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Sette super prof per la ricerca Profumo sceglie i suoi «garanti», di Alessandra Arachi

Sono sette professori in tutto. Due sono donne, uno è straniero. A loro in mano le sorti dei finanziamenti della nostra ricerca. Li ha nominati ieri Francesco Profumo: il ministro dell’Istruzione ha dato così il via libera (con un decreto che andrà ora alla Corte dei Conti) al primo comitato nazionale dei garanti per la ricerca. Con qualche decennio di ritardo rispetto all’Europa.
«Sull’Europa abbiamo molto da recuperare», dice il ministro Profumo. E spiega: «Basti questo dato: nel settimo programma quadro (in corso) il contributo del nostro paese in Europa è del 14,5%. A fronte di questo la quota che le nostre aziende, le università e gli enti di ricerca riportano indietro è dell’8,5%. Ovvero con una perdita secca di 500 milioni ogni anno. Abbiamo avuto difficoltà proprio nei sistemi di valutazione, ma anche nei team, nei laboratori. Adesso abbiamo possibilità di attivare una palestra italiana per allinearci all’Europa. L’obiettivo è arrivare preparati alla partenza di Horizon 2020, l’ottavo programma quadro, nella primavera del 2014: prevede 80 miliardi europei. I nostri investimenti per enti di ricerca saranno 1,7 miliardi l’anno. Se non cambiamo da subito le nostre modalità rischiamo di perdere 8-900 milioni l’anno».
Il comitato dei garanti per la ricerca serve a questo. Sette professori in tutto, tre lavorano all’estero. Angelos Chaniotis, il più giovane, 52 anni, è un greco che insegna a Princeton. «E’ uno degli storici più famosi del mondo», garantisce il ministro Profumo che ha scelto personalmente i magnifici sette fra una rosa di quindici nomi, selezionati nei mesi scorsi da un comitato formato da cinque eccellenze che, a sua volta, ha vagliato oltre duecento curricula provenienti da 183 università ed enti di ricerca.
Il comitato dei garanti per la ricerca è una «creatura» voluta dall’articolo 21 della legge di riforma sull’Università, la cosidetta legge Gelmini. Ai magnifici sette spetta il compito di valutare ex ante i progetti di ricerca presentati su bando del ministero. E finalmente i nostri criteri di valutazione si sono allineati al resto d’Europa. Fino ad oggi erano affidati a comitati estemporanei, quando non addirittura a burocrati.
Due dei membri sono donne, lo imponeva la legge. Anna Maria Colao, 53 anni, endocrinologa napoletana, è sposata con il governatore della Campania Stefano Caldoro e vanta un posto nella top dei primi cento scienziati del mondo, ma anche fra i primi quaranta d’Italia. Daniela Cocchi, sessantenne bolognese, è stata presidente della Società italiana di statistica e oggi è membro dell’istituto internazionale di statistica, con alle spalle master e diplomi in Belgio.
Tre lavorano all’estero. Oltre allo storico greco spicca il nome di Alberto Sangiovanni Vincentelli, alle soglie dei 70 anni è il più anziano: professore di Ingegneria elettrotecnica a Berkeley vanta un curriculum che si può riassumere nel suo H-index pari ad 83 e per capire basti pensare che Stephen Hawking si ferma nella stessa scala a 62.
All’estero anche Francesco Sette, 55 anni, fisico: è il direttore generale dell’European Synchrotron Radiation Facility di Grenoble, mentre il chimico Vincenzo Barone è un normalista di Pisa, presidente della Società italiana di chimica ed è fellow dell’European Academy of Science.
Docente a Roma Claudio Franchini ha 57 anni ed è ordinario di diritto amministrativo a Giurisprudenza, nonché presidente della Conferenza dei direttori di dipartimento dell’università di Tor Vergata. E’ anche presidente del Cispa, Centro interdipartimentale di studi sulla pubblica amministrazione.

Il Corriere della Sera 28.04.12

"Se i genitori sono più istruiti dei loro figli", di Beppe Severgnini

Gli Stati Uniti d’America, se le università perdono iscritti e smalto, rischiano il futuro. Noi rischiamo subito: lo dicono il buon senso, l’osservazione e i numeri. Gli americani nati nel 1980, quando hanno compiuto 30 anni nel 2010, avevano studiato soltanto otto mesi più dei genitori. Un’inezia, destinata presto a scomparire. Claudia Goldin e Lawrence Katz, gli economisti di Harvard University autori della ricerca, sostengono che questa tendenza avrà conseguenze pesanti. In un mercato globale competitivo, gli Stati Uniti si troveranno presto in difficoltà. «La ricchezza delle nazioni non dipende più dalle materie prime. O dal capitale fisico. Sta nel capitale umano» afferma Ms. Goldin.
Alcuni dei motivi del declino nell’istruzione appaiono decisamente americani: i costi del college (primo livello universitario); la scelta degli studenti di non indebitarsi, com’è stata finora la regola. Altre ragioni sembrano comuni a tutto l’Occidente, con poche fortunate eccezioni: il numero crescente di ragazzi che lasciano (drop out) durante le scuole superiori; il fatto che lunghi studi non garantiscano più maggiori guadagni; la fragilità psicologica di una generazione cresciuta in un lungo periodo di prosperità.
Un altro elemento che sta allontanando i giovani dagli studi potrebbe essere questo: la minore spinta dei genitori, restii ad avviare i figli verso studi che non procurano gli impieghi o il prestigio sociale di un tempo. L’ambizione delle famiglie asiatiche appare invece feroce, e accademicamente produttiva. Alcune università negli USA hanno dovuto introdurre un sistema di quote per garantire il posto ai ragazzi americani. Un accesso basato soltanto sul merito li avrebbe visti soccombere davanti ai motivatissimi asiatici, che già dominano le migliori università. Assistere a una lezione in un corso undergraduate di Harvard porta a chiedersi, davanti a tanti volti orientali: in che continente ci troviamo?
In Europa l’immigrazione è più recente (come in Italia) e, comunque, di origine diversa. Ma il cammino di una generazione sembra comunque segnato. Per motivi demografici ed economici, i giovani inglesi, spagnoli, francesi e italiani staranno peggio dei genitori. E sarà la prima volta che accade.
È un’inversione pericolosa per molti motivi. Il primo dei quali si chiama dipendenza. Dipendenza economica, culturale, psicologica. La generazione dei figli del boom (nati tra il 1946 e la fine degli anni 60) appare spesso egoisticamente felice di conservare il primato; ma dovrebbe comprenderne anche l’ingiustizia e valutarne i rischi. Veder ciondolare nella proprie case «la generazione rassegnata» non può costituire motivo di orgoglio: soprattutto in Italia, il paese più anziano d’Europa, quello dove il ricambio s’annunciava comunque più difficile. Cresce il numero dei giovani connazionali convinti che gli studi non servano a costruirsi il futuro. Le rigidità del mercato del lavoro, e gli egoismi generazionali mascherati da editti sindacali, non aiutano.
Per questo appare grave la vicenda denuncia ieri sul Corriere dall’on. Guglielmo Vaccaro. La legge «Contresodo/Italians», che concede benefici fiscali a molti connazionali di rientro, approvata a larghissima maggioranza dal Parlamento nel 2010, è di fatto bloccata dalla mancata adozione di una circolare attuativa da parte dell’Agenzia delle Entrate (sempre solerte quando si tratta della nostra puntualità fiscale). Se non arriverà entro il 27 maggio, l’onorevole Vaccaro ha annunciato le proprie dimissioni, perché — ha detto — «ci ho messo la faccia di fronte a decine di migliaia di giovani italiani potenzialmente interessati al provvedimento».
Ma la faccia, davanti alle nuove generazioni, ce l’abbiamo messa anche tutti noi. Non solo verso i 300.000 italiani all’estero con una istruzione superiore (dato OCSE 2011), ma verso i milioni di giovani connazionali che — dovunque — aspettano un incoraggiamento e una prospettiva. Gli Stati Uniti d’America, se le università perdono iscritti e smalto, rischiano il futuro. Noi rischiamo subito: lo dicono il buon senso, l’osservazione e i numeri. L’ha detto anche Mario Monti, più volte, all’inizio del suo mandato, per giustificare i sacrifici richiesti: dobbiamo farlo per i nostri giovani. Speriamo se ne ricordi, il presidente del Consiglio: dei giovani, intendo. Dei sacrifici — lo abbiamo visto — il governo non s’è dimenticato.
Ma l’immagine del fiume che, di colpo, prende a scorrere in senso contrario è inquietante. E dovrebbe preoccupare tutti gli italiani adulti, non solo le istituzioni. Creare occupazione «slegando l’Italia» — come auspica Giuseppe Roma, direttore generale del Censis — porterebbe anche a questo: offrire posti di lavoro e retribuzioni che giustifichino anni di studi.
Lasciare a chi viene dopo di noi solo una montagna di debito pubblico e pensioni da sopravvivenza: non era quello che sognavamo a vent’anni, o sbaglio?

Il Corriere della Sera 28.04.12

"Per fermare i femminicidi", di Lorella Zanardo

Cinquantaquattro. L’Italia rincorre primati: sono cinquantaquattro,
dall’inizio del 2012, le donne morte per mano di uomo. L’ultima si chiama Vanessa, 20 anni, siciliana, strangolata e ritrovata sotto il ponte di unastrada statale. I nomi, l’età, le città cambiano,
le storie invece si ripetono: sono gli uomini più vicini alle donne a ucciderle. Le notizie li segnalano come omicidi passionali, storie di raptus, amori sbagliati, gelosia. La cronaca li riduce a trafiletti marginali e il linguaggio le uccide due volte cancellando, con le parole, la responsabilità. È ora invece di dire basta e chiamare le cose con il loro nome, di registrare, riconoscere e misurarsi con l’orrore di bambine, ragazze, donne uccise nell’indifferenza. Questeviolenze sono crimini, omicidi,
anzi femminicidi. È tempo che i media cambino il segno dei racconti e restituiscano interi volti, parole e storie di queste
donne e soprattutto la responsabilità di chi le uccide perché incapace di accettare la loro libertà.
Così inizia il comunicato stampa che Se non Ora Quando insieme a noi del Corpo delle Donne, Loredana Lipperini e moltissime altre donne e uomini abbiamo firmato oggi. Ma si sa che nei comunicati non c’entra il dolore e la disperazione che molte donne sentono per non essere capaci di fermare questo massacro che pare non avere fine. Non basta scriverne, bisogna educare se si vuole agire
un cambiamento reale. Da tempo andiamo nelle scuole con il nostro progetto di educazione ai media, certi che solo attraverso una reale comprensione delle immagini si possa evitare quel processo di
oggettivizzazione e deumanizzazione a cui possono condurre le migliaia di immagini di corpi delle donne proposti senza tregua ogni giorno dalle tv.
«Perché scrivete su Fb che una ragazza è una troia se ha molti ragazzi e un ragazzo è un figo se ha molte ragazze?» chiedo a un
ragazzino di terza media. Il tredicenne ci pensa e risponde: «Perché se una chiave apre molte porte è una buona chiave. Se una serratura si fa aprire da tante chiavi non è una buona serratura… ». Gli stereotipi si formano già alla scuola materna e crescono senza programmi adeguati che aiutino a sradicarli. Servono corsi di educazione alla relazione nelle scuole, è urgente.
I ragazzi apprendono la sessualità online e dalla tv e sono lasciati soli con le mille domande a cui vorrebbero risposte.
Serve educare gli autori televisivi a un utilizzo delle donne in tv che non sia solo quello miserabile attuale. Serve educare i giornalisti a un linguaggio non sessista e non offensivo: spesso leggiamo di ragazze ammazzate «per passione»: è urgente spiegare a
chi legge che trattasi di morte e la passione invece onora la vita. Mesi fa una ragazza venne stuprata con un oggetto in ferro fuori da una discoteca a L’Aquila: la trovarono quasi morta assiderata e con la vagina squarciata. Riuscirono a salvarla, almeno fisicamente. L’avvocato dell’aggressore dichiarò che «la ragazza era consenziente». Successivamente si comprese che la ragazza era stata consenziente ad appartarsi con il ragazzo, non a farsi massacrare. Le parole hanno un peso e chiediamo che i giornalisti siano responsabilizzati sull’effetto che le parole hanno in particolare sui giovani. L’Italia, Paese tradizionalmente maschilista al 74˚ posto del gender gap, fatica a prendere atto del ruolo paritario delle donne: uomini terrorizzati di fronte alla partner che sceglie di andarsene, e la motivazione più ricorrente è: «L’ho uccisa perché voleva lasciarmi». L’ultima cosa che ci auguriamo è una battaglia tra i sessi. “Essere Due” come dice Luce Irigeray è credo l’ambizione di molte donne e molti uomini. Insieme. Ma Essere Due contempla che siano anche le donne a scegliere. Ed allora è urgente educare i ragazzi al rispetto delle loro compagne e al sapere stare nella coppia senza volere prevaricare come è stato per millenni. Ma perdere potere, dovere imparare ad accettare la libertà dell’altra rappresenta un’incognita e spaventa: per questo l’educazione è oggi l’urgenza maggiore.

L’Unità 28.04.12

"L'evasione: scoperti 2.200 imprenditori fantasma sei miliardi di redditi sottratti al fisco", di Valentina Conte

Hanno tutti una caratteristica in comune: non aver pagato le tasse per almeno un anno. La Guardia di Finanza li ha stanati così: 2.192 evasori totali scoperti nei primi quattro mesi del 2012, quasi una ventina al giorno, per oltre 6 miliardi di euro occultati, 650 milioni di Iva non dichiarata, 853 denunciati per non aver presentato la dichiarazione e altri 350 per occultamento o distruzione della contabilità. Invisibili al Fisco, in realtà «facevano la “bella vita” a scapito degli imprenditori leali e rispettosi delle regole – scrive il Comando generale nel comunicato ufficiale – ostentando macchine di grossa cilindrata, ville da sogno e ricchezze accumulate in anni e anni di collaudata disonestà, mentre usufruivano di servizi che non avevano mai contribuito a pagare».

Picchi di evasione sono stati riscontrati nel settore del commercio (25% del totale) e in quello delle costruzioni (22%). A seguire, attività manifatturiere (11%), professioni (5,7%), alloggio e ristorazione (5,5%). Per aggirare la scaltrezza di questi evasori totali – che studiano «ogni tecnica per evitare di lasciare tracce» e privilegiano il contante – la Guardia di Finanzia ha incrociato le informazioni tratte dalle banche dati con i necessari controlli sul territorio, vere e proprie investigazioni “alla vecchia maniera”. La “disoccupata” Senza lavoro con Porsche piscina cromatica e megavilla UFFICIALMENTE senza lavoro. Residente a Milano Marittima, diceva di vivere grazie ai regali dell’ex compagno. Poi un giorno un controllo stradale come tanti. I finanzieri la fermano alla guida di una delle sue due Porsche, nel ravennate. Qualche riscontro e spunta l’altra vita da «incallito evasore totale». Oltre alle auto di lusso, una mega villa al mare, viaggi sempre in prima classe, soggiorni in hotel a 5 e 7 stelle. E una casa da favola “mono-griffe”- dalle forchette al sofà – con piscina cromatica, arredi di lusso, un’intera galleria d’arte in garage, abiti, scarpe e gioielli di pregio. La signora non lesinava le spese, anche 35 mila euro l’anno in una singola boutique per mise d’alta classe. Tutto esentasse.

Soldi non lasciati da presunti amanti, ma frutto di intermediazione in opere d’arte, immobili e anche moda per conto di importanti società del Nord. Le Fiamme Gialle hanno recuperato circa 2 milioni e proposto la confisca degli immobili. Il teatro E per l’Ambra Jovinelli zero dichiarazioni dal 2008 ANCHE l’Ambra Jovinelli, glorioso teatro di varietà romano di inizio Novecento, nel tritacarne dei furbetti del Fisco. La società che l’ha gestito negli ultimi anni, assieme ad altri due teatri all’Esquilino, aveva una contabilità impeccabile. Alcuni debiti iscritti a ruolo, per importi contenuti, hanno fatto scattare un banale controllo congiunto Guardia di Finanza-Equitalia. E qui la sorpresa: dal 2008 zero dichiarazione di redditi, Iva, Irap per oltre 3,6 milioni di euro. Così anche un bowling e annesso ristorante nella zona di Casal Lumbroso che batte gli scontrini, ma non tiene la contabilità: 4 milioni non dichiarati in 4 anni. E ancora un’impresa di autotrasporti di Capena, provincia di Roma, fattura i traslochi con regolarità. Ma poi non paga le tasse su 4,5 milioni. Tra le giustificazioni più gettonate a Roma e dintorni, la crisi e le difficoltà del momento. Ma anche: «Ho dimenticato di presentare la dichiarazione». La pasticceria I “migliori” cannoli di Reggio fruttano appena 1 euro l’anno I CANNOLI alla ricotta più buoni di Reggio Calabria. Un gelato speciale e altre deliziose golosità, gradite anche ai Finanzieri che spesso visitano questa nota pasticceria, in centro città. Tra una degustazione e l’altra, le Fiamme Gialle notano incongruità negli scontrini: troppi emessi in determinate fasce orarie, magari quando loro sono in giro.

Scattano le prime verifiche e all’improvviso spunta una clamorosa dichiarazione relativa al 2007: appena un misero euro di reddito. I conti non tornano e alla fine la Guardia di Finanza ricostruisce 400 mila euro di ricavi che l’estroso pasticcere e la titolare, sua moglie, decidono di tenere lontani dalle tasse nel 2010 e nel 2011, e violazioni Iva per oltre 40 mila euro. Come se non bastasse, pure tre lavoratori in nero, due in laboratorio e un impiegato, La multa è maxi: 340 mila euro, 150 euro per ogni giorno di assunzione irregolare moltiplicata per 900 giorni, tre anni di nero.

Il costruttore Simula furto di documenti per occultare 24 milioni AVEVA pensato a tutto. O quasi. Un imprenditore edile di Alatri, in provincia di Frosinone, in apparenza agiva alla luce del sole: emetteva e registrava regolarmente le fatture, la contabilità di dipendenti e singoli cantieri era corretta. Poi un giorno simula il furto della propria auto.

Riposti nel cofano, preziosi documenti fiscali che, andati persi, gli impediscono di redigere regolare dichiarazione dei redditi. Così, ad un controllo della Finanza, salta fuori che dal 2007 l’astuto signore non versa un centesimo al Fisco. Impossibile trovare le carte, in realtà sapientemente occultate, ma ufficialmente rubate. Armati di pazienza, le Fiamme Gialle ricostruiscono il giro d’affari dell’impresa, attraverso indagini bancariee accertamenti presso clienti e fornitori. Risultato: base imponibile evasa record, oltre 23 milioni, più violazioni Iva per oltre un milione. L’imprenditore emetteva fatture, sì, ma non redigeva neanche il bilancio.

Il gioielliere Giovane e amante del lusso non pagava da quattro anni TRENTENNE, noto gioielliere, proprietario di due negozi nel bresciano: Gavardo e Manerba del Garda. Amante dei monili e del lusso, meno del Fisco e della legalità, per via di una “dimenticanza” ha omesso di pagare le tasse per quattro anni di seguito. Danno per lo Stato: evasi quasi 1,4 milioni di imposte dirette e circa 280 mila euro di Iva.

Il giovane, in realtà, non negava gli scontrini ai suoi ignari clienti e teneva la documentazione fiscale apparentemente in regola, pronta per essere esibita in caso di controllo. Poi un giorno qualcosa si inceppa.

Una verifica dei finanzieri di Salò sui settori a rischio evasione, come quello dei preziosi, svela che l’insospettabile ed energico gioielliere ama sguinzagliare Bmw Cabrio, Porsche Cayenne e Ducati Monster, per le vie della Leonessa d’Italia e dintorni. E non di rado veste griffe super costose, acquistate con soldi fatturati, sì, ma finiti integralmente nelle sue tasche.

La Repubblica 28.04.12

"È finita la favola della Fiducia", di Paul Krugman

Innanzitutto la buona notizia: si ammette finalmente che le misure di austerità non funzionano. Ma ecco quella cattiva: almeno a breve termine, le prospettive di cambiamento appaiono quanto mai scarse. È in quest´ultimo mese che la favola della fiducia è morta. Negli anni scorsi, gran parte dei politici europei, al pari di molti dei loro omologhi ed esperti americani, sono stati prigionieri di una dottrina economica distruttiva: una teoria secondo la quale i governi avrebbero dovuto fronteggiare la depressione economica non già aumentando la spesa per compensare il calo della domanda privata, come indicano i trattati di riferimento, ma attraverso il rigore fiscale e l´abbattimento della spesa pubblica, in nome dell´equilibrio di bilancio.
I critici hanno detto fin dall´inizio che in una fase depressiva l´austerità non avrebbe fatto che aggravare la situazione; ma i rigoristi sostenevano il contrario, puntando sul fattore fiducia. «Le politiche atte a ispirare fiducia non saranno certo di ostacolo alla ripresa economica, anzi la promuoveranno», dichiarava allora Jean-Claude Trichet, ex presidente della Banca centrale europea; una tesi riecheggiata al Congresso di Washington dagli esponenti repubblicani. In altri termini, come dissi allora, si pensava alla fiducia come a una fata che sarebbe tornata a premiare i politici per le loro virtù fiscali.
Fortunatamente, oggi molte voci autorevoli hanno finito per ammettere che si è trattato di un mito. Ciò malgrado, però, non si intravedono cambiamenti di rotta a breve termine in Europa, e neppure negli Usa, che peraltro non hanno mai pienamente adottato la dottrina rigorista. Ma anche qui l´austerità è stata imposta di fatto, sotto forma di un drastico abbattimento della spesa e di pesanti tagli occupazionali, sia a livello degli Stati che a quello locale.
La dottrina fondata sul richiamo ai miracoli della fiducia suonerebbe familiare a Herbert Hoover (presidente Usa nel 1929 – ndt). Di fatto, nell´Europa di oggi la fede in quel mito non si è rivelata più fondata che nell´America di quegli anni. Negli Stati periferici europei, dalla Spagna alla Lettonia, le politiche di austerità hanno prodotto una serie di tracolli, con livelli di disoccupazione paragonabili a quelli della Grande Depressione; la Fata Fiducia non si è vista da nessuna parte – neppure in Gran Bretagna, dove due anni fa la svolta liberista era stata osannata sulle due sponde dell´Atlantico.
In tutto questo non vi è nulla di nuovo: si sa da tempo che le politiche di austerità non mantengono le loro promesse. Ma questa verità ovvia, i politici europei l´hanno negata per anni, ostinandosi ad annunciare che a breve le misure adottate avrebbero dato i loro frutti, e celebrando come un trionfo ogni più lieve segno positivo. In particolare, un Paese a lungo attanagliato dalla crisi come l´Irlanda è stato citato a esempio del buon esito delle politiche di rigore per ben due volte: all´inizio del 2010, e più recentemente nell´autunno 2011. Ma ogni volta, il preteso successo si è rivelato un miraggio. A tre anni dall´avvio del suo programma di austerità, l´Irlanda non mostra ancora alcun segno reale di ripresa, dopo un crollo che ha portato il tasso di disoccupazione vicino al 15 per cento.
Eppure, in queste ultime due settimane qualcosa si sta muovendo. Sembra che alcuni avvenimenti – tra cui la crisi del governo olandese dopo la sua proposta di misure di austerità, i consensi riscossi al primo turno delle elezioni presidenziali francesi da un François Hollande vagamente anti-rigorista, o le notizie sulla Gran Bretagna, dove secondo un rapporto la situazione è oggi peggiore che nel 1930 – abbiano finalmente aperto una breccia nel muro della negazione. All´improvviso, tutti riconoscono che l´austerità non funziona.
Ora però la domanda è: cosa si farà a questo punto? Temo di dover rispondere: non molto.
Innanzitutto, se da un lato i rigoristi sembrano aver lasciato ogni speranza, dall´altro non depongono la paura, sostenendo che se non si continua a tagliare la spesa – in barba alla depressione economica – si rischia di finire come la Grecia, con un costo del debito alle stelle.
Ora, la tesi secondo la quale solo l´austerità può placare i mercati finanziari si è sempre rivelata errata, così come il mito della fiducia foriera di prosperità. A quasi tre anni da quando il Wall Street Journal annunciava a gran voce l´attacco dei bond vigilantes al debito Usa, il costo del denaro, lungi dall´aumentare, si è addirittura dimezzato. E il Giappone – Paese che per oltre un decennio ha subito le più fosche previsioni sulle sorti del suo debito – ha ottenuto questa settimana crediti a lungo termine a un tasso d´interesse inferiore all´1%.
Oggi molti seri analisti sostengono che l´austerità fiscale in un´economia depressa ha probabilmente effetti autodistruttivi, in quanto comprime l´economia e penalizza i redditi a lungo termine; e quindi non solo non risolve i problemi legati al debito, ma al contrario li aggrava.
Ma se la favola della fiducia sembra ormai morta e sotterrata, restano in auge i racconti da brivido sul tema del deficit. Di fatto, i sostenitori della politica britannica respingono ogni invito a ripensare le loro scelte, che pure dimostrano di non dare i risultati sperati, sostenendo che ogni cedimento in materia di austerità porterebbe a un´impennata del costo del denaro.
Oggi viviamo in un mondo governato da un´economia politica-zombie. La constatazione dell´erroneità di tutte le sue premesse avrebbe dovuto ucciderla; e invece continua ad arrancare sulla stessa strada. E nessuno può sapere quando questo regno dell´errore avrà fine.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

La Repubblica 28.04.12

"Il Paese delle piccole città", di Irene Tinagli

È un’interessante fotografia del nostro Paese quella che sta emergendo dai primi risultati del Censimento 2011. Interessante non solo per ciò che cambia, ma anche (e forse ancora di più) per ciò che invece resta uguale a se stesso, magari anche in controtendenza con quel che avviene nel resto del mondo. È questo il caso della distribuzione geografica della popolazione sul territorio, che resta molto frammentata. Il 66,4% degli italiani vive in città piccole o medie, con meno di 50.000 abitanti, e solo il 22,8% vive nelle 45 città italiane con oltre 100.000 abitanti.

Non solo, ma questo dato fa parte di un trend che va rafforzandosi. I Comuni di dimensione medio-piccola (tra 5 mila e 20 mila abitanti) hanno aumentato la popolazione dell’8,1% (un valore quasi doppio rispetto a quello nazionale).

Quelli di medie dimensioni del 5,2%, mentre nei Comuni grandi la popolazione è rimasta pressoché stazionaria (0,2%). Le grandi città, in sostanza, perdono abitanti mentre sono quelle medie e piccole ad attrarne. Come indica il documento Istat, nei sei Comuni più grandi (Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo e Genova) negli ultimi decenni si è assistito a un lento ma progressivo decremento di popolazione, un decremento che sembra confermato dai dati preliminari (con l’interessante eccezione di Torino e Roma).

Questi dati colpiscono molto perché sono in controtendenza con quanto avviene nel resto del mondo. Da diversi anni ormai molti osservatori internazionali hanno evidenziato una forte crescita delle grandi città. Un fenomeno trainato non solo dallo sviluppo dell’Asia e di altri Paesi emergenti con le loro megalopoli da decine di milioni di abitanti, ma anche dalla rinascita di molte città occidentali, americane ed europee. Città che negli Anni Settanta e Ottanta avevano visto forti contrazioni di popolazione, frutto di un declino e un processo di trasformazione economica e produttiva che aveva colpito sia di qua che di là dall’Oceano. Una crisi pesante soprattutto per quelle città che fino a quel momento erano state le più prospere e industriose: New York, Chicago, Detroit, Pittsburgh, ma anche Amsterdam, Berlino, Oslo, Stoccolma, per non parlare di luoghi come Manchester o Liverpool (in quegli anni Liverpool perdeva qualcosa come il 4-5% di popolazione all’anno). Poi, negli Anni Novanta, fu chiara l’inversione di tendenza. E recentemente sono tornate a crescere quasi tutte. Persino Detroit e Pittsburgh, che per oltre trent’anni hanno registrato perdite, stanno invertendo tendenza. Stando ai dati delle Nazioni Unite, Oslo negli ultimi anni cresce a ritmi di quasi il 2% annuo, Stoccolma dell’1,7%, Madrid quasi del 3%, Barcellona dell’1,5%, e molte altre segnano aumenti costanti anche se più contenuti.

Una rinascita legata sostanzialmente a due fenomeni. Da un lato alla trasformazione del sistema economico globale, che ha visto l’emergere di nuovi settori industriali legati ai servizi avanzati, alla creatività, l’innovazione e al design – tutte cose che non solo non hanno bisogno di grandi fabbriche nelle periferie, ma che anzi traggono beneficio dalla prossimità a servizi, aziende, professionisti e attività «complementari» alle proprie. Dall’altro lato al parallelo cambiamento nella struttura occupazionale di molti Paesi, con l’aumento del peso di professionisti, manager, designer, ingegneri ed altre professionalità altamente qualificate. Persone che, come mostrano molti studi, tendono a preferire uno stile di vita «urbano», con più servizi e con maggiori attività ricreative e culturali a disposizione. Non è un caso se oggi città come New York, Londra, Stoccolma o Oslo hanno percentuali di professionisti e «lavoratori creativi» che vanno dal 40 al 50% della forza lavoro. Questi due fenomeni hanno ridisegnato e continuano ad influenzare profondamente la geografia economica e sociale non solo dei Paesi emergenti ma anche di quelli industrializzati, con conseguenze importanti sulla loro capacità di produrre innovazione, attrarre talenti ed investimenti internazionali, nonché di sfruttare sinergie ed economie di scala che consentono di realizzare una miglior efficienza energetica e minor impatto ambientale (numerosi studi recenti mostrano un impatto ambientale pro capite significativamente minore nelle grandi città che nelle piccole).

Di fronte a queste dinamiche internazionali, le tendenze che si stanno registrando in Italia non possono che sollevare riflessioni ed interrogativi. Non si tratta né di mettere sotto accusa né di difendere incondizionatamente la nostra struttura territoriale, ma semplicemente di analizzare in modo serio tutte le caratteristiche e le implicazioni di una realtà urbana che è al tempo stesso conseguenza e concausa di importanti dinamiche economiche e sociali del Paese. Per troppo tempo abbiamo trascurato le problematiche e le potenzialità delle nostre città e della peculiare «geografia economica» che ci caratterizza, con riflessioni superficiali o ideologiche, dati approssimativi e politiche urbane scarse se non inesistenti. Forse è il caso, almeno su questo, di invertire tendenza.

La Stampa 28.04.12

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“Immigrati, dal panico al buonsenso”, di GIOVANNA ZINCONE

La popolazione italiana è fatta sempre più di immigrati. E, come sappiamo, la nozione di abitante è sempre meno collegata a quella di cittadino. I primi dati del Censimento 2011 ci dicono come l’Italia abbia raggiunto il massimo storico nel numero di abitanti l’anno scorso, sfiorando i 60 milioni, e tenendo quindi il passo con le altre grandi nazioni europee, come Francia e Gran Bretagna, che hanno varcato questa soglia nell’ultimo decennio. Ci dicono anche come la popolazione sia cresciuta maggiormente al Nord, e come due grandi città, Roma e Torino, abbiano invertito la tendenza alla decrescita, recuperando abitanti rispetto al 2001.

È uno scenario diverso da quello registrato 10 anni fa, e soprattutto è uno scenario del tutto difforme da quello che le migliori previsioni demografiche degli Anni 80 e 90 avevano ipotizzato. Rilevando la bassa natalità registrata tra la popolazione nazionale, prevedevano per il 2011 un’Italia più piccola – ben staccata dalla pattuglia di testa dei Paesi europei – e più vecchia, più meridionalizzata e de-urbanizzata. La variabile che ha cambiato radicalmente le carte in tavola, il singolo più importante fattore di mutamento ha un nome ben preciso: immigrazione.

Rispetto al censimento 2001 la popolazione straniera «abitualmente dimorante» in Italia è quasi triplicata: da circa 1.300.000 a circa 3.770.000 (un dato provvisorio). E il censimento, per quanto ci dia i dati più approfonditi, non è l’ultima foto scattata, e non può utilizzare né il grandangolo né il macro: molti italiani si sottraggono alla rilevazione, e a maggior ragione questo accade per gli stranieri. Se guardiamo ai dati Istat basati sulle rilevazioni anagrafiche, gli stranieri residenti in Italia, secondo gli ultimi dati disponibili, sono 4.570.317, pari a circa il 7,5% della popolazione. Ma anche così aggiornata, la consistenza degli stranieri in Italia resta sottovalutata dai dati ufficiali.

Se ai residenti si aggiungono, secondo la stima del Dossier Caritas, le persone regolarmente presenti ma non registrate in anagrafe, e i veri e propri irregolari, la cifra sale ulteriormente e supera ampiamente i cinque milioni.

Non meraviglia quindi che una trasformazione così rapida e importante abbia suscitato una sensazione di spaesamento: tanti immigrati, così in fretta, e per di più tanti irregolari, non sono un fenomeno al quale ci si adatti con disinvoltura.

Soprattutto il carattere irregolare preoccupa, ma un po’ a ragione e un po’ a torto. A ragione, perché segnala un’immigrazione fuori controllo e potrebbe far supporre che le nostre frontiere siano porose. A torto, perché il grosso degli irregolari non è entrato clandestinamente pur di trovare una via di fuga da situazioni disperate. Gran parte degli irregolari entra legalmente, seppure da un uscio laterale: utilizzano cioè un permesso di soggiorno valido che poi scade, perché magari era stato rilasciato per improbabili motivi turistici, mentre i titolari volevano cercare lavoro e fermarsi. E, almeno finché la situazione economica non si è fatta dura, ci sono pure riusciti. Quegli immigrati di straforo sono diventati lavoratori in regola con il permesso di soggiorno.

Dal 1998 al 2012 ci sono state tre sanatorie, per un totale di circa 1.160.000 persone, ma non si è trattato di grandiose estrazioni di biglietti tutti vincenti. Per essere regolarizzati c’era bisogno di un contratto di lavoro. Quindi quel vasto universo, quelle impressionanti cifre che oggi registriamo di lavoratori immigrati, di decorose famiglie e di cari bambini che hanno origini straniere, hanno attraversato la porta stretta dell’irregolarità. Meglio ricordarselo, quando siamo presi dal panico di perdita di controllo.

Meglio consolarsi constatando che la stragrande maggioranza di chi entra, anche se di straforo, fa più bene che male al nostro Paese. E se si pensa che si debba contenere l’immigrazione, bisogna osservare che a dissuadere i potenziali immigrati a entrare, e a spingere quelli presenti a rientrare nella patria di origine, ben più della repressione sta cominciando ad agire la recessione. Gli immigrati continuano a crescere, ma di poco, a un ritmo più ridotto degli anni precedenti. La disoccupazione ha colpito in particolare i lavoratori immigrati. Il tasso annuale medio è passato dall’11,6% del 2010 al 12,1% del 2011, crescendo molto più di quanto non sia accaduto per gli italiani. E, se anche nel 2011 ci sono stati 170.000 lavoratori immigrati in più, il loro livello di occupazione è sceso dal 63,1% del 2010 al 62,3%, pur rimanendo comunque più alto di quello dei lavoratori italiani, che è al 56,6%.

Insomma, gli immigrati sono formalmente – come detto all’inizio – il 7,5% della popolazione, ma costituiscono il 9,4% della forza lavoro. La presenza degli immigrati, dei lavoratori immigrati non è dunque un’opzione che si può rifiutare, si può semmai governare con buon senso. Gli italiani sembrano averne. In un sondaggio comparato che include vari Paesi europei, gli italiani risultano i meno preoccupati della concorrenza degli immigrati nel mercato del lavoro. Due terzi (69%) non ritengono che portino via posti agli italiani e tre quarti (76%) affermano che gli immigrati vengono impiegati per mansioni che non potrebbero essere svolte altrimenti. Insomma gli italiani sono pronti ad augurare anche ai lavoratori immigrati un buon 1˚ maggio.

La Stampa 28.04.12

"Se avanza il partito anti-moneta unica", di Gad Lerner

Da sapiente veterano dello show-business, Beppe Grillo ha atteso gli ultimi giorni di campagna elettorale per scaraventarvi dentro un argomento incendiario: l´uscita dell´Italia dall´euro. Bisognerà rispondergli nel merito, con i pro e i contro del caso, senza inutili scomuniche. Perché appare chiaro che un tale argomento incendiario era lì pronto, in attesa del primo imprenditore politico abbastanza temerario da impugnarlo, non più giullare ma attrezzato per ergersi a guida nel caos della grande depressione.
Il no-euro ha la forza dell´ambiguità. È al tempo stesso un obiettivo e una profezia che rischia di avverarsi. Lo stesso Grillo non maledice in sé l´idea di una moneta comune fra i popoli del continente. Si limita a sostenere che oggi non siamo in grado di permettercela.
Non ha bisogno del nazionalismo protezionista di Marine Le Pen, o dell´anticapitalismo radicale dei comunisti greci, per sostenere la loro medesima volontà di spaccare l´eurozona. Gli basta solleticare la nostalgia popolare per il tempo meno cupo della lira; e pazienza se nel passaggio gestito irresponsabilmente dieci anni fa dalla lira all´euro, come ci ricorda sempre Marcello De Cecco, si perpetrò in Italia un massiccio drenaggio di risorse a vantaggio del lavoro autonomo e a scapito delle buste paga: un altro delitto politico finito in prescrizione, quel mancato calmieramento dei prezzi.
Come già il malumore antimeridionale e la xenofobia vennero elevati da chiacchiera da bar a arma politica grazie al leghismo, così il no-euro rischia di occupare uno spazio centrale nel nostro dibattito pubblico, avendo trovato in Grillo il suo apprendista stregone. Magari strumentalizzando anche il paradosso di un premio Nobel come Paul Krugman: l´economista keynesiano che di recente ha evocato la soluzione “dirompente” del ritorno alle monete nazionali quale risposta possibile al rigorismo tedesco che trascina l´Europa al suicidio.
Un conto è sostenere, come Krugman e tanti altri, che la fine dell´euro non è più un´eventualità remota; ben altro è auspicarla, sulla scia dei numerosi movimenti nazionalisti che in tutto il continente collezionano vittorie elettorali predicando quel disastro storico che sarebbe la fine dell´Unione europea. Beppe Grillo è un brutale semplificatore: descrive uno scenario in cui la politica democratica troverebbe il suo riscatto nella contrapposizione agli euroburocrati servi della finanza mondialista. Come se i popoli potessero trovare risposta alla sofferenza sociale della crisi solo tornando a separarsi; e il progetto di istituzioni comunitarie democraticamente elette, non assoggettate ai dogmi dell´economia fondata sul debito, fosse da liquidare come utopia irrealizzabile.
Serve umiltà nel controbattere la propaganda no-euro. Cosa ne sarebbe oggi dell´economia italiana se avessimo mancato l´appuntamento dell´unione monetaria? Chi può ragionevolmente sostenere che staremmo meglio in tragico isolamento, procedendo a colpi di svalutazione della lira, fingendo cioè che un´economia avanzata possa reggere comprimendo i costi e abdicando alla ricerca dell´eccellenza?
Il timore è che la campagna di Beppe Grillo non resterà solitaria in un paese affollato di avventurieri della politica. Già è prevedibile che una Lega travolta dagli scandali cerchi la riscossa cavalcando gli argomenti no-euro del protezionismo che hanno fatto la fortuna del Front National in Francia. Ma anche Berlusconi, il giorno in cui volesse rimettere insieme i cocci del Pdl, o come diavolo s´inventerà di chiamarlo, in una campagna elettorale di contrapposizione all´europeismo dei tecnici e della sinistra democratica, potrebbe avere la medesima tentazione. È il marketing politico a suggerirglielo, ma anche l´istinto populista che già in passato lo portò più volte a recriminare contro “l´Europa di Prodi” e contro “l´euro che non ha mai convinto nessuno” (28 ottobre 2011).
Quando il “vaffa” di Grillo s´indirizza non più solo contro la partitocrazia corrotta e i tecnici “rigormontis”, ma prende di mira un architrave del progetto comunitario europeo, è evidente che egli sta occupando con astuzia uno spazio politico decisivo. Se finora il suo movimento traduceva in protesta elettorale il linguaggio elaborato in trent´anni di monologhi inizialmente scritti insieme a Antonio Ricci (varrà la pena di studiare l´approccio comune del grillismo e di “Striscia la notizia”), ora con il no-euro va molto oltre: non delinea certo il progetto di una nuova società, ma punta ambiziosamente a demolire la speranza ancora giovane di un´Europa senza frontiere. Troverà imitatori più forti di lui?

La Stampa 28.04.12