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"Rivoluzione Invalsi: entrano più materie, via libera al computer. Valutazioni anche su discipline scientifiche e inglese", di Flavia Amabile

Aumentano le domande, le materie e i controlli. Il futuro dei test Invalsi è segnato, pazienza per chi non li ama: dal 2013 ce ne saranno sempre di più, hanno annunciato Paolo Sestito, commissario straordinario Invalsi e Roberto Ricci, responsabile del Servizio nazionale di valutazione. La svolta avverrà a partire dall’anno scolastico 2013-14 quando saranno introdotte altre materie oltre all’italiano e alla matematica: si sta pensando a prove anche nelle discipline scientifiche e in inglese, in questo caso proseguendo la sperimentazione già in corso sulla terza media che coinvolge oltre 2mila studenti. Si sta pensando di introdurre test anche nelle secondarie e in terza o quarta elementare.

Infine una parte dei test sarà svolta anche con l’uso del computer. All’inizio tutto questo sarà solo su un campione di scuole ma è chiaro che si punta ad estenderlo a tutti. L’uso del computer servirà per rendere più ricco il test, si potranno usare i test adattativi, che si modellano su chi partecipa, come ha spiegato Sestito. Ma servirà anche per rendere più rapida l’intera procedura di invio dei risultati da parte dei docenti e delle elaborazioni da parte degli esperti Invalsi. Saranno rafforzati i sistemi di controllo durante lo svolgimento delle prove, per evitare che i prof aiutino i propri studenti. E chi si rifiuterà di partecipare sarà segnalato al dirigente responsabile e agli uffici regionali.

Sembra invece per il momento ferma l’idea dell’ex ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini di un test Invalsi anche durante la maturità. Secondo i tecnici «sarebbe necessario» ma l’ultima parola spetta al ministro Profumo che finora non si è pronunciato.

Queste, quindi, le novità in arrivo nel futuro mentre dai sindacati giungono pesanti critiche alle prove diventate obbligatorie per legge a differenza degli anni scorsi. Molto critiche la Gilda e la Flc-Cgil che ha chiesto l’abolizione dei test Invalsi come prova conclusiva del primo ciclo.

A essere sottoposti ai test Invalsi quest’anno saranno oltre due milioni di ragazzi dalla primaria alle superiori. Il calendario prevede prove scritte in italiano e matematica il 9 e l’11 maggio alla primaria (classi II e V), il 10 maggio in I media, il 16 maggio in seconda superiore e il 18 giugno all’esame di terza media. Nessuna novità rispetto agli anni precedenti, tranne il fatto che si darà maggiore spazio agli elementi argomentativi per la matematica e alle competenze nella comprensione della lettura.

Quella di terza media sarà l’unica prova che peserà, per legge, sul volto finale degli studenti. Negli altri casi non c’è obbligo. Le scuole sono libere anche nella pubblicità dei risultati: alcuni li hanno già inseriti nella sezione «La scuola in chiaro» insieme con tutti gli altri dati sul loro istituto. Altri, invece, non li renderanno noti. Quanto all’Invalsi ha deciso di accelerare già da quest’anno la riconsegna dei dati e distribuirà un vademecum per gli insegnanti che avranno più informazioni: non solo i risultati dei ragazzi, ma anche dati sull’ambiente di provenienza delle classi e sulle differenze nei risultati. Il 20 luglio l’Invalsi diffonderà un rapporto con i principali risultati statistici.

La Stampa 03.05.12

Monti smaschera Pdl: «Crisi negata fino a ieri», da unita.it

«L’obiettivo dell’economia è quello di servire le persone, non il contrario». Lo dice l’economista Joseph Stiglitz alla presenza del premier Mario Monti, in un confronto pubblico con il premier. «L’austerità peggiora la situazione, ma esiste un’alternativa», dice Stiglitz. «Le misure sul lato dell’offerta, come le riforme strutturali, possono aggravare le condizioni della domanda aggregata», aggiunge.

E spiega: «Dopo la riforma del lavoro negli Stati Uniti la condizione del lavoro giovanile è peggiorata. Un mercato del lavoro flessibile- dice rivolto alla platea italiana- non risolve i vostri problemi. Le imprese non aumenteranno i posti di lavoro, a meno che non vi sia una domanda per i loro prodotti».

Del resto, lo stesso premier dice: «L’Europa sul piano della crescita non sta facendo molto bene». Ma una critica dura la rivolge anche al Pdl: «E’ importante convincerci che l’insufficiente crescita dell’Italia prima di tutto è esistita, quando è stata negata fino a poco tempo fa: ora l’abbiamo visto in faccia a nostre spese questo mostro della mancata crescita. Nel ’94 nacque un nuovo movimento politico, visto come portatore di molte istanze e fremiti, anche da parte mia», ha aggiunto riferendosi a Forza Italia: «Ma non fu portatore di un’ordinata cultura da schiacciasassi verso la programmazione delle liberalizzazioni e la rimozione dei vincoli corporativi».

Massimo D’Alema chiosa: «Dovremo inviare il suo discorso a Berlino». Quindi passando il ‘testimone’ al premier, D’Alema dice: «Professor Monti, quella di Stiglitz è un’agenda piuttosto impegnativa. Ascoltandolo io mi sono molto rincuorato, perchè ho pensato che la sinistra esiste ancora».

da www.unita.it

"Scuola malata, è ora di tornare a Barbiana", di Marco Rossi Doria

Dall’esperienza di don Milani a quelle delle troppe periferie d’oggi l’attenzione a chi ha più bisogno non si risolve soltanto in maggiore equità, ma indica vie innovative all’azione pedagogica. Eravamo nel pieno del boom economico e tutto sembrava finalmente andare per il meglio. Quando, nel 1967, uscì Lettera a una professoressa e arrivò in ogni angolo d’Italia il monito, severo e profetico, di don Milani: «la scuola ha un solo problema: i ragazzi che perde».

In quel libro c’erano i dati che mostravano che la classe sociale dei genitori determinava il successo o l’insuccesso scolastico, in larghissima misura. Quel monito ci sta ancora addosso. Perché è ancora oggi così. Sono i figli dei poveri a fallire a scuola. E sono tanti: il 20% del totale. Che tende a diventare il 30% e più nel Sud come nelle periferie del Centro e del Nord. Lo dicono i dati del ministero dell’Istruzione, quelli Istat, la Banca d’Italia, la relazione della Commissione indagine sulla povertà. Lo mostra, pezzo per pezzo, il bellissimo Atlante dell’infanzia a rischio , curato da Save the children ricordandoci che mentre nella maggior parte d’Europa il figlio di un genitore di medio reddito e istruito ha 2 o 3 volte più probabilità di completare l’intero ciclo di studi, da noi ha 7,7 più probabilità! Il più grande scandalo d’Italia.

Così, è passato quasi mezzo secolo. Ma resta questo il principale problema non solo della scuola ma dell’intera società italiana. Dobbiamo riuscire a dare di più a chi parte con meno nella vita e la scuola va ancora ben sostenuta perché non vi è altro luogo che possa essere leva precoce di emancipazione e riequilibrio sociale.

Per questo l’Unione Europea dal 2000 – la famosa agenda di Lisbona ci chiede di scendere sotto il 10% di fallimento formativo. E la questione è che noi non ci siamo ancora riusciti. Benché siamo ben consapevoli che il non riuscirci, oltre a essere una minaccia alla coesione sociale, ci priva di enormi risorse umane capaci di azioni positive, un fatto che condiziona la stessa crescita economica. Perciò: l’agenda politica, le scelte nella revisione delle spese e degli investimenti pubblici deve tenere conto innanzitutto di questa questione.

Ma più che i dati, come spesso accade, le vie da imboccare per riparare alle ingiustizie generali le descrivono bene i libri che parlano di gesti, di giorni, di vicende umane.

Nelle bellissime pagine di Insegnare al principe di Danimarca (Sellerio) la molto compianta Carla Melazzini racconta del lungo nostro lavoro con i ragazzi che avevano abbandonato la scuola a S. Giovanni a Teduccio, Barra, Quartieri Spagnoli, Soccavo, Ponticelli. È una scrittura sorvegliata, severa – come Carla era – che mostra, con fatica e poesia, il lavoro della scuola che sa andare verso chi ne è stato escluso. Lavoro di grande complessità artigianale, fatto a Napoli eppure simile a quello svolto da altri insegnanti e educatori a Torino, a Verona, a Palermo, a Reggio Emilia, a Milano. Il creare un luogo salvo, una zona franca, una chance. Dove curare – nel bel mezzo delle devastazioni – le ferite sociali ed emotive. Per restituire la guida adulta, la via dell’apprendimento, della motivazione, della cura di sé. Per ridare «la capacità di aspirare», come viene definita in un importante saggio di Arjun Appadurai ( Le aspirazioni nutrono la democrazia , Et al. Edizioni).

Sono pagine difficili quelle di Carla Melazzini. Perché chiedono di ritornare a pensare alle persone che crescono. Perché chiamano l’intero sistema d’istruzione e formazione a rimettere insieme i pezzi, a coniugare meglio il sapere e il saper fare. E a misurarsi molto di più con l’essere quotidiano di ciascun ragazzo. Com’era a Barbiana, dove nell’aula di sopra c’erano i libri, le figure geometriche e le mappe, nell’aula di sotto gli arnesi per costruire e manutenere oggetti e il laboratorio di esplorazione scientifica e in ogni momento la possibilità di fermarsi e «parlare di noi», di quel che sta succedendo e di come va, senza mai dimenticare che si sta lì per imparare.

Quattro anni prima dell’uscita di Lettera a una professoressa, Adele Corradi salì a Barbiana. Ora finalmente lo racconta nel libro Non so se don Lorenzo (Feltrinelli). Era il 29 settembre 1963. Oggi decide di lasciare indietro la sua riservatezza e ci riporta proprio lì. Con un avvertimento: «Non si racconta in questo libro la storia di don Milani…. Si parla di lui, ma non se ne racconta la storia. Chi la volesse conoscere dovrà rivolgersi altrove…. Qui sono messi a fuoco frammenti di vita, frammenti sparsi, affiorati alla memoria col disordine dei ricordi». Adele ricorda il giorno dell’inizio, domenica, S. Michele. Ma non ricorda che lezione avesse tenuto. Rammenta, però, che don Lorenzo, in modo per lui inconsueto, le disse: «Ritorni». E lei si è da allora sempre chiesta perché: «.. o gliel’ha suggerito lo Spirito Santo o io con la telepatia». Così, dopo qualche giorno ritornò. E partecipò alla prima vera lezione, un esercizio di scrittura collettiva. E di lì si va avanti nel racconto, scena dopo scena, con i gesti e il parlato riportati entro un interrogarsi profondo e semplice. Perché questo libro rimette ogni lettore nel ritmo e nella parola di quel luogo, nel suo senso quotidiano. E così Adele ci fa un regalo immenso: toglie il peso del mito a Barbiana. E finalmente restituisce quella scena alla magica imperfezione delle persone al lavoro, che tentano, che riparano, che si chiedono, che litigano, che non sanno e che comunque riescono.

Ritrovare l’occasione e il modo di fare bene scuola provando a capire il proprio tempo e il mondo è sempre possibile. E rimettersi in gioco è la chiave dell’educare. Come ci dice ancora Adele, oggi quasi novantenne: «Sono stata insegnante di lettere alle medie fino alla pensione a 67 anni. Devo confessare che ero un’insegnante identica alla destinataria di Lettera a una professoressa … L’incontro con la scuola di Barbiana ha scavato un solco nella mia vita. Mi sono vista come non mi ero mai vista. E non solo come insegnante, ma come persona».

Dunque, la vicenda di Barbiana e delle buone scuole delle nostre troppe periferie non è solo un’azione a sostegno dell’equità e a vantaggio di una società democratica. Ma permette trasformazioni. E ci dice la direzione da prendere per tutta la scuola. Perché l’azione pedagogica diretta a chi ha più bisogno spesso muta gli approcci profondi e sa indicare vie innovative. La necessità fa virtù. Perciò don Milani diceva: «Verrà un giorno in cui coloro che vogliono guarire le scuole malate dovranno salire a Barbiana».

È ora di ripartire da una scuola a tutto tondo, che integri studio, esperienza, riflessione ben organizzata sul mondo e sul sé. E che consenta di riportare anche tutta la meraviglia del sapere diffuso dai nuovi media entro l’azione composita e costante di un luogo accogliente e rigoroso. Un luogo salvo e innovato.

La Stampa 03.05.12

"Donne al centro del Paese, per fermare le violenze", di Francesca Izzo

L ’adesione all’appello contro il femminicidio è un ottimo segnale. Ma bisogna fare di più: portare le donne al centro del Paese. L ’accoglienza ampia e corale che sta ricevendo l’appello Mai più complici è di grande conforto. Migliaia di persone da tutta Italia e tante figure illustri della vita pubblica italiana hanno aderito. Particolarmente importante è la risposta che arriva dagli uomini che numerosi sottoscrivono un appello lanciato da donne ma essenzialmente rivolto a loro.
Un appello che li chiama in causa perché la violenza che si esercita contro le donne, sino alle incredibili cifre dei femminicidi, è cosa che li riguarda, che li interroga sulla difficoltà, se non rifiuto, che tanti, troppi giovani uomini mostrano ad accettare la libertà delle donne. Una incapacità, una inadeguatezza di misurarsi, di comprendere, anche di scontrarsi bandendo la violenza, con una donna che si sente e si pone come un soggetto consapevole di sé, desiderosa di essere signora del proprio destino.
Nello scarto tra una realtà femminile mutata e la permanenza di una mentalità che si aggrappa a fantasmi del passato, per trarre un surrogato di potere, si sprigiona la violenza, il ricorso all’arcaismo della forza bruta. È il segno di una fragilità che viene illusa e rafforzata da tante, troppe narrazioni che mostrano le donne come oggetti a disposizione del desiderio maschile.
Cambiare questo stato di cose richiede un lavoro di lunga lena e l’intervento di tutti, non sono sufficienti solo nuove leggi o inasprimenti delle pene. Bisogna agire su tanti fronti: dal governo al parlamento, dai media alla magistratura, alla polizia, alle agenzie educative laiche e religiose, al mondo dello sport per arrivare a colmare quello scarto tra una libertà femminile che si vuole affermare nel mondo e un mondo che resiste. Per vincere anche la vergogna e la paura che tanto spesso paralizzano la volontà delle donne vittime di violenza.
Noi di Se non ora quando? che abbiamo con altre promosso l’appello vogliamo, dalla nostra prospettiva di movimento organizzato di donne, contribuire a colmare quello iato. Vogliamo combattere la violenza che si scatena contro le donne non solo chiamando alla responsabilità civile l’opinione pubblica ma mettendo al centro della vita nazionale le donne. Mettere al centro dell’agenda di governo, per consentire alla società italiana di uscire dal cono d’ombra in cui si trova, le questioni che riguardano la loro drammatica mancanza di lavoro, la altrettanto drammatica difficoltà, per mancanza di servizi, di tenere assieme il lavoro, quando c’è, con la cura di bambini, anziani. Siamo consapevoli che è un’impresa gigantesca modificare l’asse su cui sinora si sono stabilite le compatibilità economiche, sociali e politiche e imporre come priorità il lavoro delle donne e un welfare post patriarcale. Solo le donne possono assumersi il carico e la responsabilità di spingere in questa direzione. Ma devono essere in condizioni di poterlo fare. Per questa ragione abbiamo detto, in ultimo in piazza l’11 dicembre dello scorso anno, che a governare e a fare le leggi siano donne e uomini alla pari.

l’Unità 03.05.12

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“Uomo uccide donna? Non fa notizia”, di Margherita Hack

È in atto un movimento di rivolta delle donne contro la violenza alle donne. Una volta si diceva che se un cane morde un uomo non fa notizia. Oggi gli omicidi di donne commessi dai loro partner sono così diffusi che si dovrebbe dire che se una donna viene uccisa dal suo partner non fa notizia.
Giorni fa scrivevo che l’introduzione dell’Imu al posto dell’Ici è una delle solite riforma all’italiana, in cui si cambia il nome ma non la sostanza. Ora ho capito che non è così: mentre l’Ici andava tutta ai Comuni, l’Imu, oltre ad essere più alta, per metà andrà allo Stato. Ma c’è dell’altro. Se è vero quanto si legge, un pensionato o una vedova che non possono più stare nella loro abitazione e decidano di andare in una casa di riposo, dovranno pagare l’Imu sulla casa vuota come se fosse una seconda casa. Spero solo sia una notizia sbagliata.
Ho letto che Enrico Bondi, risanatore di Montedison e Parmalat, è stato incaricato di un compito molto più difficile dei precedenti: ridurre i costi dei ministeri. Auguri.
Fra poco cominceranno gli Europei di calcio. Il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, ha detto che non assisterà alle partite in Ucraina se non sarà lasciata libera Iulia Timoshenko, l’ex premier in carcere da mesi. Anche Angela Merkel ha detto che è pronta a cancellare la sua partecipazione. Non sarà il caso che anche l’Italia dica qualcosa per il rispetto dei diritti umani?
Gli stipendi dei lavoratori italiani risultano i più bassi d’Europa. Però gli stipendi dei vip italiani risultano i più alti d’Europa. Ad esempio, Michele Valenzise, ambasciatore italiano a Berlino prende 240.000 euro l’anno, mentre Merkel, cancelliera tedesca, 108.000. Antonio Manganelli, capo della polizia, ne prende 620.000, il capo dell’Fbi degli Stati Uniti 116.000. Qualcosa che non va…

l’Unità 03.05.12

"Di chi sono le responsabilità" di Claudio Sardo

La scelta del governo dei tecnici di nominare altri tecnici per formulare piani di governo risponde più a una logica di propaganda che a uno stile di sobrietà. Ma c’è una cosa che suscita maggiore irritazione della scivolata del premier: la reazione scomposta e fraudolenta di Pdl e Lega. Che cercano di scaricare le proprie responsabilità nel disastro del Paese.
La spending review, cioè l’analisi sui costi delle pubbliche amministrazioni, era stata promossa nel 2007 dall’allora ministro Padoa Schioppa. Ma Tremonti, appena insediato in via XX settembre, bloccò i lavori della commissione Muraro e ne azzerò i risultati. La politica conseguente fu quella dei tagli lineari, che ha accompagnato e sospinto il declino dell’Italia. Il welfare locale è stato amputato in modo grossolano a danno dei ceti più deboli, il Paese non ha selezionato i settori nei quali investire e innovare, le corporazioni si sono rafforzate confidando che la ripresa promessa da Berlusconi avrebbe conservato lo status quo: l’esito è stato la deriva del Paese, che ha raggiunto il record della crescita più bassa del mondo nel primo decennio del 2000.
E ora cosa fanno questi signori che ci hanno portato alla soglia del baratro? Urlano, si sbracciano, raccontano favole, persino competono con Grillo inneggiando alla rivolta. Sì, perché usare certi toni da opposizione radicale quando si parla di Imu, o quando si chiede di compensare i debiti presso il fisco con i crediti nei confronti della Pubblica amministrazione, ha un solo significato: sottrarsi ad ogni responsabilità nazionale e solleticare gli istinti di ribellione fiscale. Come se il Pdl e la Lega non fossero stati al governo per otto anni negli ultimi dieci. Come se potessero di colpo cancellare le politiche inflitte al Paese, scaricando ogni errore sul governo e la maggioranza transitoria.
Basterebbe a Pdl e Lega che le colpe fossero distribuite in egual misura tra tutti. In fondo, la destra ha sempre fatto proprie le campagne antipolitiche. Quel che oggi dice Grillo, loro l’hanno già detto. E con quel populismo hanno pure governato l’Italia. Strizzando l’occhio agli evasori, e talvolta pure alla mafia. Bene ha fatto in questo caso il presidente del Consiglio a sottolineare l’insanabile contraddizione del centrodestra: ha tolto l’Ici dei ricchi, impoverendo le casse dei Comuni e dando un colpo mortale al federalismo, e ora vuole dare a intendere che non ha nulla a che fare con l’Imu (quando invece la tassa è stata istituita dal precedente governo); non disdegna allusioni eversive (come quelle sul pagamento delle tasse) allo scopo di recuperare disperatamente voti in fuga; dobbiamo persino sopportare che Tremonti faccia la morale al suo successore, denunciando buchi miliardari nei conti pubblici e scagliandosi contro le politiche restrittive dell’Ue (come se lui non avesse partecipato alla coalizione di centrodestra che ha guidato il continente in questo vicolo cieco senza sviluppo).
La transizione è difficile. Perché la tregua istituzionale convive con un conflitto politico e sociale. Ma la transizione ha senso se prepara un confronto vero tra alternative democratiche, non se viene usata per annullare la politica. C’è il rischio che si formi un’alleanza trasversale tra chi punta sui tecnici per delegittimare il cambiamento politico e chi invece gioca sul discredito di tutto e di tutti per cancellare le passate responsabilità oppure per la paura che vengano travolti gli equilibri e i privilegi del debole capitalismo italiano.
È per questo che il governo della transizione deve svolgere il suo compito senza deragliare, o ammiccare. I super commissari Bondi e Amato sono persone di valore, ma il loro mandato è almeno dubbio. Si può sostenere che della loro consulenza «gratuita» il governo dei tecnici possa soltanto giovarsi: di certo, conteranno i fatti ed è bene che si giudichino innanzitutto quelli. Tuttavia, il ministro Giarda era riuscito finalmente a completare la spending review, il ministero delle Attività produttive aveva già messo a punto una nuova strategia sugli incentivi alle imprese, in Parlamento sono sul tavolo tutte le proposte per ridurre i costi della politica, per rafforzare i controlli dei bilanci, soprattutto per archiviare il mostruoso Porcellum. Alla fine, quando bisognerà scegliere, non sarà un tecnico o un commissario a dire ciò che è vero, ma toccherà alla politica (governo compreso) assumersi le proprie responsabilità davanti agli italiani. C’è fin troppo scaricabarile dalle nostre parti. È ora di compiere scelte di cambiamento: anche se talvolta sono meno popolari che invitare i cittadini a segnalare «gli sprechi» sul sito di Palazzo Chigi. I cittadini hanno diritto di protestare e di porre le domande al potere nel modo più critico: ma chi ha ruoli istituzionali deve anzitutto dare risposte, non fare l’eco delle domande. Di Berlusconi, Bossi e loro imitatori non ne possiamo più.

l’Unità 03.05.12

"L´Europa siamo noi è il momento di ricostruirla", di Ulrich Beckdaniel Cohn-Bendit

Un Anno europeo di volontariato per tutti – per tassisti e teologi, per lavoratori e disoccupati, per manager e musicisti, per insegnanti e allievi, per scultori e sottocuochi, per giudici della corte suprema e cittadini anziani, per uomini e donne – come risposta alla crisi dell´euro!
I giovani d´Europa non sono mai stati così istruiti, eppure si sentono impotenti di fronte all´incombente bancarotta degli Stati-nazione e al declino terminale del mercato del lavoro.

Tra gli europei con meno di venticinque anni, uno su quattro è disoccupato. Nei tanti luoghi in cui hanno allestito campeggi e lanciato proteste pubbliche, i giovani defraudati dei loro diritti rivendicano giustizia sociale. Ovunque – la Spagna, il Portogallo, i paesi del Nordafrica, le città americane o Mosca – questa domanda sale con grande forza e grande fervore. Sta montando la rabbia per un sistema politico che salva banche mostruosamente indebitate, ma dilapida il futuro dei giovani. Ma quanta speranza può esserci per un´Europa che invecchia costantemente?
Il presidente americano John F. Kennedy sbalordì il mondo con la sua idea di fondare un Corpo della pace. «Non chiedetevi che cosa può fare per voi il vostro Paese, chiedetevi che cosa potete fare voi per il vostro Paese».
Noi che firmiamo questo manifesto vogliamo farci portavoce della società civile europea. Per questa ragione chiediamo alla Commissione europea e ai governi nazionali, al Parlamento europeo e ai Parlamenti nazionali, di creare un´Europa di cittadini con un impiego attivo e di fornire i requisiti finanziari e legali per l´Anno europeo di volontariato per tutti, come contro-modello all´Europa dall´alto, l´Europa delle élite e dei tecnocrati che ha prevalso finora e che si sente investita della responsabilità di forgiare il destino dei cittadini europei, contro la loro volontà se necessario. Perché è questa massima non dichiarata della politica comunitaria che sta minacciando di distruggere l´intero progetto europeo.
Lo scopo è quello di democratizzare le democrazie nazionali per ricostruire l´Europa nello spirito dello slogan kennediano: non chiedetevi che può fare per voi l´Europa, ma che cosa potete fare voi per l´Europa, facendo l´Europa!
Nessun pensatore progressista, da Jean-Jacques Rousseau a Jürgen Habermas, ha mai voluto una democrazia che consiste unicamente nel poter andare a votare a scadenze regolari. La crisi del debito che sta mandando in pezzi l´Europa non è semplicemente un problema economico, ma anche un problema politico. Abbiamo bisogno di una società civile europea e della visione delle giovani generazioni se vogliamo risolvere le scottanti questioni d´attualità. Non possiamo lasciare che l´Europa venga trasformata nel bersaglio di un «movimento arrabbiato» di cittadini che protestano contro un´Europa senza gli europei. L´Europa non può funzionare senza l´apporto di europei impegnati per la sua causa, e gli europei non possono fare l´Europa se non possono respirare l´aria della libertà.
L´azione pratica, che trascende i confini ristretti dello Stato-nazione, dell´etnia e della religione, che l´Anno europeo di volontariato per tutti vuole promuovere non dev´essere intesa come una foglia di fico istituzionalizzata per coprire i fallimenti europei. È una visione che vuole aprire spazio per la creatività. Non si tratta di un mezzo per distribuire elemosine ai giovani disoccupati, è un atto di auto-affermazione della società civile europea, un atto che può essere usato per costruire una nuova Costituzione propositiva, dal basso, per ripristinare la creatività politica e la legittimazione dell´Europa. La libertà politica non può sopravvivere in un´atmosfera di paura. Può prosperare e radicarsi solo se le persone hanno un tetto sulla testa e sanno come fare per vivere, domani e quando saranno vecchie. Ecco perché l´Anno europeo di volontariato per tutti ha bisogno di solide fondamenta finanziarie. Noi chiediamo alle imprese europee di dare il loro giusto contributo.
Se vuole costruire una cultura dal basso, l´Europa non può permettersi di ricadere in linee d´azione predefinite. I cittadini di questa Europa andranno in altri Paesi e si impegneranno su problemi transnazionali su cui gli Stati nazionali non sono più in grado di offrire soluzioni appropriate (il degrado ambientale, i cambiamenti climatici, i movimenti di massa di profughi e migranti e il radicalismo di destra). Sfrutteranno le reti europee di arte, letteratura e teatro come palcoscenici per promuovere la causa europea. Bisogna stipulare un nuovo contratto fra lo Stato, l´Unione Europea, le strutture politiche della società civile, il mercato, la previdenza sociale e la sostenibilità ambientale.
Che cosa c´è di buono nell´Europa? Qual è il valore dell´Europa per noi? Quale modello potrebbe e dovrebbe essere la base dell´Europa nel XXI secolo? Sono questioni aperte, che devono essere affrontate urgentemente. Per noi di We Are Europe la risposta è questa: l´Europa è un laboratorio di idee politiche e sociali senza equivalenti in nessun´altra parte del mondo. Ma che cos´è che costituisce l´identità europea? Potreste rispondere che l´europeità nasce dal dialogo e dal dissenso fra molte culture politiche diverse, quella del citoyen, quella del citizen, quella dello Staatsbürger, quella del burgermatschappij, quella del ciudadano, quella dell´obywatel. Ma l´Europa è anche l´ironia, è la capacità di ridere di se stessi. E il modo migliore per riempire l´Europa di vita e di risate è che i cittadini comuni europei agiscano insieme, spontaneamente.

Al manifesto – che verrà pubblicato su numerose testate europee tra le quali Die Zeit, Le Monde, El Pais, The Guardian – hanno aderito anche:
Jurij Andruchovyc, autore; Jerzy Baczynski, giornalista; Zygmunt Bauman, filosofo; Senta Berger, attrice; Patrice Chéreau, regista teatrale e cinematografico; Rudolf Chmel, esperto di letteratura ed ex ministro della Cultura della Repubblica Slovacca; Jacques Delors, ex presidente della Commissione europea; Gábor Demszky, ex sindaco di Budapest; Chris Dercon, direttore della Tate Modern di Londra; Doris Dörrie, cineasta e scrittrice; Tanja Dückers, autrice; Peter Eigen, fondatore di Transparency International; Ólafur Elíasson, artista; Péter Esterházy, autore; Joschka Fischer, ex ministro degli Esteri della Repubblica federale tedesca; Jürgen Flimm, direttore della Deutsche Oper Berlin; Anthony Giddens, politologo e sociologo; Alfred Grosser, pubblicista e politologo; Ulla Gudmundson, ambasciatrice svedese; Jürgen Habermas, filosofo; Dunya Hayali, giornalista; Michal Hvorecký, scrittore; Eva Illouz, sociologa; Mary Kaldor, politologa; Navid Kermani, studioso dell´islam e scrittore; Imre Kertész, premio Nobel per la letteratura; Rem Koolhaas, architetto; Kasper König; curatore e direttore del Museo Ludwig di Colonia; György Konrád, scrittore ed ex direttore dell´Accademia delle Arti di Berlino; Michael Krüger, scrittore ed editore; Adam Krzeminski, scrittore e giornalista; Wolf Lepenies, ex direttore del Wissenschaftszentrum Berlin; Constanza Macras, coreografa; Claudio Magris, scrittore; Sarat Maharaj, storico dell´arte e curatore; Olga Mannheimer, autrice; Petros Markaris, scrittore; Robert Menasse, scrittore; Adam Michnik, giornalista e caporedattore della Gazeta Wyborcza; Herta Müller, premio Nobel per la letteratura; Hans Ulrich Obrist, curatore e direttore della Serpentine Gallery di Londra; Thomas Ostermeier, direttore del teatro Schaubühne di Berlino; Petr Pithart, giornalista ed ex primo ministro della Repubblica Ceca; Martin Pollack, pubblicista e autore; Alec Popov, scrittore; Ilma Rakusa, scrittrice e traduttrice; Peter Ruzicka, compositore e direttore di festival; Joachim Sartorius, autore ed ex direttore del Berliner Festspiele; Saskia Sassen, sociologa; Hans-Joachim Schellnhuber, direttore dell´Istituto Potsdam per la ricerca sull´impatto climatico; Helmut Schmidt, ex cancelliere della Repubblica federale tedesca; Henning Schulte-Noelle, presidente del comitato direttivo dell´Allianz SE; Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo; Gesine Schwan, politologa; Richard Sennett, sociologo e scrittore; Martin M. Šimecka, scrittore e giornalista; Johan Simons, registra teatrale del Münchner Kammerspiele; Javier Solana, ex segretario generale della Nato e alto rappresentante dell´Unione Europea per la politica estera e di sicurezza comune; Michael Thoss, direttore dell´Allianz Kulturstiftung; Klaus Töpfer, membro fondatore dell´Iass (Istituto di studi avanzati sulla sostenibilità) ed ex direttore esecutivo dell´Unep (Programma delle Nazioni Unite per l´ambiente); Klaus Wagenbach, editore; Richard von Weizsäcker, ex presidente della Repubblica federale tedesca; Christina Weiss, ex ministro della Cultura della Repubblica federale tedesca; Wim Wenders, cineasta e fotografo; Bob Wilson, artista e regista teatrale; Michel Wieviorka, sociologo…

(Traduzione
di Fabio Galimberti)

La Repubblica 03.05.12

"I cardinali dell´economia e il cannocchiale di Galileo", di Barbara Spinelli

«Tutte le riforme strutturali che stiamo adottando, tutte le misure per sanare il deficit di bilancio, non producono di per sé crescita: sono, semmai, deflazionistiche. Perché se un paese diventa (grazie a esse) produttivo e competitivo, e manca però la domanda dei suoi prodotti, la crescita non si materializzerà». Lo ha detto giovedì scorso a Bruxelles Mario Monti, ed è un segnale forte che viene dall´Europa, un primo momento di verità e ripensamento da quando, due anni fa, cominciò la crisi greca.

È come se il cardinale Bellarmino, incaricato dalla Chiesa di condannare Galileo, guardasse infine nel cannocchiale fabbricato dall´eccentrico scienziato, e vedesse che la terra effettivamente si muove, non è il centro dell´universo. I custodi della verità rivelata non usano guardare il mondo. Nel Galileo di Brecht dicono: “Non è necessario sapere come cade un sasso, ma quel che in proposito ha detto Aristotele. Gli occhi, li abbiamo solo per leggere”.
Di questi tempi è l´Europa a muoversi, turbando i sacerdoti dell´ortodossia economica. Domenica si vota in Francia, Grecia, Italia, fra poco si voterà in Olanda, e non si può restare appesi all´antico dogma come se nulla fosse, ignorando l´evidenza empirica. Gli artefici del Patto di bilancio (fiscal compact) – fra essi il presidente del Consiglio italiano – lo sentono, e imparano a dubitare di se stessi. Forse durerà lo spazio d´un mattino, ma la realtà che vedono col cannocchiale è ben diversa dalla fede che li ha abitati tanto tempo. Non solo si è aperto un fossato fra discipline decise dai governi e aspettative dei popoli. Anche tecnicamente, discipline e sacrifici hanno senso a certe condizioni, che però mancano: senza domanda e investimenti pubblici, il Patto firmato a marzo da 25 governi non si limita a frenare la crescita. Crea addirittura deflazione, dunque ancor più disoccupazione.
François Hollande, candidato socialista all´Eliseo, lo sostiene da mesi. È stato perfino boicottato dai demiurghi del fiscal compact, se è vero quello che Spiegel scrisse in marzo: ben tre capi europei – Merkel, Monti, Cameron – tifarono per Sarkozy, rifiutando ogni incontro con Hollande. La Grecia è il laboratorio di questa nuova paura delle elezioni, dell´alternanza. Senza dirlo, la democrazia è vista come parte del problema, non come soluzione. Senza dirlo, ci si prepara a sacrificare Atene, per meglio convincere il popolo tedesco a proteggere Italia e Spagna dal collasso. La logica del capro espiatorio diverrebbe il nuovo cardine dell´Unione europea.
Ma è una logica fallimentare, e il ritorno della questione sociale costringe i capi d´Europa a svegliarsi, almeno un poco, dall´apatia dogmatica in cui per anni erano immersi, alla stregua d´un seicentesco Santo Uffizio. Per l´Uffizio ogni dubbio è sospetto, e solo parlare di investimento pubblico e di eurobond equivale all´eretico “periculum magnum” paventato dal cardinale Bellarmino. Anche su questo Monti ha detto cose nuove a Bruxelles. La spesa pubblica continua a essere bandita. L´aggettivo keynesiano resta un marchio negativo (come l´aggettivo “protestante” ai tempi di Galileo). Ma l´idea del premier non è così lontana dal rilancio keynesiano: «L´investimento pubblico non è necessariamente peggiore del consumo privato, per l´economia europea, anche se l´attuale quadro politico vede le cose in questo modo».
Scosse simili sono benefiche per l´Europa, e tante ancora ce ne vorrebbero. Sono scosse dell´evidenza, del realismo. Kant le chiamerebbe scosse dei Lumi. Cos´altro è infatti il «quadro politico» indicato da Monti, se non l´anti-sperimentalismo di una chiesa che antepone al reale la Dottrina? Al posto del popolo sovrano viene intronizzata un´autorità superiore, il mercato: l´unica verso cui i governi sono responsabili. La necessità non si abbina alla libertà, ma la sopprime. È significativo quel che ha detto Merkel, prima di correggersi: «Saranno i mercati, in quattro settimane, a riportare Hollande sulla retta via». La politica è inutile, le Costituzioni pure. Il Mercato è la Bibbia, e protegge il potere di chi lo onora.
È questo stravolgimento della democrazia europea che vacilla, e non solo perché la sinistra non ci sta, neanche in Germania. Ovunque, sono le destre estreme a combattere il rigore: a opporre il popolo alle élite, il paese reale al paese legale, la democrazia diretta a quella rappresentativa, la nazione che fa da sé all´Europa. Sono tutti slogan degli anni ´30, e se il “quadro politico” rimane quello che è, se l´euro si sfascia, è quell´epoca che ritorna, quando la deflazione precipitò i popoli nella disperazione sociale, poi nelle dittature e nelle guerre. La pressione di Monti sulla Merkel, perché il fiscal compact non sia più solo un patto disciplinare, è frutto di questa consapevolezza. Alla lunga, il rigore tedesco è rigor mortis.
I tecnici stessi rischiano di divenire parte del problema, se non intuiscono che urge fare presto l´Europa politica, e affiancare ai fatui Stati-nazione un potere federale, simile a quello sorto in America contro l´idea d´una Confederazione di governi sovrani. Quando a comandare è un tecnico, il popolo si coalizza contro élite e partiti. È quando pacificamente si divide che la democrazia rinasce.
Anche l´unità del popolo può divenire un dogma. Il popolo si ricompatta in guerra. Si «fa grumo», dice Alberto Savinio. Se è democratico ha bisogno vitale di dividersi, lungo linee che mutano col tempo. Oggi la linea divisoria è tra chi vuole l´Europa politica e chi la rifiuta (ma non è stato sempre così, da quando De Gasperi difendeva la Federazione contro la Confederazione?). Ed è, nelle singole nazioni, tra chi cavalca le rivolte del popolo ricompattato e chi si rifiuta di farlo. La rabbia di Monti contro chi appoggia le rivolte fiscali pur sostenendo i tecnici è più che giustificata.
In questo terremoto barcollano in primis le destre classiche, conservatrici o liberali. Lo si vede in Francia, Grecia, Olanda: ovunque le destre estremiste conducono le danze, chiedendo l´uscita dall´euro. Davanti a loro si inginocchiano, tremebondi, ricattati, il presidente Sarkozy, l´olandese Rutte, il leader della destra greca Samaras. Quanto alle sinistre, si tratta di reinventare un riformismo che non scommetta tutto sulle superiori ragioni del mercato. È in pezzi la Terza Via, che Schröder riassunse così: «Non esiste una politica economica di destra o sinistra. Esiste una politica economica buona o cattiva». Ma buona o cattiva come? Per l´insieme della società o per pochi? Oggi i populismi antieuropei s´appropriano dello slogan: «C´è solo una politica giusta o cattiva, e giusto è il nazionalismo, è l´uscita dall´Unione».
Lo scontro non è necessariamente quello cui pensano Monti e la Merkel, nel patto d´alleanza descritto da Francesco Bei su Repubblica: non è tra keynesiani e non keynesiani. È fra una crescita che presuppone l´Europa politica, e la falsa crescita garantita da nazionalismi e xenofobie. Hollande non fa parte della seconda linea. Ma le nuove destre sì, e anche i movimenti che non sono di destra, come quello di Grillo. Gli elettori del Movimento 5 Stelle forse lo sanno, anche quando non l´ammettono: la fine dell´euro, i diritti di cittadinanza negati agli immigrati, sono parole d´ordine dell´estrema destra europea.
L´Europa non deve diventare, nella mente dei suoi cittadini, l´alter ego dei mercati: forza anonima che ci governa, spazio globale sul quale non abbiamo influenza e che ha un´unica politica, sacralizzata. È ora che l´Unione si veda attribuite le caratteristiche del sovrano democratico, e sappia dire la sua sull´economia, la giustizia sociale, la politica estera, scegliendo tra varie opzioni e non esaltandone una soltanto. È questa la terra promessa che i padri dell´Europa hanno indicato, per uscire dai nazionalismi, dalle loro guerre, dalle loro menzogne, dalle loro ideologie del grumo.

La Repubblica 03.05.12