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"Se fossimo tutti un po' norvegesi", di Massimo Gramellini

John Belushi odiava due cose: la musica country e i nazisti dell’Illinois. Ma cosa succede quando un nazista odia la musica country? Che anche noi fan dei Blues Brothers siamo chiamati a una scelta doverosa e ci schieriamo con la nenia dei cowboy. Se poi siamo di Oslo e fuori piove, apriamo l’ombrello e scendiamo in piazza in quarantamila per cantarla a squarciagola. Alla faccia del nazista. Il quale aveva appena dichiarato che con quella canzone le maestre norvegesi lavano il cervello ai bambini. Soltanto il suo, purtroppo, è rimasto refrattario a qualsiasi detersivo.

La canzone si intitola «Barn av regnbuen», «Bambini dell’arcobaleno», ed è il rifacimento in scandinavo stretto di «Rainbow race», cantilena folk strimpellata alla chitarra dall’americano Pete Seeger nei primi Anni Settanta. Il ritornello parla di fratellanza, di distese verdeggianti, e non fa male a nessuno, se non a chi è già abituato a farsene parecchio da solo. Anders Breivik, per esempio, lo stragista di Utoya che ha imputato all’innocuo motivetto nientemeno che il deterioramento in chiave marxista della gioventù norvegese. I messaggi semplici e solari agiscono sulle menti ottenebrate dal razzismo come una cartina da tornasole. Portano a galla la rabbia di chi ha talmente paura della sensibilità umana da considerarla una dimostrazione di debolezza.

In tribunale Breivik ha insultato la canzone e l’infanzia dei connazionali. E ancora una volta è venuta fuori la civiltà di quel popolo poco battuto dal sole, che ha saputo asciugare il sangue di Utoya senza macchiare il vestito lindo della sua democrazia e si permette il lusso di trattare un reo confesso come un crocerista, ospitandolo in una cella grossa come uno stand dell’Ikea. I norvegesi avrebbero potuto reagire alla provocazione di Breivik con il silenzio. Oppure con il furore, portando in piazza i familiari delle vittime per ritorcere addosso a quell’uomo il livore seminato dai suoi atti. Invece si sono ritrovati pacificamente in quarantamila per cantargli la loro canzone. Ricordando al mondo che è anche per merito di quella nenia, imparata a memoria negli asili, se sono cresciuti così tolleranti e intimamente connessi con l’ambiente che li circonda.

Perciò oggi siamo tutti un po’ norvegesi, compresi noi rockettari stonati. Anzi, soprattutto noi, che ci offriamo volontari per inciderla su un disco da far ascoltare a Breivik in cuffia, fino alla fine dei suoi giorni.

La Stampa 27.04.12

"Si sta formando un esercito di poveri", di Carla Cantone*

Un esercito di poveri. È ciò che sono diventati i pensionati nel nostro Paese. Sette milioni e 600mila sono quelli che ricevono un importo medio mensile inferiore ai 1.000 euro. Due milioni e 400mila, invece, quelli che non arrivano nemmeno a 500 euro. Ieri è stata l’Istat a rilanciare questi dati. Lo Spi-Cgil, però, questi dati li conosce bene e li denuncia da molto tempo. Anzi, secondo noi sono molti di più: quattro milioni quelli che vivono con meno di 500 euro al mese e sei milioni quelli che non arrivano ad 800 euro. Per anni abbiamo chiesto al governo Berlusconi di intervenire senza che ci sia mai stata data una risposta: e nel frattempo il potere d’acquisto delle pensioni è diminuito di oltre il 30%. Oggi ci troviamo a riproporre al governo Monti questa stessa richiesta. La condizione reddituale dei pensionati in Italia è una questione che deve essere risolta con urgenza, e con misure tese a tutelare il potere d’acquisto delle pensioni, pena il loro ulteriore e drammatico impoverimento. Per farlo bisogna intervenire in tre direzioni. Innanzitutto togliendo il blocco della rivalutazione annuale, introdotto prima da Berlusconi e poi consolidato attraverso la riforma Fornero, con il solo scopo di fare cassa. Occorre poi intervenire per ridurre il prelievo fiscale che, come per il lavoro dipendente, è diventato ormai insostenibile. Che paghi oggi chi non l’ha mai fatto, chi ha evaso, chi ha dichiarato molto meno di quanto ha guadagnato, chi ha portato i propri incassi nelle banche svizzere o in esotici paradisi fiscali. I pensionati italiani non ne possono più, schiacciati come sono dal costante aumento del costo della vita, dei prezzi, delle tariffe, della sanità e perfino dei beni di primissima necessità. È impensabile e ingiusto che si introducano nuovi ticket e che la sanità pubblica sia sempre più costosa, a fronte di una sempre minore efficienza e qualità. Non ne possiamo più di vedere il massiccio spostamento di risorse dal pubblico al privato per saziare chi ha fatto dell’assistenza socio-sanitaria un vero business in tutti i sensi, come dimostrano i continui scandali che stanno emergendo giorno dopo giorno. C’è poi la questione della non autosufficienza, sulla quale abbiamo fino ad oggi registrato tante belle dichiarazioni e tante buone intenzioni, senza vedere però ancora un euro di stanziamento per il Fondo nazionale che il governo Berlusconi ha vergognosamente cancellato. Sideve ritirare il blocco della rivalutazione, riformare il fisco rendendolo finalmente equo e potenziare il sistema pubblico dello Stato sociale. Sono questi gli interventi che il governo deve approntare se non vuole rendersi corresponsabile del totale decadimento della condizione dei pensionati italiani. Tutti parlano di crescita e sviluppo, nessuno che abbia ancora colto nel welfare grandi opportunità occupazionali e di rilancio dell’economia. Non va dimenticato che il welfare è un mezzo per realizzare quella giustizia sociale di cui tanto si dice ma su cui poco o nulla si è fatto. Tutelare i redditi da pensione significa inoltre far girare i consumi e quindi l’economia. C’è bisogno di una vera patrimoniale, che non può essere realizzata tramite una Imu che finisce per colpire sempre i soliti, e anche in questo caso soprattutto i pensionati. Che paghino i ricchi, quelli veri e compresi quelli che sono in pensione. C’è chi si ostina poi a fomentare strumentalmente un fantomatico egoismo degli anziani con il solo scopo di provocare uno scontro intergenerazionale. Si dovrebbe cominciare invece a parlare della generosità e dell’altruismo degli anziani verso i figli e i nipoti, in quanto si privano della già modesta pensione che ricevono pur di aiutarli a sopravvivere in un Paese che li esclude o li espelle dal mondo del lavoro. Illustri economisti del Fondo monetario internazionale, che hanno più di qualche responsabilità rispetto alla crisi mondiale in atto, avvertono che l’aumento dell’aspettativa di vita porterà a un insostenibile costo del welfare. Una tesi secondo la quale invecchiare è bello purché non si gravi troppo sull’insieme della società, quasi come se gli anziani non ne facessero parte. Gli anziani di oggi sono stati nel secolo scorso la spina dorsale di questo Paese. Sono quelli che hanno conquistato libertà e democrazia, sono quelli che hanno reso competitivo il nostro sistema produttivo lavorando e faticando. Il governo, le Regioni, i Comuni e tutti i partiti devono convincersi che dare dignità alla condizione di anziano è un dovere civile e sociale. Da una classe politica che governa l’economia, che decide le sorti del Paese e che non è sicuramente giovane ci aspetteremmo un’attenzione maggiore proprio perché anche loro fanno o faranno a stretto giro parte di questa stessa generazione di anziani. I pensionati non pretendono la ricchezza ma un reddito dignitoso, un lavoro e un futuro per i giovani perché sanno bene che senza questi elementi sarà difficile che la loro condizione potrà migliorare. E per questo chiedono al governo, tecnico o non tecnico che sia, un progetto basato sulla giustizia sociale che porti più uguaglianza e meno povertà. Oggi tutti dichiarano che è uno scandalo che le pensioni siano così basse. Ci aspettiamo un impegno concreto perché di parole i pensionati (e anche io) sono stanchi.

*Segretario generale Spi-Cgil

L’Unità 27.04.12

"Puntare sulla ricerca per essere competetivi", di Carlo Castellano

Si può cercare di esprimere lo stato d´animo degli imprenditori italiani in questo periodo segnato dalla recessione? Verrebbe da dire di no: si rischia di raccontare banalità. E allora cercherò di comunicare la mia esperienza, verrebbe da dire il mio vissuto.
Ecco, vi parlo di un´impresa italiana di tecnologie medicali le cui vendite sui mercati esteri superano il 60%, che investe in ricerca e sviluppo l´8% del suo fatturato e i cui occupati (oltre un migliaio tra Italia ed estero) sono quasi tutti ingegneri o diplomati tecnici. E i competitori sono multinazionali straniere. È noto, la filiera delle tecnologie medicali ha un grandissimo potenziale e un elevato tasso di innovazione: si parla già oggi di una nuova rivoluzione, la medicina digitale. E sull´industria della salute stanno investendo i principali Paesi compresi quelli emergenti: dalla Cina al Brasile, dalla Corea all´India, al Messico.
Sulla sanità si sta giocando una decisiva partita a scala mondiale perché le diverse tecnologie, basate soprattutto sull´elettronica e l´informatica, sulla chimica e sui nuovi materiali tendono sempre più ad integrarsi nel ciclo ricerca-produzione, guidato dalle imprese più innovative che propongono alla comunità medica nuovi prodotti, nuove tecniche strumentali e nuove apparecchiature. In altre parole, la sanità non è solo una spesa, un costo ma è sempre più un´area di investimento scientifico e tecnologico, proprio perché è un grande mercato. E i principali Paesi industrializzati hanno ormai compreso che se non è possibile ridurre la spesa sanitaria (ma che va comunque contenuta), è certamente possibile utilizzarla come “industria della salute”, un´occasione per la crescita del proprio apparato scientifico, tecnologico e industriale, per non parlare delle grandi opportunità occupazionali.
L´Italia, negli anni ´80, aveva avviato alcune significative iniziative pubbliche, poi basta. E la conferma viene da uno studio – in corso di pubblicazione – di Assobiomedica, redatto in collaborazione con Intesa Sanpaolo, Scuola Superiore Sant´Anna di Pisa e Università di Milano Bicocca, sul settore dei dispositivi medici (cioè tutte le tecnologie mediche, esclusi i farmaci). L´Italia – risulta da questo Rapporto – è tra i pochi grandi Paesi che presentano un deficit strutturale della bilancia commerciale (oltre l´80% delle apparecchiature acquistate dai nostri ospedali sono d´importazione) e un modesto posizionamento nella classifica mondiale dei brevetti (14esimo Paese per inventori e 15esimo per aziende). Certo contiamo su tante eccellenze di rilievo, dove ognuno ha fatto la sua strada, non supportato dal sistema Paese. La Germania, sotto il governo Kohl, aveva lanciato un grande programma di investimenti nelle tecnologie medicali coinvolgendo tutti gli attori pubblici e privati. Noi, come Italia, avremmo sulla carta le stesse potenzialità della Germania (che oggi è il secondo grande Paese, dopo gli Stati Uniti, nella produzione dei brevetti e nel saldo positivo della bilancia commerciale) perché in questo settore sono necessarie sia le tradizionali tecnologie meccaniche manifatturiere sia le nuove filiere biochimiche, materiali, elettroniche ed informatiche
Ma oggi qual è la situazione nel nostro Paese in questo esemplare settore high–tech? Nello scorso anno il servizio sanitario nazionale (sotto la spinta del contenimento dei costi) ha tagliato drasticamente gli investimenti in tecnologie, i tempi medi di pagamento delle forniture, nella media nazionale, superano i 300 giorni (contro una media europea di 40 giorni), con punte di oltre 2 anni (in Campania, Calabria e Molise) e la nostra burocrazia frena persino il pagamento alle imprese degli esborsi relativi a programmi di ricerca avviati anche da più di quattro-cinque anni, vanificando i benefici attesi o addirittura mettendo a rischio la sopravvivenza soprattutto delle medie e piccole imprese.
Verrebbe da dire un quadro desolante. Noi rischiamo di privilegiare solo una visione malthusiana della spesa sanitaria: un contenimento dei costi in senso assoluto e non si tratta certo di mitizzare gli investimenti in tecnologie perché molti disservizi e costi inutili potrebbero essere eliminati tramite una più efficiente organizzazione.
Tuttavia non vedere il “volto” industriale del sistema salute è anche questo un segno di arretratezza del nostro Paese. Certo il ministro Passera ha detto – ed è condivisibile – che nessuno oggi ha la bacchetta magica. E per le nostre aziende – se si vuole restare competitivi sul mercato mondiale – la strada è obbligata: continuare a investire in ricerca e sviluppo, conquistare nuove quote di mercato all´estero e fare “reti” d´impresa con i nostri fornitori italiani.
È evidente che se la casa brucia bisogna innanzitutto spegnere il fuoco (e purtroppo non è stato ancora del tutto spento se lo spread resta ancora così alto). Quindi è condivisibile quello che sta facendo il governo Monti. Ma poi? Come ricostruire la nostra casa comune? Perché se è vero che la crisi deriva anche da fattori esterni, tuttavia i nodi più seri sono tutti nostri, tutti italiani.
Prendiamo la sanità. Stato e Regioni stanno discutendo del patto per la salute e si rischia ancora una volta di parlare di dove “tagliare” o di percorrere strade – quali la centralizzazione degli acquisti – che, nei fatti, si sono dimostrate fragili, per non dire dannose per l´industria. Il vero governo della spesa si fa innovando il sistema perché sono illusorie le manovre solo finanziarie. Bisogna intervenire sui determinanti economici del sistema, affrontando i nodi dello sviluppo e dell´innovazione in sanità, coinvolgendo anche le imprese.
E infine, mi auguro che la nuova Confindustria di Giorgio Squinzi saprà dare autorevolezza a un innovativo progetto di rilancio dell´industria, rilancio che non potrà non passare anche attraverso la revisione dei grandi sistemi cardine del Paese, quale è la sanità.

La Repubblica 27.04.12

Unica proposta di legge sui partiti

La conferenza dei capigruppo decide all’unanimità di accorpare in una unica proposta di legge le norme per il controllo sui bilanci e quelle sulla riduzione del finanziamento ai partiti. La conferenza dei capigruppo della Camera, su proposta di Dario Franceschini, ha deciso all’unanimità di accorpare in una unica proposta di legge le norme per il controllo sui bilanci e quelle sulla riduzione del finanziamento ai partiti. La proposta di legge sarà all’esame dell’Aula il 14 maggio prossimo.

Ora l’auspicio dei capigruppo, deve tradursi in una conseguente decisione della Commissione Affari Costituzionali dove i provvedimenti sono incardinati.

“Bisogna decidere in fretta – ha detto Franceschini – sia per quanto riguarda i controlli dei bilanci dei partiti, sia sulla parte che riguarda i finanziamenti. Le due questioni vanno affrontate insieme all’interno della proposta di legge per la trasparenza dei bilanci. In questo modo mi pare che ci siano le condizioni affinché entro il 14 maggio il testo possa arrivare all’esame dell’Aula”.

Il 28 maggio si discutera’ invece, aggiunge, la riforma per l’applicazione dell’art.49 della Costituzione.

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“Con la legge sui partiti, sul loro finanziamento e sulla trasparenza dei bilanci sapremo finalmente due cose”. Lo dice Giorgio Merlo, Vice Presidente Commissione Vigilanza Rai, che prosegue: “Da un lato chi vuole appaltare la politica ai soli ricchi, ai miliardari e alle lobby economiche e finanziarie e, dall’altro, se si vuol mettere fine ai partiti ‘personali’ e ‘padronali’ che hanno inquinato profondamente la vita democratica nel nostro paese. Due nodi che, in un modo o nell’altro, saranno sciolti con la discussione in Parlamento”.

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Puglisi: ministro sia “cooperativo” su scuole e infanzia

I 465 bambini in lista d’attesa per entrare nella scuola dell’infanzia a Bologna, esigono una risposta. Bene la Fondazione pensata dall’amministrazione, ma lo Stato non se ne lavi le mani.
La scuola dell’infanzia, benché non sia dell’obbligo, non può essere retrocessa a servizio a domanda individuale e i Comuni non possono essere abbandonati a se stessi. In questo chiediamo “cooperazione e operatività ” al Ministro.
Quanto al dismettere le funzioni “autorizzative” del Miur, va bene,
ma nel rispetto del dettato Costituzionale, poiché la scuola e’ davvero la più importante istituzione democratica per garantire l’unità del Paese. Per questo continuiamo a chiedere al Ministro di bloccare la chiamata diretta degli insegnanti recentemente proposta in Lombardia.

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"Sostegno a lavoratori della cultura", di Matteo Orfini e Stefano Fassina,

Matteo Orfini, responsabile Cultura e informazione del Pd e Stefano Fassina, responsabile Economia e lavoro del Pd, affermano: “Le questioni poste dalle lavoratrici e dai lavoratori della conoscenza e della cultura sono serie e concrete: per il Partito Democratico sono tra le ragioni alla base della necessita’ di una discussione approfondita con il governo per migliorare in Parlamento il ddl di riforma del mercato del lavoro.

Questa riforma può essere un’occasione preziosa per costruire un sistema del lavoro nuovo ed equo, mettendo al centro della discussione l’universalizzazione degli ammortizzatori sociali e la solidarietà tra i lavoratori e le generazioni. Per questo pensiamo che un intervento nato per dare a tutti gli ammortizzatori sociali non può lasciare senza tutele collaboratori, contrattisti e un grandissima quantita’ di lavoratori comunque atipici. C’e’ poi il tema dello sviluppo, che incrocia direttamente quello del lavoro: nel caso della conoscenza e della cultura questo tema coinvolge direttamente la parte pubblica e il suo effettivo impegno in politiche di sostegno e di crescita per questi settori, a cominciare dall’investimento di risorse economiche certe e congrue, dal riconoscimento dell’importanza strategica del loro ruolo per il futuro del Paese e dalla comprensione della centralità, anche in questi campi, del valore del lavoro e delle professioni culturali”.

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Documento di approfondimento a cura del Dipartimento Cultura del Partito Demcoratico

La riforma del mercato del lavoro e il settore dello spettacolo

L’azione del PD in Parlamento
E’ in corso in questi giorni in Parlamento la discussione sul Disegno di Legge del Governo di riforma del mercato del lavoro.
Per gli artisti la buona notizia riguarda l’abrogazione dell’articolo 40 del R.D.L. 1827 del 1935. Si tratta di quelle norme che fino a oggi impediscono agli artisti di accedere alla disoccupazione involontaria. Una ingiustizia che era stata confermata da un sentenza della Corte di Cassazione a
maggio del 2010. Con l’abrogazione di quelle norme, frutto anche
dell’iniziativa politica del PD, si sana una parte delle iniquità che caratterizzano il mercato del lavoro dello spettacolo. A partire da gennaio 2013, dunque, i lavoratori dello spettacolo – artisti, tecnici e amministrativi – potranno beneficiare, al pari degli altri lavoratori subordinati a tempo indeterminato e a termine, delle nuove indennità per la disoccupazione involontaria. Si tratta dell’ASpI (Assicurazione Sociale per l’Impiego) e della mini-ASpI. Data la natura intermittente delm lavoro dei professionisti del settore, i lavoratori dello spettacolo accederanno soprattutto alla mini-ASpI che sostanzialmente riassorbe e sostituisce l’attuale indennità di disoccupazione a requisiti ridotti.
A fronte di questo dato positivo vi sono delle criticità da segnalare, in particolare riguardo alla disciplina del contratto di lavoro a termine. Infatti, pur condividendo misure e norme che in via generale favoriscano la trasformazione dei contratti a termine in lavoro a tempo indeterminato e limitino progressivamente le pratiche di elusione contributiva e l’abuso di forme atipiche di contrattazione, riteniamo fondamentale il riconoscimento delle caratteristiche proprie del lavoro nello spettacolo. La discontinuità costituisce la dimensione naturale di un settore che funziona per progetti e attività di durate limitate: per questo il PD chiede, con uno specifico
emendamento, di correggere l’articolo 3 del DDL sui contratti di lavoro a termine, prevedendo una deroga, per lo spettacolo, alle norme che limitano o impediscono la reiterazione di questo tipo di contratti.
Nella discussione parlamentare che si sta svolgendo tra il PD e il
Governo sono fondamentali le questioni che, purtroppo, riguardano la generale precarietà del sistema del lavoro italiano. Da questo punto di vista il mondo del lavoro della cultura e dello spettacolo, in cui la giungla contrattuale la fa da padrona accompagnandosi ineluttabilmente all’assenza di un sistema di welfare che garantisca alle professioni culturali tutele sociali minime, è parte della discussione generale che riguarda la richiesta del PD di estendere, rendendolo universale, il sistema degli ammortizzatori sociali.

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"Il giudice condanna la Magneti Marelli", di Ivan Cimarristi

Non si può escludere la Fiom da un’azienda solo perché non ha sottoscritto il contratto. «La sottoscrizione del contratto in azienda non è l’unico indice per misurare la rappresentatività di un sindacato al quale garantire i diritti previsti dallo Statuto dei lavoratori». Lo mette nero su bianco il tribunale del Lavoro di Bari, condannando la Magneti Marelli per comportamento antisindacale verso Fiom. In sostanza, la mancata firma del sindacato dei metalmeccanici della Cgil sul contratto di Pomigliano, non può escludere il diritto alla rappresentanza sindacale in azienda. «Torneremo più forti – assicura Antonio Pepe, segretario generale di Bari Fiom – Da domani (oggi, dr) sarà nuovamente riconosciuto il diritto degli operai ad essere regolarmente rappresentati dal loro sindacato». Ma non solo: porte aperte anche alla bacheca de l’Unità, rimossa a dicembre scorso su decisione dei vertici aziendali. Un’iniziativa presa in tutti gli stabilimenti Magneti italiani, e che a febbraio scorso ha portato gli operai di Fiom Bari a indire un’ampia manifestazione all’ esterno dello stabilimento, con la distribuzione di centinaia di copie del quotidiano. «Se ci tolgono la bacheca dove affiggere l’Unità, noi riempiremo tutta la fabbrica con il giornale», dissero all’esterno i vari operai mentre lo distribuivano.
Il provvedimento del tribunale di Bari, 21 pagine, analizza l’interpretazione l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, sulla costituzione in azienda delle rappresentanze sindacali. Secondo i magistrati, la norma si «applica in favore di quelle organizzazioni sindacali che, in forza del numero degli iscritti e della rappresentanza costante sul posto di lavoro, hanno effettivamente partecipato al processo contrattuale, pur senza sottoscrivere il contratto collettivo». Questo, secondo i magistrati, «elimina un altro effetto distorsivo riconducibile alla lettura della parte resistente (Magneti Marelli, ndr): quello secondo cui il datore di lavoro (…) potrebbe sempre negae il riconoscimento dei diritti sindacali tutte le volte in cui non sia sottoscritto il contratto». Il tribunale, infatti, ritiene che l’azienda non abbia tenuto conto della «effettività dell’ azione sindacale da parte della Fiom» nello stabilimento barese, dove conta «un numero di iscritti a livello di unità produttiva di 210 su circa 900 dipendenti». L’articolo 19, dunque, «deve essere letto – concludono i magistrati nella sentenza – nell’ottica di una interpretazione sistematica e teleologica, garantendo il diritto di costituzione di Rsa alle organizzazioni sindacali dotate di effettività nell’azione sindacale, partecipando attivamente alla fase di formazione del contratto collettivo, pur senza giungere alla successiva fase di sottoscrizione».
Ma se da una parte sembra che almeno nello stabilimento di Bari tutto si sia risolto per il meglio, dall’ altra sono stati denunciati ripetuti atteggiamenti antisindacali verso l’Rsu di Fiom, Giovanni Spilotros. La scorsa settimana, infatti, è stato depositato al tribunale di Bari un altro ricorso, in cui si parla di sospette “pressioni psicologiche” aziendali, che avrebbero dovuto avere riflesso negativo su tutti gli operai. Ma non solo, in quanto è stato “vittima” di accuse “letteralmente false”, racconta Spilotros. Lo hanno accusato di aver raccolto firme per sottoporre a referendum abrogativo l’accordo di Pomigliano, sottraendosi al lavoro e andando a raccogliere adesioni in altri reparti. «Tutto falso – racconta – ero in pausa e mi stavo fumando semplicemente un sigaro, come fanno tutti gli operai. Hanno dichiarato cose false e per giunta mi hanno multato, levandomi dalla busta paga mensile 3 ore di lavoro, circa 20 euro. Non sono i soldi, chiaramente. È il gesto che più fa rabbia». Non è tutto, però. Spilotros racconta che ha subito pressioni anche durante una pausa, mentre si trovava in una saletta sindacale dell’azienda, con altri colleghi. “Eravamo una decina, in pausa, a chiacchierare in una delle sale sindacali, quando è giunto un vigilante che mi ha detto “tu che fai qua, non puoi stare. Tutti siamo rimasti a bocca aperta per questo atteggiamento assurdo”. Tutto questo è stato inserito nel secondo ricorso al tribunale del Lavoro di Bari, sempre per sospetti comportamenti antisindacali di Magneti.

L’Unità 26.04.12