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"L'inversione di ruoli in Europa", di Luigi La Spina

L’Europa della moneta unica cerca di cambiare volto. Per la prima volta dall’inizio del secolo, cioè dalla fondazione, potrebbe modificare il suo profilo arcigno, quello di chi chiede ai cittadini del continente solo tagli e sacrifici, quello che suscita proteste di massa come a Barcellona ieri, e mostrare, invece, la faccia benigna dell’unica istituzione in grado di assicurare l’araba fenice dei nostri tempi, la crescita. Così, se nei prossimi mesi si realizzassero davvero le premesse e le promesse che si annunciano in questi giorni, si potrebbe avviare una significativa inversione dei fondamentali compiti nelle funzioni tra l’Europa e gli stati nazionali: alla prima la responsabilità della spesa, ai secondi la guardia dei bilanci.

Gli italiani non hanno certo dimenticato il biglietto da visita con cui l’euro si presentò, quello dei famosi «parametri di Maastricht» da rispettare, con il relativo prezzo.

Una parola che, anche negli anni che seguirono all’introduzione della moneta unica, divenne sempre associata all’Europa: tassa. Quella che pagammo per entrare subito nell’euro e che ci fu imposta da tutte le manovre finanziarie varate dai nostri governi, con l’alibi delle decisioni di una istituzione lontana dal cuore degli europei e insensibile alle necessità dei cittadini. Era l’ossessionante «vincolo esterno», quello che costringeva i politici nostrani a fare cose sgradevoli, che mai, naturalmente (?), avrebbero fatto di loro volontà.

Il mutamento di ruoli sul teatro della scena europea potrebbe essere determinato, come quasi sempre accade, non da improvvisi assalti di coscienza politica e di responsabilità civile dei governi nazionali, ma dalla spietata realtà. Perché gli Stati non hanno più un soldo da spendere e l’unica possibilità di mettere in campo i miliardi di euro necessari a un’inversione di rotta nella stagnazione continentale si può trovare a Bruxelles e a Francoforte. Il motivo, al di là delle sofisticherie tecniche degli economisti, si può riassumere con parole abbastanza comprensibili a tutti: la Ue può finanziare grandi infrastrutture, capaci di muovere lavoro e occupazione, a tassi molto più bassi di quelli che dovrebbero sborsare Roma e Madrid, per non parlare di Atene e Lisbona.

La Banca europea per gli investimenti, infatti, se sarà trovato un accordo nell’incontro previsto agli inizi della prossima settimana, potrebbe assicurare fino a 300 miliardi per grandi opere nel nostro continente attraverso i cosiddetti «bond per la crescita». E’ vero che l’operazione dovrebbe essere preceduta da una ricapitalizzazione della Bei, ma la garanzia della tripla «A» su questi bond dovrebbe costituire un tale vantaggio da rendere molto conveniente una simile partita di giro tra Stati nazionali e istituzioni comunitarie.

Tale progetto per lo sviluppo europeo, l’unico che sembra avere realistiche possibilità di riuscita, perché non trova l’ostilità pregiudiziale della Merkel, sempre contraria invece agli eurobond, richiede una condizione assoluta, cioè l’impegno degli Stati nazionali al rigore dei bilanci pubblici. Alla vigilia delle elezioni francesi e sotto l’influsso delle promesse elettorali di Hollande, si sono agitate troppe illusioni sulla possibilità di un allentamento degli impegni su deficit e debiti nella zona euro. Come avverte Monti, del resto, nei suoi ripetuti inviti a non pensare che si possa ottenere una crescita sforando i conti.

Ma è davvero possibile una tale inversione di ruoli tra Europa e Stati nazionali? Innanzi tutto bisogna affrontare una facile obiezione alla tesi di una Ue sempre taccagna guardiana dei bilanci. E’ naturalmente vero che Bruxelles ha dispensato, attraverso i famosi «fondi strutturali», un fiume di denaro ai cittadini e ai governi europei. Sia per aiutare le regioni continentali più svantaggiate, sia per sostenere le categorie economiche più deboli. La distribuzione di questi soldi, però, è stata sempre condizionata dalle lobby più forti in sede comunitaria e i fondi o non sono stati utilizzati, come spesso è capitato per quelli destinati all’Italia, o sono finiti per obiettivi ben diversi da quelli che erano stati individuati. Per questi motivi, l’Ue, anche se in questi anni non ha lesinato finanziamenti per lo sviluppo, non è mai apparsa come una risorsa per la crescita, ma sempre come un’idrovora nei risparmi dei cittadini.

I tempi, ora, sembrano donare all’Europa la possibilità di cambiare un’immagine talmente negativa da giustificare persino le idee più strampalate, come quella di un ritorno alle monete nazionali. Potrebbe costituire un paradosso, ma di paradossi è piena la storia. Proprio nel momento di maggiore crisi del sogno perseguito dai suoi padri, come i nostri Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, l’Unione europea potrebbe compiere uno scatto in avanti nel governo del continente. Perché il controllo della fiscalità comunitaria e la moneta unica non bastano più a giustificare la sua esistenza. Per sopravvivere, ora deve salvare gli europei dal declino del loro ruolo nel mondo. Forse non lo farà per l’impulso generoso e visionario degli autori del «Manifesto di Ventotene», ma per le crude necessità dell’economia. Ma fa lo stesso.

La Stampa 04.05.12

"Se la democrazia sa autocorreggersi", di Nadia Urbinati

Se si vuole procedere alla cura della democrazia dei partiti occorre leggere i fondamenti della legittimità democratica non in astratto, ma nel contesto della crisi della rappresentanza. Ora, la rappresentanza elettorale è la fonte principale e insostituibile di legittimità, ma non è la sola. Altre istituzioni si sono col tempo mostrate essenziali e in qualche modo supplementari rispetto alle elezioni. Lo scopo di chi si preoccupa della cura dovrebbe essere quello di immaginare le istituzioni o gli interventi di riforma che meglio possano contribuire a riportare la fiducia nella democrazia.
La quale, se guardiamo alla sua storia, è un interessante caso di permanente sperimentazione e creazione di strategie, regole e istituzioni volte a risolvere problemi che lo stesso processo democratico di decisione genera. Insomma la democrazia è un sistema in perenne movimento, capace, se così si può dire, di riaggiustare se stessa in corsa. Per questa sua connaturata elasticità è stata capace di resistere con successo alle sfide e di rinascere dopo tragiche cadute.
La democrazia moderna ha fino ad ora avuto tre fasi di vita. Nella prima fase, quella costituente, l´innovazione è stata fondativa – ha generato lo scheletro e il dna che ne designa la fisionomia. Nella seconda fase, quella del consolidamento, l´innovazione è stata accrescitiva – l´arricchimento dei diritti individuali e sociali, la creazione di agenzie per la distribuzione delle risorse, infine la messa in cantiere di istituzioni rispondenti non all´opinione elettorale ma a quella contenuta nella legge fondamentale (per esempio la corte costituzionale o la banca centrale). La terza fase, quella che ci interessa direttamente, dovrebbe consistere nell´innovazione riparatoria e rigenerativa. Questo è il compito che ci sta di fronte.
Allo stato attuale, la nostra è una democrazia parlamentare. La quale, vale la pena insistere, si regge sui partiti politici non su individui che si candidano come singoli. La democrazia rappresentativa non è un´oligarchia elettiva e se rischia di diventarlo dobbiamo correre ai ripari. Tuttavia la democrazia parlamentare non si regge solo sui partiti. La miriade di associazioni politiche, i giornali e i media, i sindacati sono essenziali componenti nella costruzione della legittimità democratica. Ma c´è altro ancora. Per funzionare la democrazia parlamentare ha bisogno di buone istituzioni di controllo, politiche solo per via “indiretta”. Istituzioni che monitorano, che sorvegliano, che gettano luce – quelle che nei paesi anglosassoni si chiamano authority. Sul modello delle corti, e con metodi di selezione dei componenti che siano impersonali e non di nomina partitica, assomigliano alla struttura delle burocrazie ma non sono incardinate nelle funzioni ministeriali perché non devono distribuire servizi, beni, sanzioni, ecc. Devono invece sorvegliare che la democrazia dei partiti funzioni secondo le norme: che ci sia accountability e correttezza nell´uso delle risorse.
Le democrazie moderne sono liberali e rispettose dei diritti della persona. Non possono né devono ripercorrere la strada dei censori come le antiche repubbliche né diventare plebiscitarie. Devono però dotarsi in fretta e con saggezza di istituti di sorveglianza in primo luogo per eliminare l´accumulazione di incarichi dei politici, per far dimagrire la disponibilità materiale dei partiti, e soprattutto per riportare i partiti nell´alveo delle loro funzioni di rappresentanza, togliendo loro quel potere discrezionale che si sono attribuiti negli ultimi decenni: per esempio quello di gestire le nomine negli enti pubblici o a partecipazione pubblica. Nomine e contratti al posto dei concorsi pubblici non solo non hanno diminuito i costi della pubblica amministrazione ma hanno contribuito al degrado. La critica ai partiti è salutare se punta il dito in direzione dei luoghi giusti – nelle periferie non meno che nel centro quindi. Il grido “Roma ladrona” ha avuto tra l´altro il grossissimo difetto di distogliere l´attenzione dal governo locale, quel reticolo di potere che è invece alla base della forza – e della potenziale debolezza per corruttela – dei partiti. L´infeudamento della Lega Nord ne è una conferma.
La democrazia dei partiti o parlamentare riacquisterà salute se saprà leggere il sintomo del male che l´affligge e sentire il dolore. Il sintomo è la disaffezione dei cittadini. È la crisi di legittimazione morale che ci dovrebbe guidare a decifrare l´origine del danno, il quale sta non nei partiti politici in quanto tali, ma in ciò che essi sono diventati in questi anni di regime privatistico e patrimonialistico che ha contaminato l´intero sistema politico italiano e gravemente minato l´etica pubblica. Non si uscirà dall´epoca berlusconiana (dalla seconda repubblica) fino a quando non si comprende che qui sta l´origine del problema, che si chiama arbitrio, abuso, privatismo, discrezionalità, manipolazione.
Se questo è il problema allora la democrazia dei partiti deve rimediare curando se stessa e lo può fare se affida a regole e metodi non-partitici il compito di riportare la loro azione nell´alveo della rappresentanza politica. I partiti devono tornare a fare quello che devono: fare politica, reclutare classe dirigente per il presente e il futuro, studiare i problemi della società e cercare con l´aiuto delle competenze le forme migliori per risolverli, dialogare con le altre forze politiche europee ed uscire dall´autarchia elettoralistica che ha alimentato la corruzione. Devono ritornare a creare e ispirare centri di ricerca. Sono anche i partiti ad aver bisogno di competenze non solo l´amministrazione pubblica. Sono i partiti a dover avvicinare gli “intellettuali”, quelli che Luigi Einaudi in un magistrale articolo degli anni ‘50 intitolato “Conoscere per deliberare” chiamava “teorici” che sanno mettere i principi costituzionali al servizio del giudizio politico sulle scelte da fare o non fare. La democrazia dei partiti si curerà quando saprà trovare nei suoi fondamenti la ragione del proprio valore. E per questo essa ha bisogno di interventi anche radicali che tolgano quelle incrostazioni di arbitrio che si sono accumulate negli anni. Toglierà così anche ossigeno al populismo e alla rabbiosa retorica dei nuovi demagoghi.

La Repubblica 04.05.12

"Il ritorno (anche) del Cavaliere", di Marcello Sorgi

Dopo il Bossi del Primo maggio che a sorpresa si ricandida alla guida della Lega, ecco arrivare Berlusconi in versione comizio: il messaggio, anche in questo caso, è che il Cavaliere non ha alcuna voglia di farsi da parte. La campagna elettorale è stata dura per entrambi: Bossi alle prese con lo scandalo familiare della Lega, da cui ieri, come notizie di giornata, sono uscite le lauree false, comperate a Tirana, del figlio Renzo e del fidanzato di Rosi Mauro Pier Mosca. E Berlusconi con le udienze del processo per il caso Ruby e le intercettazioni delle sue conversazioni con le ragazze dell’Olgettina.

Sul Senatur peserà lunedì il risultato del voto più difficile per il Carroccio; quanto al Cavaliere sarà a Mosca, in visita da Putin, ospite alla cerimonia del reinsediamento alla presidenza della Russia, quando in Italia Alfano e il Pdl cominceranno a fare i conti con cifre e percentuali, che s’annunciano dure da digerire per un partito già altre volte in difficoltà alle amministrative.

Perché allora i due leader da cui fino a sei mesi fa dipendeva l’equilibrio di governo del Paese, e che adesso mal sopportano la loro forzata emarginazione politica, hanno sentito il bisogno di rimettersi al centro della scena? Anche se quando si parla di Bossi e Berlusconi è inutile cercare una risposta scientifica, perché si tratta di due leader abituati a muoversi sempre sul piano istintivo, è evidente che né l’uno né l’altro considerano del tutto esaurita la stagione dei partiti personali, a guida carismatica, che ha caratterizzato il quasi ventennio della Seconda Repubblica. E non hanno neppure rinunciato all’ipotesi di rimettere in piedi la loro alleanza, grazie alla quale sono riusciti a vincere le elezioni nel 1994, 2001 e 2008.

Sotto quale forma, è prematuro dirlo. Ma è possibile che se davvero si dovesse arrivare a una nuova legge elettorale proporzionale, in cui i partiti correrebbero ciascuno per sé, Bossi e Berlusconi, invece di candidarsi con Lega e Pdl in un ruolo forzatamente defilato, potrebbero decidere di affiancarli con liste personali, costruite ancora una volta sui propri nomi.

Per il Senatur sarebbe il modo di evitare una conta congressuale in cui probabilmente uscirebbe battuto, e di dimostrare che un certo modo di essere del leghismo delle origini può continuare ad esistere solo con lui. E per il Cavaliere un modo di ottimizzare la raccolta dei voti a destra, suo obiettivo principale, lasciando ad Alfano fino all’ultimo il tentativo impossibile di ricostruire l’alleanza con Casini.

La Stampa 04.05.12

"Il finanziamento della politica", di Gianluigi Pellegrino

La richiesta di arresto per Lusi giunge con spietata coincidenza con il desolante rinvio della discussione di proposte di riforma del sistema di finanziamento dei partiti. Certo si deve stare lontani dalla palude del populismo che è stantio non meno della partitocrazia; anzi l´uno e l´altra reciprocamente si alimentano, a volte persino si confondono in una miscela inquietante, come insegnano la storia degli ultimi vent´anni.
Ed allora per evitare di scivolare sul sentiero friabile delle emozioni collettive, diciamo subito che non c´è democrazia senza un sistema di finanziamento volto a garantire la “parità delle armi”. E però questo non è un finanziamento ma un corpo deformato, da tumori e metastasi che devono essere incisi ed estirpati già a legge vigente per dimostrare un minimo di buona volontà.E non è vero che gli strumenti non ci sono. E´ vero il contrario. E´ previsto che sotto la direzione dei due Presidenti delle Camere operi un organismo tecnico di controllo costituito da un Collegio dei revisori. E´ fuorviante affermare che si tratterebbe di un controllo meramente formale che lascerebbe senza rimedio proprio gli abusi più gravi e conclamati. Regole minime di interpretazione delle leggi escludono queste conclusioni. Del resto lo ha di recente scritto al Presidente della Camera, lo stesso Collegio dei revisori, chiedendo il nulla osta a controlli più efficaci e penetranti. Ma il Presidente della Camera non ha dato alcuna risposta alla richiesta dei revisori, limitandosi a girare la nota alla Commissione affari costituzionali in vista di future riforme. La commissione nella seduta del 4 aprile ne ha dato lettura e nessuno ha chiesto di intervenire….
Né può essere di decisivo ostacolo la prassi che in passato ha limitato le verifiche a profili esteriori e formali.
Le norme possono conoscere prassi applicative ora deboli, ora incisive in ragione delle esigenze che le diverse fasi storiche richiedono e con esse l´evoluzione della sensibilità del corpo sociale.
Peraltro i fondi afferiscono ai bilanci dei due rami del Parlamento e quindi ad un ambito dove i due vertici delle assemblee hanno senz´altro l´ampio potere di regolazione e di direttiva che i revisori sollecitano ad esercitare.
Né ha rilievo che Margherita e Lega addebitino ogni responsabilità ai propri tesorieri. Questi ultimi rappresentano i partiti nei confronti dello Stato, e quindi della loro condotta sono i partiti a rispondere salvo a rivalersi in un momento successivo. Ma questo sì resta un affare privato. Non le immediate responsabilità verso le casse pubbliche. Restituiscano allora quei partiti somme pari a quelle indebitamente destinate a patrimonio privato; poi avranno tutto il tempo di rivalersi su eventuali amministratori infedeli. I partiti sani dovrebbero essere i primi a pretenderlo. Lo stesso discorso vale per le assurde erogazioni disposte in favore dei partiti fantasma. Nessuna legge lo imponeva. Anzi. Anche qui allora c´è un immediato dovere di restituzione. Per non dire poi della evidente inaccettabilità di quella legge approvata di soppiatto che ha comportato dal 2008 al 2010 il raddoppio dei finanziamenti. E ora di gran fretta cancellata.
Non c´è quindi nessuna demagogia nel richiedere una terapia d´urto che preveda una rinuncia alle prossime rate, a parziale compensazione delle ultime indigestioni.
Poi a regime di tutto si può discutere, e dovrebbe pensarsi innanzitutto ad un finanziamento mediante servizi e che vada più sul territorio che nelle sedi centrali dei partiti altrimenti i candidati restano schiavi della necessità di cercare fondi privati.
Avremmo così un finanziamento che sarà facile e doveroso difendere. Ma se resta il mostro di oggi, malato e tumefatto presto o tardi non potrà che cadere di schianto anche per non aver risposto a questa nostra accorata chiamata. L´ultima.

La Repubblica 04.05.12

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Il gip chiede l´arresto di Lusi “Un predone, ladro di democrazia rubava per sé e per la carriera” di Carlo Bonini e Maria Elena Vincenzi

Sul carcere deve votare la Giunta del Senato: quasi tutti i partiti per il sì, solo il Pdl prende tempo. Scoperta anche la sottrazione di 1,3 milioni per l´attico a Roma, in tutto quasi 28 milioni. L´Affaire Lusi mette un punto. Che ne drammatizza processualmente la gravità e investe di responsabilità il Parlamento. Il gip Simonetta d´Alessandro ordina la cattura e la traduzione nel carcere di Regina Coeli del senatore ed ex tesoriere della Margherita, trasmettendo a Palazzo Madama gli atti necessari ad autorizzare o meno il provvedimento. Dispone gli arresti domiciliari per la moglie, Giovanna Petricone, e i due commercialisti Mario Montecchia e Giovanni Sebastio quali complici di Lusi nella sua stangata ai danni delle casse del Partito. Iscrive al registro degli indagati Diana Ferri e Paolo Piva, la prima collaboratrice del senatore, il secondo amministratore della “TTT srl.”, società utilizzata per pompare denaro dalla “Margherita”. Ridefinisce, su richiesta del Procuratore Giuseppe Pignatone, dell´aggiunto Alberto Caperna e del sostituto Stefano Pesci, i reati che ora vengono contestati, consegnando Lusi all´accusa di essere stato dal 2007 al 2011 «capo e promotore di un´associazione per delinquere finalizzata ad una appropriazione indebita pluriaggravata» ormai vicina ai 28 milioni di euro.
«UN VERO SACCHEGGIO»
Nelle 37 pagine della sua ordinanza, il gip consegna Lusi ad un giudizio di eccezionale severità. «I fatti ipotizzati – si legge – non sono gravi. Sono gravissimi. Esistono valori non suscettibili di quantificazione monetaria, che sono stati esposti a lesione dalle condotte accertate del senatore. Tutte connotate da un accentuato cinismo, da una sistematica riserva mentale (…) da un´attività di vero e proprio saccheggio (…) in una consapevole, programmatica indifferenza per i fini cui quel denaro doveva essere destinato: per la garanzia di effettività di strumenti essenziali per la dialettica politica». Il senatore, dunque, non è solo e soltanto «un Predone, animato da spinte compulsive». E´ un “ladro di democrazia”, perché «la manomissione del pluralismo dei partiti», quale è l´abuso del finanziamento pubblico, «è, sul piano ontologico, l´anticamera della svolta totalitaria».
«PERICOLO DI FUGA E INQUINAMENTO»
Da soli, sono argomenti definitivi per una condanna di merito e non necessariamente per una custodia cautelare. Che dunque, il gip, motiva così. «Lusi, nei suoi due interrogatori e nel contegno tenuto sin qui, ha usato termini intimidatori, lanciando messaggi e avvertimenti». «Ha usato i giornalisti, strumentalizzandone la funzione, alludendo a responsabilità altrui, rimaste poi senza seguito». Insomma, «ha continuato a inquinare il contesto dell´indagine». Persino quando ha chiesto l´incidente probatorio sui bilanci della Margherita, «insinuando all´interno del processo il sospetto che l´oggetto della prova sarebbe stato inquinato». Di più: «Ha mentito ai pm e se è vero che il diritto dell´imputato a tacere o negare la verità è sacro, questo non comporta la facoltà di accusare infondatamente terzi soggetti (Rutelli e l´ex vertice della Margherita sull´uso dei fondi del Partito ndr.)».
Né aiuta Lusi la sua condizione di senatore. «Uno status assai poco rassicurante in ordine alla genuinità della prova». E che per giunta renderebbe ancora più concreta, perché più agevole, la possibilità della fuga. «L´ingente provvista di denaro accumulata in Canada e l´origine italo-canadese della moglie Giovanna Petricone, che ha mantenuto oltreoceano solidi legami familiari, rendono per entrambi il riparo all´estero ancora più allettante».
«LO CHEF COLONNA E IL NERO».
Per altro, almeno due fatti nuovi sono lì a documentare – argomentano gip e pm – che «l´inquinamento della prova», la «dissimulazione della verità» e dunque la possibilità di muovere denaro di cui ancora non si ha un quadro definitivo (siamo a 28 milioni) sono continuati anche dopo l´ultimo interrogatorio del senatore (il 27 marzo), quello in cui si sarebbe risolto «a non tacere più nulla». Da allora, le indagini hanno infatti accertato 1 milione e 300 mila euro di “nero” per l´acquisto dell´attico e super-attico di via Monserrato (uno degli immobili acquistati con i fondi del Partito), nonché 30 mila euro sottratti alla Margherita per saldare lo chef Antonello Colonna, ennesimo tributo alla gola del senatore che sappiamo “debole” e scelto per deliziare il palato dei 200 invitati al suo matrimonio («Lo ricordo come un cliente ineccepibile», dice lui oggi).
«SOLDI PER LA CARRIERA O LA POLITICA»
Lusi non era solo. Circondato da una corte di familiari e famigli, quali i due commercialisti Montecchia e Sebastio (ex contabili della Margherita), quale l´amministratore della “TTT srl” Paolo Piva (la cui storia politica va datata a Rutelli sindaco di Roma e alla condanna della Corte di Conti per le consulenze d´oro, di cui fu percettore proprio con Lusi), l´ex tesoriere «è capo e promotore di un´associazione che non nasce per delinquere, ma decide di delinquere». «Come dimostra la preordinazione nella tecnica di sistematica manipolazione dei bilanci e rendiconti del Partito». Ma, soprattutto, come finisce per ammettere la moglie del senatore Giovanna Petricone, che interrogata dai pm, dice ciò che non dovrebbe. «Mio marito voleva investire in immobili per alimentare il futuro della sua carriera politica e mi disse che se la sua carriera fosse finita, il patrimonio sarebbe rimasto alla nostra famiglia».
LE SCELTE DELLA GIUNTA
Lusi, con il suo difensore Luca Petrucci, definisce l´ordinanza «un provvedimento abnorme», in cui «i diritti costituzionali di difesa vengono trasformati in esigenze cautelari» e ne annuncia l´impugnazione al Tribunale del Riesame. Ma un´altra partita, quella cruciale, si giocherà nella Giunta per le autorizzazioni e nell´aula del Senato. Dove Idv, Casini, Fli e lo stesso Pd hanno di fatto già annunciato un voto favorevole all´arresto. Resta sospesa la posizione del Pdl (Alfano, ieri, ha preso tempo, riservando una decisione alla «lettura attenta degli atti»). Anche perché legata all´altro giudizio pendente. Quello che deciderà mercoledì prossimo il destino del senatore De Gregorio, per il quale la Procura di Napoli ha chiesto Poggioreale insieme a Lavitola.

La Repubblica 04.05.12

«La legge regionale non stravolga la statale», di Vittorio Emiliani

La tutela urbanistica regionale non può essere sostitutiva di quella statale, ma soltanto “aggiuntiva”. Può cioè ampliare il livello della tutela del bene protetto, non, all’inverso, servire a restringere l’ambito della protezione assicurata dalle leggi statali. Lo ha ribadito la Corte costituzionale con la sentenza n.66/2012 nei confronti della legge n.10/2010 della Regione Veneto, in specie dell’art. 12. La Corte riafferma dunque, più che opportunamente, un principio essenziale: il legislatore regionale non può scalfire la potestà dello Stato in materia di beni primari quali i beni paesaggistici. Punto di frizione fra norme statali e legge veneta? La possibilità per quest’ultima di eliminare, pur “sussistendo il vincolo paesaggistico”, l’obbligo dell’autorizzazione. Che resta invece intatto, in forza della legge Galasso/1985 e del Codice per il Paesaggio.
La “via veneta al paesaggio” porterebbe a una sostanziale “delegificazione” della materia, dice la Corte, demandando ai Comuni di individuare i territori con caratteristiche analoghe a quelli inseriti nelle Zone A (centri storici) e B (tessuto edilizio consolidato). Una sorta di risotto paesaggistico alla veneta, che aprirebbe la strada a uno spezzatino alla lombarda (in un paesaggio già disastrato dalle spinte della Lega), o all’amatriciana. Le deroghe – fa notare la Corte costituzionale – finirebbero per essere determinate direttamente dall’amministrazione locale, senza che lo Stato risulti in alcun modo chiamato a partecipare al relativo procedimento. Finché vige l’art. 9 della Costituzione («La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»), non c’è spinta federalista che tenga. È un caso se è la Regione Veneto ad aver prodotto una simile normativa? Purtroppo no, la collina di Zanzotto, di Parise, di Piovene è stata massacrata nell’ultimo trentennio; nell’area dei Colli Euganei sorgono ben tre cementifici con livelli spaventosi di smog (un solo cementificio ne produce, in un anno, quanto 300.000 veicoli). Ora si pensa di accorparli in un unico forno con una torre alta ben 90 metri, nuovo colpo al paesaggio, all’agricoltura, al turismo e alle tante possibili attività indotte (e pulite).
La sentenza della Corte dà quindi forza alle Direzioni Regionali e alle Soprintendenze statali impoverite, nell’era berlusconiana, di mezzi e di tecnici. In conclusione: la materia paesaggistica non può essere affidata ai Comuni né alle sole Regioni, lo Stato ha la priorità. A questo punto il Ministero batta un colpo. Bondi è stato un fantasma. Per ora lo è pure Ornaghi in tema di piani paesaggistici e non solo. È proprio ineluttabile assistere alla rovina del Belpaese?

da www.unita.it

"Italia, 2012 la spoon river", di Adriano Sofri

Il termine sembra astratto ma se si legge ognuna di queste vite si capisce come siano diverse e come siano simili i loro assassini.
Nel nostro Paese, dall´inizio dell´anno, sono state uccise 55 donne. Dai loro compagni o mariti, dai loro ex o da amanti respinti. Sono ragazzine e adulte, italiane e straniere. Mentre il comitato “Se non ora quando” ha fatto un appello e ha già raccolto 20mila firme contro la violenza maschile, ecco alcune delle loro storie tragiche raccontate da scrittrici e scrittori. Femminicidio (o, peggio, “femmicidio”) non è una bella parola: ma il fatto è infame, e del suo orrore fa parte la rinuncia antica a dargli un nome proprio. Le donne ammazzate perché sono donne, e gli uomini che ammazzano donne, sono altra cosa dal nome generico, e che vuole apparire neutro, di omicidio.
E l´altra cosa non è un´attenuante, ma un´aggravante: non un incidente dell´amore, ma il suo rovescio e la sua profanazione. E anche il suo svelamento, quando amore sia il possesso e la rapina dell´altra persona. Le cifre opposte sono così irrisorie da rendere superfluo il nuovo conio di maschicidio. Uccidere donne – o la “propria” donna – non è un´attenuante, come nel codice fino a ieri, ma un´aggravante.
Si può obiettare che il “femminicidio” destini all´astrazione o all´ideologia le tragedie singolari in cui uomini forzano e uccidono donne (cinquantacinque ammazzate nel 2012, in quattro mesi; furono 137 nel 2011, ndr).
Ma a guardarle bene, a riconoscere ogni singola storia, si scopre chi fossero le donne che ne sono state vittime, e ci si accorge che gli autori uomini, i più diversi per età, condizione sociale, provenienza di luogo, in quel punto finiscono per assomigliarsi in un modo umiliante.
Le storie che qui leggete mostrano com´erano diverse e libere le donne cui è stata tolta la vita, come si sono assomigliati gli uomini che gliel´hanno tolta.

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Antonella 21 anni
ELENA STANCANELLI
L´amore col tempo si trasforma, persino nel suo opposto. Ma davvero possono bastare due mesi perché marcisca fino a farsi ossessione mortale? Sessanta giorni nei quali Antonio, diciotto anni, dopo aver conosciuto Antonella, 21 anni, l´ha amata odiata amata e infine uccisa. Nei quali è stato se stesso e un altro, Rusty light, lo pseudonimo col quale le mandava messaggi di minaccia, tanto da convincerla ad andare alla polizia per denunciarlo. Ma denunciare chi? Un fantasma, uno sconosciuto che la perseguitava dal buio virtuale di facebook. Da quel capolavoro di irresponsabilità, luogo di assenza dove tutto è vero e non vero nello stesso momento. Lo stesso dal quale Antonio, dopo averla picchiata e poi strangolata e poi sgozzata con un coltello che si era portato da casa, ha continuato a farsi vivo, indicando false piste. Due mesi sono niente, o un´eternità, se la vita non scorre ma si avvita su stessa, “se la parola amore”, come scrive Mariangela Gualtieri, “è uno straccio lurido”.

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Grazyna 46 anni
SANDRO VERONESI
Quante ce ne sono di donne dell´est che vengono in Italia a fare le infermiere? Grazyna è una di loro. Lavora all´ospedale, in psichiatria – lavora coi matti, è brava.
È polacca, ma ormai è anche italiana, perché si è sposata con Maurizio e ha fatto una figlia, Milena.
Quante ce ne sono di donne che vedono impazzire il proprio marito giorno dopo giorno, e che continuano a stargli vicino? Grazyna è una di loro.
È esperta, si rende conto che Maurizio non sta bene, ma non se la sente di informare l´azienda sanitaria nella quale lavora.
Finché un giorno lui la picchia selvaggiamente con un bastone, viene ricoverato per un TSO nel reparto dove lei lavora, e poi viene rimandato a casa.
Quante ce ne sono di donne che vengono ammazzate dal marito nella propria camera da letto, la figlia in cucina che chiede aiuto, i vicini che chiamano la polizia? Grazyna è una di loro.

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Domenica 24 anni
MELANIA MAZZUCCO
C´è una macchina blu, sul lato destro della strada. Ha le freccette accese. Lei pensava di accostare solo per un istante. 6.30 del mattino. Lei attacca presto. A soli 24 anni l´azienda dei trasporti le ha affidato lo scuolabus rosso. Lo chiamano Happy Bus. Domenica Menna di Parma, detta Mimì. Ma c´è una macchina davanti alla sua, sul lato destro della strada. Lui indossa ancora la divisa da vigilante. L´ha seguita, sorpassata, costretta a fermarsi. La macchina blu ha il finestrino abbassato. Le donne ascoltano. La portiera è aperta. Un lenzuolo sull´asfalto copre il corpo di lui. C´è una ragazza bruna riversa sul volante, la cintura di sicurezza ancora allacciata. Non l´ha protetta dall´uomo che aveva frequentato 4 anni e che aveva appena lasciato. 4 colpi a bruciapelo – e l´ultimo per sé. C´è un proiettile vagante. Ha attraversato il corpo di lui, schiantato una finestra, e si è conficcato nel muro di un salotto. Quel foro è per svegliare noi, lettore. Potrebbe essere il nostro salotto. Questo capita mentre dormiamo. Ricordati di Mimì, uccisa perché voleva tenere il volante della sua vita.

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Rosanna Lisa 37 anni
VALERIA PARRELLA
A lui la pistola gliel´aveva data lo Stato italiano: Rinaldo D´Alba era appuntato dei carabinieri, e con moglie e figlie vivevano in una caserma di Palermo.
Lei si chiamava Rosanna Lisa Siciliano e aveva trentasette anni. Il marito la pestava a sangue, già era capitato che il comandante della caserma dove vivevano l´avesse notata, tutta gonfia, piena di ematomi, e non avesse detto nulla, né fatto nulla per impedire che accadesse ancora. Rosanna Lisa aveva anche denunciato il marito ai suoi superiori, tre volte: suo fratello dice che il fatto di stare in una caserma le dava un senso di protezione. Ma la caserma è un posto da uomini: le divise sporche si lavano in famiglia.
Le bambine avevano cinque e dodici anni e dormivano nella stanza accanto, quando il sette febbraio di quest´anno lui è entrato in camera da letto e ha sparato alla moglie un colpo al petto. Poi si è ucciso, lasciandole sole.

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Antonia 43 anni
CONCITA DE GREGORIO
Che cos´aveva in tasca Carmine Buono, 55 anni, quando è arrivato all´appuntamento con lei? Ci vediamo in via Turati, ti devo parlare del bambino. Va bene, arrivo.
Antonia Bianco, 43 anni, tre figli, l´ultimo di 5. Aveva paura. Se proprio devi incontrarlo, mamma, meglio per strada e di giorno – le aveva detto il figlio maggiore. Lui alza subito le mani. Uno schiaffo, un pugno. Ma cos´era quel bagliore di un attimo? Antonia chiama il 113, “aiuto, mi picchia di nuovo”, poi scivola, si piega sulle ginocchia, muore.
Lui se ne va. Infarto, dice il referto di morte. Un medico annota, però: foro all´altezza dell´ascella sinistra. “Più piccolo di una moneta da due centesimi”.
Autopsia. Ecco, infatti: un “oggetto lungo e appuntito” le ha spaccato il cuore. Cosa nascondeva in tasca Carmine Buono? Un punteruolo da macellaio, forse. Un luccichio, un niente. Come una moneta da due centesimi che rotola sul marciapiede.

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Gabriella 49 anni
GIORGIO FALCO
Venerdì pomeriggio, quasi sera, a Napoli. Una coppia di coniugi cinquantenni viaggia a bordo di una vecchia Seat Ibiza, discute di soldi, sulla bretella di raccordo tra il Vomero e Pianura, a poca distanza da casa. I cartelli indicano autostrade e tangenziale, come se quel luogo possa essere ovunque. Altri cartelli suggeriscono mobilifici, negozi che acquistano oro e argento. È una zona di svincoli e sottopassi intermittenti, al tramonto fa buio prima che altrove. Quando c´è il sole e si passa da un tratto in piena luce a lì, bisogna modulare le palpebre, per abituarsi. L´uomo, un vigile urbano, si accosta al margine destro della strada, estrae la pistola d´ordinanza e uccide la donna sparandole in testa. Poi si spara alla tempia. I colleghi trovano i corpi nell´auto, ignorano il movente, applicano le procedure, come avrebbe fatto lui. Più tardi, rimossi i corpi, il carroattrezzi carica l´utilitaria, attraversa l´area illuminandola con le luci gialle.

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Francesca 45 anni
BENEDETTA TOBAGI
Qualche notte prima di essere uccisa, alle tre del mattino Francesca se l´era trovato ai piedi del letto, come un vampiro. Perché Mario, il suo ex marito, aveva ancora le chiavi di casa? «Se cambiavo la serratura mi avrebbe uccisa». Francesca era una maestra di 45 anni: una vita normale. Ma da mesi aveva paura. Mario beveva, la pedinava. “O mia o di nessun altro”, diceva (non “con me”, ma “mia”). Francesca aveva ottenuto a fatica la separazione consensuale. Era arrivata a stipulare una polizza sulla vita. Eppure, esitava a denunciare. Non voleva mandare Mario in galera. Perché no? Troppi timori o non abbastanza? Per i loro tre figli? Oppure, vedeva nel suo persecutore anche un bambino terribile da proteggere? (Perché tante conservano compassione per il vampiro, per Barbablù). Intanto, Mario si procurava una Beretta semiautomatica. E il 4 marzo, a Brescia, ha preso la sua pistola e ha ammazzato Francesca, Vito (il nuovo compagno), la figlia di primo letto Chiara (il frutto vivente di un altro amore: da distruggere) e il fidanzato di lei.

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Gabriella 51 anni
MARIAPIA VELADIANO
Del tradire. A Mozzecane, in terra di Verona, c´è una casa accudita e garbata. A Leopardi la via è dedicata, e sa di poesia. E´ il 4 marzo ed è domenica, la festa è santa e in chiesa sono stati, Giovanni Lucchese e Gabriella Falzoni, e anche il figlio ormai già grande. Stanno bene, come oggi si dice, e amano viaggiare. In Kenya, appena ieri.
Questo giorno si son parlati. A voce troppo alta, li hanno sentiti. Faida di parole, e non si son creduti. Lui ha paura così si dice, e sembra naturale. Di essere tradito. Perduto nel sospetto, ha frugato il suo telefono. E tradito, lui di certo, l´intimità di lei. C´erano parole, lui dice, forse senza storie, come oggi capita, perché la distanza rende audaci. O forse è proprio nulla. Ma non è questo. E´ che lui la uccide, con un foulard di lei. Cosa di donna. Ancora tradita, lei di certo. E´ la numero trentasei. Poi la ricompone. E va in prigione.
Capita di passare e anche di inciampare. Ma uccidere può capitare? Dura tanto far finire la vita. Quattro giorni e c´è un´altra festa. Della donna, dicono, ma non per lei. Né per noi.

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Tiziana 4o anni
MICHELA MURGIA
Tiziana Olivieri aveva 40 anni quando è morta e il suo convivente e assassino ne aveva 26. Se fosse stata un´attrice famosa, nelle pagine delle riviste di gossip quel convivente tanto più giovane sarebbe stato definito toy boy.
Ma Tiziana faceva i turni in fabbrica e quel giovane camionista era tutto fuorché un giocattolo per lei: due anni prima aveva creduto alle sue promesse d´amore e c´era andata a vivere insieme. Era arrivato anche un figlio, l´ultima scintilla di una fertilità matura, ma la vita comune si era rivelata più difficile del sogno, come capita a tanti.
Lui l´ha uccisa in cucina dopo una lite, strangolandola mentre il bambino dormiva. Ha dato fuoco alla casa per simulare un incendio e con i carabinieri ha finto freddamente di non essere riuscito a salvarla. Confesserà tutto e poi dirà che non voleva, perché nel femminicidio l´assassino non è mai l´uomo: è la sua passione.

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Vanessa 20 anni
ROBERTO SAVIANO
Sud. Vanessa Scialfa era una ragazzina e conviveva con il suo compagno, Francesco Lo Presti, 34 anni, 14 più di lei. Due gesti coraggiosi, al sud. Convivenza senza matrimonio, con un uomo molto più grande. Vanessa il 24 aprile viene strangolata con il cavo di un lettore dvd e asfissiata con un fazzoletto imbevuto di candeggina. Vanessa viene avvolta in un lenzuolo e gettata da un cavalcavia, in una scarpata. Vanessa sorrideva nelle foto che il papà ha messo su facebook per cercarla, quando ha scritto “fate in fretta non abbiamo tanto tempo”. Vanessa aveva pronunciato il nome del suo ex, in un momento di intimità.
Vanessa è stata uccisa da un uomo, Francesco, che ha detto di averlo fatto per gelosia e sotto effetto di cocaina. Per gelosia, ha detto, come dicono in tanti. Ma “la gelosia” non è la causa. La causa è il modo di stare al mondo di questi uomini. Considerano la donna un territorio da possedere, da occupare, e infine, da bonificare. Nessuno di questi tre verbi ha a che fare con l´amore.

La Repubblica 03.05.12

"Emergenza lavoro:è disoccupato il 36% dei giovani", di Massimo Franchi

Ogni mese un record. Negativo. Il tasso di disoccupazione in Italia continua ad aumentare. A marzo per la prima volta dal 1999 i disoccupati sono tornati a superare quota 2,5 milioni, raggiungendo il 9,8 % (più 0,2% rispetto a febbraio, più 1,7% nell’ultimo anno). Peggio di tutti stanno i giovani. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni è pari al 35,9%, in aumento di 2punti percentuali rispetto a febbraio. Come sottolinea l’Istat però, non è corretto sostenere che più di un giovane su tre è disoccupato. In realtà si tratta dei giovani attivi e cioè di coloro che cercano un lavoro, esclusi, ad esempio, tutti gli studenti: i disoccupati di età compresa tra i 15 e i 24 anni sono invece circa 600mila, il 10,3% della popolazione complessiva della stessa età. Il dramma comunque rimane tutto. Perché quella dei giovani attivi senza lavoro (la fascia d’età 18-24 anni) è quella che in un mese peggiora la propria situazione di ben due punti percentuali. Un dato dovuto certamente dal colpire incessante della crisi che ha portato nelle ultime settimane molti giovani che prima non cercavano lavoro (in gran parte proprio perché studiavano o facevano corsi di formazione) a buttarsi a capofitto nelle ricerca di un’occupazione. Qualunque sia. Accanto a loro, denuncia l’Istat, ci sono casalinghe, mamme che erano rimaste a casa dopo la gravidanza e che non riescono più a far fronte alle spese con un solo stipendio, ma anche maschi adulti e anziani. E così di fianco agli 88 mila posti di lavoro persi a marzo 2012 rispetto ad un anno prima, ci sono circa500mila persone che hanno iniziato solo quest’anno a cercare lavoro. E si tratta soprattutto di donne. Se in Italia le cose vanno malissimo, in Grecia e Spagna siamo al vero allarme sociale. Se nell’Eurozona la disoccupazione è al 10,9% con quasi 25milioni di senza-lavoro, registra Eurostat, in Spagna siamo al 24,1% e in Grecia al 21,7%. Tra gli under 25 in Spagna siamo oltre la metà (51,1%), quasi raggiunta la Grecia (51,2%, dato però di gennaio) mentre il Portogallo (36,1%) è poco sopra l’Italia. Intanto segnali preoccupanti arrivano dal ministero del Welfare che nel primo trimestre di quest’anno ha scovato 31.866 lavoratori irregolari di cui 10.527, ossia il 33%,totalmente in nero. In totale, sono state ispezionate 33.297 aziende e una su due è stata trovata in una situazione di irregolarità. Per 2.163 imprese è scattata la sospensione per l’utilizzo di personale in nero. I SINDACATI: È EMERGENZA Le reazioni dei sindacati sono allarmate. «È un dato drammatico, è per questo che non ci si può limitare a guardare questi dati e dire “era previsto”, come ho visto qualche ministro fare», attacca da Marghera il segretario generale Cgil Susanna Camusso. Per la Cgil poi «il dato reale della disoccupazione è ben più alto di quello formale e anche solo considerando una parte degli scoraggiati sale attorno al 13%, cioè ben più della media europea. Il raffronto con l’Europa è impietoso: l’aumento del25%dei disoccupati nell’ultimo anno è causato dai dati italiani». I giovani della Cgil denunciano «una intera generazione è stata tagliata fuori dal lavoro e si troverà a pagare il conto di una crisi sempre più dura. Serve subito un piano di investimenti». Temi che saranno al centro della giornata di mobilitazione del 10 maggio, dal titolo “Precarietà: l’unico taglio giusto”. Per il leader della Cisl Raffaele Bonanni «si sta creando una miscela esplosiva nel paese, tra aumento della disoccupazione, aumento delle tasse, blocco degli investimenti pubblici e privati». Per Guglielmo Loy, segretario confederale Uil, «l’aumento del tasso di disoccupazione, soprattutto dei giovani, conferma l’idea che per creare posti di lavoro è necessaria una ripresa economica». I dati «dovrebbero spingere il governo a rivedere la nuova formulazione dell’articolo 18 e l’entrata in vigore del nuovo sistema di ammortizzatori», sottolinea Giovanni Centrella (Ugl).

l’Unità 03.05.12

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“Disoccupati al 9,8% È l’ennesimo record”, di Sandra Riccio

Ancora record per il tasso di disoccupazione: a marzo l’indice italiano dei senza lavoro ha raggiunto il 9,8%, quota che l’Istat non aveva mai registrato da quando l’istituto di statistica ha iniziato a mettere in fila le serie storiche mensili, ovvero dal gennaio 2004. Volendo andare più indietro bisogna passare all’epoca delle rilevazioni trimestrali per scoprire che quello ufficializzato ieri è il dato più alto da dodici anni. Ancora una volta, in testa ci sono i giovani: tra gli under 25 la disoccupazione sfiora il 36%. Si tratta di un massimo assoluto, il tasso maggiore almeno dal 1992, scopre chi va a rovistare nell’archivio dei dati Istat. Per uscire dalle percentuali e passare ai valori assoluti, il numero degli italiani che risultano in cerca di un posto a marzo è schizzato a due milioni e mezzo: sono 66 mila più di quelli registrati a febbraio e 476 mila più di un anno fa (+23,4%).

Numeri che Giorgio Napolitano ha tenuto in primo piano nel discorso per il primo maggio: ha invitato le forze politiche a «cooperare» per chiudere la riforma del lavoro ricordando «il presente duro» che l’Italia del lavoro sta vivendo e le «drammatiche difficoltà di troppe famiglie ed imprese» stanno vivendo. Bisogna quindi trovare soluzioni, ricordando che «la realtà non è più quella di un decennio fa e non può essere affrontata arroccandosi sulle conquiste del passato». Bisogna muoversi, insomma.

Le cifre dell’Istat, d’altra parte, fotografano anche una forte accelerazione della disoccupazione: l’escalation iniziata dopo l’estate non accenna a fermarsi, e i balzi in avanti (dal 9,6% di febbraio al 9,8% si marzo) toccano soprattutto le fasce più giovani (passati, invece, dal 33,9% al 35,9%). Il numero di 15-24enni interessati è di 600 mila unità, si tratta quindi quasi di un disoccupato su quattro. La spinta alla disoccupazione non arriva tanto dal calo degli occupati, che resta contenuto grazie alla permanenza sul lavoro dei più anziani obbligati ad aspettare ancora per la pensione, quanto dalla riduzione degli inattivi (-427 mila in un anno), costretti dalla crisi a cercare un impiego. Cercano lavoro perché le loro famiglie non riescono più a far quadrare il bilancio di casa.

Bisogna poi tenere presente che accanto al mercato del lavoro ufficiale c’è quello del sommerso, che rappresenta una vasta area ancora nascosta. Nei primi tre mesi del 2012 gli ispettori del ministero del Lavoro hanno ispezionato 33.297 aziende riscontrando irregolarità in 16.665, ossia nella metà e arrivando a scovare 31.866 lavoratori irregolari, un terzo dei quali totalmente in nero. E anche a voler allargare l’orizzonte per includere l’intera Europa la musica non cambia: a marzo nella zona euro il tasso ha ragginto il 10,9%, mentre nell’intera Ue si è stabilizzato al 10,2%, anche in questo caso il livello più alto da marzo 2001. In tutta l’Ue a 27 si contano così 24,8 milioni di senza lavoro, 5,5 milioni dei quali hanno meno di 25 anni. Ieri s’è fatto sentire il portavoce del commissario Ue all’Occupazione, Lazslo Andor: «I nuovi dati sulla disoccupazione sottolineano ancora una volta la portata estremamente seria del problema». Preoccupa anche l’inaspettato rialzo registrato in Germania ad aprile.

Preoccupati i sindacati: secondo il leader della Cisl Raffaele Bonanni «si sta creando una miscela esplosiva»; per la Cgil «il dato reale è ben più alto di quello formale» (la segretaria Susanna Camusso con riferimento ai giovani parla di «dramma»). Sulla stessa linea anche la Uil.

La Stampa 03.05.12