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"I lividi di Bruxelles", di Andrea Bonanni

I lividisul corpo di Yulia Tymoshenko forse guariranno col tempo. Ma i lividi che il caso Tymoshenko ha inferto alla malconcia credibilità della politica estera europea saranno più duri da assorbire. Raramente l’Europa era riuscita a dare un’immagine di così totale mancanza di coordinamento e di così risibile inadeguatezza di fronte ad un problema di politica estera sul quale, per di più, l’analisi di tutte le capitali sostanzialmente coincide. Domenica scorsa la cancelliera Angela Merkel ha annunciato che non assisterà alle partite degli europei di calcio che si disputeranno in Ucraina fino a che il caso Tymoshenko – con l’ex premier detenuta in prigione – non sarà risolto e lo stato di diritto non sarà ripristinato nel Paese.

Immediatamente, ieri, il presidente della Commissione, Barroso, ha fatto sapere che pure lui non andrà allo stadio.

Altrettanto immediatamente la Polonia, che con l’Ucraina ospita gli europei di calcio, ha criticato la decisione dicendo che «non bisogna legare le due questioni». Il ministro degli esteri italiano Terzi riconosce che «tra i grandi Paesi europei ci sono esitazioni a utilizzare l’arma del boicottaggio su eventi sportivi, perchéi precedenti che si ricordano sono precedenti pesanti».

Ma la cacofonia non si limita ai mondiali. I presidenti della Repubblica di Italia, Germania, Austria, Repubblica ceca e Slovenia hanno fatto sapere che non parteciperanno ad un vertice dei Paesi dell’Europa centro-orientale che gli ucraini hanno organizzato a Yalta per l’11 e 12 maggio (Napolitano aveva declinato l’invito ancora prima che scoppiasse il caso Tymoshenko). Ma, a quanto pare, altri leader europei, tra cui il polacco e lo slovacco, sono ben decisi a confermare il viaggio. Ora, questa totale mancanza di coordinamento sarebbe grave ma comunque comprensibile se sulla questione ucraina ci fossero radicali divergenze di vedute. Invece no.

Le diplomazie della Ue sono unanimi nel condannare il trattamento riservato alla Tymoshenko e nel criticare il governo filo-russo di Viktor Yanukovich. Era allora così difficile per la Cancelleria di Berlino, tanto prodiga di contatti nel seguire le politiche di bilancio dei partner europei, alzare il telefono e consultare gli altri governi prima di annunciare il boicottaggio dei giochi?E ci voleva davvero un colpo di genio perché l'”alto” rappresentante della politica estera europea, Catherine Ashton, mettesse in relazione il caso Tymoshenko e i campionati di calcio da disputarsi in Ucraina, chiedendo ai ministri degli esteri di adottare una posizione comune? La decisione di un capo di governo di disertare una partita di calcio per ragioni politiche è una mossa molto debole e molto forte allo stesso tempo. È debole perché non coinvolge formalmente la posizione del Paese che il leader rappresenta; non impedisce alla sua squadra nazionale di partecipare al torneo; non incide sulle relazioni diplomatiche; non equivale neppure, in termini formali, alla cancellazione di una visita ufficiale. È però anche molto forte perché sceglie per esprimersi un veicolo molto popolare; coinvolge in una decisione politica un mondo per definizione apolitico come quello dello sport; offre una enorme visibilità alle ragioni del proprio gesto e soprattutto attribuisce automaticamente un valore politico alla presenza o all’assenza degli altri leader.

Proprio per questi motivi Angela Merkel non aveva il diritto di decidere, in splendido isolamento, una mossa di questo genere mettendoi suoi colleghi di fronte al fatto compiuto. Ora appare difficile immaginare che un altro capo di governo europeo possa decidere di assistere alle partite senza passare per complice morale dei maltrattamenti inflitti alla Tymoshenko. La Germania, già tanto influente in Europa, non ha bisogno di ricorrerea questi espedienti per affermare la propria leadership. La decisione se coinvolgere lo sport in questa disputa è opinabile, e la stessa Tymoshenko fa sapere di essere contraria al boicottaggio dei giochi. Ma sarebbe comunque una decisione più che legittima, qualora venisse presa in modo collettivo. In queste condizioni, invece, si trasforma nel primo, clamoroso autogol dei prossimi Europei.

La Repubblica 01.05.12

"Femminicidio, firma anche la Montalcini. Nuova vittima a Palermo", di Vincenzo Ricciarelli

Un omicidio su quattro uccide una donna, per non parlare di tutte le altre violenze che vengono commesse quotidianamente. È il caso di Vanessa, appena uccisa a Enna da un fidanzato pazzo di gelosia, ieri la sua autopsia che ha escluso cocaina o altre sostanze
stupefacenti. E ieri un altro delitto contro una donna. Antonietta Giarrusso, di 65 anni, titolare di una fabbrica di parrucche, è stata assassinata nel suo negozio in via Dante, nel centro di Palermo. La vittima è stata trovata con un paio di forbici conficcate nella gola. Sono in corso indagini per cercare di ricostruire la dinamica del delitto.Una rapina fallita per la pronta reazione della vittima è l’ipotesi investigativa prevalente
per la sua morte. Ma gli investigatori stanno esaminando con attenzione alcuni dettagli che potrebbero portare a una diversa soluzione. Nella cassa del negozio di via Dante la polizia ha trovato quasi mille euro in contanti. Nessun segno di un’eventuale ricerca di denaro. Non si può escludere comunque che l’assassino,
dopo avere aggredito la donna colpendola con una forbice e un coltello, sia fuggito senza perdere tempo nel timore di essere scoperto. Ha lasciato la forbice conficcata nella gola della vittima e ha portato via il manico del coltello che si era spezzato. Porta forzata. Per ritardare la scoperta del delitto l’aggressore ha chiuso la porta del negozio portando via la chiave. Antonietta Giarrusso era stata vista per l’ultima volta alle 11,30 dall’ex portiere dello stabile vicino. «Era una persona perbene, conosciuta e stimata da tutti», ha detto. Secondo il medico legale la morte risalirebbe proprio a quell’ora. Dopo aver compiuto il delitto, l’assassino è fuggito senza rubare nulla: il denaro che era presente nel negozio è stato tutto ritrovato. Machi ha ucciso ha anche adottato una cautela per ritarda la scoperta del cadavere: ha chiuso il negozio e ha portato con sè la chiava. Quando il secondo marito della donna, un uomo di 90 anni, si è recato sul posto non vedendo rientrare la moglie ha trovato la porta chiusa e ha chiamato un fabbro per aprirla. Il corpo giaceva sul retro del negozio. Confermato che le armi del delitto sono due: un coltello, la cui lama si è spezzata nelle carni delle vittima, e un paio di forbici che l’assassino ha lasciato conficcate nella gola della donna. La polizia sta interrogando i commercianti dei negozi vicini. Adesione illustre. Intanto per la
campagna di sensibilizzazione a cui
ha aderito anche questo giornale, un’adesione illustre, quella di Rita Levi Montalcini: «Aderisco con piacere e anche con grande dispiacere, e firmo convintamente». Questa la sua adesione all’appello di «Se non ora quando? Mai più complici», contro la violenza sulle donne. Accanto al suo nome- riferiscono i promotori dell’appello – anche Franca Zambonini di Famiglia Cristiana, Michele Salvati, direttore del Mulino e Chiara Saraceno, sociologa. Ha aderito anche Mara Carfagna, deputato Pdl ed ex ministro per le Pari opportunità: «L’attenzione è la prima risposta ai casi di violenza contro le donne. Attenzione che deve
essere accompagnata dalla certezza della pena per i colpevoli e a misure di sostegno e di accoglienza per le vittime. Per questa ragione riunire migliaia di persone, donne e uomini, attorno ad un solo scopo é certamente importante». Per la morte di Vanessa Scialfa, intanto, un’iniziativa dal valore simbolico. Le scarpe della donne uccise dal 2008 al 2010 per non dimenticare la ventenne uccisa a Enna martedì scorso dal fidanzato. Trecentosessanta paia di scarpe per «dire no al femminicidio
e alla violenza sulle donne». L’installazione, a cura del centro antiviolenza “Sandra Crescimanno” di Piazza Armerina (Enna) sarà allestita sabato in piazza Vittorio Emanuele. E sempre il 5 maggio, a cura di un gruppo di associazioni cittadine, si terrà una fiaccolata che percorrerà le vie del centro. Nel giorno dei funerali della ragazza, il Comune ha affisso un manifesto che esprime «dolore e sgomento per la tragica fine
della giovane Vanessa, ultima vittimainnocente di quella violenza alle donne che, a volte, si verifica nella preoccupante indifferenza e distrazione dei tanti». Nel manifesto il sindaco Paolo Garofalo invita ogni donna che subisce violenza a denunciare
il reato per garantire la libertà e l’integrità di ogni cittadino.

l’Unità 01.05.12

"Struttura centrale più snella. Rivisti distacchi e comandi", da corriere.it

La scuola ha già stretto la cinghia e ora i tecnici del ministro Francesco Profumo si trovano a «raschiare il barile». La scuola ha già stretto la cinghia e ora i tecnici del ministro Francesco Profumo si trovano a «raschiare il barile» anche per quel che riguarda gli affitti degli uffici centrali del Miur. In particolare, le strutture romane dell’amministrazione del ministero costano ogni anno circa 12 milioni di euro: all’Eur, per esempio, i 400 dipendenti che si occupano della gestione delle università hanno a disposizione uffici per 40 mila metri quadrati (100 a testa). La razionalizzazione, dunque, partirà «dallo snellimento della struttura centrale: attraverso l’utilizzo dei sistemi informatici, la riduzione dal 2014 del 50% di spese per fitti passivi e gestione degli immobili (già dal 2013 riduzione del 10%); riduzione degli organici dirigenziali e la riconversione profili». Inoltre, il governo Monti intende procedere a una «riorganizzazione della struttura territoriale con riduzione delle articolazioni provinciali e trasferimento funzioni». Infine, in consiglio dei ministri è stata presa in considerazione anche «la razionalizzazione di distacchi e comandi del personale» nell’ottica di «riequilibrio della rete scolastica regionale e della proporzione tra docenti e classi di alunni».

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Soppressi gli ex-Provveditorati agli studi?

Si ipotizza infatti che gli uffici periferici dello Stato possano essere accorpati in un’unica sede presso l’Utg, ufficio territoriale di governo, riunendo in questo modo gli uffici periferici dell’Interno, della Salute, dei Beni Culturali e dell’Istruzione. Oggi pomeriggio, dunque, il Consiglio dei Ministri esaminerà il piano di spending review predisposto dal ministro per i rapporti con il Parlamento Piero Giarda per ridurre di almeno 4 miliardi la spesa pubblica.

L’obiettivo è quello di realizzare risparmi per evitare il previsto rialzo dell’Iva dal prossimo ottobre, deciso a suo tempo dal governo Berlusconi.

Si parla con insistenza di riduzione della spesa anche per l’istruzione. Dove? come?

La scuola potrebbe essere soltanto sfiorata da questo intervento di razionalizzazione, ma non si salverebbero, invece, gli uffici periferici dell’Amministrazione.

Si ipotizza infatti che gli uffici periferici dello Stato possano essere accorpati in un’unica sede presso l’Utg, ufficio territoriale di governo, riunendo in questo modo gli uffici periferici dell’Interno, della Salute, dei Beni Culturali e dell’Istruzione.

In questo caso, verrebbero accorpati anche gli ex-Provveditorati agli studi, ora Uffici scolastici territoriali.

da TUttoscuola 01.05.12

"La lezione degli studenti", di Francesco Erbani

PISA «Fu il mio primo atto di antifascismo. Inconsapevole, ma riuscito». Armando Petrucci, paleografo, maestro per generazioni di studiosi della scrittura e della lettura antica, siede sul divanetto del salotto. Si ragiona da tempo di cosa accadrà al libro, e allora perché non chiedere lumi a chi ha trafficato con pergamene e manoscrittie ha raccontato l’uso sociale dello scrivere e del leggere almeno dal V secolo avanti Cristo fino all’invenzione della stampa (e anche oltre)? Ma c’è un altro motivo per raccogliere la testimonianza di un anziano professore, un antibarone che ha insegnato a Chicago e a Stanford, a Parigi, a Roma e alla Normale di Pisa e che fra i suoi studenti era leggendario per la quantità di sapere che trasmetteva e per il garbo con cui lo trasmetteva: il primo maggio compie ottant’anni. E che cosa c’entra l’antifascismo? «La festa del lavoro era stata abolita dal regime. Ma quel giorno a casa mia si festeggiò». Petrucci non si è fermato alle scritture antiche. Ha studiato la scrittura di Gramsci e di Moro e l’ultimo suo libro è una storia dello scriver lettere, dal III millennio avanti Cristo fino ai pizzini di Provenzano. «La scritturaa mano fornisce indicazioni sulle società cui appartengono gli scriventi. Ora mi sto occupando del corsivo.

Perché si è cominciato a scrivere legando fra loro le lettere?» Me lo dica lei.

«Si guadagna tempo, è il segno di una società più frettolosa. Molti scrivono, il rapporto fra gli scriventi è intenso e si cerca di fare prima possibile. È un fenomeno iniziato con la scrittura latina del V secolo avanti Cristo».

Con l’avvento della stampa cambia tutto nella scrittura? «Cambia molto. Ma la gente continua a scrivere a mano, anzi più di prima, perché si sviluppa una lettura di massa e questo alimenta la scrittura. Più si diffondono i libri, più si impara a leggere, più si scrive. Ho studiato la scrittura di Petrarca e di Ungaretti. Ma i poeti c’entrano poco con la trasformazione della scrittura. I cambiamenti avvengono dal basso e poi si trasferiscono in modelli». I nostri anni somigliano a quelli in cui fu inventata la stampa? «In qualche modo sì. Ma la stampa agiva trasformando la scrittura a mano. Oggi la cultura informatica parte già da una scrittura meccanica. Noi al computer riproduciamo forme grafiche modellate da altri. Però, al di là delle forme grafiche, essendo la scrittura trasmissione del pensiero, scrittura e lettura non finiscono con l’ebook. Anche se io non leggo ebook».

Lei ha raccontato la rilevanza nei secoli della forma fisica di un libro. Funzione sintetico-figurale, ideologica, magico-evocativa, estetica: sono sue definizioni.

Il libro era un oggetto dotato di significati in sé.

«Tutto questo è finito da secoli.

Non è vero invece, come molti sostengono, che l’informatica abbia dissolto la scrittura a mano.

Che invece resiste come attività individuale, sia nell’imparare, sia nello scrivere vero e proprio. Come attività collettiva è diminuita.

Ma l’idea che tutto sia determinato dall’informatica non è statistiFOTO:GETTY camente corretta. In Italia meno del 50 per cento della popolazione usa abitualmente il computer.

L’altra metà, se sa scrivere, quando scrive, scrive a mano. E poi ci sono intere regioni del mondo, le più povere, che sono appena sfiorate dalla rivoluzione informatica». Che cosa si scrive a mano? «Non certo lettere. È una storia che appartiene solo al passato. Le email sono evanescenti e non avremo più grandi epistolari come quello di Petrarca o di Thomas Mann. Ma chi usa il computer abitualmente scrive appunti. E poi si scrive sui muri molto più di prima». Lei scrive molto a mano? «Io scrivo soloa mano. Ho scritto a macchina, ma la macchina da scrivere è lo strumento di scrittura durato di meno in assoluto. Ho usato anche il computer. Ora mi faccio aiutare da mia moglie. Ma nelle scuole la scrittura a mano sopravvive inalterata».

E il futuro? «La facoltà e il bisogno di comunicare non possono scomparire. Non so rispondere a domande sul futuro. Per tutta la vita ho fatto lo storico, ho insegnato e il mio era un mondo di carte scritte a mano. Sono stato archivistae bibliotecario. Una cosa, però, penso accadrà: la rivoluzione informatica si diffonderà, ma lascerà fuori una porzione di mondo proporzionalmente superiore a quella lasciata fuori dall’avvento della stampa».

Lei ha insegnato a Roma, poi l’hanno chiamata alla Normale.

«Edè stato un errore accettare».

Un errore? È la più prestigiosa università italiana…

«È un ambiente aperto prevalentemente agli ex normalisti. Io non ero un ex normalista».

Però la qualità della didatticaè fuori discussione.

«Certo, si poteva e si può avere un rapporto profondamente diretto con gli studenti, altrove inimmaginabile. A Roma avevo ogni anno una sessantina di studenti, a Pisa molti di meno e di altissima qualità, selezionati severamente». E allora dov’era il problema? «Si respirava una certa aria di clausura. Un ex normalista rimane ex normalista per sempre e quando torna alla Normale da professore adotta i metodi di insegnamento tradizionali che finiscono per essere condizionanti.

Ma, ripeto, il valore degli studenti è elevatissimo. E fa capire quanto insegnare serva a imparare e imparare prepari a insegnare».

Mi spiega meglio? «Alla mia prima lezione a Pisa – era il 1991 – portai una lettera trecentesca di cui nessuno, tantomeno io, era riuscito a leggere la firma. Un ragazzo, adesso professore universitario, la guardò ed esclamò: “Ma questo è Gucciozzo de’ Ricci”. Quarant’anni di paleografia mi sono rovinati addosso».

E questo non bastò a disporla bene nei confronti della Normale? «I ragazzi erano eccellenti, volenterosi e disponibili. Ma la Normale soffre per un gusto dell’autosufficienza, anzi dell’auto-eccezionalità». Quindi l’università di massa ha i suoi vantaggi? «Sì, ma bisogna governare la massa. L’università deve essere gestita con un senso di responsabilità paragonabile alla sua enorme funzione sociale. Per intenderci: i miei colleghi non si devono spaventare se entrano in un’aula con un centinaio di studenti seduti e una cinquantina aggrappati alle finestre. Si deve trasmettere passione, anche se si insegna una materia barbosa come la paleografia. Si apprende mentre si insegna, i miei studenti mi hanno insegnato tantissimo. A parte Gucciozzo de’ Ricci».

Lei li affascinava pur parlando di papiri, di pergameneo dell’onciale, la scrittura dei codici miniati. «Io cercavo di raccontare chi scrive e perché scrive. Ricostruivo un ambiente storico e culturale.

Ma gli studenti mi hanno insegnato a riflettere con le loro domande, mi hanno suggerito metodi di indagine. Ha presente la foto di Gino Bartali e Fausto Coppi che si passano la borraccia?».

Certo.

«Era durante una tappa del Tour, mi pare nel 1949. Nessuno ha mai capito chi sporgesse la borraccia a chi. Ecco questo è l’insegnamento: io passavo la borraccia, perché ero tenuto a farlo, loro me l’hanno ripassata altrettante volte. Ma quello che ho ricevuto mi sembra di più».

La Repubblica 01.05.12

Franceschini «I ricavi della lotta all’evasione vadano a chi è senza reddito», di Maria Zegarelli

Dobbiamo cambiare prospettiva: è dalle fasce sociali più basse, i poveri, che bisogna partire. Questo è un Paese dove la povertà assoluta è in aumento, quindi primadi aiutare gli italiani con i redditi più bassi dobbiamo aiutare quelli che i redditi non li hanno affatto». E sulla spending review avverte: scuola e spesa sociale non possono subire ulteriori tagli. «Questo è il momento di fare delle scelte», aggiunge. Franceschini, mentre parliamo il ministro Giarda sta per illustrare la spending review per evitare l’aumento dell’Iva. Secondo alcuni è un pannicello caldo.
«È giusto che il governo affronti questo problema. Noi abbiamo sempre contrastrato la linea dei tagli lineari di Berlusconi e Tremonti che colpiva indiscriminatamente cose utili e cose inutili. Quella è stata una fase di sconfitta della politica perché in alcuni momenti c’è bisogno di scegliere, di dire “qui si taglia, qui non si tocca un euro”». Eppure Tremonti è tornato a difendere i tagli lineari. Dice anche che i veri risultati si ottengon otagliand ostipendi, salari, diritti dei cittadini…
«Vuole drammatizzare la situazione. È evidente che in Italia ci sono degli sprechi,ma non si può tagliare sulla scuola, dove invece si deve investire. Né si può pensare, in un momento come questo, di tagliare la spesa sociale. Noi preferiamo aspettare di vedere nel dettaglio la spending review e poi avanzare le nostre proposte anziché fare critiche a priori».
L’obiettivo è quello di “sterilizzare” l’aumento di due punti di Iva per contrastare la recessione. Sarà sufficiente?
«È un primo passo importante ma adesso è il momento di stabilire delle gerarchie dei bisogni e dei problemi, questo è il compito della politica. Per uscire dalla crisi intanto bisogna ripartire dall’edilizia che ha sempre creato posti di lavoro. Da tempo diciamo al governo che è fondamentale estinguere il debito dello Stato verso le imprese: è immorale questo blocco dei pagamenti verso chi ha fornito servizi e opere allo Stato.
Inoltre va allentato, almeno in parte, il Patto di stabilità che impedisce ai Comuni, pur avendo i soldi in cassa, di avviare tutta una serie di opere in grado di rimettere in moto il mercato del lavoro e quindi anche l’economia. Altro dato: l’aumento degli introiti derivanti dalla lotta all’evasione. È un fatto molto positivo, meritorio e progressista del governo Monti, ma quei soldi vanno destinati a chi è senza reddito prima di ridurre l’aliquota dei redditi bassi. Si devono prevedere ammortizzatori sociali, per i disoccupati senza cassa integrazione e sostegni per
quei quasi 4 milioni di italiani che vivono nella povertà assoluta. Oltretutto quei soldi non andrebbero a finire in banca ma in consumi e quindi rientrerebbero in parte il giorno dopo in termini di Iva». Intanto il consenso verso il governo cala e c’è chi parla di elezioni anticipate, anche se tutti smentiscono di volerle. Il Pdl dice che siete voi del Pd a volere andare alle urne.
«Il Pd non ha alcuna intenzione di andare al voto prima del 2013.
Non so il Pdl cosa voglia fare davvero, ma il mandato che il Parlamento ha affidato a Monti èdi arrivare a fine legislatura».
Pd e Pdl vivono un periodo di “tregua” ma i sospetti reciproci restano. Lei ha detto: se entro maggio non si va alla prima lettura delle riforme costituzionali non se ne farà nulla.Teme che il Pdl voglia prendere tempo?
«La mia è una constatazione: per fare una riforma costituzionale ci
sono tempi precisi, quindi o la si approva in prima lettura a maggio oppure salta. Adesso aspetto di vedere cosa succede, è una corsa contro il tempo,ma continuo a temere che il percorso che vuole il Pdl porti a non fare le riforme costituzionale e neanche la legge elettorale. Non ce lo possiamo permettere e vorrei evitare il rischio che qualcuno cerchi di far saltare tutto e poi dire che è colpa di tutti».
Tutto sommato a Berlusconi converrebbe votare con il Porcellum.
«È quello che temo. Mi rendo conto che per il Pdl sarebbe conveniente, potrebbero nominare i parlamentari e la Lega sarebbe obbligata ad allearsi con loro. Ma sarebbe un enorme errore che gli elettori farebbero pagare caro. Noi dobbiamo renderci conto che il problema oggi non è il calo del consenso a Monti perché girando per il Paese quello che viene fuori è che le persone si rendono conto della grave crisi economica e della necessità di interventi anche pesanti. Il vero problema è che gli italiani non si fidano più dei dirigenti politici: non fare le riforme, da quella dei partiti a quelle istituzionali, vuol dire alimentare la sfiducia».
Un primo segnale arriverà dalle elezioni della prossima settimana. Qui, per le amministrative e in Europa, con le elezioni francesi. Segneranno un cambio di passo?
«Il vero cambio di passo dell’Europa cambierà la nostra vita quotidiana. Se vince Hollande può cambiare la politica europea che non è detto debba essere soltanto di austerità e rigore. Ma se nel 2013 vinciamo noi in Italia allora sì che può formarsi un asse tra i progressisti per invertire la rotta».
Eppure come provate a parlare di alleanze c’è un pezzo di Pd che minaccia di andarsene. Gli elettori prima o poi vorranno sapere con quale alleanza volete governare. Secondo lei?
«Dobbiamo prima fare la legge elettorale e poi, anche sulla base di quella, decidere le alleanze per vincere e riuscire a governare».

l’Unità 01.05.12

"Trent'anni fa l'omicidio di Pio La Torre un agguato che fermò il cambiamento", di Roberto Leone

Quando il direttore de L’Ora, Nicola Cattedra, si affaccia sulla porta del salone della Cronaca, la redazione ribolle ormai da dieci minuti. Sono le 9,40 del 30 aprile 1982 e da un quarto d’ora stiamo impazzendo per sapere qualcosa di più preciso su un delitto appena successo. Dieci minuti prima, dalla radio sintonizzata su polizia e carabinieri, avevamo colto qualche frase smozzicata: “morto… piazza Generale Turba… no, due… forse”. Poche parole, ma abbastanza per capire che era successo qualcosa. Poi, però, solo silenzio sulle frequenze delle volantie dei carabinieri. I numeri delle centrali operative squillavano a vuoto. Dunque, in base alla nostra esperienza, era accaduto qualcosa di “grosso”.

Omicidi di mafia e cadaveri eccellenti, picciotti o politici potenti, magistrati e poliziotti: da tre anni la città era un mattatoio. Nulla di strano che anche quella mattina ci fosse stato un delitto “importante”.

Il direttore resta sulla soglia e guarda dritto verso l’angolo della “nera”. “Mi ha chiamato il questore – sibila verso Attilio Bolzoni e me – dice che hanno ucciso Pio La Torre”. Dodici parole che hanno l’effetto di cristallizzare l’aria. Il frastuono delle macchine per scrivere si spegne in un attimo. Tutti hanno sentito, il gelo piomba tra le scrivanie.

Trent’anni dopo, il ricordo di quella mattina mi fa stare ancora male. Era stato come ricevere dieci cazzotti nello stomaco senza poter reagire. A cavallo tra l’81 e l’82 avevo visto alcune volte Pio La Torre alla
federazione del Pci in corso Calatafimi. Appena tornato in Sicilia come segretario regionale, La Torre aveva voluto incontrare i “compagni” de L’Ora. E conoscere soprattutto i più giovani, i cronisti che erano impegnati a raccontare la vita della città “in un importante momento di trasformazione”, aveva detto in una delle riunioni. “Come diventerà questo Paese dipende molto da voi – ci aveva detto – sia come giovani che come giornalisti”.

Nei suoi discorsi la battaglia antimafia anzitutto, che era nel Dna de L’Ora, e l’impegno per la pace. La scelta del grande movimento popolare contro la base missilistica di Comiso, il milione di persone portate nell’ex aeroporto militare per bloccare l’arrivo dei Cruise della Nato. “Fate il vostro lavoro con impegno… eticae professionalità, non c’è bisogno d’altro”, aveva detto l’ultima volta, nemmeno un mese prima di essere ammazzato.

La stretta di mano di La Torre era contadina: forte e sicura. Così lo sguardo dei suoi occhi scuri che diceva: ho fiducia in voi.

E di sentire calore e appoggio ne aveva bisogno. A Palermo il suo ritorno, sponsorizzato nel Pci in particolare da Giorgio Napolitano, aveva suscitato più allarme che consenso. La Torre, assieme al dc Virginio Rognoni, aveva appena presentato la legge che creava il reato di associazione mafiosa e che soprattutto portava alla confisca dei beni dei clan. Colpire i “piccioli” era una novità intollerabile per le cosche che in quegli anni, fra traffico di droga e appalti pubblici, stavano accumulando ricchezza. La guerra di mafia iniziata l’anno prima, con gli omicidi di Stefano Bontade e Totuccio Inzerillo, aveva sancito il nuovo dominio dei Corleonesi in Cosa nostra. La Torre era convinto che Vito Ciancimino fosse il collegamento tra politica e mafia. Don Vito, si sarebbe scoperto due anni dopo, quando era stato arrestato dopo le rivelazioni di Buscetta, era anche di più: un “uomo d’onore” dei Corleonesi di Riina e Provenzano.

Insomma, il ritorno di La Torre era una minaccia che poteva essere eliminata solo in un modo. Uccidere un politico non era più un tabù. Cosa nostra aveva alzato il tiro. Negli ultimi tre anni erano caduti magistrati, poliziotti, carabinieri, politici, giornalisti. La reazione dello Stato era stata modesta. Così Riina e Provenzano vanno avanti. Da loro parte l’ordine di eliminare anche Pio La Torre. E un commando di cinque uomini porta a segno l’azione, nonostante dalla settimana prima La Torre, che ha appena ottenuto la nomina del generale Dalla Chiesaa prefetto di Palermo, vada in giro armato. Il suo autista e amico Rosario Di Salvo esplode, con la Smith & Wesson, cinque pallottole che però finiscono contro il muro, mentre i killer riescono a fuggire.

Due giorni dopo, piazza Politeama è colma di bandiere rosse come non lo è mai stata e come non lo sarà mai più. È un Primo Maggio di pugni chiusi e lacrime.

Il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, parla. Accanto a lui c’è il presidente della Repubblica Sandro Pertini, tra gli applausi e il pianto dei molti che ricordano il comunista tutto d’un pezzo del carcere e delle lotte contadine. Le battaglie di Pio continueranno, annuncia Berlinguer. Ma chi poteva prendere la guida di un partito sotto shock, sotto minaccia, sotto tiro di vecchi e nuovi avversari, di nemici che sparano e che dispiegano clientela, corruzione e terrore? Serve un segnale forte, e tanti sperano che sia proprio il “compagno Enrico” a venire in Sicilia per guidare la nuova campagna d’Italia contro l’attacco della mafia.

Non sarà così. Il posto di Pio La Torre sarà preso dal vice segretario regionale, Luigi Colajanni, brillante intellettuale, uomo per bene ma non di lotta, abituato più ai salotti che alla trincea. Una successione quasi burocratica in un momento tragico. Così il Pci avvia il suo declino in Sicilia, la guida del grande movimento antimafia sbanda, e soprattutto non c’è vero segnale di forza. Cosa nostra continuerà la sua escalation di terrore, uccidendo Dalla Chiesa e Chinnici. Le rivelazioni di Buscetta prima e il maxiprocesso dopo sembrano colpire finalmente al cuore l’impero mafioso, ma poi arrivano l’omicidio di Salvo Lima e le stragi del ’92 contro Falcone e Borsellino. D’improvviso si torna a dieci anni prima e si capisce che la morte di La Torre è stata uno snodo fondamentale nel bloccare il cambiamento della Sicilia. E anche dell’Italia.

da repubblica.it

"Diritti e dignità", di Luigi Mariucci

Su cosa si puo fondare una celebrazione Non retorica del 1˚ maggio? La prima cosa da dire e che mai come ora la festa del lavoro dovrebbe assumere un carattere universale. Infatti negli ultimi decenni centinaia di milioni di persone sono uscite dalla poverta piu estrema e sono entrate nel mercato del lavoro, in Cina, India, Brasile, e in tutte le cosiddette economie emergenti. E appena il caso di ricordare che quando Marx scriveva il Capitale si occupava di qualche decina di milioni di operai industriali nel ristretto circuito della prima rivoluzione industriale. Questo e il volto positivo della globalizzazione, che tuttavia, paradossalmente, non si traduce in una maggiore forza del lavoro, ma nel suo contrario. Perche mentre il capitalismo finanziario non ha frontiere, e dilaga senza incontrare alcun contropotere, producendo le esplosioni della economia cartacea che hanno provocato la crisi piu drammatica dopo quella del 1929, il lavoro invece e ancora costretto nei confini degli Stati-nazione e non riesce ad assumere una dimensione internazionale. Questo determina una gigantesca concorrenza al ribasso nella offerta di lavoro: si chiama dumping sociale, consiste nel fatto che i nuovi lavoratori accettano condizioni deteriori, da cui i lavoratori in occidente, e in specie in Europa, si sono emancipati dopo secoli di battaglie e conquiste sociali. Del resto questo fenomeno si verifica anche all’interno dei singoli Stati nazionali: gli oltre tre milioni di immigrati extracomunitari regolari che vivono in Italia stanno qui perche accettano lavori e condizioni (nella assistenza agli anziani, nelle collaborazioni domestiche, nell’agricoltura, nel terziario e nell’industria) a cui gli italiani non sono piu disponibili. Nel mondo del lavoro si crea quindi una frattura tra chi difende le conquiste realizzate e chi invece e disponibile a qualsiasi condizione, a prescindere da ogni garanzia e tutela. Questa e la sfida principale dei tempi in cui viviamo. Mentre alla scala globale si discute, fin qui senza risultati, di meccanismi capaci di limitare lo strapotere del capitalismo finanziario, riconducendolo a un nuovo sistema di regole, sul versante del lavoro si tratta, in buona sostanza, di contrastare la guerra tra poveri e di ricostruire i fondamenti di una logica della solidarieta e dell’uguaglianza. E una storia che si ripete, sia pure in forme nuove. Basti un esempio. Agli inizi del secolo scorso i braccianti della pianura padana si misero in sciopero a oltranza: nessuno piu mungeva le mucche e governava le stalle, i raccolti andavano in malora. Gli agrari decisero cosi di reclutare i disoccupati del Polesine. Quando i braccianti padani si trovarono davanti quelle schiere di poveracci, ancora piu miseri di loro, furono per un attimo perplessi. Come combattere contro quei disgraziati? Ma alla fine decisero di fare un picchetto e impedire ai ≪crumiri≫ di prendere il loro posto. Erano gli insiders di allora, e gli altri erano gli outsiders, anche se non lo sapevano. Cosi funziona la dinamica sociale: non e vero che tutto e determinato dai meccanismi economici, la lotta, ovvero la soggettivita puo servire a cambiare il corso delle cose, a segnare una linea di confine tra i diritti e la dignita del lavoro e le esigenze del mercato. Senza questa linea di confine il mercato si prende tutto, divora ogni cosa, e non ci sono piu limiti allo sfruttamento della persona che lavora. Questo ragionamento approda a una conclusione. Nel mondo occidentale, e quindi anche qui in Europa e inItalia, le cose cambieranno profondamente. Le conquiste sociali ottenute nel secolo scorso non potranno piu essere difese nella loro attuale forma. Andranno introdotte profonde trasformazioni, come sta gia accadendo. Occorrera tuttavia valutare la differenza che corre tra l’accettare condizioni economiche e normative differenti da prima, e meno favorevoli, e cio che invece attiene alla sfera dei diritti di fondo, all’habeas corpus del cittadino-lavoratore. Questa linea di confine non e sempre facile da demarcare. E tuttavia la si puo definire, nella situazione storica determinata. Cio sara possibile se si realizza una condizione essenziale: decidere, sul piano anzitutto culturale e dell’etica pubblica, di rivalutare il lavoro in tutte le sue forme, a partire da quelle piu semplici, dal lavoro manuale e produttivo. Basti ricordare la frase piu illuminante detta da un operaio della ThyssenKrupp dopo la strage dei sette lavoratori bruciati vivi in quello stabilimento: ≪Noi quando andiamo in discoteca il sabato sera ci vergogniamo di dire che siamo operai: diciamo che siamo impiegati ≫. Questo e il punto. Fare in modo che gli operai smettano di vergognarsi di esserlo e restituire al lavoro, in tutte le sue forme, dignita e diritti di cittadinanza e il programma fondamentale di una forza politica che si candidi a governare l’alternativa possibile

l’Unità 01.05.12