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"Dura polemica fra il comico genovese e i partiti che lo sfidano al confronto sul terreno della politica", di M.Ze.

Mentre Beppe Grillo spopola nei Tg e conquista spazio nel giorno della Liberazione attaccando direttamente il presidente della Repubblica ed evocando a sproposito i partigiani, i partiti, dal Pd, all’Udc all’Idv (con moderazione), prendono le distanze dal comico prestato al Movimento a Cinque Stelle.
«Ieri il presidente Napolitano dice il segretario del Pd Bersani durante una conferenza stampa a Como ha detto cose puntuali e serissime. Grillo ha risposto con insulti: non si permetta, e non si azzardi a dire cosa direbbero se tornassero i partigiani, che saprebbero cosa dire dell’uomo qualunque». Il comico genovese aveva tirato in ballo i partigiani affermando che oggi, davanti all’attuale crisi politica, «forse riprenderebbero in mano la mitraglia», frase pronunciata durante le celebrazioni del 25 aprile, in coerenza con lo stile oratorio a cui ha abituato il suo popolo.
I PARTIGIANI E LA POLITICA
«I partigiani replica Bersani ci hanno dato una democrazia, una Costituzione che comprende l’articolo 49, quindi i partiti, che devono ripulirsi perché così non va, ma che sono un’ossatura della democrazia». «Attenzione: aggiungenon cederemo a qualunquismi non per noi ma per l’Italia, che non può avere un futuro cercando scorciatoie. Bisogna riforma la politica nel solco della Costituzione». L’ultimo riferimento a Grillo ha tutto il sapore di una provocazione: spieghi, chiede Bersani, perché «non è candidabile, mentre il presidente Napolitano lo sarebbe da domani. Ci spieghi perché, prima di sparare insulti».
Anche Pier Ferdinando Casini sfida Grillo sul terreno della politica: «Piuttosto che fuori, meglio che Grillo sia dentro il Parlamento, così si dovrà confrontare, non con le paro-
le, ma con i fatti. È capitato ad altri movimenti politici di arrivare con grandi aspettative e poi dover fare i conti con la realtà». Sul filo le dichiarazioni di Antonio Di Pietro, la cui sintonia con il comico resta agli atti e ha il suo peso. Prende le distanze, ma solo un po’, dicendo che la differenza tra lui e Grillo è una sola: «Io critico ma voglio costruire un’alternativa, lanciare un modello riformista e legalitario. Lui invece mira a sfasciare tutto e basta». Ci resta male il comico e fa sapere che mai si sarebbe aspettato una cosa così dal leader Idv. «Caro Beppe tranquillizza Di Pietro te l’ho detto e te lo ripeto: non cadere nel trabocchetto di chi ci vuole mettere uno contro l’altro». Pace fatta?
LA SFIDA DELLE RIFORME
Se Grillo soffia sul fuoco dell’antipolitica e cresce nei sondaggi, ai partiti resta il compito non faciledi riconquistare il terreno perduto tra gli elettori e di riavvicinare l’opinione pubblica, restituendo la credibilità persa e la fiducia messe a durissima prova anche dagli ultimi scandali che hanno travolto i tesorieri di Lega e Margherita.
Bersani anche ieri è tornato sul tema. Il Pd, ha ricordato, ha presentato una sua proposta per il dimezzamento del finanziamento pubblico, mentre in Parlamento c’è una proposta sui bilanci dei partiti, per «metterci in una condizione di pulizia»: riforme che vanno fatte con priorità assoluta non solo per dare un segnale ai cittadini ma perché è la stessa politica ad aver bisogno di una nuova partenza.
Ieri, intanto, la riunione dei capigruppo della Camera ha fissato la road map del prossimo mese: il 14 maggio arriverà in Aula la proposta di legge sulla trasparenza dei bilanci dei partiti firmata da Alfano, Bersani e Casini che però sarà modificata. Su richiesta del capogruppo Pd, Dario Franceschini, infatti, sarà accorpata al testo sui finanziamenti dei partiti (che in precedenza era stato invece abbinato al testo di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione.) Saranno i relatori, Gianclaudio Bressa (Pd) e Peppino Calderisi (Pdl) a dover rimettere mano al testo dovrebbero presentarne uno base il 3 e non è escluso che la Commissione debba lavorare anche la prossima settimana, a Camera chiusa, per portare il 14 maggio in aula il provvedimento. «La proposta della maggioranza sarà parte spiega Bressa di un testo nuovo di cui dovremo incaricarci. Una proposta semplice per l’attività emendativa».
Il 9 maggio, invece, verrà presentato in commissione Affari costituzionali il testo base di riforma dei partiti, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, che unificherà le proposte di legge depositate in commissione su questa materia. Entro il 14 dovranno essere presentati gli emendamenti che saranno messi al voto dal 15 al 17 maggio, mentre il 24 dovrebbe essere assegnato il mandato al relatore. Ancora non è stata decisa la data di approdo in Aula, dove arriverà soltanto «se ultimato». Critici il radicale Maurizio Turco e il leghista Pierguido Vanalli secondo i quali il testo avrebbe dovuto essere abbinato al finanziamento dei partiti.

l’Unità 27.04.12

"Rilancio dell'Unione, un gioco a tre Occasione per Italia, Francia e Germania", di Antonio Puri Purini

È giunto il momento dell’azione. Esistono anche i capricci della fortuna nei percorsi della storia. Vanno colti al volo. Oggi si profila per l’Europa la possibilità di arrivare a una sintesi fra rigore e crescita. Per merito di François Hollande, la questione è piombata nel dibattito europeo dopo il primo turno delle elezioni presidenziali francesi. È un’occasione insperata perché l’Europa ritrovi se stessa, l’opinione pubblica capisca che l’unione politica è senza alternative, la politica respinga le soluzioni nazionali (il controllo esterno delle frontiere deve restare responsabilità comune). L’opportunità dischiusasi vale in particolare per Francia, Germania e Italia, Paesi fondatori delle Comunità europee non nello spirito di un rimescolamento delle alleanze ma di un duraturo rapporto a tre. Potrebbero diventare protagonisti di un rilancio dell’Unione capace d’integrare rigore e crescita e, successivamente (ma ogni cosa a suo tempo), riordinare un assetto istituzionale molto confuso. L’Italia che, dal primo incontro di Mario Monti con Angela Merkel e Nicolas Sarkozy nel dicembre scorso a Strasburgo, ha fatto un cavallo di battaglia del binomio austerità-crescita, può ritrovare in Europa uno spazio adeguato al suo ruolo storico. La prospettiva che questi tre Paesi riaggiustino la rotta comune è affascinante dopo anni d’indifferenza. Guai a sprecarla. Fra l’altro, Monti e Merkel sono due europeisti di esperienza; Hollande è un europeista di sentimento: la pratica, se dovesse venire eletto, seguirà. Non c’è ragione che non vadano d’accordo.
Perché le divergenze esistenti si trasformino in una solida intesa è necessario mantenere i piedi per terra, costruire con propositi e fatti concreti. Per l’Italia, questo significa agire sulla base di alcuni presupposti: la convergenza fra i tre principali Paesi dell’Unione Europea esercita un’insostituibile funzione di traino; l’asse franco-tedesco non è un capriccio ma un’esperienza collaudata e raffinata in oltre cinquant’anni d’esistenza; funziona male se viene gestito in maniera esclusiva, bene se rappresenta un motore dell’integrazione europea; la Germania rimane un partner essenziale che non va antagonizzato ma convinto e posto di fronte alle sue responsabilità; il trattato sulla disciplina di bilancio (fiscal compact) non può essere rinegoziato perché rappresenta una garanzia cui Berlino non rinuncerà; può essere invece completato: su questi aspetti (dichiarazione allegata, nuovo protocollo, impegno politico solenne) la diplomazia europea troverà una formula conveniente; concretezza dell’intesa sulla crescita in maniera che un’opinione pubblica inquieta, succube spesso dei partiti estremisti, la associ a iniziative tangibili; la realizzazione di progetti comuni di sicura fattibilità (infrastrutture anche immateriali, completamento del mercato interno, connessioni energetiche, collaborazioni culturali innovative) costituisce un compito enorme capace di mobilitare lavoro, energie, talenti, di motivare i giovani (raddoppio del programma Erasmus: ma cosa si aspetta per farlo?). In passato l’Europa ne è stata capace. Perché non riprendere subito il cammino interrotto con il progetto Galileo, ultimo vero progetto comune? Tre Paesi risoluti ed energici dovrebbero riuscirci, ancora nel 2012. La rapidità è fondamentale. La comunità internazionale guarda all’eurozona quasi con fastidio e all’Unione Europea con delusione perché rassegnata che il traguardo di un’Unione politica robusta non potrà essere raggiunto senza una politica estera, una capacità nella difesa, una politica di bilancio comuni. La finanza e la politica, soprattutto a Washington, sollecitano con impazienza segnali certi: il breve e il lungo termine si saldano nell’aspettativa di un percorso comune. Tutti nel mondo temono l’instabilità. L’Italia può raggiungere i propri obiettivi a condizione di muoversi nel solco della tradizione interrotta con l’avvento del governo Berlusconi nel maggio 2001. Avremo successo se non daremo l’impressione di lasciare sola la Germania, se lavoreremo con determinazione, se avremo identificato i settori dove può venirci incontro, se non ci scorneremo con problemi prematuri (il ruolo della Bce), se non strumentalizzeremo una eventuale vittoria di Hollande al secondo turno per ragioni di politica interna, se lo aiuteremo a restituire autorevolezza alle istituzioni comunitarie (ma arriverà a tanto una volta all’Eliseo?), se useremo la nostra tradizione d’equilibrio per rompere il circolo vizioso d’incomprensioni e risentimenti e non per ritagliarci un improponibile ruolo di mediatore. Occorre una scelta netta: Hollande va aiutato perché è una persona perbene e confida nell’unità europea (chi ha figli giovani deve crederci per forza), Merkel va appoggiata perché si è battuta molto per l’avanzamento dell’Europa. Speriamo che lo capisca anche la politica e che incalzi costruttivamente il governo su questa strada (le riforme strutturali) espellendo ogni forma di demagogia.

Il Corriere della Sera 27.04.12

"L'argine del Quirinale", di Michele Prospero

C’è un fenomeno scivoloso, e ciclicamente ricorrente in Italia: quello di chi, usando una ideologia regressiva e devastante, intende travolgere i partiti e le rappresentanze. E lo fa in nome di assoluti e indeterminati nuovi inizi da affidare agli scaltri professionisti dell’antipolitica, a digiuno di ogni senso dello Stato. Bene ha fatto, quindi, il Presidente della Repubblica, a coronamento di una riflessione meditata e supportata da una veduta storica ampia, a porsi in esplicita controtendenza rispetto all’oscuro spirito del tempo, che è ormai rigonfio di una brutta antipolitica trionfante anche grazie al cedimento di molti chierici. Il discorso di Pesaro ha posto degli argini robusti. Tutti i pittoreschi personaggi emersi nel ventennio trascorso prima scagliano velenose frecce contro il partito, raffigurato quale simbolo del male assoluto, e poi però ne creano uno del tutto nuovo e lo pongono alle loro esclusive dipendenze personali e familiari, facendone così una creatura davvero bestiale, che si rivela ancora più degenerata e mostruosa di quegli antichi organismi che con sprezzo hanno demolito.

Giornali come Il Fatto non l’hanno presa bene. E Di Pietro, facendo riemergere dagli abissi una sua anima profonda, invano camuffata con improbabili contorsioni pansindacaliste, ha difeso l’uomo qualunque. Molti commentatori hanno poi pigramente interpretato il discorso di Pesaro solo come una metaforica sculacciata a Grillo e alla sua fastidiosa turbolenza espressiva. Ma non era l’astuto e ricco comico il bersaglio principale di Napolitano che, volando alto, si interrogava piuttosto su delle regolarità storiche assai inquietanti che attraversano la vicenda repubblicana.
Il Presidente ha colto, con le antenne distaccate dello statista, che oggi monta un clima molto pericoloso e che in giro c’è uno scivolamento culturale ben più preoccupante di quello impersonato dal comico dalla bestemmia facile. E riguarda grandi giornali, opinionisti influenti, movimenti di società civile, settori forti dell’economia, insomma porzioni assai rilevanti delle classi dirigenti italiane. Le élite che contano non partono da un sobrio bagno di verità (e cioè dal riconoscimento che i campioni dell’antipolitica, una volta al potere, si sono rivelati un terribile disastro) ma continuano a perseverare nelle loro magiche invocazioni di nuove candidature carismatiche, che possono emergere solo coinvolgendo tutti i partiti (anche quelli più affidabili) in uno stesso destino, pieno di macerie.

Questo tradimento delle classi dirigenti, che non esitano ad imboccare il viottolo scosceso dell’antipolitica pur di difendere degli interessi ristretti, preoccupa molto, non la pura indignazione di cittadini increduli e arrabbiati dinanzi a certi abusi, a pratiche oscene e ruberie disarmanti. Poiché l’antipolitica è una grande e tragica potenza, che cavalca con leggerezza un’onda favorevole proprio per la decadenza culturale della politica da anni appaltata a imprenditori e carrieristi cinici, sarebbe del tutto vano il proposito di arrestarla contrapponendo la superiorità etica della bella lingua politica rispetto al volgare dialetto della squallida antipolitica.
Perché monta l’antipolitica? Non basta una semplice e giusta demonizzazione di un fenomeno degenerativo che ha dimensioni enormi e sempre più inquietanti, anche perché tutti i media ne fanno un senso comune e lo alimentano con iniezioni demagogiche continue. Ormai esistono fondazioni-partito, trasmissioni-partito che si agitano con un ben definito progetto. C’è chi punta sul tecnico o il manager che emerge solo dopo la distruzione dei partiti. Altri insistono invece sul partito del sindaco-magistrato o su liste della società civile raggruppate sul collante metapolitico dei beni comuni. La distruzione degli antichi distruttori (Lega, Berlusconi) non porta cioè ad archiviare la lunga e tragica stagione di formazioni irregolari ma rilancia nuove declinazioni di partiti personali, di scorciatoie carismatiche e patrimonialistiche.

Dalla eutanasia della antipolitica che ha preso nelle mani tutto il potere si passa a nuove sperimentazioni di antiche ricette. Non basta però mostrare l’insorgenza blasfema del lessico antipolitico per sbarazzarsene. Occorre anche ricostruire la forza materiale e culturale della politica. La questione del partito è tutta qui: la politica organizzata attorno a grandi culture è la più efficace lotta pratica contro la personalizzazione del potere che ha provocato solo rovine, conflitti di interesse, ladrocini. A quanti nutrono illusioni sulla tecnica o sulla società civile come alternativa permanente allo schematismo destra/sinistra occorre rammentare che, se il governo non cura il cupo disagio sociale, la sorte della politica è già segnata: dopo il tecnico inefficace a spegnere il malessere di ceti senza futuro può benissimo irrompere il comico irresponsabile. Il partito serve ancor più in tempi burrascosi per connettere organizzazione, cultura, società contro la grande illusione del potere personale riciclato nelle sue versioni antiche o redivive.

L’Unità 27.04.12

"Astensionisti sì, ma solo a parole", di Paolo Natale

Come diceva l’altroieri Napolitano, gli imprenditori dell’anti-politica e del qualunquismo, dal Giannini dell’Uomo Qualunque all’Albanese del Cetto Laqualunque, sono sempre in agguato. Pronti a gettare un seme che sperano germogli nelle coscienze dei cittadini. E quindi dichiarare terminata l’esperienza della democrazia elettorale. Complici gli stessi sondaggi di voto, che a più riprese sottolineano come poco meno della metà degli elettori si dichiarano astensionisti, o quanto meno dubbiosi sulla partecipazione attiva o sulla forza politica da appoggiare.
C’è ovviamente del vero in quanto viene veicolato dalle indagini demoscopiche: gli antichi adepti dei principali partiti italiani vivono oggi un momento di forte confusione, di incapacità di formulare il loro appoggio a questo o quel movimento politico. Se ne avvantaggiano, fino a renderli particolarmente visibili, con percentuali di consensi che sfiorano il 10 per cento, tutte quelle aree che si nutrono di anti-politica, o di alterità complessiva al sistema, o di feroce critica alle pratiche dei partiti istituzionalizzati.
I grillini, i partiti della sinistra più radicale, i movimentisti più o meno legati alla rete vengono molto gettonati, in questo periodo, poiché incarnano perfettamente e danno voce al disagio presente nella popolazione, frastornata dal negativo comportamento di parecchi esponenti di quel mondo, di quella “Casta”. Ma se quest’area di “scontento” viene valutata in queste settimane intorno al 25 per cento dei voti validi, è utile altresì sottolineare come il 25 per cento di 50 non è altro che poco più del 12 per cento, tenuto conto della popolazione elettorale complessiva. Un fenomeno quindi abbastanza contenuto, considerando il deficitario quadro complessivo in cui navigano i partiti.
Perché la loro quota sarebbe davvero elevata soltanto qualora i potenziali astensionisti si incarnassero realmente anche nelle prossime occasioni elettorali. Ma se così non fosse? Se una parte significativa degli indecisi o dell’area del non-voto poi, davanti ad un reale consultazione, si recasse alle urne? Le cose andrebbero allora osservate e giudicate in maniera un po’ diversa.
Anche in Francia, qualche mese prima del voto presidenziale, la massa di indecisi o di “estranei” pareva molto elevata: circa il 23 per cento non intendeva recarsi alle urne e un ulteriore 18 per cento si dichiarava ancora incerta su quale candidato votare. L’affluenza, come si sa, è stata poi vicina all’80 per cento.
Allo stesso modo, nel periodo precedente le amministrative dello scorso anno in Italia, nei maggiori comuni chiamati alle urne (Milano, Napoli, Cagliari, Torino, Trieste) gli intervistati si mostravano decisamente refrattari ad indicare la propria partecipazione al voto, rifugiandosi in quote quasi maggioritarie nell’indecisione e nella decisa alterità: “tutti i candidati sono uguali, ci fanno tante promesse ma alla fine interessa loro soltanto il nostro appoggio, non il cambiamento”. Di nuovo, l’affluenza milanese, ad esempio, fu una delle più alte della recente storia amministrativa; e lo stesso avvenne negli altri comuni.
Facile peraltro spiegarne il motivo. Il mugugno anti-politico è come un rumore di fondo, sempre presente nel nostro come negli altri paesi (e certo con qualche ragione). Ma al momento della chiamata alle urne, è difficile che la popolazione non riesca a trovare un candidato, una parte politica, un partito che non sia troppo lontano dal proprio pensiero, sul quale confidare regalandogli un appoggio, sia pur con un po’ di scetticismo di fondo.
Anche lo scorso anno si parlò con grande enfasi del ruolo che il Movimento 5 Stelle avrebbe giocato nel quadro elettorale. Poi, i grillini ebbero sì un buon successo, ma restarono del tutto ininfluenti nella determinazione del vincitore, se non in specifiche realtà comunali. Perché, al dunque, gli elettori che realmente affiderebbero a movimenti di protesta la conduzione della propria comunità di riferimento, comune, regione o addirittura l’intero paese, sono particolarmente scarsi. Pisapia, o De Magistris, o lo stesso Fassino appaiono più credibili per il governo reale. Il vero problema è, per loro, trovare un’offerta politica che sembri davvero più credibile, che voglia mutare realmente lo stato attuale delle cose. Allora la speranza torna a diventare viva, e alla voglia di distruzione si sostituisce quella di costruire una comunità più vicina ai cittadini. Certo, occorrono segnali che si vada davvero in quella direzione…
da Europa Quotidiano 27.04.12

Turco: "L'ora delle donne per rinnovare la politica"

Siamo nel pieno di una grave crisi economica e sociale, immersi nel degrado della politica, e assistiamo a una profonda crisi di autorità maschile. Tutto ciò non consente scorciatoie. Le donne devono sentire la determinazione e l’umiltà di esserci e di misurarsi con le sfide difficili del governo del Paese. Senza questo scatto di determinazione e anche di umiltà arretreremo ulteriormente nella minorità politica, sociale e culturale. Uso la parola umiltà perché governare per promuovere il bene comune è molto difficile e richiede la capacità reale di mettersi a servizio. Di questo, de «le donne e il governo del Paese» ha discusso il convegno organizzato dalla Fondazione Nilde Ioni, con il contributo di studiose, giornaliste, donne delle associazioni e della politica.

Bisogna ridare autorevolezza alla politica, fermare il degrado. Non si governano le sfide del Paese solo con buone competenze tecniche. Bisogna rifondere la rappresentanza politica attraverso la ricostruzione dei soggetti collettivi che siano capaci di promuovere la partecipazione attiva.
Bisogna risalire la china facendoci guidare dalla nostra Costituzione, in particolare gli articoli 1, 2, 3, 49, 51. La dignità della persona, i legami sociali, l’eguaglianza, la partecipazione attiva dei cittadini, la sobrietà, le pari opportunità tra donne e uomini. Bisogna modificare le regole a partire da una legge quadro sui partiti in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, la legge elettorale, i regolamenti parlamentari e il superamento del bicameralismo, la costruzione delle istituzioni europee. Bisogna avere un’agenda che contenga scelte molto nette. La buona e piena occupazione femminile, l’investimento nei beni comuni a partire da un forte incremento dei servizi alla persona e alla famiglia, la lotta alla povertà sono scelte non più rinviabili rispetto alle quali lo stesso governo Monti dovrebbe fare di più e che dovranno costituire priorità nette delle forze politiche progressiste che si candidano domani a governare il Paese.

In questi mesi abbiamo vissuto una scena pubblica dominata, su temi cruciali, dal protagonismo femminile. È un fatto importante da cui partire per fare in modo che non sia solo una parentesi dettata dall’emergenza ma l’avvio di una normalità democratica. E allora sento che dobbiamo porci una domanda: cosa porta in dote l’esperienza e il punto di vista femminile? È ancora lecita questa domanda o l’importante è esserci ed essere brave e competenti? Io credo che rispondere a questa domanda sia cruciale.

L’esperienza femminile porta in dote qualcosa di prezioso per il tempo in cui viviamo. Porta un nuovo umanesimo, una nuova umanità femminile che si è sedimentata nel tempo attraverso l’esercizio della libertà. La conquista della libertà, grazie al femminismo, non significò il libero arbitrio, il libertinismo o la semplice rottura dei divieti. Significò al contrario l’elaborazione di una nuova umanità femminile. Ha significato costruire noi stesse al di fuori dello sguardo e del desiderio maschile e degli stereotipi culturali, vivendo i sentimenti e le relazioni umane con una nuova consapevolezza e responsabilità verso l’altro.

Questa nuova umanità della donne è stata però ingabbiata in una rappresentazione che ha esaltato la libertà come semplice rottura dei vincoli, come pura esteriorità, come semplice esibizione del corpo. È stata accompagnata dal mito del successo individuale, della competizione, dell’arricchimento: una forma di relativismo etico che ci ha travolte e tante volte ostacolato. Tale relativismo etico è stato parte integrante del berlusconismo. La rivolta della dignità delle donne contro l’uso degradato del corpo femminile e contro lo scambio sesso-denaro-potere che ha umiliato le nostre istituzioni e ha azzerato l’autonomia politica delle donne è ciò che ha segnato la fine di Berlusconi e del berlusconismo.

La dignità femminile deve ora completare il suo cammino e candidarsi a governare il Paese. Facendo diventare senso civico diffuso e forza politica il suo umanesimo. La forza e l’originalità di tale umanesimo consiste nella capacità di “ricomposizione” delle diverse sfere della vita: il corpo e la mente; l’interesse e l’emozione, la cura dell’altro e l’investimento nella relazione umana e sociale. Tutto questo consente di mettere in campo un’arte del governare di cui le parole chiave sono: responsabilità, legami sociali, capacità di comprendere i problemi altrui, fare squadra, costruire alleanze, esercitare il potere come abilità nel fare e migliorare la vita dei cittadini. Queste abilità dovrebbero diventare il tratto distintivo delle donne che si candidano a governare. Dovrebbero costituire il cuore di un progetto condiviso di riforma della politica. Queste abilità peraltro sono quelle vincenti per promuovere innovazione e crescita in ogni settore produttivo e della ricerca scientifica. Per questo possiamo dire che le donne sono le più attrezzate di fronte alla crisi per costruire l’innovazione e il futuro.

È dunque un dato obiettivo e non un’enfasi retorica affermare che questo è il tempo delle donne. Bisogna esserne consapevoli e tradurre le potenzialità in progetto politico. Dunque ci vuole la politica. A partire dalla capacità delle donne di costruire tra loro una forte alleanza. Ciò presuppone la capacità di riconoscere le disparità esistenti tra donne, di darsi valore, di sostenere l’autorevolezza dell’altra, di regolare i conflitti tra noi. Ciò che finora è accaduto raramente, confinandoci in una sostanziale minorità.

L’Unità 27.04.12

"Ricongiunzioni ingiustizia per migliaia", di Walter Passerini

Un salasso per le casse dello Stato, che rischia però di venir trasferito nelle tasche degli interessati. Emblematica la storia di Paolo Mannucci. Nato il 29 agosto 1951, mezza carriera nel pubblico e mezza nel privato: 19 anni di contributi versati all’Inps, come dipendente di aziende private, e 21 anni di contributi all’Inpdap come dirigente pubblico alla regione Marche. Qualche anno fa fece domanda di ricongiunzione dall’Inps all’Inpdap: rinunciò perché gli chiesero 83 mila euro. Allora gli dissero che avrebbe ottenuto il suo scopo portando i contributi dall’Inpdap all’Inps, del tutto gratuitamente. Ma Mannucci non poteva prevedere il futuro e non fece i conti con il cambio delle regole in corsa: la legge 122 del 2010 (governo Berlusconi), accelerata dalla riforma delle pensioni del dicembre 2011 (governo Monti). «Questa legge mi ha sconvolto la vita – spiega Mannucci -. Sarei potuto andare in pensione a luglio 2011. Con la legge la ricongiunzione all’Inps da gratuita è diventata onerosa: mi hanno chiesto 202 mila euro se pago in unica soluzione, 300 mila euro se rateizzo. Se invece punto alla ricongiunzione all’Inpdap dovrei versare 275 mila euro in unica soluzione, 350 mila se rateizzo. Questa legge è incostituzionale per i suoi effetti retroattivi, un’ingiustizia verso chi ha carriere e percorsi lavorativi spezzettati». La riforma, da alcuni definita frettolosa, non ha tenuto conto di vicende personali diventate un grave problema collettivo, che tocca migliaia di famiglie. Nata per ridurre le asimmetrie del sistema previdenziale, è diventata fonte di iniquità. L’alternativa è secca: o gli interessati pagano (ma quanti se lo possono permettere con i tempi che corrono) oppure ricorrono non alla ricongiunzione, ma alla totalizzazione, che è cosa ben diversa. Nel caso di Mannucci, avendo maturato 40 anni di versamenti nel novembre 2011 avrebbe dovuto lavorare in attesa di pensione per altri 18 mesi, per avere due distinte pensioni, calcolate con il metodo contributivo e non retributivo; in soldoni un salasso per il valore della pensione, che sarebbe diventata pari al 48% della sua retribuzione. Una vera eterogenesi dei fini questa travagliata vicenda all’italiana, diventata un cocktail esplosivo tra la legge del 2010 e la più recente riforma: nata per fare equità, per tosare i privilegi (tra i quali quelli di alcune casse e fondi speciali come quelli degli elettrici e dei telefonici), per impedire il passaggio delle lavoratrici pubbliche all’Inps dopo l’aumento dell’età pensionabile, ma anche per non aumentare gli squilibri di cassa, la combinazione dei due fattori produce ingiustizia. Premia l’immobilità di chi se ne sta quatto nello stesso posto o ente per oltre 40 anni e punisce la flessibilità di chi ha carriere spezzate, che non sempre sono una scelta. Saranno gli intermittenti di oggi e i giovani precari di domani, a cui si predica la virtù della mobilità e del cambiamento del lavoro, a pagare una riforma basata solo sul sacro vincolo della contabilità?

La Stampa 27.04.12

"Vivere con mille euro al mese ecco come affronta la crisi la metà dei pensionati italiani", di Valentina Conte

Il 45,4% dei pensionati italiani arriva a stento a fine mese con un assegno inferiore ai mille euro. Secondo i nuovi dati Istat-Inps diffusi ieri – ma riferiti al 2010 – quasi 8 milioni di italiani, per lo più anziani, sono costretti a tirare la cinghia, e di questi 2,4 milioni sono sotto i 500 euro mensili. Una situazione preoccupante, destinata allo stallo per via delle misure di austerità. La spesa italiana per le pensioni, intanto, sfiora i 260 miliardi, assorbita per il 71 per cento da assegni di vecchiaia e anzianità. Una spesa che cresce dell’1,9 per cento rispetto al 2009, in attesa dei risparmi innescati dalla riforma Fornero, mentre la sua incidenza sul Pil cala (di poco) al 16,64 per cento. Due ritirati su tre possono contare su una sola pensione e la metà dei 16,7 milioni di pensionati ha tra i 65 e i 79 anni. Ma 234 mila persone intascano più di 4 assegni e 584.500 sono under 40.
QUASI la metà dei pensionati italiani vive con meno di mille euro al mese. Si tratta di 7,6 milioni di persone (per il 55% donne) costrette a spaccare il centesimo, a partire dalla sempre più magra spesa quotidiana. E non di rado a fare da “cassa integrazione” per i figli espulsi dal mercato del lavoro. La fotografia, restituita da Istat e Inps, si riferisce al 2010. Al riparo dunque dagli
effetti della riforma Fornero e della rivalutazione negata agli assegni sopra i 1.400 euro (lordi), decisa dal Salva-Italia per quest’anno e il prossimo. Ma altrettanto allarmante.
COME SI VIVE CON MILLE EURO
Casa, bollette, spesa. Tre voci che valgono l’80 per cento del bilancio mensile di un pensionato “milleurista”. I rincari di luce, gas, acqua e rifiuti, ma anche del biglietto del bus in moltissime città italiane e della benzina, mettono a dura prova l’economia domestica di una famiglia monoreddito. Nelle simulazioni eseguite da Federtica,
consumatori, per stare nei confini dei mille euro, il pensionato deve sperare in un affitto agevolato (enti, case popolari), oppure in un mutuo residuo molto basso. Altrimenti si va sotto, in rosso.
L’IMU E L’INCUBO FINE MESE
L’Imu ora complica il quadro e preoccupa molto i più anziani che non sanno quanto e come pagare. Mentre il capitolo salute è appeso alla speranza di limitare i controlli alla routine. Risparmi: zero. Si taglia su tutto: spostamenti, telefono, abiti, scarpe e sempre più anche sul cibo. «Una situazione dramma-
se i nostri pensionati sono costretti a sacrificarsi a tavola», commenta Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori. Secondo un’altra simulazione curata dal Codacons, riservare almeno 20 euro al mese per i regali ai nipotini comporta tirare sulle spese per la casa (massimo 10 euro), gli acquisiti di riviste, libri e fiori (al più 24 euro), non cenare mai fuori casa, spendere solo 34 euro per vestiti e calzature e limitare a 70 euro gli esborsi per medicine e
analisi.
IL QUADRO TOTALE
Nel 2010 in Italia sono state
erogate 23,8 milioni di prestazioni a 16,7 milioni di pensionati. E questo perché un terzo riceve più di un assegno (di solito i titolari di pensioni sociali, invalidità civili, indennità varie). In media un pensionato italiano percepisce 15.471 euro (lordi) all’anno. Peggio le donne che, pur essendo più della metà dei ritirati totali (53%), incassano il 70 per cento di quanto riservato agli uomini: 12.840 euro in media, contro 18.435. La metà dei pensionati vive al Nord (dove si concentrano molti beneficiari di assegni di vecchiaia), circa un terzo al Sud (dove invece prevalgono i titolari
di invalidità o pensioni sociali), un quinto al Centro.
NON SOLO ANZIANI
Sette pensionati su dieci hanno più di 64 anni, ma un quarto è tra i 40 e i 64 anni e il 3,5 per cento sotto i 40. Il 42 per cento degli uomini incassa più di 1.500 euro al mese contro un quinto appena delle donne (il resto, l’80 per cento, è sotto quella cifra, più della metà è sotto i mille euro). I pensionati “d’oro” sopra i 2 mila euro al mese sono 2,8 milioni. Molti in un Paese che conta 71 pensionati ogni 100 occupati (erano 74 dieci anni fa).

La Repubblica 27.04.12

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“A metà dei pensionati tocca vivere con meno di 1000 euro al mese”, di Luigi Grassia

È una fotografia impietosa quella che scattano l’Istat e l’Inps nel rapporto congiunto «Trattamenti pensionistici e beneficiari»: il sistema delle pensioni costa moltissimo all’Italia ma dà poco alla stragrande maggioranza dei pensionati. Il quadro è aggiornato al 2010 e tiene conto sia delle prestazioni previdenziali sia di quelle assistenziali; risulta che nel complesso la spesa per pagare la pensione a 16,74 milioni di italiani è stata pari in un anno a 258,5 miliardi di euro, in rialzo dell’1,9% sul 2009 e pari al 16,64% del prodotto interno lordo. Nonostante un esborso così grande, quasi 7,6 milioni di pensionati, pari al 45,4% del totale, ricevono meno di mille euro al mese, e tra loro ben 2,4 milioni percepiscono un reddito addirittura inferiore ai 500 euro mensili.

Nelle regioni settentrionali si concentra circa la metà delle prestazioni (47,9%), dei pensionati (48,5%) e della spesa (50,8%). Al Mezzogiorno va circa un terzo e al Centro il restante quinto. Se invece si guarda al tipo di pensione, si scopre che il maggior numero di titolari di prestazioni d’invalidità civile, di pensioni sociali e di assegni ordinari d’invalidità si trova al Sud. Inoltre, sono le regioni meridionali a subire il carico maggiore nel rapporto fra pensionati e occupati, con 82 pensionati ogni 100 occupati (contro una media nazionale di 71 a 100). Ma le differenze non sono solo territoriali: a fonte di un reddito medio annuo da pensione pari a 15.471 euro, le donne percepiscono importi di 12.840 euro, inferiori del 30% ai 18.435 euro medi degli uomini.

Quanto all’età, il 29,1% dei pensionati ha meno di 65 anni, una quota rilevante che risente di troppe prestazione fruite da chi è ancora in età lavorativa (per infortuni o malattie professionali o per invalidità: niente da ridire su chi ha davvero bisogno, ma la cronaca ci dice che gli abusi sono innumerevoli).

Dal rapporto congiunto dell’Istat e dell’Inps risulta che in Italia circa un terzo dei pensionati percepisce due o più assegni: nel dettaglio, il 24,8% può contare su un assegno doppio (il più delle volte ai superstiti o di tipo assistenziale) ma c’è anche un 7,9% che ogni mese ne raccoglie addirittura tre.

Spostando l’attenzione dai pensionati alle pensioni, si nota come nel 2010 il numero delle pensioni d’invalidità scenda bruscamente (-6,6%), e anche gli assegni d’invalidità civile fanno registrare una contrazione (-1,3%). Mentre risultano in crescita le pensioni di vecchiaia o anzianità (+1,1%), corrispondenti al 70% della spesa.

I sindacati commentano con preoccupazione la fotografia scattata dall’Istat: per lo Spi-Cgil «un intervento sui redditi da pensione non è più rinviabile». Sulla stessa linea la Fnp Cisl che parla di pensionati «sempre più poveri», su cui si scarica «il peso maggiore della crisi». Secondo la Uil «bisogna innanzitutto pienamente ripristinare l’indicizzazione dei trattamenti al tasso di inflazione, scandalosamente limitata, con la manovra di dicembre». Anche l’Ugl richiede un’azione «seria e tempestiva». Mentre le associazioni degli agricoltori denunciano il forte disagio degli anziani nel settore.

I pensionati italiani «si confermano i più poveri d’Europa» dice il presidente del Codacons, Carlo Rienzi. «A pesare è soprattutto la pressione fiscale, che nel nostro Paese resta elevatissima, mentre altri Paesi europei non prevedono alcuna tassazione sulle pensioni». Secondo il Codacons «le ultime misure introdotte in Italia peggiorano la situazione, perché hanno determinato un aumento dei prezzi e delle tariffe e una conseguente perdita del potere d’acquisto, già crollato negli ultimi anni. Basti pensare che dal 1993 a oggi il potere d’acquisto di chi percepisce una pensione medio/bassa è calato di oltre il 50%». Ecco che il Codacons si chiede: «Come faranno a sopravvivere quei 2,4 milioni d’italiani che percepiscono una pensione da fame inferiore ai 500 euro, quando ad ottobre scatterà il nuovo rincaro dell’Iva e il conseguente aumento dei prezzi in tutti i settori?».

La Stampa 27.04.12