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"Reclutamento, in arrivo il sistema “duale”: maxi concorso e abilitazione riservata", da La Tecnica della Scuola

In attesa della riforma del sistema, il dicastero diretto da Profumo punta sulla doppia via: al concorso, che dovrebbe partire entro fine anno, si affiancherà una selezione riservata ai precari che hanno maturato almeno 360 giorni di servizio. Arrivano intanto precisazioni su riconversione sul sostegno, deroghe allo stop alla mobilità per 5 anni dei neo assunti e organici 2012/13. Nel futuro prossimo della scuola italiana, si fa sempre più probabile il reclutamento a due vie. Al sistema “duale”, annunciato più volte dal ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, anche di recente a Catania, stanno lavorando sempre più alacremente i massimi dirigenti del Miur che si occupano di organici e personale scolastico.
Sempre in attesa della revisione del sistema, la prima via di accesso all’insegnamento si tradurrà in un maxi concorso ordinario, che dovrebbe partire entro fine anno. E che sarà aperto ai candidati (quasi sicuramente già abilitati) in possesso di titoli afferenti a classi di concorso con ampia disponibilità di organico.
La seconda via per accedere alla docenza prevede una procedura di selezione riservata ai docenti precari che hanno maturato almeno 360 giorni di servizio: al termine della procedura formativa, che dovrebbe prevedere la frequenza di moduli speciali seguiti nelle università, i candidati verranno in possesso dell’abilitazione; l’accesso ai corsi sarà diretto e con riconoscimento dell’esperienza maturata durante il servizio.
I sindacati sono stati informati sul finire della settimana. E le ipotesi sono state accolte con discreto favore. Secondo la Uil Scuola, però, è ora di passare ai fatti. E vigilare perché via sia “corrispondenza tra dette soluzioni e i concreti provvedimenti che hanno, a nostro parere, carattere di urgenza. Tale soluzione – sottolinea poi l’organizzazione guidata da Massimo Di Menna, riferendosi alle abilitazioni riservate – deve ricomprendere anche i docenti, con congruo servizio prestato nella scuola primaria e dell’infanzia”.
Durante il confronto, i sindacati hanno colto l’occasione per proporre l’esigenza di ricoprire con immissioni in ruolo per il prossimo anno scolastico: l’intenzione è coprire con le assunzioni a titolo definitivo tutti i posti disponibili in organico i diritto, così come disposto dal piano triennale concordato l’anno scorso. In tal caso sarebbero, considerando pensionamenti e soprannumerari, almeno 20mila le immissioni in ruolo possibili nella prossima estate. Come al solito, però, l’entità precisa verrà disposta dal Mef.
A proposito di soprannumerari, l’amministrazione ha comunicato che la riconversione su posti di sostegno per i docenti in esubero sarà allargata non solo a coloro che si trovano in questa situazione. Ma anche a coloro che, appartenenti alle classi di concorso in esubero, faranno richiesta di parteciparvi. Acquisire il titolo, comunque, non comporterà l’automatica utilizzazione sul sostegno. Sempre secondo la Uil Scuola “la riconversione si configura come una opportunità di riqualificazione professionale: deve essere chiaro quindi che l’acquisizione del titolo non determina in automatico l’utilizzo su sostegno, le modalità di utilizzo inoltre vanno definite all’interno dell’apposito contratto sulle utilizzazioni”. Rimane del tutto aperto il problema dei docenti di laboratorio rimasti senza titolarità. Soprattutto per loro “è necessario definire ulteriori opportunità di riqualificazione e riconversione”, evitando soluzioni forzate (costringerli ad affiancare alunni disabili in istituti e su materie di cui hanno ben poche conoscenze) con probabili conseguenti situazioni di disagio sia sul versante della docenza che su quello dei discenti.
Sempre con i sindacati, procede anche il confronto per la definizione dell´ipotesi di Ccni sulle utilizzazioni e assegnazioni provvisorie del personale docente educativo ed Ata, valido per il prossimo anno scolastico. Tra le varie questioni affrontate, le parti si sono soffermate sull´ articolo 7, riguardante il vincolo quinquennale (introdotto con la Legge 106/11) degli immessi in ruolo con decorrenza giuridica che va dal 1° settembre scorso. Il Miur ha spiegato che a questi neo-assunti – contrariamente a quanto previsto dalla Legge 124/99 che permetteva di fare domanda motivata di utilizzazione e assegnazione provvisoria interprovinciale subito dopo aver terminato l’anno di prova – sarà consentito accedere alla mobilità annuale, anche prima dei cinque anni, solo se appartengono a categorie tutelate da norme speciali. Che corrispondo alle lavoratrici madri con prole entro i 3 anni di età; ai coniugi di militari e categorie equiparate, purchè trasferiti d´ ufficio (quindi non volontariamente); agli amministratori locali.
A proposito, infine, dell’organico del prossimo anno l’amministrazione ha confermato l’intenzione di non autorizzare posti in deroga, né in organico di diritto né in organico di fatto. In casi di evidente necessità, come l’esigenza di sdoppiare classi particolarmente numerose, saranno direttamente i direttori regionali a prendere l’iniziativa.

La Tecnica della scuola 06.05.12

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“Niente esame di ammissione per il tirocinio dei professori”, di Mariolina Iossa

«Saranno ammessi in aula», a fine anno, al primo corso di tirocinio per conseguire l’abilitazione, i docenti con almeno tre anni di servizio, come previsto anche da una direttiva europea. Lo dice al Corriere della Sera il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo. «Non dovranno sostenere alcuna prova preselettiva, non ci saranno selezioni di ingresso per loro, perché sono persone che nella realtà il tirocinio l’hanno già fatto. Finito il corso, come tutti gli altri tirocinanti, dovranno superare la prova finale. E con questo sistemiamo una delicata questione che si è creata dopo la chiusura delle vecchie scuole di specializzazione».
Così Profumo risponde a migliaia di giovani professori in ansia e spiega come vuole risolvere la faccenda del «buco» che si è creato da quattro anni a questa parte, cioè da quando le scuole di specializzazione sono state chiuse in attesa di un qualcosa che fino ad oggi non era mai arrivato e che adesso c’è: il tirocinio formativo attivo. Lo scorso 23 aprile è stato pubblicato il decreto: a luglio partono le prove preselettive nazionali, mentre i corsi veri e propri cominciano a fine anno. Saranno tenuti dalle facoltà universitarie e, vera novità, una grossa parte (475 ore), si svolgerà in classe e in laboratorio «perché essere preparatissimi nella propria disciplina — continua Profumo — non significa essere bravi insegnanti, abbiamo bisogno di docenti moderni, capaci di stimolare i ragazzi, di gestire le loro aspettative, anche attraverso modalità nuove, la tecnologia per esempio».
Ma il tirocinio, che sarà la strada dei giovani per ottenere la sospirata abilitazione, è solo un pezzo del puzzle scuola che il ministro vuole risolvere. Vuole farlo «con regole certe — dice ancora —, perché sono le regole ciò che le persone ci chiedono, per superare lo stop and go di questi anni che ha prodotto fasce di precariato».
E allora eccolo il progetto complessivo, il quadro d’insieme al quale da mesi il ministro e i suoi collaboratori stanno lavorando e che Profumo anticipa. «Il punto di partenza — dice — è che l’ultimo concorso per l’immissione in ruolo è stato fatto nel 1999, e per alcune classi di concorso addirittura nel ’90. Noi abbiamo quindi lavorato ad un progetto per far ripartire il sistema. Il tirocinio, innanzitutto, ma poi, subito dopo, i concorsi per le cattedre. Entro l’anno bandiremo un primo concorso, abbiamo già fatto richiesta di autorizzazione per il numero di posti». Potrebbero essere dai cinquemila agli ottomila ma non è ancora possibile dare una cifra precisa. A questo concorso potranno accedere i docenti già abilitati, e i vincitori entreranno in servizio nel 2013-2014.
«Già nella prossima primavera — riprende il ministro —, faremo un altro bando, al quale potranno accedere anche i nuovi abilitati, i vincitori entreranno in servizio nel 2015-2016. La mia idea, dopo, è quella di dare una cadenza biennale ai concorsi, per regolarizzare tutto il sistema. I due momenti più importanti saranno l’abilitazione e il concorso. Due momenti certi, con cadenza regolare e sicura, che dovrebbero finalmente far cessare la confusione in cui da anni si trovano gli insegnanti precari e i giovani laureati che vorrebbero dedicarsi all’insegnamento».
«L’aggiornamento del sistema porterà allo svuotamento delle graduatorie» sottolinea il ministro, con un ottimismo che i sindacati, in particolar modo la Cgil, gli contestano. Mimmo Pantaleo (Cgil scuola), pur plaudendo alla nascita dei tirocini, dice che «il punto vero è che i posti non ci sono, nè per quelli che si abilitano, nè per quelli che stanno in graduatoria da anni e neppure per i docenti precari non abilitati». Ma Profumo vede il futuro più roseo: «È vero che con il nuovo sistema pensionistico il turn over si è un po’ attenuato ma non così tanto, e per i prossimi anni si creeranno nuovi posti di lavoro nella scuola».
I docenti precari potranno far affidamento, continua, anche sul «lavoro di revisione delle classi di concorso che abbiamo fatto al ministero e che è finito. Le attuali classi di concorso, troppe, saranno ridotte a 50-60. Andremo anche a controllare le graduatorie ad esaurimento dove ci sono persone iscritte da moltissimi anni». L’aspirazione del ministro è quella di creare un modello più moderno, prima ancora che di scuola, di concorso per l’accesso alla scuola. In futuro, conclude, «bisognerà avere grande attenzione al docente, a come sta in aula, alla sua attitudine all’insegnamento, gli studenti hanno bisogno di questo. La lezione come si faceva una volta non è più sufficiente».

da Il Corriere della Sera 06.05.12

Verso una revisione della "Riforma Brunetta", di R.P. da La Tecnica della Scuola

Governo e sindacati hanno già sottoscritto un protocollo di intesa che tocca diversi aspetti: si va dalla premialità fino alla contrattazione integrativa e alle responsabilità dirigenziali. E’ contenuta in 7 paginette la bozza di accordo sottoscritta da Governo e sindacati in materia di lavoro pubblico.
Già si parla di “cancellazione” della “riforma Brunetta “ e del decreto legislativo 150 del 2010 anche se l’ex Ministro dichiara che, se così fosse, il Pdl si opporrà con tutte le proprie forze alla sua definitiva approvazione.
In effetti rispetto alle norme volute da Renato Brunetta l’accordo contiene non poche modifiche.
Per esempio c’è la questione della cosiddetta “premialità” (peraltro mai applicata anche per mancanza di risorse): la riforma Brunetta prevedeva tre fasce di merito individuale alle quali avrebbero dovuto corrispondere altrettante fasce di retribuzione accessoria.
L’accordo sottolinea che per garantire meccanismi premiali efficaci sarà necessario prevede “un miglior bilanciamento tra la performance organizzativa e quella individuale, tenuto conto dei diversi livelli di responsabilità ed inquadramento del personale”. In pratica per attribuire i compensi accessori sarà indispensabile tener conto non solo dell’apporto individuale ma anche, e soprattutto, della performance complessiva della struttura.
Un capitolo dell’accordo è dedicato al tema della dirigenza pubblica di cui si prevede un rafforzamento di “poteri e responsabilità al fine di garantirne una maggiore autonomia rispetto all’autorità politica”; conseguentemente “per i dirigenti, principali artefici della performance delle Amministrazioni, saranno comunque previsti rigorosi sistemi di collegamento fra premialità e azione individuale”.
Ma il “piatto forte” dell’intesa riguarda le relazioni sindacali .
Si parla non solo di “pieno riconoscimento del ruolo delle RSU nei luoghi di lavoro” ma anche di “coinvolgimento delle organizzazioni sindacali nei processi di mobilità” legata a eccesso di personale.
Una novità importante riguarda la questione della contrattazione integrativa in quanto viene introdotta una nuova modalità di relazione in quanto il Governo si impegna ad “individuare nell’ambito delle materie di informazione sindacale, ipotesi di esame congiunto tra pubbliche amministrazioni e organizzazioni sindacali”.
Nel concreto questo potrebbe significare che la materia dell’ assegnazione del personale ai plessi e alle classi diventi oggetti di “esame congiunto”: anziché mettere fine al contenzioso che si è sviluppato in questi anni una simile soluzione potrebbe però alimentarlo ulteriormente anche per l’ambiguità stessa dell’espressione “esame congiunto”.
Per adesso, comunque, è presto per fare previsioni: intanto il Governo deve predisporre un disegno di legge che dovrà successivamente essere esaminato e discusso in Parlamento.

La Tecnica della Scuola 06.05.12

"C´era una volta il Paese dei sindaci", di Ilvo Diamanti

Oggi sono chiamati a votare oltre 9 milioni di elettori, intorno al 20% del totale. Per eleggere i sindaci di quasi mille comuni, di cu Perché tutte le elezioni – e soprattutto quelle comunali – servono a cogliere e a dare segnali circa il cambiamento sociale e politico. Una considerazione tanto più vera per questa scadenza. La prima consultazione dopo vent´anni di berlusconismo. Mentre il sistema partitico e il rapporto tra politica e società appaiono logori. Marcati da fratture molteplici.
Da questo appuntamento elettorale ci attendiamo indicazioni su quattro diverse questioni.
1. La prima fa riferimento alla tradizionale divisione tra partiti e schieramenti, emersa nella Seconda Repubblica. Centrodestra e centrosinistra, con il Centro, a sua volta, oscillante fra i due poli. All´elezione del 2007, quando vennero eletti gran parte dei sindaci e dei consigli oggi in scadenza, il centrosinistra subì un pesante arretramento. Nei comuni (superiori a 15 mila abitanti) dove si votava allora, governava in 80 comuni, venti più del centrodestra. Oggi, nell´Italia al voto, il rapporto è rovesciato. Il centrodestra amministra 95 comuni (di cui 12 leghisti), il centrosinistra 53. Da qui in poi, faccio riferimento ai dati dell´Osservatorio Elettorale LaPolis-Demos. ll risultato del 2007 annunciò – e accelerò – il profondo mutamento del clima d´opinione, che avrebbe condotto al governo Berlusconi e la Lega, un anno dopo. Non a caso, dopo quelle amministrative, sorge il Pd di Veltroni. Il progetto del partito unico o, comunque, dominante, del centrosinistra. Imitato dal Pdl di Berlusconi, a centrodestra.
Quella stagione è finita. Da un lato, il centrodestra non è più maggioranza. Lo dicono i sondaggi. Ma, soprattutto, lo hanno dimostrato le elezioni amministrative di un anno fa. Quando il centrosinistra ha vinto nelle principali città dove si è votato. Fra le altre: Milano, Napoli e Cagliari. Dove sono stati eletti sindaci espressi da forze diverse dal Pd. Da ciò la spinta, moltiplicata dai referendum, che ha contribuito alla crisi della maggioranza di centrodestra e alla caduta del governo Berlusconi. Alla fine del berlusconismo, in altri termini. E alla conseguente debolezza del Pdl ma anche del Pd. Incapaci di imporsi come soggetti dominanti dei due schieramenti.
2. Oggi, peraltro, insieme ai principali partiti, anche le alleanze di prima sono divenute fragili. Scardinate dal “montismo”, che ha gestito il post-berlusconismo. Sostenuto da una maggioranza di governo che associa i tradizionali oppositori, Pd e Pdl, insieme al Terzo polo. Mentre gli alleati di prima oggi stanno all´opposizione. Ciò si riflette sulle coalizioni che si presentano nei comuni. Ma solo in parte. La Lega, coerentemente con l´attuale (op)posizione, si presenta da sola quasi dovunque. Ma gli esempi di “Grande coalizione” sono solo un paio. Mentre il Pdl appare disorientato. Si presenta da solo, talora insieme all´Udc. Spesso diviso in diverse liste. L´Udc stessa, peraltro, si presenta autonomamente in circa 70 Comuni, mentre nei rimanenti si divide equamente fra il Pd o il Pdl. Il Pd, in circa 90 Comuni, riunisce tutte le forze di centrosinistra nella stessa coalizione – allargata in 20 casi all´Udc. Ma in molti Comuni si presenta diviso da almeno uno degli altri partiti di sinistra. Come a Palermo. Ma in altri 20 Comuni è alleato all´Udc, in competizione con Sel e/o l´Idv. Questa consultazione diventa, quindi, un´occasione per testare la tenuta dei partiti, ma anche delle coalizioni prevalenti. O, forse, per avere conferma della frammentazione partitica e della scomposizione delle alleanze, in atto.
3. La terza questione riguarda la frattura fra partiti e società, riassunta, un po´ semplicisticamente, nella formula dell´antipolitica. È sottolineata dal moltiplicarsi delle “liste civiche”, utilizzate, spesso, per mascherare i partiti, oltre che per proporre formazioni effettivamente autonome e locali. Non-partitiche. Nei Comuni con oltre 15 mila abitanti al voto, infatti, si presentano 2.636 liste – in media, quasi 17 per Comune – e 991 candidati sindaci – oltre sei per Comune. In queste elezioni amministrative scende in campo anche il Movimento 5 Stelle, di Beppe Grillo. Soggetto politico che ha coltivato la protesta antipartitica. Accreditato, dai sondaggi, di un grande risultato, si presenta in poco meno della metà dei Comuni maggiori e in 20 dei 26 capoluoghi. Quasi dovunque corre da solo. Contro tutti.
Ma questa consultazione costituisce una verifica particolarmente importante anche per la Lega. Esprime i sindaci di 12 Comuni con oltre 15 mila abitanti – di molti altri più piccoli – tra quelli dove si vota. Era il principale imprenditore politico del malessere contro lo Stato centrale e contro il sistema dei partiti. Fino a ieri. Occorrerà verificare se gli scandali e le divisioni interne degli ultimi mesi ne abbiano intaccato la credibilità e il radicamento.
4. L´ultima questione riguarda i protagonisti della consultazione. I sindaci. Quasi vent´anni fa, nel 1993, la legge sull´elezione diretta li rese artefici della stagione seguente alla caduta della Prima Repubblica. Interpreti della domanda di autonomia del territorio e della società. Capaci di compensare il crollo di legittimità dello Stato e del sistema politica presso i cittadini. Vent´anni dopo, però, essi si ritrovano soli. Perlopiù sopportati – quanto poco “supportati” – dai partiti. Che li hanno sempre considerati un ostacolo alle proprie logiche oligarchiche e centraliste. I sindaci. Dagli anni Novanta in poi, hanno rivendicato e ottenuto competenze e responsabilità. Ma dispongono di risorse scarse e di poteri inadeguati. Oltre che in costante declino. Berlusconi e la Lega, negli ultimi dieci anni, hanno esibito un “federalismo a parole”. Il governo tecnico, legittimato – e spinto – dall´emergenza e dai mercati, non finge neppure di valorizzare il ruolo delle autonomie locali e dei sindaci. Ai quali viene, invece, chiesto di trasformarsi da “attori” a “esattori”. Ammortizzatori del dissenso. Addetti a riscuotere tasse impopolari – e a ricucire il rapporto con la società – per conto terzi. Con l´esito di vedersi delegittimati: dallo Stato e dai cittadini.
Da ciò il duplice rischio. Che questa elezione non indichi solo una svolta politica o antipolitica. Ma segni – anche e soprattutto – la fine della “Repubblica dei Sindaci”.

La Repubblica 06.05.12

"La nuova via dell'Europa nasce dai voti di protesta", di Bill Emmott

La democrazia è, essenzialmente, un meccanismo di controllo, di responsabilità. Dunque le elezioni sono l’occasione per esprimere la rabbia, per protestare, per punire chi è stato al governo nei periodi difficili. Il voto di oggi, in Francia, Grecia, Italia e Germania, così come le consultazioni locali il 3 maggio in Gran Bretagna, sarà principalmente un momento di protesta. Ma potrebbe anche costituire un punto di svolta.

La protesta non sorprende considerando che gran parte dell’Europa occidentale è alla sua seconda recessione nel giro di cinque anni, i disoccupati sono almeno un decimo della forza lavoro e la disoccupazione giovanile è al 30% in Italia e 50% in Spagna e Grecia.

E in particolare non sorprende perché c’è così poco in cui sperare o essere ottimisti. La politica dei governi dell’Eurozona è dominata dall’austerità fiscale, dalla riduzione dei deficit di bilancio attraverso l’aumento delle tasse e dalla riduzione della spesa pubblica. Per quei Paesi, come l’Italia, con un debito pubblico così ingente che i creditori non sono più disposti a finanziarlo salvo che non sia tagliato, l’austerità è inevitabile, ma garantisce recessione, disoccupazione e mancanza di speranza, almeno quando è l’unica politica e viene presentata come la sola strada percorribile.

Le politiche pubbliche dominate dall’austerità, il mantra sulla disciplina fiscale come unica direzione possibile, sono ciò che rendono le elezioni di oggi, in particolare quelle in Grecia e in Francia, un potenziale punto di svolta. La difficoltà nel prevedere ciò che porteranno, tuttavia, deriva dal fatto che la Grecia e la Francia potrebbero, potenzialmente, indirizzare l’Europa su nuove vie.

Le elezioni parlamentari greche sono importanti perché nel corpo dei 17 Paesi dell’Eurozona, la Grecia è la parte più malata, l’arto in cancrena. La sua economia è in recessione per il quarto anno consecutivo.
Nonostante i diversi massicci salvataggi finanziari e i grossi sconti sul suo debito pubblico da parte dei creditori privati, la Grecia con ogni evidenza continua a non riuscire ad affrontare il suo attuale livello di debito. Si dovrà scovare qualche nuova soluzione.

Come in tutte le elezioni europee oggi in Grecia i partiti estremisti e di protesta hanno buone prospettive. Ma mentre un largo consenso per il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo non trasformerà la politica italiana o cambierà le politiche del presidente Monti, molti voti agli estremisti greci, inclusa, soprattutto, l’ultra-destra dell’Alba d’oro, potrebbero trasformare la politica greca e il suo percorso se basteranno a fare sì che i due principali grandi partiti, Nea Demokratia e il socialista Pasok, non saranno in grado di avere la maggioranza in una coalizione.

Il modo più importante in cui tali soggetti potrebbero trasformare la politica greca è cambiare il rapporto di forze in Parlamento, orientandolo contro la prosecuzione dell’austerità e delle riforme, il che significa quasi certamente contro il proseguimento dell’adesione all’euro.

La maggior parte degli economisti privati hanno a lungo considerato che un completo default del debito greco sia più o meno inevitabile, ma hanno previsto che questo momento non sarebbe arrivato fino al 2013, quando l’austerità fiscale potrebbe essere progredita abbastanza da permettere al Paese di sopravvivere senza nuovi prestiti stranieri. Ma un voto di grandi proporzioni per i partiti estremisti oggi potrebbe avvicinare la data del default.
L’uscita della Grecia dall’euro sarebbe, a parere di questo commentatore economico britannico almeno, salutare per l’euro, così come è bene, per un corpo umano, se un arto in cancrena viene amputato. Ma, proprio come in un’operazione chirurgica, ci sarebbero rischi, in particolare il panico dei mercati obbligazionari e forse nuovi crolli tra le banche europee. Sarebbe un momento molto pericoloso.

Vale anche per la Francia se questo Paese oggi elegge come suo presidente François Hollande, il socialista? No, non nello stesso modo. A differenza del presidente Nicolas Sarkozy, il signor Hollande è un tipico membro dell’élite francese, educato in una delle sue «grandes écoles». Non sarà un pericoloso radicale. Ma la sua elezione potrebbe cambiare tutto il dibattito europeo sulla crescita economica.

Una vittoria di Hollande causerà, questo sì, qualche pericolo a breve termine. Questo deriva dal fatto che a giugno in Francia si terranno anche le elezioni generali parlamentari, e così il signor Hollande saprà quanto potrà essere forte il suo governo solo dopo il voto di giugno. Egli, in effetti, dovrà fare campagna elettorale ancora per un mese, nella speranza di influenzare i sondaggi e questo aumenterà l’incertezza che circonda l’Europa.

Principalmente, però, l’elezione di Hollande sarà importante perché promette di rilanciare o forse, per meglio dire, destabilizzare, le relazioni inter-governative centrali in Europa, che sono quelle tra Germania e Francia, prima di tutto, e poi tra questi due e gli altri grandi Paesi, il che significa Italia, Spagna, Paesi Bassi e, in modo più distaccato, Gran Bretagna.

François Hollande ha detto che vuole un nuovo accento sulla crescita e che per ottenerlo rinegozierà il trattato fiscale di dicembre. La questione che rimane da risolvere è cosa questo può e vuole dire. Non significa una modifica delle norme che disciplinano il deficit di bilancio e il debito: la Germania non accetterà un tale cambiamento e la Francia non avrebbe il coraggio di chiederlo. Ma potrebbe significare due altre cose.

Un «patto per crescere», come ha chiesto il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, può significare soltanto una combinazione di liberalizzazione del mercato e maggiori investimenti pubblici nelle infrastrutture. La liberalizzazione del mercato, sotto forma di un esteso e approfondito Mercato unico europeo, è quello che ha chiesto a febbraio Mario Monti nella lettera agli altri governi europei, firmata anche dal britannico David Cameron e da altri nove. Finora la Francia si è opposta e il signor Hollande ha fatto una campagna contro la liberalizzazione.

L’altro aspetto, e cioè gli investimenti pubblici, è possibile solo se i Paesi con buoni rating e bassi costi finanziari decidono di finanziarli. Questo dovrebbe essere fatto attraverso una grande espansione della Banca europea per gli investimenti, con capitali provenienti principalmente dalla Germania e da altri creditori.
Perché la Germania dovrebbe essere d’accordo? La prima risposta è che i tedeschi, come tutti gli altri, si rendono conto che la recessione protratta a lungo è politicamente pericolosa. Più a lungo si va avanti, più i partiti estremisti ne trarranno vantaggio. La seconda risposta è che se la Francia dovesse fare un patto con l’Italia e gli altri Paesi, e almeno appoggiare la liberalizzazione del mercato, ci sarebbe la possibilità di un ritorno: più investimenti pubblici in cambio di una riforma più strutturale, che i tedeschi dovrebbero approvare. In tali circostanze sarebbe difficile per la Germania bloccare una direzione completamente supportata da Mario Monti.

E la terza risposta è che anche la Germania andrà presto al voto, nell’autunno del 2013. Se per allora, la situazione economica europea sarà ulteriormente peggiorata, allora anche il Cancelliere Angela Merkel dovrà affrontare le proteste. I suoi partner di coalizione, i liberaldemocratici, sono praticamente morti come partito politico.
Nel 2013 la sua scelta di un nuovo partner cadrà sul partito dei Verdi o su una grande coalizione con il partito socialdemocratico, il principale movimento di opposizione. Lei allora sarà in una posizione più forte se sarà vista come chi ha davvero salvato l’euro e con esso l’economia europea. Le elezioni di oggi in Grecia potrebbero essere pericolose per questo progetto, le elezioni in Francia, lo metteranno in discussione, ma con la Francia, almeno, un accordo è possibile.

(Traduzione di Carla Reschia)

La Stampa 06.05.12

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“L´Effetto Europa, di BERNARDO VALLI

Benché esclusa dal finale, Marine Le Pen, leader del Front National, continua a pesare fino all´ultimo sulle elezioni presidenziali che si concludono stasera. Non lei, di persona, ma i suoi sei milioni e mezzo di voti, ottenuti da lei al primo turno. I quali sono adesso come un carico senza più ormeggi, sbatacchiato dalla collera, che può travolgere tutti i pronostici. Quella massa di suffragi rimasti orfani e incerti sulla nuova destinazione potrebbe creare la sorpresa. Vale a dire, tra poche ore, la riconferma di Nicolas Sarkozy alla testa della Quinta Repubblica.
Il presidente-candidato ovviamente ci conta. E sembra crederci. Non è uno che si dà per vinto nonostante il vento ostile che soffia nella Francia inquieta per la crisi, ma anche delusa o irritata dalla sua presidenza. Nel palazzo dell´Eliseo parte del personale si prepara a fare le valige. Non lo nasconde. Non crede nella sorpresa. Pensa che il nuovo inquilino sia in arrivo e quindi che il trasloco sia inevitabile. Nella stretta cerchia dei collaboratori invece non ci si arrende. Non si abbassano le armi, non si fanno le valige.
Tra i fedelissimi l´atmosfera è tesa ma la speranza non si è del tutto spenta. La cavalleria potrebbe arrivare in tempo. Per loro il risultato di stasera dovrebbe aggirarsi su un 50, 3 o su un 50,5 in favore di Sarkozy. Non è un miraggio ma il frutto di calcoli non tanto avventati. Dai quali si ricaverebbe un quoziente a tal punto in bilico da richiedere uno scrutinio minuzioso prima di arrivare a quello definitivo. Più in bilico di quello (50,8 %) che nel 1974 portò Valéry Giscard d´Estaing alla presidenza. Potrebbero non bastare gli exit-poll o le proiezioni. Il conteggio delle schede ritarderebbe in tal caso la proclamazione del vincitore. Venerdì, a Sables-d´Olonne, nella Vandea, parlando nell´ultimo comizio, il presidente-candidato ha detto ai suoi elettori che il risultato finale sarà deciso da una manciata di voti. L´appello, dettato da una volontà caparbia, è dunque: alle urne, popolo di destra.
Da settimane, anzi da mesi, con qualche effimero segno di ripresa del presidente candidato alla propria successione, François Hollande, lo sfidante di sinistra, è stato dato vincente dai pronostici basati su indagini d´opinione, che nelle ultime settimane sono state quotidiane. Dunque assillanti. Ma sul passaggio dalla democrazia d´opinione alla democrazia legale, dai consensi virtuali ai voti reali, pesa sempre l´imprevisto. Senza il quale il libero suffragio universale perderebbe valore. E l´imprevedibile in queste ore sono appunto gli elettori di Marine Le Pen al primo turno. Nicolas Sarkozy li ha corteggiati di comizio in comizio e adesso punta su di loro. Dove finiranno?
L´interrogativo vale anche per i tre milioni di elettori centristi, ottenuti da François Bayrou, sempre al primo turno, e adesso orfani. O in libera uscita. In queste ore sono in preda al dubbio. L´abbraccio di Sarkozy agli elettori di estrema destra li ha turbati, ma il discorso di sinistra di Hollande li ha lasciati perplessi. Marine Le Pen e François Bayrou non hanno dato consegne. Lei non vuole scegliere e voterà scheda bianca; lui ha scelto Hollande, senza condividerne il discorso. L´ambiguità di entrambi lascia senza guinzaglio gli elettori, che del resto non erano di loro proprietà. Per quel che riguarda il Front National erano spesso occasionali. Provvisori. Spinti dalla crisi. Dal domani incerto. E dalla conseguente rabbia contro tutti i supposti colpevoli: dall´immigrato al banchiere, dall´Europa al mondo senza frontiere protettive. Sarkozy calcola che gli incerti, tra lepenisti e centristi, sfiorino i sette milioni. E lui pensa che sia l´esercito della sua salvezza.
L´incertezza tiene in ansia, per motivi opposti, gli stati maggiori elettorali. Il progressivo assottigliarsi dello scarto tra i due candidati, ridotto a soli due punti stando ai consensi virtuali rilevati nelle ultime ore, dà ovviamente a Nicolas Sarkozy qualche probabilità in più di sperare in una sorpresa, vale a dire nella propria rielezione, che sembrava del tutto svanita. Una speranza che Le Monde definisce «folle». L´angoscia inquina invece l´euforia a sinistra, tra gli stretti collaboratori di François Hollande, che pensavano di avere già la vittoria in tasca. Tra di loro c´è chi attribuisce il calo dei consensi all´impegno di far partecipare gli immigrati alle elezioni amministrative. Avrebbe cambiato idea chi, avendo votato per Marine Le Pen, si accingeva a preferire Hollande a Sarkozy.
I più ottimisti, o avventati, sostenitori del candidato di sinistra avevano già festeggiato la sua elezione, brindando ai nuovi ministri socialisti. François Hollande si è ben guardato dal celebrarla in anticipo. Parlando venerdì sera, nell´ultimo comizio, a Périgueux, in Dordogna, ha invitato a non lasciarsi cullare dall´idea di una vittoria scontata. Dieci anni fa, nel 2002, pensando che sarebbe stato comunque ammesso al ballottaggio, gli elettori di sinistra disertarono le urne al primo turno, e Lionel Jospin, il candidato socialista, fu superato da Jean-Marie Le Pen, il padre di Marine, ed escluso dal finale delle presidenziali. Bisogna lavare quella vergogna ha detto François Hollande. Dunque alle urne, popolo di sinistra.
Drammatizzare il finale è una tattica adottata a destra e a sinistra. A destra si vuole evitare la rassegnazione, facendo credere che la sconfitta non sia scontata, malgrado gli insistenti pronostici l´abbiano annunciata. A sinistra si vuole evitare che prevalga l´idea di una vittoria scontata. Entrambi i candidati combattono l´astensione. E per mobilitare i loro rispettivi elettorati e conquistare gli indecisi nelle ultime due settimane hanno sfoderato argomenti che potrebbero avere effetti contrari a quelli auspicati.
Nel rincorrere gli elettori del Front national, Nicolas Sarkozy ha fatto della «frontiera» il tema centrale del suo discorso. Senza fissare i confini, senza difenderli, ha ripetuto nei comizi, in particolare a Tolosa, «non c´è nazione, non c´è lo Stato, non c´è la République, non c´è civilizzazione. «Tutto – il lavoro, la fiscalità, il mercato, la natura del capitalismo – dipende dalle frontiere. L´Europa deve fissarle, deve difenderle, al fine di filtrare l´immigrazione e proteggere i suoi prodotti. La sua Francia lo imporrà a Bruxelles e rinegozierà l´accordo di Schengen se sarà necessario.
Il discorso di Sarkozy ha assecondato gli elettori di Marine Le Pen che temono la mondializzazione e detestano l´Unione europea. Ma la brusca svolta a destra, che si è accentuata dopo il primo turno, ha suscitato proteste e perplessità nel suo stesso campo. Il presidente candidato ha escluso un´intesa col Front National ma ha quasi abbattuto il muro che i partiti democratici avevano eretto attorno al movimento xenofobo. Ha detto che Marine Le Pen è compatibile con la République (in questo caso traducibile con «arco costituzionale», espressione usata quando i neofascisti italiani ne erano esclusi). Poi ha negato di averlo detto, e ha sfumato le sue espressioni, ma non abbastanza per evitare il rigetto di molti elettori moderati.
Al momento del referendum sulla Costituzione europea, nel 2005, François Hollande e Nicolas Sarkozy si trovarono sulle stesse posizioni. Entrambi erano europeisti. Il presidente-candidato ha gettato alle ortiche, forse provvisoriamente, le convinzioni di un tempo. Si è rivolto alla Francia che poteva rieleggerlo e che sette anni fa non l´ascoltò e votò «no» al referendum. François Hollande ha invece sventolato la bandiera europea, tenendo con l´altra mano il tricolore, in uno dei grandi comizi parigini.
Ma si è soprattutto inserito nel dibattito europeo sostenendo la necessità di affiancare alle misure d´austerità concrete iniziative tendenti a promuovere la crescita. Si è impegnato ad andare, appena eletto, a Berlino per affrontare il problema con Angela Merkel. Dapprima voleva rinegoziare il Trattato sulla stabilità (il fiscal compact) preparato da lei, la cancelliera, e da Nicolas Sarkozy. Poi ha trovato una scorciatoia che faciliterà un compromesso, ossia l´aggiunta di un documento, affiancato a quel trattato. Cosi la campagna elettorale francese ha visto faccia a faccia il candidato della frontiera e il candidato dell´Europa.

La Repubblica 06.05.12

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“Il vento di Parigi può cambiare le scelte europee” di Guglielmo Epifani

Oggi i cittadini francesi sono chiamati a scegliere non solo il loro presidente della Repubblica ma anche il profilo delle scelte che peseranno nella grande crisi della zona dell’euro. La vittoria del presidente uscente Sarkozy significherebbe probabilmente una tendenziale continuità delle politiche economiche. Nel caso di vittoria di Hollande, invece, l’apertura di una fase nuova segnata da un più equilibrato rapporto tra linea di rigore e politiche per la crescita e gli investimenti. Depurata dagli eccessi tipici di ogni campagna elettorale questa resta la principale differenza tra i due leader e i due programmi. E così il risultato è atteso e vissuto in tutta Europa e in tutto il mondo. Sempre oggi si svolgeranno le elezioni legislative in Grecia, il Paese simbolo degli errori, delle approssimazioni e incongruenze della governance finanziaria monetaria e politica europea; e delle pesantissime conseguenze che si stanno abbattendo sull’occupazione, i redditi, le protezioni sociali. Qui l’attesa del risultato ha apparentemente un altro segno: la misurazione del grado di radicale rifiuto delle scelte che la Grecia ha dovuto accettare. E, di conseguenza, della possibilità della tenuta del quadro di governo, con il corollario prevedibile di una grande frammentazione della rappresentanza politica. Quello che unisce le due elezioni è che la crisi europea richiede da tempo una diversa responsabilità e una diversa politica. Non perché non ci voglia un programma di rigore e contenimenti dei deficit pubblici, ma perché senza una contemporanea azione di stimolo alla domanda la crisi corre il rischio di aggravarsi. In questo entrambe le elezioni hanno lo stesso riferimento obbligato: le politiche del governo tedesco e le conseguenze che il voto potrà avere sulle scelte della Merkel. Ogni tentativo per modificare o alleggerire la linea del solo rigore fiscale non ha portato a un vero cambiamento ma solo a parziali e modesti interventi di correzione. Anche i tentativi aperti nel Parlamento europeo rischiano di naufragare sotto il peso dei numeri delle destre, che pur non essendo compatte hanno però impedito un pronunciamento rivolto alla revisione della politica economica europea. Per questo è necessario che in Francia vinca Hollande. La legittimazione di un voto popolare in uno dei Paesi centrali dell’equilibrio continentale che chiede di cambiare non lascerà le cose come stanno. E anche tenendo conto del peso dei condizionamenti e dei compromessi che si renderanno necessari si aprirà una discussione nuova. E si potrà rafforzare anche il ruolo di Paesi come l’Italia che ha bisogno di far ripartire l’economia e può quindi spingere in questa direzione. D’altra parte non ci sono alternative. La crisi sociale è oltre il livello di guardia. Ogni elezione, compresa la Gran Bretagna, premia le forze di opposizione e quindi il cambiamento. Gli strumenti monetari della Bce hanno finito i propri effetti. Tanti osservatori ed economisti assistono sbigottiti a quello che sta avvenendo. E le classi dirigenti non sanno più cosa fare per evitare una crisi ed una recessione ancora più profonda. I cittadini, i lavoratori e i pensionati vedono ogni giorno di più aggravarsi le loro condizioni di vita e di reddito. Le diseguaglianze fondamentali aumentano. L’attesa per questo passaggio elettorale dunque è giustificata e anche i sentimenti, le paure e le speranze che accompagnano queste ore. Il voto di una nazione finisce per riguardare tutti. Ed è il nostro più grande paradosso comune: siamo cittadini con la stessa moneta ma non nello stesso Stato.

l’Unità 06.05.12

"Gli arrabbiati che vogliono cambiare il mondo", di Eugenio Scalfari

Sapremo tra poche ore se Hollande sarà eletto presidente della Francia e sapremo domani l´esito delle elezioni amministrative italiane dove nove milioni di cittadini hanno diritto di votare per mille Comuni al di sopra dei 15 mila abitanti. Quale sarà l´affluenza alle urne è tuttora un punto interrogativo ed è un´incognita della massima importanza.
Sapremo subito dopo qualche giorno quale sarà il nuovo governo francese e anche i risultati delle elezioni in Egitto e delle cantonali in Germania.
Si apre insomma una settimana densa di fatti politici con ripercussioni economiche e soprattutto sociali. Ma un fenomeno appare tuttora con prepotente evidenza ed è la rabbia crescente che si va diffondendo in Europa contro le politiche di rigore che colpiscono i più deboli e risparmiano i più forti ed è proprio da questo punto che dobbiamo partire, su questa rabbia dobbiamo ragionare indagando sulle cause che l´hanno scatenata, sugli obiettivi che gli arrabbiati si propongono di raggiungere, sui modi per incanalarla verso processi costruttivi affinché produca novità utili alla convivenza e non semplicemente devastazioni e rovina.
Su questi temi ci stiamo cimentando ormai da molte settimane, ma il panorama nazionale, europeo e mondiale cambia di giorno in giorno con estrema rapidità, sicché l´indagine richiede continui aggiornamenti e revisioni.
La rabbia cresce, non c´è dubbio, ma chi sono gli arrabbiati? Con chi ce l´hanno e che cosa vogliono? Sono queste le prime domande alle quali dobbiamo rispondere. Gli arrabbiati, quelli veri e non quelli inventati dai demagoghi che vogliono specularci sopra per procurarsi un proprio tornaconto, appartengono a quella massa indistinta di persone che chiamiamo ceto medio. In tempi assai remoti lo si chiamava terzo stato, poi arrivò il quarto stato, il proletariato e la classe operaia, braccianti e coltivatori compresi.
Nella trottola che descrive la distribuzione del reddito costituivano la pancia al di sopra della quale c´era la borghesia produttiva e sotto la quale i poveri che campavano di espedienti.
Qualcuno saliva e qualcun altro scendeva i gradini di quella trottola ma la figura rimaneva nel suo complesso immutata nelle società economicamente avanzate.
Da qualche decennio però la situazione è profondamente cambiata. Se vogliamo restringere all´Europa di cui facciamo parte il nostro campo d´osservazione, il mutamento diventò visibile a partire dagli anni Ottanta e si manifestò in tutta la sua evidenza dai primi anni Novanta del secolo scorso, raggiungendo il culmine negli ultimi cinque anni.
Non è più una trottola la figura che descrive la distribuzione dei redditi e dei patrimoni, ma una piramide.
Una piramide singolare tuttavia, che si assottiglia molto lentamente. Dalla base fino ad oltre la metà la figura è una sorta di cubo che contiene patrimoni dove il passivo (cioè i debiti) è più consistente dell´attivo mentre il reddito oscilla tra i 5 mila e i 15 mila euro. Da quel livello in poi, al cubo che fa da base a quella figura se ne sovrappongono altri: dai 15 ai 25 mila e poi un altro più piccolo fino ai 40 mila e un altro ancora fino ai 60 mila, ma di volume sempre decrescente. L´ultimo cubetto arriva agli 80-90 mila. Da qui in avanti comincia la cuspide della piramide che si assottiglia sempre più fino ad arrivare alla punta di 300 mila euro. Oltre quel livello se ne perdono le tracce, nel senso che i redditi dai 300 mila in su sono di pertinenza di pochi ricchissimi il cui numero è di centinaia e poi di poche decine di soggetti.
La massa, che chiamiamo ceto medio e che però medio non è più, sta comunque al di sotto dei 40 mila euro di reddito annuo e il patrimonio si compone di molti debiti e scarsi attivi, per lo più immobiliari. Qui si addensa la grande maggioranza della società. Non tutti lavorano stabilmente.
Una quota crescente è composta da giovani con lavoro precario. Molti sono pensionati. Questa massa di persone in Italia, in Spagna, in Grecia, in Portogallo, in Irlanda, in Olanda, in Austria, nei Paesi baltici, nei Balcani, è impaurita e da almeno quattro anni si sente sempre più insicura. Negli ultimi due anni queste persone hanno una grande rabbia in corpo. Da un anno in qua sono arrabbiati e disperati e lo mostrano pubblicamente.
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L´elenco degli arrabbiati in Italia (quelli veri) non è lungo ma il loro numero è abbastanza elevato.
I più numerosi sono i proprietari di case colpiti dall´Imu, i disoccupati, i sottoccupati e i precari. Seguono i pensionati passati dal retributivo al contributivo, cioè soprattutto la generazione dei cinquantenni, tra i quali gli “esodati” per i quali il governo sta provvedendo alle necessarie tutele.
Calcolare il numero complessivo di questa massa di persone non è facile anche perché ci sono parecchie duplicazioni, ma non si è lontani dal vero stimandoli complessivamente a 12 milioni e forse anche più. In tutte le classi di età e su tutto il territorio nazionale.
Che cosa vogliono? Anzitutto essere ascoltati dal governo e dai sindaci.
Chi li rappresenta? I sindacati per circa il 40 per cento. Alcuni movimenti di protesta sociale per circa un 30 per cento. Alcuni partiti per un 15-20 per cento. Ma si tratta in tutti i casi di forme di rappresentanza assai mobili e più occasionali che strutturate e fidelizzate: un mare in tempesta che guarda con sospetto le rappresentanze politiche e con speranzoso scetticismo quelle sindacali.
La realtà vera è che sono una massa fluttuante ad alta emotività. Da questo punto di vista il caso italiano ha scarsi riscontri negli altri Paesi europei.
Se prendete il caso francese, lì gli arrabbiati sono concentrati con la Le Pen. Il resto vede ancora nei partiti il tramite naturale rispetto alle istituzioni. Analoghi fenomeni avvengono anche in Austria, in Olanda, in Germania: gli arrabbiati si riconoscono in una forza che di solito oscilla tra il 10 e il 15 per cento.
Da noi c´era un tempo la Lega che adempiva a questo compito ma intercettava una protesta limitata dal territorio.
Adesso anche la Lega ha perso una parte consistente della sua tradizionale fidelizzazione.
La massa fluttuante degli arrabbiati, proprio perché non ancorata se non alle emozioni, è ancora più pericolosa perché può essere facilmente preda della peggiore demagogia. Anche quel che resta della Lega ha purtroppo imboccato questa strada, la tesi dello sciopero fiscale è infatti pura demagogia e così tutti quelli che individuano in Equitalia il vampiro da trattare come bersaglio anche fisico. In un Paese di evasori atteggiamenti di questo tipo esprimono il massimo di irresponsabilità e di infantilismo.
Una parte dei “media” offre le sue pagine e i suoi teleschermi all´amplificazione di questi fenomeni dimenticando che i tumulti dei ciompi sono sempre stati all´origine delle tirannie.
Poche sere fa una grande rete televisiva come Sky ha dato voce per lunghi minuti al proprietario della squadra di calcio del Palermo. Tra molte altre sciocchezze, Zamparini ha rivendicato alla Regione Sicilia il diritto di battere una propria moneta. Richieste del genere non rappresentano un´opposizione e neppure una rabbiosa protesta ma una profonda e purtroppo abbastanza diffusa imbecillità.
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Mi auguro che tra poco sapremo della vittoria di Hollande.
Mi auguro che i nostri partiti compiano al più presto una radicale riforma del loro modo di finanziare le proprie attività politiche. Mi auguro che cambino in modo serio la legge elettorale sulla base d´una proporzionalità governabile.
Mi auguro che Monti affianchi le proposte di Hollande, non per isolare la Germania, ma per portarla finalmente alla guida di un´Europa che affronti con coerenza e tenacia il tema della crescita con lo stesso rigore pignolo con il quale ha affrontato il tema del risanamento finanziario. Mi auguro che Draghi prosegua nella sua politica di attiva liquidità e spinga le banche europee a rimettere in moto il finanziamento degli investimenti privati.
Mi auguro che la lotta all´evasione sia proseguita con tenacia e senza inutili folclorismi. Mi auguro che la Rai sia governata da persone che la liberino dalle consorterie e la restituiscano ad una funzione di grande agenzia giornalistica e culturale.
Mi auguro che il governo tenga ferma la barra del rigore ma inauguri con altrettanta fermezza la politica di sviluppo non aspettando il 2014 ma subito, attaccando le diseguaglianze, tagliando coraggiosamente le spese inutili, aumentando gli investimenti pubblici e alleggerendo le imposte sul ceto medio per ridargli fiducia e speranza. E se ci fosse bisogno per procurarsi le risorse necessarie di tassare i vertici di quella singolare piramide che abbiamo descritto, lo faccia e sarà applaudito da tutti e perfino dai ricchi messi a contributo, che debbono esporre la loro ricchezza e i doveri che ne conseguono come un vanto e non come una colpa.
Mi auguro infine che i giornali e le televisioni riferiscano le notizie e ne spieghino il significato senza trasformare il giornalismo in un “burlesque” demagogico e spesso osceno.
Forse l´elenco degli auspici qui formulati è troppo lungo perché possa interamente avverarsi. Quindi lo stringo all´essenziale: mi auguro che tutte le istituzioni e tutti gli italiani assumano a guida dei loro comportamenti pubblici le indicazioni che il presidente Giorgio Napolitano lancia ogni giorno in tutte le direzioni per fare del nostro Paese una comunità che tenga alto il senso di responsabilità, i principi di libertà e di eguaglianza e un alto disegno di patria nazionale ed europea perché, con i tempi che corrono, l´uno non si dà senza l´altro.

La Repubblica 06.05.12

"Imu, governo pronto a trattare con i Comuni e il Pd vuole portare la detrazione a 300 euro", di Valentina Conte

Una patrimoniale mascherata. Un balzello di Stato, travestito da imposta comunale. Gli attacchi dei sindaci, allarmati per il forte disagio sociale che il ritorno dell´Imu sta provocando tra i cittadini, alla fine colgono nel segno. Il governo si dice pronto a ridiscutere il meccanismo dell´imposta con i Comuni. Il governo è pronto a cambiare l´Imu. Prima che la rabbia dei sindaci si trasformi in sciopero fiscale o, peggio, in ulteriori rincari per recuperare risorse altrove, l´esecutivo si prepara a riconsegnare l´imposta nelle mani dei Comuni. Non da subito, però. Occorrerà attendere il 18 giugno, temuta scadenza dell´acconto, per verificare se l´obiettivo di gettito previsto per quest´anno – 21,4 miliardi – sia o meno realistico. Dopodiché si aprirà un confronto tra governo ed enti locali per restituire al territorio l´imposta. A partire, però, dal 2013.

LO SCONTRO POLITICO
La tensione politica, intanto, non si placa. Maroni cavalca l´ipotesi di azzerare l´Imu nei Comuni a guida leghista e minaccia Monti. «Stia attento ad accusare Lega e sindaci di coprire gli evasori», ha tuonato ieri da Marcon, nel veneziano. «Non far pagare l´Imu sulla prima casa non è evasione, ma protesta fiscale. Se Monti continuerà a dire stupidaggini, ne risponderà penalmente». In realtà, l´ipotesi leghista di azzerare l´aliquota è impraticabile perché contro la legge. Tuttavia i Comuni con i conti non in rosso, possono aumentare le detrazioni fino ad annullare di fatto l´imposta sulle prime case, a patto che l´aliquota sulle seconde sia del 7,6 per mille e non più alta. Come ha fatto Peschiera del Garda.

LA PROPOSTA DEL PD
In tema, Stefano Fassina rilancia l´emendamento presentato dal Pd al Salva-Italia di dicembre. Ovvero alzare la detrazione da 200 a 300 euro per prime case che valgono meno di 1,2 milioni di euro. «Consentirebbe di eliminare l´imposta per due terzi di proprietari di immobili con valore modesto o medio», dice il deputato pd. Il segretario Bersani propone di affiancare all´Imu alleggerita e restituita ai Comuni «un´imposta personale sui grandi patrimoni mobiliari». Mentre Alfano, segretario pdl, chiede ai sindaci “azzurri” di applicare l´aliquota ordinaria, il 4 per mille, senza rialzi, e al governo di eliminare l´Imu sulla prima casa dal 2013.

VERSO UN´IMU PIÙ “COMUNALE”
Cambiare pelle all´Imu sembra dunque possibile. Già due giorni fa il sottosegretario all´Economia Ceriani aveva aperto alle ipotesi caldeggiate da tempo dall´Anci, l´Associazione dei Comuni italiani. Ovvero destinare la quota che oggi lo Stato incassa sull´Imu seconde case (9 miliardi, metà del gettito) al Fondo sperimentale di riequilibrio, il nuovo bacino federalista che assicura i trasferimenti agli enti locali. «Riportare l´Imu erariale nel Fondo», dice Ceriani. O, come seconda ipotesi, «sdoppiare l´Imu creando però una nuova imposta e prevedendo così un´Imu comunale e un´Imu erariale, ben distinte». Quanto ribadito anche ieri, da Graziano Delrio, presidente Anci: «Il governo faccia un patto con i cittadini: scorpori la sua parte e dica come la impiegherà». «Chiediamo che l´Imu torni ai Comuni, non solo nel gettito, ma anche nella disciplina», aggiunge Angelo Rughetti, segretario generale Anci, «con più poteri ai sindaci di esentare poveri e monoreddito».

RIMBORSI IVA
Una prima boccata d´ossigeno per i contribuenti arriva, intanto, dall´Agenzia delle Entrate, pronta a rimborsare 2,2 miliardi di crediti Iva a circa 11 mila tra imprese, artigiani e professionisti. I primi 400 milioni partiranno già nei prossimi giorni, i restanti dalla seconda metà di maggio. In totale, si punta a restituire alle partite Iva 3,1 miliardi quest´anno, il 14% in più del 2011.

La Repubblica 05.05.12

Il PD è l'unico Partito che vuole il dimezzamento del finanziamento, da altri solo demagogia

“Noi siamo per il dimezzamento immediato del finanziamento ai partiti, a partire dalla prossima rata, e non siamo disposti ad arretramenti. Se non c’è accordo il nostro relatore in Commissione Giancarlo Bressa si dimette da relatore, si va in Aula e si alza la mano. Perchè che si faccia una marmellata di tutto non è accettabile”. E’ questa la posizione del PD sulla riforma dei partiti espressa a Piacenza dal Segretario Pier Luigi Bersani. “La posizione del PD sulla riforma del finanziamento pubblico è nota e agli atti, tuttavia oggi c’è chi preferisce fare finta di nulla accusando l’intera classe politica del tentativo di far passare la nuttata per non cambiare nulla”, ha dichiarato Antonio Misiani componente Commissione Bilancio del PD e tesoriere del Partito.

“Sono accuse demagogiche quanto volutamente imprecise. Se esiste un forza politica che si è espressa con chiarezza per il dimezzamento da subito delle risorse pubbliche destinate ai partiti questa è il PD”, ha proseguito Misiani.

Il tesoriere democratico ha voluto ricordare che “il Segretario del PD Bersani ha presentato un disegno di legge per un immediato dimezzamento del finanziamento pubblico e per l’introduzione di vincoli e controlli per garantire la massima trasparenza nei bilanci dei partiti. Gli amanti dell’antipolitica siano almeno un minimo oggettivi, risparmiandoci errate quanto strumentali generalizzazioni”.

www.partitodemocratico.it