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«Andare in pensione è un diritto» In piazza i professori del 1952, di Fabrizio Peronaci

Manifestazione in piazza Santi Apostoli: tutti coetanei,contro lo «scalone». Presenti due parlamentari del Pd. Una protesta senza precedenti: tutti coetanei. Tutti insegnanti nati nel 1952, con i loro cartelli diretti al ministro Elsa Fornero («La scuola non finisce a dicembre», «La pensione è un diritto, non un privilegio», «Nonna, voglio stare con te»), le magliette con su scritto l’anno di nascita, vignette e disegni sul contestatissimo «scalone». Sono stati circa 300, da tutta Italia, i partecipanti alla manifestazione organizzata dal Comitato civico quota 96 in piazza Santi Apostoli, dalle 10 alle 14 di domenica 29 aprile.
«SONO DISPERATA» – La quota 96, data dalla somma tra età anagrafici e requisiti contributivi troncata dalla riforma Fornero, è stata invocata da tutti i presenti. Molti gli insegnanti in preda allo sconforto. «Mi mancavano tre mesi, ora dovrò lavorare altri 4 anni. Tutti i miei progetti di vita sono stati stravolti», dice Maria Giovanna, da Gallarate, docente in una scuola d’infanzia. È stato il presidente del comitato, Giuseppe Grasso, insegnante di letteratura francese a Roma, a introdurre il dibattito, dopo un breve concerto del Santa Cecilia jazz collective.

L’ANNO SPEZZATO – Principale contestazione: aver previsto che può andare in pensione con le vecchie regole solo chi ha maturato i requisiti entro il 31 dicembre 2011. «Ricordo che, per il mondo della scuola, le cadenze lavorative e pensionistiche sono regolate non secondo l’anno solare – ha detto il professor Grasso – ma secondo quello scolastico, per il quale esiste un’unica “finestra” di uscita: il primo settembre di ogni anno. La legge Fornero, invece, ha dimenticato clamorosamente la peculiarità del comparto e spezzato l’anno in due».
AUTO-ORGANIZZATI – Alla manifestazione, nata spontaneamente grazie al tam-tam sul web, non sono intevenuti rappresentanti sindacali. Dalla maggioranza segnali di solidarietà sono arrivati dal senatore Candido De Angelis (Fli), che ha mandato un messaggio, e dalle parlamentari del Pd Manuela Ghizzoni e Mariangela Bastico, invitate sul palco. «L’assenza di una gradualità nell’innalzamento dell’età pensionabile è figlia – ha aggiunto il professor Grasso – di una insensibilità cieca e irriguardosa, di una disumanità, spiace dirlo, senza precedenti. Non si possono cambiare le regole del gioco a ogni piè sospinto e ignorare le aspettative di chi, alla soglia del meritato e sospirato riposo, se l’è visto soffiare dalle mani». Poi, la stoccata al premier: «Professor Monti, con lei sembra avverarsi la temibile profezia di John Galbraith, e cioè che la politica è la scelta tra il disastroso e lo spiacevole». Per finire, pizza e acqua minerale per tutti, sulle note di Roberto Vecchioni. E anche un piccolo rimborso per i professori della classe ’52 venuti da fuori Roma.

da www.corriere. it Roma

"Il vero rischio? Il disinteresse", di Carlo Carboni

Con il nuovo collasso della politica, sempre inciampata su mancate decisioni che la riguardano, con le nuvole che si addensano sul futuro dell’economia e con la crisi morale che incombe da un ventennio, si torna a parlare di classi dirigenti. Però, qualche paletto andrebbe messo in questo dibattito. Primo: occorre distinguere l’élite, “ciò che si è” (un vertice), da classe dirigente, “ciò che si fa” con visione e competenza. L’avvento della democrazia ha reso le élites più numerose e plurali, ma le classi dirigenti sono diventate più rare, come i leader capaci di interpretare gli eventi, trasmettere nuove idee, aprire nuove vie. I caratteri dei leader dei tempi andati (decisori /moralizzatori) hanno esaurito la loro missione negli anni 60 quando l’Italia era un altro mondo. Il contesto è ora più complesso e non c’è più lo “scudo Atlantico”: è perciò più comodo crogiolarsi nell'”esserci” e pensare in segreto che riformare un grande paese sia una pia illusione.

Secondo: ovunque nel vecchio mondo occidentale, siamo nel mezzo di una crisi della democrazia rappresentativa. Il malessere democratico è acutizzato dalla crisi economica, ma non riducibile a essa, visto che se ne scrive da due decenni. Quanto alla rappresentanza politica, l’Occidente é a corto di leader capaci di tenere il passo delle veloci trasformazioni e dell’enorme quantità d’informazione. L'”incerta e strana” Europa dei tempi correnti è segno della caduta di pensiero strategico dei principali leader, formatisi all’ombra del tradizionale combinato disposto militare, nazionale e industriale del XX secolo, a sua volta al tramonto in un mondo economicamente policentrico e plurale in quanto a società e potere. Perciò, nel migliore dei casi la gerontocrazia, che in Europa guida due grandi paesi come Germania e Italia, guarda al passato per fare i conti con il presente e scivola sul piano inclinato degli interessi autoreferenziali. Il vecchio mondo è a corto di poteri intelligenti. Lo dimostra l’enorme crescita senza nuove regole della finanza, a cui oggi fa capo il reticolo dei poteri che contano. Anche le recenti vicende che in Italia hanno investito i vertici leghisti (ma non solo) dimostrano quanto siano finanziarizzati i partiti ridotti a cartelli elettorali preda della “filosofia del denaro”. A corto di argomenti, la politica europea ha preferito stregare con il populismo piuttosto che restituire speranza e identità, anticipando gli eventi per controllarli e regolarli.

Terzo: ci consoliamo sostenendo che l’Italia è un laboratorio, ma in realtà è un’esasperazione dell’incertezza europea: un paese in cui si cambiano a ripetizione partiti e leggi elettorali, ma non le élites. Né il ricambio procede tra gli imprenditori, né va meglio tra i professionisti sottoposti anch’essi alla gerontocrazia. L’attenzione è però attratta dai politici perché sono la classe eletta, che dovrebbe seguire precise regole di ricambio. I partiti-etichetta svuotati dai militanti e in mano ad amministratori eletti e nominati e delle clientele, non garantiscono ricambio del personale e non lo formano, creando selezione avversa al merito. Manca una formazione internazionale dei nostri leader e il loro provincialismo pesa al cospetto delle problematiche europee o di quelle imposte dai mercati globali. Una strategia di lungo periodo per ricostruire i partiti dovrà garantire formazione e ricambio contro le incrostazioni clientelari che si creano quando si perseguono interessi autoreferenziali e il modello del politico “dalla culla alla bara”.

Quarto: i partiti personalizzati, professionalizzati, finanziarizzati e mediatizzati si curano con un rinnovato interesse dei cittadini alla polis, con la voice e non l’exit. Non a caso, il malessere democratico si misura con tre indicatori, da vent’anni in caduta libera: iscrizione ai partiti, indice di fiducia in essi, elettori votanti. L’indifferenza sociale è stata incoraggiata dall’informazione mediale che ha disincentivato la partecipazione, ma il fenomeno era stato già intuito da Durkheim con la formula dell'”integrazione senza consenso” propria delle società moderne caratterizzate da individualismo conformista e lealtà passiva. Altro che antipolitica: le tre crisi (politica, economica e morale) derivano non da protesta o intolleranza, ma da indifferenza e defezione sociale. Il rischio si chiama democrazia “minima” per cui gli interessi dei rappresentanti si specchiano nel disinteresse dei rappresentati. Tra i cittadini latita la disponibilità all’ impegno civico di occupare gli spazi che la democrazia offre. Tra le élites, manca la volontà di coinvolgere cittadinanza attiva e competente, che i partiti dovrebbero formare e selezionare per garantire un ricambio regolato. A causa di questo doppio deficit – lo abbiamo imparato dai 150 anni di storia unitaria – ogni 20-30 anni l’albero viene scosso e chi è sopra cade a terra tra mille risentimenti.

Il Sole 24 Ore 29.04.12

"Contro la precarietà non bastano misure d'emergenza", di Luigi Mariucci

C’è molta confusione attorno al tema della «precarietà». Se ne parla infatti come se si trattasse di un universo omogeneo, e vi fosse una linea verticale di separazione tra i precari e gli stabili. Invece non è così. Il mondo dei lavori temporanei è molto variegato e diversi sono i motivi che stanno all’origine del diffondersi del fenomeno. Intanto occorre chiedersi quand’è che si diventa precari. Non quando si viene assunti con un contratto temporaneo in fase di primo inserimento nel mercato del lavoro. Queste sono anzi esperienze utili, specialmente per i giovani. Si diventa precari quando le assunzioni temporanee si succedono e la condizione di instabilità diventa uno stato permanente, un ghetto da cui non si riesce più ad uscire. Qui si determina una pericolosa frattura sociale: perché a questo punto il lavoro non è più uno strumento della cittadinanza, una forma di integrazione e sicurezza, ma il suo contrario, una fonte di incertezza, ansia, di impossibilità di programmare la propria vita. Poi bisogna chiedersi perché le imprese oggi chiedono soprattutto lavoro temporaneo. Le statistiche dicono che nel 2011 queste assunzioni ammontano a quasi il 90% del totale. Vi sono tre spiegazioni possibili. La prima sta nel fatto che esistono ragioni oggettive che giustificano le assunzioni temporanee: l’instabilità dei mercati, la variabilità delle commesse ecc. A fronte di tali ragioni, che vanno specificamente motivate, il lavoro temporaneo è legittimo: in questo caso occorrerà prevedere per i lavoratori discontinui adeguate misure in termini di Welfare (indennità di disoccupazione per i periodi di inattività, contribuzione figurativa a fini pensionistici). La seconda spiegazione ha tutt’altro segno: si assumono lavoratori temporanei anche con contratti di lavoro pseudoautonomo, in frode alla legge, per esigenze produttive strutturali al solo fine di risparmiare i costi del lavoro, e scaricare sul lavoro il rischio di impresa. Questa pratica è molto diffusa ed è all’origine, in buona parte, del vistoso spostamento nella distribuzione dei redditi tra lavoro, profitti e rendita. Le pratiche abusive vanno quindi semplicemente represse, in primo luogo affidando agli Ispettorati del lavoro poteri più cogenti, esattamente come si fa quando si impegna la guardia di finanza contro l’evasione fiscale. C’è poi un terzo caso. Quello per cui l’imprenditore o fa così o chiude, perché non è in grado di affrontare il costo complessivo del lavoro regolare. Qui siamo al confine del lavoro sommerso, illegale, contro il quale non c’è che un rimedio: abbassare la pressione fiscale su lavoro e imprese. Infine occorre differenziare le diverse tipologie di lavoro precario. C’è intanto un diffuso precariato «alto», fatto soprattutto di giovani laureati, che aspirano a collocazioni professionali difficilmente disponibili, a seguito dei tagli alla spesa pubblica. Si tratta dei 150mila precari stimati nella pubblica amministrazione, a seguito del blocco della spesa per il personale specialmente negli enti locali, delle decine di migliaia di precari della scuola, delle università, dei giornali e della editoria, del vario mondo collegato alla disoccupazione intellettuale nei settori della cultura e delle arti. Sono questi i soggetti che hanno dato voce e portato in prima pagina il tema del precariato. Poco si sa invece delle altre innumerevoli persone, i veri «invisibili», che orbitano nei circuiti del precariato «basso», nel lavoro interinale, nel commercio, nell’industria alberghiera e turistica, nella assistenza agli anziani e nelle collaborazioni domestiche, nell’agricoltura, dove lavorano, sia detto per inciso, i tre milioni di extracomunitari regolari. Tra questi problemi e gli strumenti previsti dal disegno di legge di riforma del mercato del lavoro presentato dal governo Monti c’è una enorme distanza. I problemi indicati non si risolvono con misure normative uniformi, esigono invece una gamma di interventi complessi e diversificati, tenendo conto in particolare delle radicali differenze che esistono sul piano territoriale, tra aree più e meno sviluppate, tra Nord e Sud del Paese. Tutte cose che non possono essere messe in carico a un governo di emergenza e transizione, ma a un progetto strategico di alternativa politica

L’Unità 29.04.12

"Nel censimento l'esodo di un milione di immigrati. Il demografo: effetto-crisi, la maggior parte è tornata al Paese d'origine", di Fabrizio Caccia

Che fine hanno fatto? «I conti non tornano, in effetti», osserva preoccupato il professor Gian Carlo Blangiardo, demografo della Fondazione Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) e professore all’università Milano-Bicocca. Sul suo tavolo i dati provvisori dell’ultimo censimento generale della popolazione — ottobre 2011 — secondo cui gli stranieri residenti in Italia sarebbero 3 milioni e 800 mila. Un bel numero, sicuramente, anzi un vero e proprio boom dell’immigrazione rispetto al dato del censimento 2001: un milione e 300 mila persone. Già, ma il professor Blangiardo ha davanti agli occhi anche la statistica del settembre 2011, appena un mese prima cioè della rilevazione dell’ottobre scorso. Una ricerca intitolata «La popolazione straniera residente in Italia», sempre dell’Istat, secondo cui però gli stranieri iscritti all’anagrafe ammonterebbero a 4 milioni e 570 mila. A cui poi andrebbero aggiunti i 397 mila regolari ma non residenti (fonte Caritas/Migrantes), cioè quelli muniti solo di un visto per motivi di lavoro, famiglia, studio. Totale: 4 milioni 968 mila. Rispetto ai 3 milioni e 800 mila appena censiti, dunque, ne manca più di un milione. Dove sono finiti? Che fine hanno fatto?
Il demografo dell’Ismu è cauto, i dati Istat sono ancora provvisori, ma la sua impressione è che la maggior parte di questo milione che manca all’appello se ne sia andata. Abbia lasciato cioè, anche solo temporaneamente, il nostro Paese. Un esodo clamoroso, insomma. Il motivo? La crisi economica, certo. Il crollo dell’offerta di lavoro e delle retribuzioni. «Qualcuno, scaduto il permesso, decaduto il titolo di soggiorno, si sarà pure nascosto, sarà diventato irregolare e quindi è chiaro che non si è fatto beccare dal censimento — ragiona il professore —. Ma il vero problema è che è fallito per moltissimi il progetto migratorio, non essendoci più condizioni di lavoro adeguate, penso alla crisi dell’edilizia per esempio, così tanti romeni, tanti albanesi, hanno preferito tornare indietro, rientrare in patria, pensando “poi si vedrà”…».
«Il nostro — continua Blangiardo — è un Paese di accoglienza, gli episodi di razzismo sono davvero isolati, eppoi i matti nel mondo ci sono ovunque, perciò non c’entra la xenofobia e non è neppure colpa di Monti se la crisi economica morde in questo modo. È chiaro però che tutti questi “missing” costituiscono un fenomeno allarmante».
Stefano Solari, direttore scientifico della Fondazione «Leone Moressa», istituto nato nel 2002 che sforna ogni anno statistiche interessanti legate alla presenza degli stranieri in Italia, condivide l’analisi cupa dello scienziato dell’Ismu: «Per fare un esempio — dice Solari — i polacchi si sono resi conto ormai di guadagnare molto meglio in patria che da noi. E anche tanti romeni, che avevano lasciato a casa le famiglie ed erano venuti in Italia in cerca di lavoro, hanno concluso che visto che qui c’è disoccupazione tanto vale fare marcia indietro e aspettare tempi migliori. Molti nordafricani, invece, hanno proseguito la strada verso il nord: la Francia, la Germania. Così se ne sono andati anche loro».
Attenzione, però. «Il censimento 2011 si è svolto un po’ al risparmio — osserva Solari — perciò non è detto che proprio tutti gli stranieri siano stati raggiunti dai rilevatori dell’Istat…». «Non solo — nota Paolo Ciani, della Comunità di Sant’Egidio — Vanno considerati anche alcuni fattori specifici legati proprio all’immigrazione: per esempio, l’estrema mobilità. Nel senso che se uno straniero non trova più lavoro in un posto, logicamente se lo va a cercare altrove e dunque diventa difficile da rintracciare. Nelle grandi città, poi, è diffuso il fenomeno degli affitti irregolari, dei subaffitti, perciò alla fine in molti preferiscono non farsi censire…». La conferma diretta arriva da Bachcu, presidente dell’associazione dei bengalesi a Roma «Dhuumcatu», con quasi 9 mila iscritti: «Molti immigrati non hanno partecipato volutamente al censimento — dice Bachcu — Lo hanno fatto per paura, per evitare problemi con le Asl e i municipi di zona, perché spesso vivono in 10-12 dentro una stessa casa, in «nero», senza contratti d’affitto regolari. Però è anche vero che molti sono andati via: negli ultimi tre anni per colpa della crisi molti capifamiglia, di Paesi africani, asiatici, hanno rimandato a casa le mogli e i figli. Un terzo degli stranieri che manca all’appello, secondo me, è costituito da donne».
Marco Marcocci, studioso di migrant banking, cui ha dedicato un libro e poi anche un sito (www.migrantiebanche.it), dice che il fenomeno cominciò nel 2008 in America e ora si sta riproducendo fedelmente da noi: «Non c’è più lavoro, la gente così torna a casa, molti migranti che nel vecchio censimento del 2001 erano regolari ora son diventati clandestini. Nel 2011 per la prima volta da noi il flusso delle rimesse è calato, perché gli stranieri non riescono più a mettere i soldi da parte per spedirli in patria. Addirittura, in America, dove la crisi è stata davvero mortale, è successo che le famiglie del Messico, dell’Ecuador, del Perù, si son viste costrette a mandare loro dei soldi negli Usa per aiutare i propri congiunti anziché il contrario. Ecco, almeno questo speriamo che in Italia non succeda».

Il Corriere della Sera 29.04.12

"Come il patrimonio può diventare fattore di crescita", di Antonio Montante*

Mentre l’economia sembra sull’orlo della crisi totale, i beni confiscati alla mafia non vengono sfruttati nel modo giusto. Questo a causa di meccanismi amministrativi frenanti o, ancora peggio, di strumenti giuridici non abbastanza efficaci. Un «polmone» come quello dei beni sottratti alle cosche – forse 20 miliardi di euro nell’insieme – potrebbe rappresentare, invece, un
potenziale strumento di crescita raggiungibile, prima di tutto, con
una semplificazione amministrativa che velocizzi e renda più snelli gli iter di vendita e messa a reddito dei patrimoni confiscati. Sembra incredibile che non si faccia subito qualcosa.
Bisognerebbe pensare a uno strumento giuridico nuovo, che normalizzi tutti gli aspetti e permetta anche un cospicuo sgravio
dello Stato facendo entrare più soldi nelle casse pubbliche. Si eviterebbe così che gli stessi immobili, rimasti invenduti e bloccati, perdano valore e di conseguenza interesse all’acquisto.
Perché da un settore così importante, anche sotto il punto di vista etico e sociale, non si riesce a recuperare niente di vantaggioso per tutto il sistema collegato con le imprese sane e con le istituzioni? Lo strumento giuridico che regola la materia ha bisogno di essere aggiornato: servono più modernità e più snellezza. L’Agenzia dei beni confiscati, nonostante l’impegno
degli addetti e dei responsabili, non è in grado di superare i vincoli «ingessanti». Per questo è urgente rimettere a reddito l’immenso patrimonio accumulato dalle confische: bisogna fare in modo che i benefici delle liquidità recuperate abbiano effetti sui lavoratori e le imprese sane, sulle istituzioni, le forze dell’ordine e la magistratura. Sono soggetti che soffrono per la mancanza di risorse finanziarie e che sono impegnati nella salvaguardia della sicurezza dei cittadini.
Esistono oggi meccanismi perversi nel rapporto tra Stato e demanio che andrebbero annullati perché sviliscono ogni potenzialità di questi beni. Spesso il demanio non comunica all’Agenzia le
esigenze di utilizzo degli immobili da parte dello Stato, mentre
dovrebbe farlo entro il limite di trenta giorni, trascorsi i quali l’Agenzia è libera di venderli, darli in affitto, o gestirli sotto la vigilanza di una Autorità dello Stato che assicurerebbe un ulteriore e rigido controllo sui soggetti che li acquistano. Perchè va detto con forza: i beni sequestrati non devono in ogni caso tornare nelle mani dei mafiosi, come ripetono giustamente
a gran voce tutte le persone e i movimenti impegnati nella
battaglia per la legalità. Un altro aspetto critico riguarda l’obbligo di affidare i beni confiscati direttamente ai sindaci dei Comuni in base alla rispettiva appartenenza geografica. Li si affida a loro che scelgono da soli l’uso finale. E, considerato che molto spesso finiscono in mano ai Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose, oppure a sindaci non dotati di strutture
tecniche adeguate, credo che uno strumento giuridico nuovo debba
rispondere in modo più efficace anche a questo problema,
imponendo che i patrimoni confiscati vengano rimessi sul mercato piuttosto che tra i cespiti comunali. Insomma, non dovrebbero esistere vaghezze perché esse sono una garanzia per la criminalità organizzata, e purtroppo sono la ragione per cui una parte della società crede ancora che la mafia sia più forte dello Stato.
Manager qualificati e competenti presenti sul mercato dovrebbero
essere messi a disposizione dell’Agenzia seguendo il criterio meritocratico. L’Agenzia infatti è una struttura che, se dotata di
risorse finanziarie adeguate, potrebbe permettersi di utilizzare professionalità specializzate e dunque di occuparsi della gestione dei patrimoni confiscati in modo da sfruttarne al meglio le potenzialità per fini che sono di utilità sociale. La figura del manager dell’Agenzia peraltro è molto importante per il successo di qualsiasi tentativo di miglioramento, perché deve essere in grado di interloquire con le associazioni di categoria, con i sindacati e con la stessa Autorità di vigilanza dello Stato che in sinergia verifica l’obiettivo di difendere il lavoro ed i lavoratori. Bisogna infatti indirizzare le aziende confiscate verso le reti sane, rimetterle nel mercato e avvicinarle alle altre aziende virtuose preferibilmente appartenenti allo stesso settore, utilizzando tutte le forme di collaborazione e partenariato e/o di partecipazione in consorzi legali. Purtroppo sappiamo già che non basta formare nuovi manager specializzati. L’impegno è più complesso perché bisogna combattere la forza dei consorzi illegali dentro cui le imprese operavano prima della confisca e dentro cui si lavorava senza problemi grazie alla mafia che non faceva mancare nulla: dalla sicurezza alle commesse (persino pubbliche) fino al mercato sicuro, anche se tutto avveniva sempre dentro una zona d’ombra «blindata».
Riguardo a questa realtà, in veste di delegato di Confindustria ai rapporti con le istituzioni e per la legalità, sono sicuro che il ministro dell’Interno, quelli della Giustizia e delle Finanze daranno il loro contributo di analisi. Anche Confindustria è a disposizione per qualsiasi sinergia e collaborazione. La mia idea è di tentare un primo esperimento, un progetto pilota, in un territorio scelto dove ci sono tanti beni confiscati: partiamo da lì per far sì che la ricchezza generata crei grande valore etico e culturale, in modo da accreditare la convenienza economica della
legalità e di screditare così la mafia. Questa potrebbe essere per il Paese una sfida non solo concreta, ma anche simbolica.

*Delegato nazionale Confindustria

l’Unità 29.04.12

Contro il femminicidio migliaia di firme «È una strage, ora basta», di Daniela Amenta

All’appello delle donne risponde il web compatto. E moltissimi uomini ai quali si chiede di non essere complici della mattanza. Aderiscono, tra gli altri, Camusso, Bersani, Finocchiaro, Saviano e il direttore dell’Unità Sardo. Telefono Rosa. «Il volontariato non può sostenere da solo questa battaglia». Cinquantaquattro con Vanessa dall’inizio dell’anno. Una media aberrante, tragica. Un mattatoio. Il mattatoio delle donne in Italia. Cinquantaquattro in quattro mesi. Massacrate, stuprate, violate, uccise. Uccise da uomini che conoscevano. L’Orco difficilmente è lo sconosciuto incontrato per strada o in Rete. E’ in casa l’Orco, il Barbablù, l’assassino. È l’ex che non ci sta, è il fidanzato geloso, è il marito violento.
Sempre lo stesso rituale. Sempre le stesse vittime. Cambiano nomi, luoghi, situazioni, ma le vittime sono sempre le stesse. Hanno gli occhi scuri di Vanessa, 21 anni di Enna, i capelli chiari di Edyta massacrata il giorno di San Valentino a Modena, il sorriso di Stefania ammazzata dal fidanzato che «l’ amava più della sua stessa vita».
Le donne hanno detto basta mille volte, un milione di volte. Sono scese in piazza, hanno trovato la chiave di lettura per il femminismo del terzo millennio grazie alle mobilitazioni di Se non ora quando, alla denuncia di Lorella Zanardo attraverso Il corpo delle donne, alle inchieste, alle manifestazioni. Eppure, eppure sembra non bastare mai. Per questo, dopo la morte assurda di Vanessa, parte un nuovo appello che chiede agli uomini di non essere complici di questa strage, e alle donne di tenere altissima l’attenzione. Serve, in questo nostro Paese, una rivoluzione che rimetta le donne al centro della comunità, restituendo loro rispetto e dignità.
Un appello lanciato da Snoq, Zanardo, Loredana Lipperini e che potete firmare anche sul nostro sito, unita.it. Hanno già aderito in migliaia. Dalla leader Cgil Susanna Camusso al segretario Pd Pier Luigi Bersani che su Twitter scrive: «Si uccidono le donne. Le uccidono i maschi. È ora di dirlo, di vergognarcene, di fare qualcosa per stroncare la barbarie». Migliaia di firme: da Roberto Saviano a Renata Polverini, da Beppe Vacca ad Anna Finocchiaro, da Vendola all’Idv, dal direttore dell’Unità Claudio Sardo al presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, che spiega: «Come uomo penso sia necessario impegnarmi affinché questa violenza persecutoria possa arrestarsi».
Una sequenza di nomi: lo stesso , lo stesso sgomento per commentare il femminicidio. Un neologismo, coniato nel 2009 per la condanna del Messico alla Corte interamericana dei diritti umani dopo morte di 500 donne e la scomparsa di altrettante a Ciudad Juarez. Dallo scorso otto marzo questa parola lugubre e drammatica è stata usata anche per il nostro Paese da Rashida Manjoo, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne. «È la prima causa di morte in Italia perledonnetrai16ei44anni».Il femminicidio indica «ogni forma di discriminazione e violenza rivolta contro la donna in quanto donna». Psicologica, sociale, fisica, fino alla morte: una violenza continua che in Italia continua a mietere vittime per «fattori culturali», quando si considera la donna come un oggetto di proprietà e chiunque «padre, marito e figli» decidono della sua vita. «Con dati statistici che vanno dal 70% all’87% la violenza domestica risulta essere la forma di violenza più pervasiva che continua a colpire le donne italiane» ha detto Rashida Manjoo.
E intanto le donne continuano a morire. Solo il 10% ha la forza di denunciare molestie e abusi. Perché non è facile sfuggire allo stalking, alla violenza. Anzi, diventa un calvario se si hanno figli. Esistono, è vero, residenze protette ma sono poche, gestite con un residuo di fondi. Una piaga mostruosa lasciata in mano al volontariato, soprattutto. Per questo Maria Gabriella Moscatelli presidente di Telefono Rosa, la storica associazione contro la violenza sulle donne, ha scritto al premier «Chiediamo al governo di farsi carico di questa situazione intollerabile. Servono risorse economiche e una Commissione straordinaria per fronteggiare questa tragedia. Sono queste le due condizioni senza le quali nessuna azione può realmente portare a dei risultati». Per la presidente «è evidente che strumenti, risorse e azioni al momento in atto non siano sufficienti». Fondi, certo. E leggi. E impegno. Perché le donne non siano lasciate sole. Soprattutto serve una rivoluzione culturale. Ma bisogna fare in fretta. Subito.

L’Unità 29.04.12

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«Delitti terribili Mi vergogno di essere uomo» di Francesca De Sanctis

Mi vergogno di essere uomo… Certe notizie offendono tutto il genere maschile». In questi giorni Filippo Timi, attore cresciuto in teatro e divenuto noto al grande pubblico soprattutto grazie al cinema (tanti i film in cui ha recitato: da Saturno contro di Ozpetek a Signorina effe di Wilma Labate, da Come Dio comanda di Gabriele Salvatores all’ultimo Com’è bello far l’amore di Fausto Brizzi) è a Milano, dove nel giro di cinque giorni si sono verificate ben 3 aggressioni a donne. «Mi fa orrore… Discredita tutti gli uomini». Dopo questi episodi e alla luce degli ultimi dati diffusi (54 donne morte per mano di uomini in questi primi mesi del 2012),il Comitato«Senonoraquando», Lorella Zanardo e il «Corpo delle donne»e moltissime altre -donne e uomini – chiedono un intervento forte per fermare questa barbarie e lo chiedono prima di tutto agli uomini. Te la senti di sottoscrivere il loro appello? «Certo. Possono considerarmi il primo firmatario. È fondamentale che gli uomini prendano coscienza e scendano in campo al loro fianco».
In questo appello i firmatari chiedono anche una legge parlamentare contro i femminicidi, perché è di questo che parliamo…
«Mi sorprende pensare di dover arrivare a chiedere una legge per difendere dei diritti che dovrebbero essere acquisiti già da tempo. Ma se si arriva a tanto significa che ce n’è bisogno. Questi episodi di violenza sono delle forme di razzismo. Le donne dovrebbero essere trattate alla pari, persistono invece ancora tante, troppe forme di pregiudizio. Difficile provare a individuare le cause che possono esserci dietro. Immagino che
un balordo scelga di approfittarsi di una donna anziché di un uomo perché pensa sia più facile farlo».
Come si può combattere questa escalation di violenza? Educando i giovani?
«Più se ne parla in casa e meglio è, su questo non ci sono dubbi. Io sono cresciuto con un nonno che prendeva le decisioni e una nonna sottomessa. In realtà poi ho capito che era lei a decidere… Tutto questo mi ha educato alla parità fra i sessi. Allo stesso modo credo che se i modelli proposti alle giovani generazioni sono dei modelli sani è chiaro che certi problemi forse non si presentano».
La televisione non contribuisce secondo te a creare certe immagini stereotipate della donna?
«Secondo me esiste la tv buona e quella cattiva. È vero che ci sono
tanti programmi diseducativi,ma è anche vero che ci sono tante giovani ragazze disposte a spogliarsi pur di avere successo. Credo sia un problema di testa. Bisognerebbe educare i giovani a sviluppare il loro senso critico».
Quale ruolo può giocare invece il cinema o il teatro in questa battaglia?
«Parlare di certi argomenti al cinemao al teatro può aiutare a sensibilizzare le persone sull’argomento. Ma credo anche che ci sia un altro tipo di violenza da combattere: le registe e le attrici sono discrimante. Quante sono le donne che curano una regia in teatro? Quante sono le donne protagoniste di un film? Anche questa è una forma di razzismo».

L’Unità 29.04.12

"Residui attivi delle scuole: i senatori ne riconoscono l'esistenza", di R.P. da La Tecnica della Scuola

Anche i senatori della Commissione Cultura sottolineano che ormai i residui attivi dei bilanci delle scuole stanno letteramente ammazzando l’autonomia scolastica. Il Ministero minimizza, ma secondo le ultime stime le scuole vantano un miliardo e mezzo crediti dallo Stato. Ormai, a puntare il dito sulle difficoltà finanziarie delle scuole, non sono soltanto i dirigenti scolastici e le organizzazioni sindacali.
L’esistenza del problema è riconosciuta persino dal mondo politico e, finalmente, sottolineata sia dalle forze politiche del centro-sinistra sia da quelle del centro-destra.
L’occasione si è presentata nella Commissione Cultura del Senato che pochi giorni fa ha espresso il proprio parere sul Documento di politica economico-finanziaria.
Diverse sono le osservazioni che accompagnano il parere, inevitabilmente favorevole: si parla di incentivare un proficuo rapporto fra università e mercato del lavoro oltre che di operare per una progressiva diminuzione del divario rispetto all’Europa in fatto di numero di laureati.
Ma l’osservazione forse più significativa riguarda proprio il funzionamento ordinario delle scuole; si legge infatti nel testo del parere: “Si reputa essenziale superare le criticità nella programmazione finanziaria e nella gestione delle risorse destinate al funzionamento ordinario delle scuole, le quali sono in una situazione di liquidità tale da non poter soddisfare gli impegni già presi, senza contare il forte accumulo di residui attivi riferibili anche a esercizi lontani che nuoce a una corretta programmazione delle risorse”.
E così l’esistenza dei residui attivi (pare che superino complessivamente il miliardo e mezzo di euro) che viene negata persino dagli uffici del Ministero adesso viene confermata dai senatori che parlano anzi di un “forte accumulo” di essi.
Non è la prima volta che il Parlamento affronta la questione dei finanziamenti destinati alle scuole, ma è forse la prima volta che in un contesto così importante (una Commissione parlamentare) si prende ufficialmente atto che ormai quello dei residui attivi è un problema non più rinviabile.
Nel tentativo di impedire che questa voce continui ad aumentare, il Ministero ha recentemente emanato una nota che invita le scuole a utilizzare qualunque somma disponibile a bilancio per coprire provvisoriamente le spese per le supplenze.
Ma, così facendo, le scuole dovrebbero usare soldi delle famiglie o dei Comuni per pagare una spesa che è di esclusiva competenza dello Stato.
Non a caso la Flc-Cgil ha immediatamente chiesto il ritiro della circolare.
Si tratta ora di capire se alla presa di posizione dei senatori seguiranno atti coerenti o se il “grido di dolore” dei parlamentari rimarrà lettera morta.

La Tecnica della Scuola 29.04.12