che non ama esibire i dubbi segni della fascinazione mitica e non recita a soggetto il copione del marketing ma inietta un principio di speranza con proposte semplici, capaci di rendere vivida la differenza, divenuta opaca, tra destra e sinistra.
Non nascondendo la maschera di politico all’antica, Hollande apre strade nuove alla sinistra europea, chiamata ad andare oltre il rigore per salvare la democrazia. A un partito da sempre divorato da faide interne, che dopo la fine del ciclo luminoso di Mitterrand era mestamente precipitato allo status quo ante, restituisce una grande prospettiva di governo. Molte figure della gauche sono state divorate dalla cinica macchina dell’invenzione del candidato perfetto. Mauroy il rigorista, Fabius il delfino, Jospin l’austero, Rocard il riformista, Royal la leggerezza mediatica: tante ambizioni presidenziali cadute in repentina disgrazia. Un partito presidenziale non si consolida agevolmente. E deve convivere con veti incrociati, guerre infinite, agguati intestini, divisioni irriducibili. Un politico d’apparato come Hollande restituisce un futuro al Ps perché fa leva su una cosa antica, il radicamento territoriale comunque persistente in un partito di cariche elettive (il 25 per cento degli iscritti), e sul vantaggio strategico dell’effetto maggioritario che regala in ogni caso (e anche in anni in cui la tradizionale quadriglia bipolare è scassata) una preminenza competitiva al maggiore partito che deve costruire l’alternativa alla destra. Hollande copre un vuoto in un’età convulsa che ha visto declinare l’unità della sinistra prima maniera, la formula della sinistra plurale, l’accenno di Royal ad una apertura al centro moderato. Il Ps sconta l’antinomia che sempre lacera la coscienza interiore della sinistra: aderire alla scenografia del duello presidenziale e però sognare un’altra repubblica, la sesta con partiti che non siano mere dipendenze dell’Eliseo e con rappresentanza. Per un singolare paradosso, tocca proprio a un politico di professione erigere il principale argine all’antipolitica oggi trionfante nella vecchia Europa dei tecnocrati, sorda dinanzi all’alienazione politica dei ceti marginali.

Da L’Unità

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«Fitoussi: “Saprà muoversi con la Merkel per unire iniziative di crescita al rigore”», di Eugenio Occorsio
L´economista: “La misura più importante sarà rinegoziare il Fiscal compact per renderlo meno vincolante”. Non basta un uomo per cambiare la storia dell´Europa. Non ci aspettiamo il miracolo: ma ora c´è una speranza

«Ricordiamoci che non basta un uomo per cambiare la storia dell´Europa. Non ci aspettiamo un miracolo: però ora abbiamo una speranza». Jean-Paul Fitoussi, l´economista che dalla sua base parigina di SciencesPo segue più di chiunque altro le vicende europee, controlla a malapena la soddisfazione. «La misura più importante che ci aspettiamo da Hollande è la rinegoziazione del Fiscal compact per renderlo meno vincolante. Qui si giocherà la partita. Hollande saprà muoversi con attenzione».

Adesso che ha vinto il candidato socialista non c´è pericolo che vada a finire come dopo la vittoria di Mitterrand nel 1981, quando la Borsa di Parigi perse il 17% in una settimana?
«Hollande ha due strade: ribaltare il tavolo e rimettere in discussione il trattato prima che venga ratificato dai Parlamenti, oppure avallare l´atto politico dell´approvazione di tutti i Paesi per non turbare troppo gli equilibri, affiancandogli però un´iniziativa di crescita. Realisticamente, questa sarà la strada, per non impostare subito con tensione i rapporti con la Merkel. E anche, è vero, per non gettare incertezza sui mercati, che sono imprevedibili ma attaccano se vedono segnali di debolezza: l´importante è evitarli».

Il ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, ha già detto che Berlino è pronta a lavorare insieme per la crescita. Cosa dobbiamo aspettarci?
«Intanto gli eurobond, la vera partita di scambio. Dal primo giorno di validità del Fiscal compact, Hollande vuole che partano i titoli comunitari, e ora si può sperare che la Merkel rimuova il veto. Poi, i project bond: si tratta di rivitalizzare la Banca europea degli investimenti, ricapitalizzarla e portarla a finanziare singoli progetti di sviluppo nei vari Paesi. La Bei esiste da sempre: rilanciarla è una scelta politica e Hollande la farà. Infine, la Bce».

La questione più complicata…
«Certo, ora però può cominciare il cammino per trasformare la banca in lender of last resort vincendo il nucleo duro della Bundesbank: deve prestare denaro ai Paesi comprando titoli all´emissione e non più sul mercato secondario come fa ora, peraltro con un´interpretazione forzata dei trattati che rischia di non reggere. Alla Bce va dato pieno titolo e autorità per acquisti su tutta la linea. L´inflazione non è un pericolo, comunque ci sono a Francoforte tecnici in grado di tenerla sotto controllo. Si dice che la Bce deve tutelare le banche: bene, sostenendo i corsi dei titoli di Stato tutela la solidità patrimoniale degli istituti».

Quali altri punti la convincono del programma di Hollande?
«Sicuramente la riforma fiscale per rendere le tasse più progressive, insomma far pagare di più ai ricchi. E poi l´iniziativa nella scuola con l´assunzione di 60mila insegnanti: gli investimenti sul capitale umano sono cruciali per ridare speranza, e poi è un colpo alla disoccupazione. I fondi? Vedrete, ci sono: deriveranno dalla riforma fiscale ma soprattutto dallo sviluppo che sarà promosso con tutte le iniziative europee».

da La Repubblica

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«Questo è un voto storico per il futuro dell’Europa» Intervista a Laurent Fabius di Umberto De Giovannangeli

È stato premier francese dal 24 luglio 1984 al 20 marzo 1986. Qualcuno lo indica come ministro delle Finanze nel prossimo governo
«La Francia ha voltato pagina e aperto un nuovo capitolo che ha un nome: changement (cambiamento)». A parlare è una delle personalità di primissimo piano del Ps: Laurent Fabius, 66 anni, già primo ministro. Un grande passato e un futuro politico non meno significativo: molti analisti e fonti vicine al neo presidente François Hollande, lo indicano come il più accreditato al dicastero delle Finanze o al Quai d’Orsay, ma c’è chi pensa a lui come un possibile primo ministro.
La Francia ha scelto il suo nuovo presidente: Francois Hollande. Qual è il segno politico di questa vittoria?
«Non c’è dubbio: è il segno del cambiamento. Un cambiamento che non ha nulla di ideologico, ma si fonda su un progetto chiaro, su programmi, su proposte concrete che non sono libri dei sogni. Quello indicato da Hollande è un cambiamento pragmatico, efficace, che dalla Francia può trasmettersi all’Europa. So che spesso il termine “storico” è usato a sproposito. Ma in questo caso, credo che sia ben speso: quello di oggi è stato un voto storico per la Francia». C’è chi sostiene che la forza di Hollande sia stata soprattutto la debolezza del suo avversario.
«Non sono di questo avviso. Certo, la maggioranza dei francesi ha giudicato con severità i cinque anni di presidenza Sarkozy, soprattutto per la sua incapacità a far fronte alla crisi. Ma i francesi hanno votato “per” e non solo “contro”. E hanno premiato il candidato che si è dimostrato più serio, quello che ha prospettato un cambiamento possibile». Quali potrebbero essere le prime mosse, i primi atti dei primi 100 giorni della presidenza Hollande?
«Misure coerenti con i punti qualificanti del suo programma elettorale: investimenti sul piano-scuola, il blocco per tre mesi del prezzo della benzina, la riduzione del 30% delle retribuzioni del Presidente e dei ministri: un insieme di misure che danno conto di scelte strategiche, qual è l’investimento sull’istruzione, ed altre che danno conto di una volontà di far fronte nell’immediato a questioni, come il caro benzina, che pesano sulla quotidianità dei francesi. Un passaggio importante saranno poi le legislative di giugno. Davanti a noi c’è una estate di lavoro. Dovremo prendere decisioni importanti, soprattutto in campo finanziario, fiscale e sociale. “Il cambiamento è adesso” da oggi non è solo un felice slogan. È un impegno con i francesi che dobbiamo onorare. Da subito». C’è chi ha descritto Hollande come un’”ammazza ricchi”, facendo riferimento alla prospettata riforma con lo scaglione al 45% per i redditi superiori a 150 mila euro e l’imposta marginale del 75% per i redditi superiori al milione di euro.
«Non è una misura “ammazza ricchi”, io la chiamo giustizia sociale ed equità fiscale».
Guardando a questa vittoria in chiave europea. C’è chi teme che la presidenza Hollande indebolisca l’azione di rigore.
«È una preoccupazione che non ha ragione di essere. Hollande fa proposte che tendono al rafforzamento delle istituzioni politiche ed economiche europee. Mi riferisco, ad esempio, ad un ruolo attivo della Bce, ad una effettiva attuazione del Fondo europeo di stabilità, alla definizione di una tassa sulle transazioni finanziarie, finalizzate, come i project bond, al lancio di grandi progetti di sviluppo. Proposte fondate su una convinzione: la crescita favorisce, e non minaccia, la disciplina di bilancio».
La presidenza Hollande segnerà la fine dell’asse franco-tedesco?
«Niente affatto, semmai lo riequilibrerà rispetto a una dipendenza troppo marcata avuta da Sarkozy nei confronti delle posizioni della signora Merkel. Mi lasci aggiungere che il rapporto tra Parigi e Berlino ha radici storiche che non nascono e non si esauriscono con il cosiddetto “Merkozy”. Un primo risultato lo abbiamo già ottenuto, visto che il ministro degli Esteri tedesco Westerwelle ha espresso la volontà di Berlino a lavorare per un Patto di crescita. È un buon inizio».
Un buon inizio, lei dice. Per quale politica europea, soprattutto sul terreno decisivo: quello economico e finanziario?
«La convergenza europea è ovviamente necessaria, ma se essa non si limita a premere il freno. Politiche che puntano tutto sull’austerità non solo avranno conseguenze pesantissime sul piano sociale ed economico, ma l’iper-austerità impedisce un risanamento strutturale dei conti pubblici. Le disuguaglianze bloccano la crescita».
A suo tempo, lei fu il punto di riferimento di quanti nel Ps si schierarono per il no nel referendum sulla Costituzione europea. E oggi?
«La mia posizione era fondata sulla convinzione che per l’Europa le questioni centrali fossero allora quelle dell’occupazione e delle delocalizzazioni. In quel Trattato non c’erano, a mio avviso, indicazioni precise, misure concrete per un cambiamento su questi due punti cruciali. Ma in me non c’è mai stato un sentimento antieuropeo, un pregiudizio ideologico. E la riprova è che Hollande mi ha voluto al suo fianco in questa campagna. Resto convinto che non dobbiamo solo fissare gli obiettivi giusti, ma anche trovare mezzi e regole che non siano in contraddizione con questi obiettivi. Hollande li ha indicati chiaramente. La sua idea di Europa è anche la mia. Su questo non devono esserci dubbi: la sinistra francese sarà più europeista. Un europeismo progressista».
Nel ballottaggio, a favore di Hollande si è pronunciato il leader centrista Bayrou. È nato il centro-sinistra francese?
«È presto per dirlo. Di certo, e questa è una tradizione della Quinta repubblica, chiunque sostenga il progetto del presidente eletto è parte della maggioranza presidenziale. Ciò vale anche per Bayrou».

da L’Unità

«Grecia, vince la rabbia. Punita la linea dell’austerità», di Rachele Gonnelli

Crollano Pasok e Nea Dimokratia. Ma il Paese appare ingovernabile. Vince l’umore antieuropeo. La sinistra radicale di Syriza al secondo posto. Per la prima volta neonazisti in Parlamento

C’è chi pensa che i greci, stremati dei continui sacrifici imposti dalla Trojka, abbiano votato per la dracma. Lo pensano soprattutto gli analisti economici che da oggi prevedono una settimana di Borse al calor bianco proprio per effetto del caos uscito dalle urne in Grecia. I cittadini ellenici in effetti hanno penalizzato duramente i due maggiori partiti, Nea Dimocratia e Pasok, che finora hanno sostenuto la linea della necessità dei tagli, delle privatizzazioni, della riduzione dei salari imposti dai Memorandum decisi da Fmi e Bruxelles. E hanno invece premiato, a destra e a sinistra, i partiti che questa linea rigorista hanno contestato.
Ciò che inquieta di più è l’exploit della nuova formazione politica Chris Avghi (Alba Dorata) che si innesta dichiaratamente nella tradizione nazista. Gli estremisti razzisti e iper nazionalisti, clandestini fino a pochi anni fa, entrano in Parlamento addirittura ottenendo più del doppio della soglia minima del 3 per cento. Proprio i militanti di Alba Dorata hanno assaltato nel pomeriggio ieri alcuni seggi, minacciando e insultando scrutatori e elettori di sinistra, a Petroupolis, popoloso quartiere di Atene. Non ha tranquillizzato per niente neanche il loro capo Nikos Michaloliakos comparso in serata alla tv per pronunciare frasi del tipo: «State attenti, stiamo arrivando. Continueremo la nostra lotta dentro e fuori dal Parlamento».
A sinistra sono diverse le formazioni politiche ad aver ottenuto un buon successo. In particolare Syriza, sigla della coalizione di sinistra, radicale e ambientalista guidata il trentottenne Alexis Tsipras, il più giovane leader politico greco, che è balzata al secondo posto nel firmamento parlamentare, sorpassando i socialisti del Pasok, penalizzati dal sostegno alla linea del ripiano del deficit per altro ereditato dal precedente governo di centrodestra e poi sostenitori del governo tecnico che ha preso il testimone lasciato da Gyorgy Papandreu. Se confermate dallo spoglio le proiezioni del ministero dell’Interno greco Syriza otterrebbe con il 16,3% dei voti cioè 50 deputati. Mentre il Pasok con il 13,6% si fermerebbe a 42 seggi.
Sempre stando alle proiezioni però contando anche i resti Nea Dimokratia e Pasok sulla carta avrebbero i 151 seggi necessari per avere la maggioranza nel Parlamento. In particolare i conservatori di Antonio Samaras con il 19,2% dei voti avrebbe ottenuto 109 seggi ai quali vanno aggiunti i 42 seggi dei socialisti ora guidati dal ministro delle Finanze Evangelos Venizelos. E proprio Venizelos ieri sera a spoglio ancora da ultimare, prendendo atto dello scenario di estrema ingovernabilità che rischia di riportare alle urne tra un mese gli elettori senza per altro evitare un collasso economico e statuale, ha lanciato un appello per la formazione di un governo di grande coalizione. l leader socialista ha auspicato un governo di coalizione di tutti i partiti disposti a proseguire il mandato del Memorandum, cioè ad assolvere agli impegni presi per accedere al fondo Salvastati.
Ma il leader di Nea Dimokratia Antonis Samaras, rimasta primo partito ma con quasi la metà dei consensi, si è detto pronto a guidare un governo di salvezza nazionale che imponga però la modifica del Memorandum. Mentre Panos Kammenos, a capo del nuovo partito liberal-nazionalista dei Greci Indipendenti che pure ha portato a casa un buon risultato, attorno al 10 per cento, sembra più propenso a un’alleanza con Syriza, in quanto ha detto Kammenosi due partiti «hanno una posizione comune circa il debito del Paese, anche se divergono su altre questioni di interesse nazionale». Un’alleanza che, virtualmente, potrebbe coinvolgere anche il raggruppamento di Sinistra democratica formato da transfughi del Pasok e eurocomunisti che entrerebbe in Parlamento con un 5-6 per cento.
In tutta questa frantumazione, una scelta ancora più disperata è rappresentata dall’alto tasso di astensioni che sfiorerebbero il 40 per cento.

da l’Unità

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«Un Paese ostaggio degli estremisti», di Tonia Mastrobuoni
Il partito con la croce uncinata: «Niente più soldi alle banche degli ebrei». Trionfano i neonazisti di Alba dorata e la sinistra oltranzista. Con un programma comune: via dall’euro

7% ai neonazisti Nel simbolo del partito Alba dorata è chiara l’allusione alla croce uncinata dei nazisti tedeschi Il loro punto forte è la lotta all’immigrazione Propongono di minare i confini per evitare nuovi ingressi
16% alla sinistra Militanti di Syriza la coalizione della sinistra oltranzista Sono contrari al «Memorandum», l’intesa con l’Europa del governo tecnico uscente che ha imposto pesanti tagli e sacrifici per risanare i conti pubblici
Ha vinto il voto di protesta e di ribellione contro il duro piano di austerity imposto dalla Ue in cambio dei salvataggi alla Grecia. Ha vinto la rabbia ma anche la paura degli immigrati e della miseria crescente che ha gonfiato i partiti di destra e di sinistra schiacciando in una morsa le due tradizionali formazioni moderate Pasok e Nuova Democrazia che hanno retto per qualche mese la grande coalizione guidata dal «tecnico», dall’ex banchiere centrale Papademos. Ma nella notte elettorale più attesa dalla fine della dittatura del colonnelli, il paese dell’Egeo è piombato nell’incertezza. L’unico dato inconfutabile è che i vincitori di questa tornata elettorale sono i neonazisti di Alba dorata e il carismatico leader di Syriza, Alexis Tsipras. La sua sinistra federata è diventata addirittura il secondo partito ellenico, superando il Pasok.
Nonostante i capi neghino e continuino a definirlo «nazionalista greco», il partito Alba dorata è indubbiamente un partito neonazista. A partire dal simbolo, il «meandros», un ornamento dell’antica Grecia che richiama la croce uncinata del partito di Hitler. E a proposito del Fuehrer sono inequivocabili le frasi del leader di Chrysi Avgi. Per Nikos Michaloliakos «Hitler è stato un grande personaggio». Fondato nel 1985, questo partito è sempre rimasto sotto la soglia di attenzione, comprese le politiche del 2009 quando ha preso appena lo 0,29%. Ora entra per la prima volta in Parlamento con un mostruoso 7% e una ventina di deputati.
In campagna elettorale ha sfruttato soprattutto due fattori: l’indebolimento del tradizionale partito di estrema destra, il Laos; guidato da Yiorgos Karatzaferis, il partito nazionalista si è macchiato di un peccato imperdonabile, agli occhi degli estremisti: per alcuni mesi ha appoggiato il governo Papademos. Alle ultime politiche aveva incassato il 5,4%, ieri sera sembrava addirittura a rischio il suo ingresso in Parlamento, oscillava attorno al 3%.
Il secondo fattore che ha coagulato un consenso sconcertante attorno ai neonazisti è la paura. Anzitutto, il terrore degli immigrati: Alba dorata ha proposto di mettere le mine antiuomo alle frontiere, di arrestare e rimpatriare gli illegali e di considerare ogni crimine commesso dagli immigrati con un’aggravante specifica. E ad Atene, dove sono già riusciti a entrare nel consiglio comunale e dove dilettano i colleghi ogni mattina salutandoli con il braccio teso, hanno approfittato di una trovata che li ha resi molto popolari, soprattutto tra gli anziani. Per proteggerli dai criminali comuni offrono di accompagnarli al bancomat o a ritirare la pensione. Ma nella capitale i militanti sono famosi soprattutto per le violenze contro gli immigrati.
Ovviamente un tema centrale anche di questo partito è la crisi e l’austerità imposta dall’Europa. Alba dorata propone di non ripagare il debito pubblico, tout court. In una intervista di sabato a questo giornale, la figlia di Michaloliakos, Urania, ha spiegato che non va restituito perché andrebbe alle banche «controllate da americani ed ebrei». Per risollevare l’economia Chrysi Avgi suggerisce di sfruttare i presunti giacimenti di idrocarburi nell’Egeo.
Dall’altro lato dello spettro politico greco bisognerà invece seguire con grandissima attenzione cosa avverrà attorno ai due partiti principali a sinistra dei socialisti. Il grande vincitore di questa tornata elettorale è anche stato durante la campagna elettorale il più aggressivo antagonista del Pasok, Alexis Tsipras, leader della sinistra federata Syriza. Trentasettenne, è l’uomo che ha definito il memorandum una «barbarie» e che ha salutato ieri notte il balzo del suo partito dal 4,6% del 2009 al 16% come una «rivoluzione pacifica».
In campagna elettorale ha insistito molto sul tema della crisi. Tra i suoi cavalli di battaglia, la cancellazione della gran parte del debito greco, la sospensione del pagamento degli interessi, ma anche l’introduzione di tasse più pesanti per i ricchi e il taglio delle spese militari.
Tsipras ha teso più volte la mano ai trinariciuti comunisti del Kke, che sono rimasti tuttavia inamovibili. Da sempre irriducibile a qualsiasi idea di federarsi con altri partiti di sinistra, Aleka Papariga ha impostato la sua campagna elettorale su una proposta inequivocabile: uscire dall’euro e dall’Ue. Chissà se qualcuno l’ha informata che il Patto di Varsavia è morto da vent’anni.

da La Stampa

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«L’ombra nera di Alba d’oro sulla democrazia ateniese», di D. F.

ATENE — La maglietta dice «Pit Bull», lo sguardo assicura «azzanno». Ilias Panagiotaros ha i muscoli dilatati quasi quanto le pupille. Abbaia minacce contro gli immigrati illegali, gonfia i numeri («sono tre milioni», le statistiche ufficiali calcolano uno) non ce ne sarebbe bisogno: il suo partito è riuscito a imporre la questione degli stranieri a tutti gli altri. L’ex ministro della Sanità (socialista) ha chiesto che vengano sottoposti a test sanitari — «per evitare una bomba a orologeria igienica» — e il suo capo Evangelos Venizelos ha promesso «di ripulire le periferie».
A loro il populismo non è bastato, ad Alba d’oro sì. La formazione che si ispira agli «eroi» della giunta militare entra per la prima volta nel parlamento greco. Secondo le proiezioni, ha raccolto quasi il 7 per cento dei voti, tre anni fa si era fermata allo 0,23. Ha tolto elettori alla destra tradizionale e agli ultranazionalisti di Laos che rischiano di non superare la soglia del 3 per cento.
Non vogliono sentirsi chiamare neonazisti, eppure sventolano le bandiere nere con disegnato il simbolo del meandro in oro, che richiama la Grecia classica e ricorda una svastica. Quando il leader Nikolas Mihaloliakos ha conquistato un posto al consiglio comunale di Atene nel 2010, si è presentato alla prima assemblea con il saluto a braccio teso. I militanti organizzano ronde notturne nelle zone più degradate delle città. Accompagnano gli anziani ai bancomat per protezione, distribuiscono piatti caldi e vestiti. Chiedono la carta d’identità, chi non è greco viene bastonato.
Panagiotaros, portavoce del partito, sta seduto tra le mimetiche e le decorazioni militari che vende nel suo negozio a Kolonòs, uno dei quartieri di Atene che la crisi ha trasformato in ghetti per gli immigrati. Alle pareti le foto di Giorgios Papadopoulos, che nel 1967 guidò il colpo di Stato dei colonnelli. «Erano greci orgogliosi di essere greci. Proprio come noi» commenta.
Il conservatore Antonis Samaras, che per primo tenterà di formare un governo, aveva avvertito in campagna elettorale che «il passo dell’oca non deve rimbombare in Parlamento». Quando settant’anni fa i nazisti sventolarono la svastica sull’Acropoli, il nonno scrittore si uccise come gesto di protesta. Adesso Samaras dovrà convivere con le proposte della ventina di deputati di Alba d’oro, che Panagiotaros elenca come un bollettino di guerra: «Vogliamo l’espulsione di tutti gli immigrati illegali, anche di quelli con i documenti che tanto hanno ottenuto pagando mazzette. Le frontiere devono essere minate e la Grecia deve uscire dal trattato di Schengen. Le organizzazioni non governative straniere vanno cacciate». E il memorandum firmato con la troika? «E’ da stracciare».

da Il Corriere della Sera

«Il ciclone di Parigi», di Cesare Martinetti

François Hollande vince le elezioni francesi e subito manda ad Angela Merkel il messaggio che molta parte dell’Europa (Italia compresa) si aspettava: l’austerità «non è una fatalità» e la costruzione europea deve essere riorientata verso la crescita. È stato il grande tema della sua campagna elettorale, la questione si apre a Bruxelles e Berlino, Hollande ha la sfrontatezza tutta francese di dire che la sua vittoria accende una speranza e una nuova prospettiva per molti Paesi. Ma, di nuovo rispetto al vecchio socialismo francese, sa anche dire che i conti vanno raddrizzati per ridurre il deficit e in prospettiva tagliare il debito. Insomma, la sfida è alta, vedremo presto.

Oggi dobbiamo registrare un risultato elettorale clamoroso anche se non inatteso. François Hollande è il nuovo Presidente della Repubblica, diciassette anni dopo François Mitterrand un socialista torna all’Eliseo. Le circostanze sono simili: allora fu Valéry Giscard d’Estaing a mancare la rielezione dopo il primo mandato, questa volta è Nicolas Sarkozy, il giovane Presidente della «rupture», l’uomo che aveva promesso di rinnovare la destra francese e la Francia intera dopo gli incolori anni di Chirac.

Per Sarkozy la sconfitta è bruciante, direttamente proporzionale all’investimento emotivo e politico che quest’uomo frenetico e impulsivo aveva buttato in campo. I francesi hanno rifiutato il suo bonapartismo da parvenu e l’unica vera rupture evidente dopo cinque anni di potere è stata tra il Presidente e i francesi. Sarkozy ha riconosciuto la sconfitta e si è preso tutte le responsabilità. Non ha annunciato il ritiro dalla politica, ma ha detto che torna «un francese tra i francesi». Difficile immaginare un suo futuro, oggi come oggi. Certo il suo partito appare sconquassato in vista delle legislative che saranno tra un mese.

All’Eliseo arriva un uomo che si è presentato alla Francia come «normale» per contrapporsi agli eccessi caratteriali del suo antagonista. Hollande è stato detto anche «grigio», «molle» come un budino, incolore, l’eterno secondo. In questa campagna ha dimostrato invece qualità culturali, un progetto politico riconoscibile non soltanto dalla gauche e una tenuta temperamentale invidiabile nel momento clou dello scontro con Sarkò, il duello televisivo di mercoledì scorso. Tutti pensavano che Sarkozy se lo sarebbe mangiato, e invece è successo esattamente il contrario: il Presidente è apparso fragile come mai era accaduto in tutta la sua carriera politica, in difesa e indifeso di fronte al modesto bilancio della sua presidenza, incapace di replicare all’antagonista che con pacata, ma studiata sfrontatezza ha ripetuto come un mantra: «Moi, le Président de la République, si…». Un artificio retorico molto mitterrandiano.

Il risultato del voto ha una dinamica essenzialmente franco-francese, come si dice a Parigi, ma potrebbe trasformarsi in un ciclone a Bruxelles e Berlino. Hollande, un europeista convinto, figlio politico di Jacques Delors, che rimane tuttora il più prestigioso presidente della Commissione, ha fatto della rottura del rigore da copyright di Angela Merkel (al quale Sarkozy si era accodato più per tattica difensiva che per convinzione) il principale obiettivo di politica europea.

Come lo farà lo vedremo presto. Il calendario è serrato: il 18 ci sarà il passaggio dei poteri, il nuovo Presidente scioglierà l’Assemblée e convocherà la elezioni politiche. Ma intanto si formerà un nuovo governo. I candidati al ruolo di primo ministro sono due: Martine Aubry, segretaria del Ps ed ex ministro del Lavoro del governo Jospin (la donna che ha firmato la legge delle 35 ore) e Jean-Marc Ayrault, professore di tedesco, sindaco di Nantes, capogruppo all’Assemblée e fedelissimo di Hollande.

da www.lastampa.it

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«Ma non è la sconfitta dell’Unione», di Stefano Lepri

La Grecia ha forse un Parlamento senza maggioranza, polarizzato verso gli estremi. Ma, altrove, i risultati del voto di ieri sono tutt’altro che distruttivi. Gli altri Paesi dell’euro potranno benissimo reggere senza danni a una possibile catastrofe ellenica, ma solo se sapranno compiere quei passi avanti che si sanno necessari.

Alcuni segni migliori già sono apparsi nei giorni scorsi; occorre subito confermarli per placare i mercati (che in parte già avevano messo in conto un risultato come quello di ieri ad Atene). Il voto della Francia rientra nella normale alternanza democratica, con un margine di vittoria modesto; e, guardando meglio ai risultati del primo turno di due settimane fa, non appare alcuno spostamento verso le estreme rispetto al 2007 e al 2002.

Nella regione tedesca dello Schleswig-Holstein, i partiti che sorreggono il governo Merkel sono addirittura andati, se non bene, meno peggio del previsto. Nei Paesi grandi – tra cui la Gran Bretagna, perché occorre ripetere che non si tratta solo di guai dell’euro – gli elettori rifiutano le politiche di sola austerità, talvolta rafforzano movimenti qualunquisti come i «Pirati» in Germania, però non si dirigono verso scelte estreme.

Il voto della Grecia esprime soprattutto il rifiuto di una classe politica, senza esprimerne una nuova. Per la maggior parte dei greci l’euro conserva un bilancio positivo: la recessione non ha ancora cancellato del tutto gli effetti del boom conosciuto tra il 2002 e il 2007. Dunque l’80% ha scelto partiti che, per quanto massimalisti, non vorrebbero uscire dall’unione monetaria. Ma solo il 35% ha appoggiato i partiti pronti a fare ciò che serve per restarci.

In Italia se ne può trarre qualche lezione. Apprendista stregone è stato il leader conservatore Antonis Samaràs, che ha accelerato la fine di un governo tecnico in carica solo per sei mesi: ottiene ora i desiderati 50 seggi del premio di maggioranza relativa ma potrebbero non essere sufficienti. Occorrevano invece tempo e consenso per riformare uno Stato inefficiente e clientelare oltre che troppo vasto, senza di che nessuna politica economica risulterà praticabile.

La Grecia non è in grado di uscire dall’euro adesso, né di dichiarare il default del debito pubblico. Il suo bilancio dello Stato resta in deficit anche al netto degli interessi sul debito; dunque in caso di insolvenza finirebbero presto i soldi per pagare gli stipendi degli statali. Per qualche mese, il sostegno dell’Europa e del Fondo monetario assicura che tutto continui a funzionare; poi il versamento delle tranches successive dei prestiti diverrà una decisione delicatissima.

Dando per scontato un lungo periodo di incertezza ad Atene, è essenziale che i grandi Paesi dell’euro si mostrino subito capaci di provvedere. Nessuna delle richieste vere di François Hollande è inaccettabile per la Germania. Il rischio casomai è un altro: che nei compromessi tra governi non emerga quella visione del futuro a cui esorta il presidente della Bce Mario Draghi.

Anche il responso dell’elettorato tedesco può spostare qualcosa. Se il rigoroso ministro dell’Economia Wolfgang Schaeuble, dopo aver aumentato gli stipendi agli statali, dichiara che «i salari possono crescere più rapidamente che in altri Paesi», la Germania potrà fare meglio la sua parte in Europa. Nei Paesi in deficit è inevitabile stringere la cinghia; i tedeschi invece possono permettersi di vivere meglio, e così facendo aiuteranno gli altri. Si ridurrà più in fretta il divario di competitività.

Mostrarsi determinati ad andare avanti verso una più stretta unione. Finora al François Hollande candidato sono mancate parole da europeista; ma la sua spinta potrà essere utile a trasformare in fatti il «serve più Europa» di Angela Merkel.

da www.lastampa.it

«L'educazione digitale», di Federico Rampini

Da Harvard a Stanford, le grandi università americane si lanciano nei corsi sul web per conquistare i nuovi mercati degli studenti cinesi e indiani

Ti accorgi che qualcosa di grosso sta succedendo nell´insegnamento universitario quando due “gemelle rivali” della West Coast come la statale University of California – Berkeley e la privata Stanford si uniscono per un progetto comune. Ti sorprende ancora di più scoprire che la loro alleanza – il progetto Coursera – nasce all´insegna della “imprenditoria sociale”: offre corsi universitari online gratuiti, non profit. Clamoroso, visto che per i corsi tradizionali, nel suo paradisiaco campus qui nella Silicon Valley, Stanford può fatturarti fino a 60.000 dollari l´anno per un master in economia.
Le sorprese non sono finite: i corsi in formato digitale e interattivo su Internet non riguardano solo le discipline più remunerative su cui le superfacoltà americane hanno costruito la loro rendita – come l´informatica o il management – ma anche le scienze umane, la filosofia, la sociologia. Stanford e Berkeley sono spesso all´avanguardia, due poli d´innovazione la cui presenza nella Baia di San Francisco è cruciale per capire perché la Silicon Valley sia nata proprio qui. La tradizione di Stanford – formare giovani inventori che creano nei “garage di casa” le imprese destinate a modellare il futuro del pianeta – dura dai tempi di Bill Hewlett e Dave Packard nel 1935; prosegue con Sergey Brin fondatore di Google; arriva fino ai due ventenni creatori di Instagram acquisita da Facebook poche settimane fa per un miliardo di dollari.
La peculiare posizione di Stanford, a poche miglia dai quartieri generali di Apple, Google, Facebook, Yahoo, ne fa un laboratorio di esperimenti continui: fu la prima istituzione accademica ad accettare che la propria biblioteca (tre milioni di volumi) venisse riprodotta in formato digitale da Google.
Ma ora Berkeley e Stanford non hanno il monopolio del nuovo progetto. Dentro la società non profit Coursera hanno come partner delle prestigiose concorrenti della East Coast come Princeton e University of Pennsylvania. Soprattutto, in quella che il New York Times definisce “la Battaglia dei Titani”, si muove un progetto parallelo e rivale lanciato da Harvard con il Massachusetts Institute of Technology (Mit): si chiama edX, anche questa è una società non profit che offre corsi online gratuiti nel mondo intero. E fin dalla nascita ha già 60 milioni di dollari di fondi. Il presidente di edX è una celebrità accademica, di origine indiana: lo scienziato Anant Agarwal, già direttore del laboratorio di informatica e intelligenza artificiale al Mit. Proprio il Mit ha già raccolto i primi successi nell´istruzione avanzata online: da due mesi offre il corso Circuiti ed Elettronica a 120.000 studenti nel mondo intero. Chi arriverà fino alla fine, superando gli esami online, riceverà un voto e un certificato di master, anche se per adesso questi diplomi non sono “trasferibili” per l´iscrizione ai corsi tradizionali del Mit. La concorrenza californiana non è da meno: qui a Stanford il docente di informatica Sebastian Thrun sta concludendo il suo primo semestre di insegnamento a 160.000 studenti in Artificial Intelligence: senza avere mai “incontrato” fisicamente uno di loro in un´aula universitaria.
Si può avere l´impressione di un déjà vu. La Columbia University fece il primo esperimento di istruzione online nel 2001 per concluderlo due anni dopo in un fiasco. Stanford in collaborazione con Yale e Princeton lanciò il progetto All Learn nel 2003 e lo mise in soffitta nel 2006. Ma in termini di tecnologie, stiamo parlando di un´èra geologica fa… Oggi è migliorata in modo prodigioso la possibilità di unire video e audio nei corsi, di esaltare l´interattività tra prof e studenti, di offrire moduli flessibili. Del resto perfino nell´insegnamento “tradizionale” si è dilatato l´uso di supporti digitali per prolungare l´interazione docente-studente. Le Business School del mondo intero, inclusa la Scuola di direzione aziendale della Bocconi in joint venture con l´Esade di Barcellona, offrono dei “moduli” che abbinano il seminario in aula e poi un seguito di settimane di scambi online fra prof e allievi.
Stanford e Berkeley, Harvard e il Mit sono consapevoli che stanno muovendo i primi passi su un terreno ancora più rivoluzionario: «Tra cinque anni – dice il rettore di Harvard Alan Garber – scopriremo di essere approdati a soluzioni diverse da quelle che immaginiamo ora». Il suo collega Lawrence Bacow, autore di un rapporto sull´istruzione digitale che ha attirato l´attenzione di Barack Obama, è certo che «l´insegnamento online diventerà permanente, e non farà che migliorare». Un salto di qualità è già evidente nell´eccellenza delle istituzioni coinvolte. Sembrano lontani i tempi in cui le facoltà su Internet erano nomi di serie B. Quello era il modello della University of Phoenix: una scorciatoia per ottenere un pezzo di carta agli studenti che non avevano superato le prove selettive per le facoltà migliori. Ora stiamo entrando in una dimensione diversa. «C´è uno tsunami in arrivo», sono le parole del presidente di Stanford, John Hennessy. Una grande firma del giornalismo americano come Ken Auletta, specialista di tecnologia e informazione, dedica un lungo reportage sul New Yorker, a quel che bolle in pentola qui tra i “rivali” della West Coast. L´interesse di Obama si spiega: le nuove iniziative offrono un trampolino di lancio per estendere al mercato globale la supremazia dell´accademia americana. Cina e India sono tra gli obiettivi. Non deve trarre in inganno il fatto che queste attività nascano come non profit, e offrano corsi gratuiti. L´importante è costruire “piattaforme” tecnologiche, sperimentare i metodi didattici più validi: il business nascerà quando centinaia di università cinesi e indiane, brasiliane e russe, o perfino nella vecchia Europa, dovranno venire qui a bussare alla porta di Stanford, Berkeley, Harvard e Mit, per l´accesso a innovazioni indispensabili. David Brooks sul New York Times enumera le prevedibili obiezioni e resistenze. Eccole. «L´università online impoverisce quel rapporto umano e quell´esperienza comunitaria che è alla base dell´apprendimento? Sarà il trionfo delle materie tecniche ed economiche, e il tramonto definitivo degli studi umanistici? Avremo generazioni di studenti incapaci di immergersi in letture profonde, allenati solo a scorrere rapidamente Internet? Emergeranno pochi professori-star, celebrità che venderanno i loro corsi a milioni di studenti emarginando il resto del corpo docente? Quanto si perde nell´interazione tra prof e studente se non c´è lo scambio di sguardi, il tono della voce, la gestualità in un´aula fisica?».
Sono obiezioni a cui i progetti edX e Coursera dovranno dare una soluzione. Le risposte iniziali sono incoraggianti, se si guarda a esperimenti già avviati come il corso di robotica che Sebastian Thrun (Stanford) insegna online a centinaia di migliaia di studenti. Primo vantaggio: Internet consente di elevare a un “multiplo” la popolazione studentesca che avrà accesso ai migliori prof del mondo. Secondo: le tecnologie digitali contrariamente alle apparenze possono essere più “umane” perché lo studente si modula tempi e dosi di apprendimento secondo le sue capacità, non è costretto a subire i ritmi decisi da altri, può “tornare indietro” e ricominciare daccapo finché non ha assimilato. Infine non è vero che questo segni la fine del rapporto tradizionale prof-studente: il corso online può essere la base di partenza, che consente ai docenti di concentrarsi sul “dopo”, cioè il dibattito, il commento critico, i progetti di ricerca in squadra. Il Department of Education dell´Amministrazione Obama ha davanti a sé un rapporto, Mastery Learning, dai risultati significativi: se in una clsse tradizionale il 50% degli studenti supera il livello di sufficienza al primo colpo, nell´equivalente online i promossi salgono all´84%.

da La Repubblica

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“Ma anche l´Europa è competitiva il futuro si chiama Erasmus online”, di Elena Dusi
Francesco Profumo, ministro dell´Istruzione, dell´Università e della Ricerca

«È come il passaggio dal manoscritto al libro stampato». Francesco Profumo, ministro dell´Istruzione, dell´Università e della Ricerca, paragona la diffusione dell´istruzione interattiva all´invenzione di Gutenberg: «Un balzo in avanti dell´educazione. Un metodo democratico per allargare la base del sapere e selezionare meglio i giovani».
Gli Stati Uniti stanno esplorando una frontiera. Da noi qual è la situazione?
«I primi progetti di insegnamento online in Italia risalgono a una ventina d´anni fa. Ma credo che un´iniziativa di portata simile a quella americana debba raggiungere almeno una dimensione europea per poter funzionare bene. Il punto di partenza esiste già: è il progetto “Erasmus for all” previsto dall´ottavo programma quadro. E in fondo è naturale che ci si ispiri all´iniziativa Erasmus: forse la più efficace di tutte nel formare l´Europa dal basso. Milioni di studenti hanno passato sei mesi o un anno studiando all´estero. Quando tutto iniziò, circa vent´anni fa, le università europee non si parlavano quasi. Poi hanno introdotto dei crediti comuni, si sono creati dei ponti. È naturale che tutto questo abbia uno sbocco anche online».
Ma qual è l´obiettivo dell´insegnamento interattivo attraverso Internet? Le stesse università americane ammettono di essere ancora alla ricerca della formula giusta.
«Uno degli obiettivi è allargare il bacino degli studenti. Alcuni corsi online negli Usa hanno registrato 120mila iscrizioni, e 20mila studenti hanno superato i primi esami. Sono numeri enormi. E ricordo che quando il Mit iniziò a muovere i primi passi in questa direzione – mettendo a disposizione di tutti i materiali dei suoi corsi undergraduate – si proponeva esattamente questo: creare un bacino di studenti molto ampio dal quale poter selezionare i talenti migliori. Chiunque, in ogni angolo del mondo, aveva l´opportunità di ricevere una formazione targata Mit e di poter competere con gli studenti iscritti ai corsi tradizionali».
La qualità della didattica è equivalente a quella tradizionale?
«La didattica è garantita dall´ateneo. Gli studenti si iscrivono perché hanno voglia di mettersi in gioco. La tecnologia è migliorata moltissimo grazie ai siti di interazione online. E la possibilità che un gruppo di studenti ha di interagire con il proprio professore su una pagina wiki non è inferiore a quella di una tradizionale lezione de visu. Se anche rimarranno degli studenti che imparano poco, i numeri degli iscritti sono talmente grandi da garantire comunque un guadagno in termini di diffusione delle conoscenze».
Un titolo online potrà mai avere valore legale?
«Anche gli americani assegnano solo un certificato ai loro studenti online, non dei crediti veri e propri. E non mi sento in grado di esprimermi sulla validità dei meccanismi di valutazione. Ma pensiamo a tutti gli adulti che avrebbero la possibilità di proseguire la loro formazione anche dopo aver completato i loro studi tradizionali. È un sistema in formazione, le incognite non mancano. Ma le potenzialità sono enormi».

da La Repubblica