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"Ora serve una svolta", di Claudio Sardo

Gli effetti delle manovre restrittive aggravano la crisi delle famiglie, del welfare, delle imprese. I famigerati mercati, che un anno fa ci imponevanol’austerità, oggi ci condannano perché nella recessione l’austerità produce autodistruzione. Il dramma è che
non siamo all’accademia ma stiamo parlando della vita delle persone, di povertà crescenti, del futuro dei nostri figli.
Serve una svolta politica. Uno scatto che vinca la rassegnazione. In Italia, ma prima ancora in Europa. Perché è l’Europa la dimensione che può riscattare questa politica inefficace e screditata. Speriamo che domenica prossima i francesi eleggano Hollande, avviando così una nuova stagione dopo il dominio del centrodestra. Intanto il muro del «pensiero unico» liberista – in base al quale abbiamo tentato di curare come una crisi del debito pubblico quella che invece era una crisi degli squilibri europei e della mancata integrazione – si sta lesionando. Gli stessi economisti, le stesse organizzazioni internazionali, le stesse cancellerie che ne hanno fatto un mantra, ora cominciano ad ammettere che la vera priorità è la crescita, e persino che il rigore da solo la rende impossibile. Purtroppo alle parole non seguono ancora fatti conseguenti. È il pericolosissimo stallo del momento. Fermo restando che la spesa corrente va vigilata e resa più produttiva, non è affatto vero che l’alternativa sia tra l’aumento delle tasse e l’aumento dei tagli alla spesa. L’alternativa sta nell’aumento degli investimenti: per le infrastrutture, per la ricerca, per la conoscenza. Un’operazione, appunto, che oggi solo l’Europa può fare: singolarmente gli Stati non troverebbero finanziamenti sul mercato a tassi sostenibili.
È anzitutto a una crisi della politica che l’Europa deve reagire. E per farlo, a dispetto del paradigma liberista, deve promuovere una nuova idea di pubblico. Non il pubblico che coincide con la gestione dello Stato e delle sue amministrazioni, ma un pubblico che progetti e governi il bene comune, nell’equità e nella sussidiarietà, nella politica industriale e nel sostegno all’innovazione. Da noi, in Italia, abbiamo problemi aggiuntivi. Quando è nato il governo Monti, qualcuno l’ha inteso come un traguardo definitivo, come la sostituzione della competizione politica. I tecnici che fanno dimenticare i politici. Oggi il governo dei tecnici, dei migliori esecutori delle «direttive» europee, si vede voltare le spalle da tanti entusiasti cantori di ieri. Noi invece non siamo delusi perché lo abbiamo sempre pensato come un esecutivo di transizione, come il garante di una tregua istituzionale che non avrebbe comunque cancellato la battaglia politica tra destra e sinistra. Il problema riguarda gli obiettivi del governo Monti: rimettere l’Italia in sicurezza dopo il rovinoso fallimento della destra nostrana, partecipare alla transizione europea (e domani, se vincerà Hollande, sostenere con più forza l’impegno per la crescita e l’integrazione), uscire dalla Seconda Repubblica restituendo ai cittadini una legge elettorale finalmente compatibile con i valori della Costituzione. Si vogliono ancora perseguire questi obiettivi?
La domanda è legittima perché le convulsioni recenti non si spiegano solo con l’imminente voto amministrativo. È vero che – mentre le ricette liberiste hanno squadernato i loro difetti e mentre la Bce guidata da Mario Draghi ha operato un primo mutamento
di rotta – in Italia l’onda della sfiducia verso la politica si è fatta di nuova altissima, quasi uno tsunami che non distingue le storture e la corruzione dai tentativi di rinnovamento. L’antipolitica non è solo italiana: èunfenomenoche riguarda tutto l’Occidente. Ma da noi l’antipolitica è già stata al governo. Con
Berlusconi e Bossi. E ha prodotto disastri. Abbiamo già dato: non ci servono altri comici e altri cavalieri. Ma il clima di sfiducia e la crisi sociale – quella vera, dei pensionati che non hanno i soldi per mangiare e curarsi, dei lavoratori che perdono il salario, degli imprenditori che si tolgono la vita per non vedere
morire la loro impresa – rischia di paralizzare la risposta delle nostre istituzioni. Che ci sia bisogno di una svolta, lo dimostrano
anche i pentiti del Pdl che tifano Hollande. Ma il trasformismo italiano oggi non si ferma qui: in tanti, trasversalmente, vogliono mandare a monte non già la transizione di Monti bensì la prossima legislatura. Vogliono usare il combinato tra le novità europee e la crisi di fiducia nella politica per bloccare le riforme dei prossimi mesi e impedire un governo politico, una alternativa dopo il voto. Nasce da qui il tam tam sulle elezioni anticipate. Oppure l’idea (diffusa, ahinoi) di boicottare la riforma elettorale. Sarebbe troppo nobile dire che vogliono far proseguire la grande coalizione. La verità è che vogliono proteggersi dai rischi di un cambiamento. Ma scherzano col fuoco. Rendere inutili le prossime elezioni politiche vuol dire mettere a rischio la stabilità delle istituzioni democratiche.

L’Unità 29.04.12

"I maschi padroni delle nostre vite" di Natalia Aspesi

E va bene, aderiamo all´appello; e poi? Siamo d´accordo, lo sono tutti, chissà, anche quell´uomo sconosciuto e adesso certo del suo equilibrio che magari tra mesi o anni strangolerà furibondo una moglie disubbidiente e in fuga. Ascoltate le donne di “Se non ora quando”. E su Twitter una valanga di femmine e maschi, il femminicidio riguarda la politica, è la politica che deve intervenire. Per impedire che in Italia le donne continuino a crepare per il solo fatto di essere donne: nel 2006 gli uomini ne hanno uccise 101, nel 2007 107, nel 2008 112, nel 2009 119, nel 2010 120, nel 2011 137; e nel 2012 le donne ammazzate sono già 54. Ammazzate soprattutto da mariti o ex mariti, da conviventi o ex conviventi, da innamorati respinti: il 70 % delle assassinate erano italiane, il 76 % degli assassini sono italiani.
Ma quanti articoli arrabbiati abbiamo scritto, quanti appelli sdegnati abbiamo firmato, ad ogni efferata, cieca, mortale vendetta di un uomo che ammazza la sua donna “per troppo amore”, negli ultimi decenni? Quante volte il cronista, preso dall´idea che la passione giustifica tutto, ammanta le coltellate, le randellate, come sì certo era meglio che no, ma si sa, un uomo innamorato poverino, si acceca e chissà quanto era stato provocato. E giù il passato della morta, a scovarne, storie e possibili deviazioni, in più, meticolosa descrizione del povero cadavere, possibilmente con foto dei poveri resti. C´è una misteriosa, segreta abitudine italiana di considerare le donne come gran brave persone certo, con gli stessi diritti certo, ma diverse, nel senso di un po´ ambigue, e sempre un po´ colpevoli: dall´aver lasciato scuocere la pasta a volersene andare, sfuggendo, meglio tentando di sfuggire a un ordine, a una consuetudine, a una sudditanza, in qualche modo disubbidendo a un uomo che, proprio perché sempre più fragile e insicuro, spaventato da quella persona che lo giudica e gli si oppone o addirittura non ne vuole più sapere, sente il bisogno di prevaricare, di essere riconosciuto come maschio, quindi come padrone.
Guai a dirlo, ma è così: del resto il famoso delitto d´onore, pare impossibile, è stato cancellato dalla nostra legislazione solo nel 1981. E la legge che condannava alla galera la traditrice (ma non il traditore), è stata abrogata del tutto nel 1969. Quando, alla fine degli anni ´60, cominciarono i processi per stupro, perché finalmente le ragazze superando la vergogna personale e il disprezzo popolare, osavano denunciare il loro stupratore, bisognava sentire gli avvocati in difesa del ragazzone stupratore, come infierivano sulla “colpevole”, chiedendo conto del passato della sua verginità, e che mutande portava, e perché non si era comportata come Maria Goretti, per non parlare delle mamme dei maschi “vittime” di quella sporcacciona, a lacrimare, a raccontarne l´indole pia e innocente. Certo il paese è cambiato, la giustizia pure, ma gli uomini e la loro idea di potere legata al sesso, meno: in guerra lo stupro di massa fa parte del conflitto, in pace la donna continua ad essere una preda: la ventenne rapita e torturata da omacci l´altra sera a Voghera, gli episodi milanesi di una madre violentata in un parco in pieno giorno, di ragazze palpeggiate in metropolitana, continuano la storia del corpo della donna disponibile al desiderio di qualunque maschio, come un oggetto tra l´altro senza valore, usabile, deteriorabile.
Anche qui, siamo nella tradizione: da ragazze, noi vecchiette di oggi, sapevamo che in tram saremmo state palpate, pizzicate, che una mano, ed altro, si sarebbero appiccicati al nostro sedere. Si diventava rosse e si stava zitte, e ci si rassegnava all´odiosa imposizione. E quando adolescenti tornando in pieno giorno da scuola, c´era sempre in un angolo un signore con la patta aperta, tanto così per mostrare con orgoglio le sue virtù virili? Anche lì zitte, come se in qualche modo fosse colpa nostra. Sono storie lontane, ormai ridicole, e fortunatamente oggi una palpata non richiesta viene denunciata, suscita l´indignazione di massa e uno stupratore rischia anni e anni di galera. A beccarlo naturalmente. Perché ciò che indigna di più della violenza misogina, e ovviamente ancor più della vita strappata a tante donne, è che troppo spesso non si trova il colpevole: il fidanzato? Forse. Il compagno? Potrebbe essere. L´ex marito? Chissà. Ci sono ammazzamenti di donne che rendono furibonda la televisione che mette in piedi a ogni ora dibattiti infuocati, presente anche il sospettato autore del delitto. Poi ci si stufa e non se ne parla più, né interessa sapere se poi il delinquente è stato trovato o se invece si è condannato un innocente.
Ai processi qualche volta ci si arriva, ma poi, come nel “delitto di via Poma”, la condanna era ingiusta, il condannato innocente viene giustamente liberato, e intanto, ancora una volta resta impunito l´omicidio di una povera giovane bella ragazza di cui a fatica ormai ci ricordiamo il nome. Le donne ammazzate, diventando una notizia troppo frequente, finiscono col meritarsi ormai poche righe frettolose, oppure ne scrivono solo i giornali di provincia, a meno che la storia sia particolarmente efferata o se appunto qualcuno, donne, si stufa e si ribella. E propone un appello: certo che in tanti si aderisce all´appello affinché la strage finisca. Ma la domanda che per ora non ha risposta è: perché questa strage? Perché ancora è così difficile per un uomo, non necessariamente un criminale, sarebbero troppi, accettare la libertà della donna, l´integrità del suo corpo, la sua volontà, le sue scelte? Perché la sua difesa troppo spesso è solo la violenza? Perché? Ma se lo chiedono gli uomini, tutti quanti, anche i più irreprensibili, e generosi, e ahi! innamorati?

La Repubblica 29.04.12

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“Fermiamo il massacro delle donne”, di Maria Novella De Luca

Da Saviano alla Camusso, boom di adesioni all´appello di “Se non ora quando”. Già 54 vittime dall´inizio dell´anno. “Ora chiamiamoli femminicidi”. Centinaia di adesioni all´appello lanciato dal movimento “Se non ora quando” contro la violenza nei confronti delle donne. Dall´inizio dell´anno sono 54 le vittime in Italia, donne morte sotto i colpi di compagni, mariti, parenti. «È una mattanza» ha scritto su Twitter lo scrittore Roberto Saviano. Tra gli altri firmatari, la Camusso, la Polverini, la Finocchiaro. E intanto a Milano sei casi negli ultimi tre giorni: ieri due ragazze molestate in metropolitana.
ROMA – Centinaia e centinaia di adesioni. Perché a volte basta utilizzare le parole giuste, obbligare all´attenzione, costringere al pensiero, per spingere a dire basta. Basta al “femminicidio”, parola dura che ci ricorda che dall´inizio dell´anno 54 donne sono state massacrate in Italia da mariti, padri, amanti, fratelli, sconosciuti, omicidi seriali, uno più efferato dell´altro, l´ultima delle vittime si chiamava Vanessa e aveva, soltanto, 20 anni. Per Vanessa appunto, e per tutte le altre, “Se non ora quando”, la rete delle donne, ha lanciato venerdì un appello dal titolo “Mai più complici”, perché la tragedia del femminicidio scuota le coscienze, impegni la politica, imponga ai media di non relegare in poche righe “l´ennesimo” assassinio di una donna. E le adesioni, in poche ore, sono diventate moltissime. Da Susanna Camusso a Livia Turco, da Renata Polverini ad Anna Finocchiaro, dalla scrittrice Rosetta Loy a Roberto Saviano, che scrive su Twitter: «È una mattanza: 54 donne uccise dall´inizio dell´anno per mano di mariti, fidanzati, ex. È ora di chiamare questa barbarie femminicidio». E il segretario del Pd Bersani: «Si uccidono le donne, le uccidono i maschi. È ora di dirlo, di vergognarcene. Dobbiamo fare qualcosa».
Ricorda che quasi tutti gli assassini erano ben conosciuti alle loro vittime il presidente della Provincia Nicola Zingaretti, che accoglie l´invito alla mobilitazione anche maschile di “Se non ora quando”: «Come uomo penso sia necessario impegnarmi affinché questa violenza persecutoria possa arrestarsi». Si legge nell´appello “Mai più complici”: «È ora invece di dire basta e chiamare le cose con il loro nome, di registrare, riconoscere e misurarsi con l´orrore di bambine, ragazze, donne uccise nell´indifferenza. Queste violenze sono crimini, omicidi, anzi femminicidi. È tempo che i media cambino il segno dei racconti e restituiscano tutti interi i volti, le parole e le storie di queste donne e soprattutto la responsabilità di chi le uccide perché incapace di accettare la loro libertà. E ancora una volta chiediamo agli uomini di camminare e mobilitarsi con noi. Le ragazze sulla rete scrivono: con il sorriso di Vanessa viene meno un pezzo d´Italia. Un paese che consente la morte delle donne è un paese che si allontana dalla civiltà».
«La violenza sulle donne è un fenomeno che non può lasciare indifferenti e su cui occorre sempre tenere alta l´attenzione», dice la presidente della Regione Lazio Renata Polverini, «aderisco dunque all´appello “Mai più complici”». Perché c´è qualcosa che in Italia sta succedendo, e che forse queste aggressioni, a torto definite omicidi passionali, amori sbagliati, raptus, dimostrano: e cioè che in Italia è in atto un attacco al cuore dei diritti delle ragazze, delle bambine, delle donne, che sono le prime vittime della crisi, le prime vittime delle violenze domestiche. E aderendo all´appello, Nichi Vendola, presidente di Sinistra, Ecologia e Libertà, propone di «costruire da subito una forte reazione culturale, sociale e politica contro l´insopportabile sequenza di violenza, sopraffazione, morte nei confronti delle donne nel nostro Paese».

La Repubblica 29.04.12

"Organici ATA. Si comincia a parlarne", di R.P. da La Tecnica della Scuola

Molti i nodi da sciogliere, quasi tutti legati alle conseguenze delle operazioni di dimensiona- mento delle istituzioni scolastiche. Archiviata la questione degli organici dei docenti si aprirà nei prossimi giorni il tema degli Ata che, in particolar modo quest’anno, si presenta molto complesso e delicato anche a causa delle ricadute derivanti dal dimensionamento delle istituzioni scolastiche.
Il nodi sono numerosi.
Intanto bisognerà capire come, nel concreto, si potrà assicurare il funzionamento delle istituzioni scolastiche che non raggiungono il tetto minimo di 600 alunni: la legge 183/2011 (comma 70 dell’articolo 4) prevede infatti che a tali scuole (che comunque non potranno avere un dirigente proprio) debba essere assegnato anche un direttore dei servizi già titolare in altra sede.
Potrà dunque capitare che dirigenti e direttori titolari di sedi di consistenti dimensioni (1000-1200 alunni) dovranno occuparsi anche di una istituzione scolastica di 5-600 alunni. Il buon funzionamento di entrambe le scuole potrebbe risultarne compromesso.
Ma il punto più delicato riguarda i collaboratori scolastici.
Il perché è presto detto.
L’organico nazionale dei collaboratori dovrà fare i conti con due tendenze contrastanti: da un lato non dovrebbe variare rispetto a quello attuale (120mila al netto degli accantonamenti per l’esternalizzazione dei servizi ausiliari) come continua a garantire il Ministro, mentre d’altro potrebbe diminuire (e di molto) soprattutto in quelle realtà che sono state sottoposte al dimensionamento scolastico.
Si può ipotizzare che a seguito del dimensionamento i collaboratori possano diminuire di cica 3mila unità (ma si tratta di una previsione ottimistica).
La domanda è: che fine faranno i 2mila posti così risparmiati ?
C’è chi spera ancora che le tabelle per il calcolo del personale spettante a ciascuna istituzione scolastica possano essere riviste in modo che si eviti il taglio di posti Ata, ma l’ipotesi non appare molto realistica almeno allo stato attuale (solo pochi giorni fa il vice-ministro Grilli ha ventilato l’ipotesi che la prossima manovra finanziaria possa riguardare anche la scuola).
Il rischio maggiore potrebbe essere però un altro: se le tabelle per il calcolo dei posti spettanti alle scuole non verranno ritoccate e se i 3mila posti risparmiati dovessero rimanere comunque disponibili, accadrà inevitabilmente che i posti saranno ridistribuiti su tutto il territorio nazionale. In tal modo accadrà che i risparmi derivanti dai “sacrifici” delle scuole dimensionate andranno anche a beneficio di quei territori dove di dimensionamento non si è neppure parlato.
Per il 7 maggio, comunque, è in calendario il primo incontro fra Ministero e sindacati per l’esame del problema. Difficilmente si potranno avere già numeri e tabelle ma perlomeno si potranno conoscere gli orientamenti dell’Amministrazione scolastica.

La Tecnica della Scuola 29.04.12

"La rabbia sociale male del secolo", di Eugenio Scalfari

L´ondata dell´antipolitica si sta ingrossando e proviene da destra, da sinistra e anche dal profondo della società, indipendentemente dalle etichette politiche di originaria appartenenza. L´ondata ricorda lo “tsunami”, si verifica a lunghi intervalli, è capace di produrre distruzioni e danni enormi ma con la stessa velocità con cui arriva si placa lasciando tuttavia dietro di sé un cumulo di rovine.
L´onda lunga è invece quella degli oceani, un moto naturale delle acque che alimenta la vita del mondo marino e terrestre e dell´atmosfera che ci circonda e ci sovrasta. Se vogliamo utilizzare questi fenomeni per meglio comprendere quanto sta accadendo da qualche anno nelle economie dell´Occidente, possiamo dire che allo “tsunami” dell´antipolitica fa riscontro l´onda lunga della politica. Ma dobbiamo anche aggiungere che in alcuni paesi l´ondata antipolitica è più frequente che in altri. L´Italia è uno di questi; l´antipolitica da noi è quasi un fatto permanente e minaccioso d´una società che ha conosciuto assai tardivamente lo Stato e lo ha visto sempre come una potenza ostile da combattere e da frodare.
I democratici di buona volontà dovrebbero dunque sforzarsi di rinnovare e rafforzare l´onda lunga della politica, cioè di una consapevole visione del bene comune da opporre allo “tsunami” dell´antipolitica. Accade invece che la politica galleggi su acque stagnanti e paludose, infestate da miasmi e malarie.

I democratici di buona volontà si trovano insomma a dover combattere l´ondata dell´antipolitica e la palude della politica. In Italia la situazione è questa e se guardiamo all´Europa come al progetto di un futuro Stato federale, le cose stanno più o meno allo stesso modo. Anche la politica europea galleggia infatti su acque stagnanti e paludose. Non c´è un´opinione pubblica seriamente europeista, non ci sono interessi forti che spingano verso la federazione e tanto meno valori egemoni che servano da punti di riferimento. Ci sono soltanto minoranze elitarie, non sufficienti a mutare l´acqua stagnante in onda lunga e vitale.

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Ho più volte ricordato in questi mesi che c´è un punto preliminare da cui dobbiamo prender le mosse: l´economia globale ha messo in contatto tra loro le masse di persone che vivono in paesi di antica opulenza e le masse che abitano paesi di antica povertà.
Questi due campi di forze così diversi e finora refrattari tra loro sono entrati in comunicazione ormai permanente e crescente e questa comunicazione ha creato un improvviso squilibrio nell´uno e nell´altro campo. La tendenza ad un nuovo equilibrio crea un trasferimento inevitabile di benessere dai paesi ricchi a quelli poveri o meno ricchi e quel trasferimento è destinato a continuare fino a quando l´equilibrio tra i due campi non sarà stato raggiunto.
Ci sono molti strumenti economici e politici per ridurre i costi sociali di questo percorso che tuttavia resta un dato di fondo al quale è del tutto inutile ribellarsi.

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Ribadita questa premessa, veniamo ai fatti rilevanti di questa fase. L´evento principale è la vittoria del socialista Hollande al primo turno delle presidenziali francesi, la forte probabilità della sua elezione al secondo turno e la contemporanea comparsa del neo-lepenismo di massa (18 per cento dei voti espressi) che potrà notevolmente influire sul formarsi d´una nuova destra populista e anti-europea.
Se Hollande sarà proclamato Presidente della Repubblica domenica prossima, sappiamo già che il suo primo incontro dopo la formazione del governo sarà quello con Angela Merkel con l´obiettivo di costruire su nuove basi il patto di amicizia che lega le due maggiori nazioni europee.
Hollande punta sulla crescita dell´economia europea, ma anche la Merkel punta sulla crescita. Prima lo diceva con voce sommessa, ora lo dice con voce alta e sicura. Con la stessa voce alta e sicura lo dice anche Mario Draghi e anche il nostro Mario Monti, sostenuto in questa sua linea da tutti e tre i partiti che appoggiano il suo governo. E perciò crescita crescita crescita. Ma con quali strumenti per ottenerla? E con quali tempi necessari a vederne gli effetti?

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Gli strumenti proposti da Hollande sono di ottenere l´esenzione delle spese per investimenti dal patto di stabilità fiscale voluto dalla Germania e approvato dalle Autorità europee; ottenere l´emissione di “project bond” per finanziare infrastrutture europee; accrescere le risorse del bilancio europeo amministrato dalla Commissione di Bruxelles e aumentare le risorse della Banca d´investimento (Bei) destinate anch´esse a specifici progetti di infrastrutture inter-frontaliere.
Le richieste francesi sono in larga misura condivise dalle Autorità di Bruxelles. La Germania – e la Bce di Draghi – ne condividono alcune ma escludono i “project bond” e sono molto caute sugli investimenti della Bei. Mario Monti si colloca a metà strada tra le richieste di Hollande e le probabili risposte negative della Merkel ad alcune di esse. In più Monti aggiunge la richiesta dei diciotto paesi dell´Unione di aumentare l´intensità delle liberalizzazioni sul mercato dei servizi in tutta l´area dell´Unione.
Il negoziato – sempre che Hollande vinca il secondo turno delle presidenziali – avverrà tra l´8 maggio e le riunioni dei vertici europei di fine giugno. Un compromesso positivo è molto probabile. Per quanto riguarda l´Italia l´esito del negoziato ha grande importanza ma non esaurisce i nostri problemi politici, economici e sociali. Restano infatti da risolvere le maggiori tutele sociali (esodati), la tenuta dei partiti della “strana maggioranza” e i loro reciproci conflitti; l´esito politico delle amministrative del 6 e 7 maggio; la riforma della legge elettorale; gli strumenti da adottare nella lotta contro la recessione; l´approvazione della riforma del lavoro; la “governance” della Rai. E scusate se è poco.

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Tralascio di approfondire i temi di questo lungo elenco che sono stati già ampiamente esaminati su queste pagine nei giorni scorsi. Ma ce n´è uno che tutti li contiene e può determinarne l´esito; riguarda l´atteggiamento dei partiti che appoggiano l´attuale governo. Essi temono che l´ondata antipolitica, già prossima ad intercettare il 20 per cento dei voti stando ai sondaggi, possa ulteriormente crescere fino a rappresentare un quarto dei voti espressi e a creare anche una diffusa astensione, tale da ridurre fino al 60 per cento il numero degli elettori che andranno alle urne. Il combinato disposto tra astensioni e voti antipolitici produrrebbe un colpo estremamente grave per i partiti “costituzionali” (chiamiamoli impropriamente così) e metterebbe in serio periglio la stessa sopravvivenza della democrazia parlamentare.
La tentazione di anticipare il voto al prossimo ottobre traluce ormai da ripetute sortite e rende più incerta l´azione del governo e l´andamento dei mercati. D´altra parte la preoccupazione dei partiti è comprensibile. L´”impasse” in cui si trovano è di difficilissima soluzione: anticipare il voto rischia di squalificarli ancora di più e getterebbe il paese in una fase d´insicurezza assai grave; aspettare ancora un anno fino alla scadenza naturale della legislatura prolungherebbe però la loro cottura a fuoco lento. Qual è dunque la soluzione del rebus?
Una soltanto: i partiti che chiamiamo costituzionali votino intanto una legge elettorale che abolisca il premio di maggioranza o lo faccia scattare soltanto per chi superi il 40 per cento dei voti, ponga una soglia alta (5 per cento) per entrare in Parlamento, vieti le coalizioni elettorali, abolisca dalla scheda elettorale il nome del leader, prenda a modello la legge elettorale tedesca applicata a collegi di piccole dimensioni come previsto dalla legge spagnola.
Nel frattempo il governo, ricevuta l´assicurazione formale e solenne della sua permanenza in carica fino al termine della legislatura, adotti una serie di provvedimenti capaci di accrescere le tutele sociali estendendone la durata e ampliandone la sfera d´applicazione, tagli le spese improduttive e persegua – come sta già energicamente facendo – il recupero dell´evasione fiscale; cartolarizzi una parte del patrimonio pubblico vendibile e mandi avanti il pagamento del debito pregresso verso le imprese fornitrici.
Con le risorse prodotte con questi interventi, diminuisca le imposte sul lavoro, aumenti i crediti d´imposta per investimenti destinati a innovazioni e ricerca, rilanci l´apertura dei cantieri edilizi e introduca sgravi d´imposta sui redditi medio-bassi del lavoro dipendente.
Le risorse recuperabili dalle fonti sopra indicate possono arrivare sicuramente a 80 miliardi, forse a cento e quindi sono in grado di produrre un allentamento della tensione sociale in attesa che le liberalizzazioni e la riforma pensionistica producano gli attesi effetti sul gettito delle entrate.
Questi interventi-ponte sono oltremodo necessari e urgenti per diminuire o almeno non far aumentare il tasso di rabbia sociale che, se lasciato alla deriva, può creare uno sconvolgimento economico con i relativi effetti sui mercati finanziari.
Chi si preoccupa soltanto dello “spread” e considera la rabbia sociale come un fenomeno marginale e sopportabile, non coglie un aspetto fondamentale del problema. La “polis” deve tenere nello stesso conto le leggi economiche e le dinamiche sociali da esse provocate; non a caso i classici della scienza economica, a cominciare da Adam Smith, insegnavano filosofia morale. Chi si proclama “smithiano” dovrebbe almeno studiare il pensiero e la formazione culturale del suo autore di riferimento prima d´impegnarsi sui precetti del liberismo senza se e senza ma.
Un´ultima osservazione: il presidente Monti punta giustamente sull´aumento della produttività delle imprese e sulla loro competitività. Mi auguro che non cada nell´errore di far coincidere l´aumento della produttività con la diminuzione del costo del lavoro. Quest´ultimo è soltanto uno dei componenti d´una maggiore produttività e neppure il più importante. I più importanti sono l´innovazione dei prodotti e dei processi di produzione e dipendono sia l´uno che l´altro dagli imprenditori e non dai lavoratori. Quanto al costo del lavoro dipendente esso deriva in buona parte dalla differenza tra salario lordo e salario netto. In questo caso la sua diminuzione si verifica con un taglio del cosiddetto cuneo fiscale e cioè con la fiscalizzazione dei contributi. Sono sicuro che il professor Monti queste cose le conosce molto meglio di me e agirà quindi di conseguenza.

La Repubblica 29.04.12

Quota 96, domani Bastico e Ghizzoni alla manifestazione di Roma

Bastico e Ghizzoni sono le uniche parlamentari a parlare dal palco di Piazza degli Apostoli. La senatrice Pd Mariangela Bastico e la deputata Pd Manuela Ghizzoni saranno le uniche parlamentari ad intervenire, domani mattina, dal palco di Piazza degli Apostoli, a Roma, nel corso della manifestazione nazionale organizzata dal Comitato civico “Quota 96” per denunciare la situazione di alcune migliaia di lavoratori del mondo della scuola bloccati sulla via della pensione dalla “Riforma Fornero” che non ha tenuto conto delle peculiarità del sistema scolastico nazionale.

Domani mattina a Roma, i docenti e il personale della scuola che fanno riferimento al Comitato civico “Quota 96” si ritroveranno in Piazza degli Apostoli per far sentire alta la loro voce. La loro situazione è nota: contestano la parte della riforma Fornero che impedisce a coloro che maturano i requisiti nell’anno scolastico in corso di andare in pensione con le vecchie regole e, anzi, li costringe a posticipare l’uscita dal lavoro di ben sei anni. In sostanza, al contrario di quanto è avvenuto per le riforme precedenti, in questo caso non si è tenuto conto delle peculiarità del sistema scolastico nazionale per il quale esiste un’unica finestra annuale di uscita, quella del primo settembre, dato che l’intera organizzazione non poggia sull’anno solare, ma appunto sull’anno scolastico. A livello nazionale sono alcune migliaia i lavoratori che si trovano in questa situazione: ben un centinaio nella sola provincia di Modena. Le parlamentari Pd Mariangela Bastico e Manuela Ghizzoni si sono, a più riprese, interessate di questo problema e sono diventate un vero punto di riferimento per l’intero movimento. Tanto che sono le uniche parlamentari ad essere state invitate ad intervenire dal palco allestito in Piazza degli Apostoli nel corso della manifestazione nazionale organizzata per la mattinata di domenica 29 aprile. “Saremo in piazza con il personale della scuola per appoggiare una battaglia di giustizia che abbiamo portato avanti nelle aule parlamentari e che ora continuiamo a sostenere al fianco delle lavoratrici e dei lavoratori. – dichiarano le parlamentari Pd Bastico e Ghizzoni – C’è un paradosso inaccettabile: da un lato si impedisce di andare in pensione a chi ne ha maturato il diritto e, dall’altro, si costringe al pensionamento forzato persone che rimarrebbero ancora qualche anno nell’insegnamento. Chiediamo al Governo flessibilità e valorizzazione delle motivazioni personali, essenziali nel mestiere di educatore. Peraltro ci sono stati meno pensionamenti del previsto – concludono le parlamentari Pd – e anche dal punto di vista dei costi il Governo potrebbe, quindi, acconsentire ad accogliere le istanze dei Comitato civico “Quota 96”.

"Quante volte Bossi e Berlusconi hanno parlato come Grillo", di Tommaso Labate

L’esercizio, in fondo, è fin troppo semplice. Basta mettere l’uno accantoagli altri per scoprire come l’uno, Beppe Grillo, e gli altri, Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, assomigliano tanto alle classiche due facce di una stessa medaglia. Perché è vero che esiste l’antipolitica di lotta, che ha la cadenza genovese di Grillo. Ma è altrettanto vero che l’Italia della Seconda Repubblica ha sperimentato almeno un decennio di antipolitica di governo. Quella segnata dal tandem Berlusconi-Bossi.
Tra il sostenere che «dobbiamo uscire dall’euro perché non possiamo più permettercelo»,comefa Grillo in questi giorni, e il mettere a verbale che «l’euro nonha convinto nessuno», come ha scandito Silvio Berlusconi il 28 ottobre scorso, c’è una sola differenza. Il primo usa i toni ultimativi di chi sta fuori dal ring. Il secondo fa sfoggio della «moderazione» (sic!) di chi comunque si trovava a presiedere il governo di uno dei principali Paesi dell’Eurozona. Che sia di lotta o di governo, l’antipolitica si nutre di bersagli comuni. In questo caso, l’euro. Pazienza se la moneta unica è l’ultimo baluardo prima del baratro. C’è un popolo asserragliato dietro l’equazione «prima un panino costava mille lire, ora costa un euro»? Fine della storia, abbasso l’euro. E così, «si può rimanere tranquillamente nell’Unione europea senza rinunciare alla propria moneta» come ha fatto la Gran Bretagna, sentenzia Grillo sul suo blog. Oppure, «l’euro è una moneta strana che non ha convinto nessuno, che è di per sé molto attaccabile, non è di un solo Paese ma di tanti Paesi che non hanno un governo
unitario» et voilà, come diceva Silvio Berlusconi al crepuscolo della sua permanenza a Palazzo Chigi. Antipolitica di lotta. Antipolitica di governo. Due facce che trovano un diabolico punto in comune quando nel teorema viene inserita la variabile Lega Nord, che è riuscita nel corso degli anni a fornire una formidabile
sintesi di come si possa essere – contemporaneamente – politica e antipolitica. Basta poco, no? Nell’ordine, è sufficiente promettere
meno Stato e meno tasse, come faceva il Bossi prima maniera. E se
poi ti trovi per dieci anni a sostenere un governo che finisce per seguire la strada uguale e contraria – più tasse e più Stato – ci si può sempre purificare con l’acqua che sgorga dalle sorgenti del Po. Oppure celebrare qualche Woodstock padana sul prato verde di Pontida. E, tanto per tornare all’esempio di prima, attaccare l’euro. «Unione europea? L’euro e i massoni ci hanno rovinato», diceva il Senatur, socio di lusso della maggioranza del governo Berlusconi, nel 2005. Per non parlare di Maroni, e lui addirittura era il ministro del Welfare, che nello stesso anno si spingeva fino a proporre «un referendum per tornare alla lira». Una consultazione che piacerebbe tanto anche al Grillo del 2012.
Ma se c’è un terreno in cui l’antipolitica di lotta e di governo dà il meglio di sé, questo si materializza quando il bersaglio diventano i partiti. Non sarebbe il caso «di fare una norimberghina», si chiede Grillo mentre cerca di istruire il processone a Monti («Rigor Montis»), la nuova maggioranza («Diarrea politica») e pure contro Nichi Vendola («L’ho aiutato e mi sparerei nei coglioni»)? E siamo proprio sicuri che, al di là dei nomi degli imputati, Berlusconi non sottoscriverebbe la proposta da Grillo? D’altronde già alla fine degli anni Settanta il Cavaliere usava nei confronti di «certi politici»
gli stessi argomenti che il comico genovese avrebbe imparato a maneggiare una decina di anni più tardi.
La prova? Basta rileggere un’intervista che Berlusconi rilasciò a la Repubblica nel 1977, un documento purtroppo finito nel dimenticatoio, citato da Marco Damilano nel suo libro, “Eutanasia di un potere”. In quell’intervista, il Cavaliere sosteneva senza troppi giri di parole: «Io sono un pratico ma anche un sognatore: spero che venga fuori una nuova classe politica senza cadaveri nell’armadio, le mani pulite, poche idee ma chiare, capacità di farsi capire in modo comprensibile». Sembra quasi lo spot del partito on-line di Grillo, girato con trent’anni e passa d’anticipo. Come prova un altro passaggio di quella conversazione tra Berlusconi e la Repubblica. «Sono pochi i politici che si sanno presentare in modo chiaro e immediato, facendosi capire dalla gente. Non come Moro, che ogni volta che apre bocca ci vuole un esercito di esegeti per interpretarlo». Perché, sempre dalla viva voce del Cavaliere, «questi capi storici hanno il culo per terra ma ingombrano la porta».Un bestiario che, negli anni a venire, sarebbe tornato utilissimo tutte le volte che, sentendosi scricchiolare, “Silvio” avrebbe addossato la colpa ora «ai comunisti» dell’opposizione, ora «ai democristiani» della sua stessa maggioranza. Cambiando l’ordine dei bersagli, il prodotto non cambia. L’antipolitica può essere di lotta. E può essere di governo. Anche sulle tasse. «Gli attentati a Equitalia? Bisogna capirne le ragioni», ha spiegato Grillo. Mentre Berlusconi s’era limitato (sic!) a misure più prudenti, tipo minacciare – come fece una volta da Lucca – quello stesso «sciopero fiscale » molto caro, in realtà, anche ai suoi alleati della Lega, che qualche volta l’avevano professato anche dai banchi del governo.
Sarà che forse la plastica del partito berlusconiano del ’94 e il
web delle cinque stelle grilline degli anni Duemila producono progetti politici estemporanei. Eternamente estemporanei. Sia se rimangono di lotta, sia se arrivano al governo. O, forse, molto dipende dalla presenza scenica di chi nasce e cresce abusando di una naturale propensione a saper allietare il pubblico, pagante o
votante. D’altronde, questa è una traccia comune del percorso di Berlusconi e di Grillo. Il primo ha alimentato la leggenda che lo voleva ammaliatore di turisti da crociera, accompagnato al pianoforte da Fedele Confalorieri, e che aveva in Que reste-t-il de nos amours il suo cavallo di battaglia. Il secondo, disse una volta il fratello Andrea, eseguiva numeri comici e musicali per la famiglia, «cantava e suonava la chitarra lanciando urli alla James Brown». Il secondo ha esordito al cinema in un film chiamato Cercasi Gesù. Il primo s’è mosso come se quella ricerca si fosse esaurita in se stesso, «l’unto del Signore». Entrambi, poi, non hanno molta dimestichezza con l’eufemismo. Il primo archivia alla voce «coglioni» gli elettori che non lo votano. Il secondo organizza il Vaffanculo day. Lasciando per un attimo le vesti del «moderato» a Umberto Bossi. E al suo dito medio. Che è stato di lotta, certo. Ma anche, e tanto, di governo.

l’Unità 28.04.12

Rai, il governo s’arrende il Pd no: «Non votiamo un altro Cda lottizzato», di Natalia Lombardo

Il governo si è arreso, al solo tentativo di mettere mano alla consolidata lottizzazione della Rai e al prraticello mediatico di Berlusconi. Il ministro Giarda ha chiuso l’argomento informando alla Camera che per la riforma della governance, la modifica dei criteri di nomina, «non c’è più tempo», data «l’imminente scadenza del Cda». Si cancella così la promessa di «sorprese» e interventi fatta dal presidente del Consiglio, Mario Monti, alla platea televisiva di Fabio Fazio, a gennaio.
Ora si rischia di prorogare l’attuale Cda non solo fin dopo le amministrative, ma magari fino alle elezioni politiche, per la gioia del Pdl (salvo Bonaiuti) che vuole mantenere Lorenza Lei come direttore generale. Oppure il nuovo vertice si dovrebbe rinnovare con i criteri spartitori della legge Gasparri in commissione di Vigilanza. Il presidente, Sergio Zavoli aprirà il seggio dopo l’approvazione del bilancio Rai da parte dell’assemblea degli azionisti (il 4 e l’8 maggio, ma potrebbe slittare).
IL PD FUORI DAL TAVOLO
Ma sul voto il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, non cambia idea: «Il Pd non torna indietro, se non cambia la legge non votiamo, gli altri partiti vorranno si voteranno i loro consiglieri da soli, così sarà un 9 a zero», conferma Matteo Orfini, responsabile Informazione del Pd, «e in questo caso il governo Monti, il centrodestra e chi parteciperà si dovrà assumere le proprie responsabilità su questo grave vulnus». L’uscita di Giarda era inaspettata, e «come si fa a dire che non c’è più tempo
quando per sei mesi il governo si è inabissato? Monti dica che questa Rai gli va bene così, con Lorenza Lei dg e la lottizzazione». Ieri anche la segretaria della Cgil, Susanna Camusso, ha criticato la mancata promessa del governo, così come Bonanni della Cisl. E anche l’Usigrai in un tweet afferma che «chi vuole la riforma Rai dopo le parole di Giarda deve avere il coraggio di litigare con Monti. Noi lo sosterremo. No alla prorogatio», anche perché il Cda, di centrodestra, non ha preso in considerazione «i piani editoriali del Tg1 e della Tgr», compresi i vicedirettori. E al Tg1 per le amministrative resta in campo la squadra minzoliniana. Il non partecipare al gioco da parte del Pd, comunque vada, mira a far esplodere il bubbone, tanto più se Pdl e Lega voteranno. Il Terzo Polo non si scopre e aspetta le amministrative. Secondo la legge Gasparri i parlamentari in commissione di Vigilanza nominano sette consiglieri (la spartizione tra partiti), un altro spetta all’azionista, il ministero dell’Economia, che indica anche il presidente. Figura di «garanzia» che deve essere votata dai due terzi dei parlamentari in Vigilanza (i nomi in pista sono sempre Anselmi o Enrico Bondi, valido anche come dg e corteggiato anche da Berlusconi, torna il nome di Giancarlo Leone come dg). Giarda ha annunciato che il ministero metterà sul sito i curricula dei due nomi proposti.
L’Idv ha sempre detto di non voler votare, ieri Antonio Di Pietro ha accusato il governo di «immobilismo» però ha proposto a Zavoli di far depositare in Vigilanza le candidature e il relativo «curriculum professionale, ma anche di attivare audizioni pubbliche» dei candidati per valutarne «indipendenza, competenza, professionalità e assenza di conflitti di interesse». L’aspettativa
è che Zavoli risponda. Il capogruppo Pd in Vigilanza, Fabrizio
Morri, tenta anche lui la via istituzionale: «Il governo, come ha fatto per le Authority con un decreto, potrebbe ridurre a cinque i consiglieri, e insieme una modifica, nello Statuto Rai, che assegni poteri pieni al presidente di garanzia».
La situazione è aperta, bisogna vedere cosa faranno Pdl e Lega: il primo, che fa parte della «strana maggioranza », potrebbe non forzare la mano col voto solitario, mentre la Lega punta alla presidenza Rai se non alla direzione generale. Per il Pd comunque la palla torna al governo. «Hanno due possibilità», prosegue Orfini, «o intervenire con un decreto sul quale trovare l’accordo, o con un commissariamento, oppure prorogare l’attuale Cda». La soluzione peggiore, tanto più dopo le dimissioni di Nino Rizzo Nervo. Per l’esponente Pd «chi sta lì dentro dovrebbe dimettersi, il primo dovrebbe essere il presidente Garimberti, e il consigliere Van Straten». A Viale Mazzini, intanto, il piano lacrime e sangue con altri tagli da 46milioni di euro (molto sul prodotto) non è stato votato dall’attuale Cda, ma dovranno invece dare il via libera ai palinsesti autunnali (palinsesti) che saranno presentati agli investitori il 18 e il 20 giugno.

l’Unità 28.04.12

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“IL GOVERNO NON PASSA PER LA CRUNA DELLA RAI”, di GIOVANNI VALENTINI
Eravamo stati purtroppo facili profeti a prevedere che il governo Monti, condizionato dal suo “azionista di riferimento” e cioè dal partito-azienda che tutela gli interessi di Mediaset, non sarebbe riuscito a modificare la “governance” della Rai. E infatti, a più di tre mesi dall´impegno assunto pubblicamente in tv, il presidente del Consiglio ha dovuto fare retromarcia e rassegnarsi allo statu quo.
Il Professore aveva annunciato che in poche settimane il suo governo sarebbe intervenuto sull´assetto di viale Mazzini e invece ecco che tutto resta come prima, all´insegna di quella scellerata legge che reca le impronte digitali dell´ex ministro Gasparri. A dispetto non solo della ragione, ma soprattutto delle attese e delle sollecitazioni arrivate dalla società civile: dall´Usigrai, il sindacato interno dei giornalisti; dalla Federazione nazionale della Stampa, il sindacato di categoria; dalle associazioni degli utenti; dai movimenti dei cittadini come “Move on”. E anche da alcuni partiti politici, dal Pd all´Italia dei Valori.
Non è solo l´ennesima rappresentazione del conflitto di interessi. È anche la resa di un governo a sovranità limitata, forte con i deboli e debole con i forti, incapace di passare per la “cruna dell´ago”: vale a dire quell´incrocio pericoloso fra politica, informazione e affari, che ha già avvelenato la storia della Seconda Repubblica portando il Paese sull´orlo del baratro. Oggi ne stiamo pagando tutti il prezzo, ognuno di tasca propria.
Nonostante gli annunci e le promesse di Monti, dunque, il vertice della Rai – scaduto a fine marzo – verrà rinnovato in forza della legge imposta dal centrodestra nella passata legislatura, rinviata alle Camere dall´ex presidente Ciampi, criticata dall´Unione europea, modellata sugli interessi dell´azienda che appartiene all´ex capo del governo. E bisognerà vedere, anzi, quando sarà possibile nominare il nuovo consiglio di amministrazione di viale Mazzini, prima o addirittura dopo le prossime elezioni politiche, perché già si profila all´orizzonte una prorogatio – per così dire diplomatica – che sarebbe verosimilmente il colpo di grazia nell´agonia del servizio pubblico.
In questa circostanza, il governo di “impegno nazionale” non è stato in grado neppure di far accettare la regola di una riduzione del Cda da 9 a 5 membri, in linea con l´austerità applicata ad altri enti pubblici e organismi istituzionali a cominciare dall´Autorità sulle Comunicazioni. A parte il risparmio di quattro emolumenti, con annessi e connessi, una ragione di simmetria avrebbe dovuto prevalere sulle resistenze della partitocrazia e sulla logica della lottizzazione. Ma tant´è: quello che vale perfino per l´Authority non può valere per la Rai, concorrente diretta o sleeping partner di Mediaset.
Ora il governo Monti ha un´unica strada per uscire dall´impasse e salvaguardare la propria autorità: indicare al più presto il suo rappresentante nel nuovo Consiglio di amministrazione della Rai, in funzione di ago della bilancia; designare il futuro presidente che dovrà ottenere la maggioranza qualificata dei due terzi nella Commissione di Vigilanza; e infine indicare il nome del direttore generale che dovrà essere votato dallo stesso Cda. La famigerata legge Gasparri, avendo trasferito il controllo dell´azienda dal Parlamento a palazzo Chigi, si rivelerà così un boomerang per i suoi artefici e potrà essere utilizzata come un grimaldello per scardinare il forziere partitocratico di viale Mazzini. A quel
punto, forse potremo rivolgere un pensiero grato e riconoscente perfino all´ex ministro e ai coautori di quella pseudo-riforma.

La Repubblica 28.04.12