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"Dove correggere la riforma", di Cesare Damiano e Tiziano Treu

Lavoro femminile, lotta alla precarietà, ammortizzatori sociali: per la riforma è il momento delle correzioni. Dopo la presentazione degli emendamenti al disegno di legge di riforma
sul mercato del lavoro, comincia al Senato un lavoro difficile. Come Partito democratico abbiamo svolto una preziosa opera di regia tra Camera e Senato, che è iniziata già dal momento del confronto tra governo e parti sociali su questo tema, ed è proseguita fino alla stesura delle nostre richieste di emendamento. Nel corso del confronto abbiamo evidenziato i risultati che sono già stati conseguiti, a partire dall’utile compromesso che si è raggiunto sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Aver ripristinato anche per i licenziamenti per motivo economico la possibilità per il giudice, accanto al risarcimento, di reintegrare il lavoratore, ha riconsegnato all’articolo 18 un potere di deterrenza nei confronti dei licenziamenti facili che renderà più sicuri i lavoratori soprattutto nel momentodell’attuale crisi. L’accordo che è stato raggiunto dai segretari dei partiti che sostengono il governo con il presidente
del Consiglio non va modificato. Adesso occorre concentrare la nostra attenzione sulle correzioni che riguardano il tema delle protezioni sociali e della flessibilità.
Per quanto riguarda le riforme relative allo stato sociale, noi abbiamo fin dall’inizio messo in luce una contraddizione che riguarda la transizione dal vecchio al nuovo sistema che si completerà nel 2017. Restiamo critici di fronte ad un esito che, mentre allontana il momento della pensione, rende più brevi i periodi di protezione sociale attraverso la cosiddetta nuova
Aspi (Associazione sociale per l’impiego) che sostituirà progressivamente cassa integrazione e mobilità. C’è il rischio che si produca un vuoto temporale tra il momento dell’eventuale licenziamento del lavoratore e ilmomentodell’andata in pensione, che potrebbe riproporre il tema dei cosiddetti “esodati” (platea composita comprendente lavoratori in mobilità, licenziamenti
individuali, esodati dalle Poste, Eni e Telecom, lavoratori della scuola, lavoratori che fanno versamenti olontari, ecc.) che dovrà essere affrontato e risolto entro l’estate, anche per gli anni successivi. Intanto dobbiamo proporci, con i nostri emendamenti, di migliorare i nuovi ammortizzatori sociali avendo un occhio di particolare riguardo ad alcune situazioni di sofferenza: il Mezzogiorno, con i particolari problemi occupazionali che insistono su quell’area; i lavoratori del settore agricolo, che corrono il rischio di avere forti penalizzazioni nelle tutele e nel risultato pensionistico; i giovani del lavoro precario, per i quali non è possibile prevedere un innalzamento dei contributi previdenziali a livello di quelli del lavoro dipendente senza riservare loro adeguate protezioni. Una correzione in questo senso andrà ricercata prevedendo le compensazioni e le coperture finanziarie che si rendono necessarie. Sempre per quel che riguarda i giovani, dobbiamocogliere l’occasione con la riforma per fissare una demarcazione che distingua le prestazioni di lavoro genuinamente autonome da quelle di lavoro autonomo mascherato: ad esempio le finte partite Iva, i finti associati in partecipazione e il finto lavoro a progetto. Possiamo trovare indicatori tipici che individuino le vere situazioni di autonomia, oppure riproporre una elencazione di mansioni di basso contenuto professionale, già elaborata al tempo del governo Prodi, come riferimento esemplificativo da rimandare alla definizione della contrattazione di categoria. Quel che si vuole affermare è che non bisogna tornare a una situazione nella quale le mansioni di qualifica più bassa vengano espletate attraverso una forma opportunistica di finto lavoro autonomo al solo scopo di avere il massimo di flessibilità e il minor costo del lavoro. Infine, se vogliamo che i giovani non siano lasciati in balia di loro stessi nel momento della fissazione dei compensi per il lavoro parasubordinato, occorre che anche per questo caso siano fissati
compensi minimi per legge o che essi vengano rimandati alla contrattazione collettiva. Un altro capitolo da affrontare è quello del lavoro femminile. Abbiamo proposto una normativa più semplificata per la tutela dalle dimissioni in bianco e proponiamo che le tre giornate di congedo dei padri per l’assistenza dei figli non venga scorporata dai permessi delle madri. Sul tema del lavoro flessibile riteniamo che l’uso dei voucher non debba essere ulteriormente esteso, e che non vengano abolite le soglie reddituali (7mila euro) che li rendono utilizzabili anche per il lavoro stagionale in agricoltura. Con la formula proposta dal governo c’è il rischio che il lavoro dipendente stagionale in questo settore scompaia definitivamente.
Il complesso degli emendamentipresentati riguarda anche problemi di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, l’estensione delle tutele a cura degli enti bilaterali che possono sostituire l’Aspi e le questioni della cura dei lavoratori disabili.
Si tratta ora di procedere. Nella commissione lavoro del Senato e nella discussione parlamentare, occorre ricercare i punti di correzione che abbiano il più largo sostegno politico e che rendano la riforma del mercato del lavoro più inclusiva per i giovani, capace di limitare la precarizzazione del lavoro e di contemperare le esigenze di tutela dei lavoratori con quelle dello sviluppo e della competitività delle imprese.

L’Unità 26.04.12

"Come un nuovo dopoguerra", di Federico Orlando

Con perfetta sintonia – unità e risanamento –, Napolitano e Monti hanno celebrato il 25 aprile come si conviene a una classe dirigente seria, non accecata dalla retorica e dal fanatismo, e dalla partigianeria che perseguita il “bel paese” da molto prima che Dante tuttavia lo battezzasse così. Chi ha gli anni, o ha studiato un po’ la storia dei secoli italiani Otto e Novecento, ricorda la lunga polemica del dopoguerra tra “risorgimentisti”, che consideravano resistenza e liberazione come l’ultima guerra d’indipendenza, e “comunisti” che la definivano lotta di liberazione sociale e premessa di rivoluzione.
Polemica che faceva tutt’uno con le divisioni tra nordisti e sudisti, “vento del nord” e restaurazione dello stato, monarchici e repubblicani, lavoratori e imprenditori, baroni e contadini, laici e clericali, europeisti e nazionalisti, antifascisti e nostalgici, ricostruzione e ristrettezze di bilancio: tutte antinomie superate da un’ondata di buonsenso civile che unì nel profondo, senza annullarne le differenti culture, politici, imprenditori, sindacati, intellettuali, elettori.
È a quel buonsenso diffuso che ci hanno richiamato ieri Napolitano dalla piazza di Pesaro e Monti dal museo della Resistenza di via Tasso (dove fra i torturati e poi fucilati alle Ardeatine fu anche quel colonnello dei granatieri Montezemolo di cui abbiamo scritto ieri su Europa, come Cazzullo sul Corriere della Sera e Brambilla su La Stampa: lo ricordo per la signora Tiziana Orru che mi ha scritto in proposito da Torino, e con la quale mi scuso se per oggi la consueta rubrica “Lettere” assume una veste diversa).
«Sui muri di questo museo – ha detto Monti – c’è l’evidenza di un’esperienza drammatica di tanti giovani che hanno contribuito con le loro sofferenze a liberare il paese. Oggi si tratta di rigenerare un’esperienza di Liberazione meno drammatica, certo, ma liberazione da alcuni modi di pensare e vivere, a cui ci eravamo abituati e che impedivano al paese di proiettarsi nel futuro».
Quel buonsenso comune allora fu incarnato da De Gasperi e Togliatti che si promettevano calci e si aiutavano nell’indirizzare le istituzioni e le masse, di Valletta e Di Vittorio che litigavano alla Fiat e scendevano a Roma insieme per risolverne i nodi coi ministri.
In quei governi decisivo fu il ruolo dei ministri liberali (Soleri, Corbino, Menichella, Einaudi: li nomino perché, almeno a chi sa qualcosa, sia più palese la differenza tra i patrioti liberali e le marionette che cinquant’anni dopo avrebbero tentato di usurparne il nome). Monti non doveva né poteva indugiare a descrivere quale Italia quegli uomini presero in mano nel ’45 (l’“anno zero”, come fu definito da chi non accettò mai la presunta “morte della patria” ma vide in quei giorni una patria che sarebbe rinata). Ha però accennato, con un salto indietro di settant’anni, a come ne uscirono. «Non esistono facili vie d’uscita, né scorciatoie per superare la crisi. Il rigore porterà gradualmente alla crescita sostenibile e al lavoro».
Gradualmente. Da Monti a Einaudi. Anche l’economista torinese, professore universitario, senatore del regno, governatore della Banca d’Italia dopo la Liberazione, ministro del bilancio con De Gasperi, presidente della repubblica dal cui scrittoio uscirono le meravigliose insolenze contro “parole magiche” e “scatoloni vuoti” della pseudopolitica e dell’antipolitica, anche Einaudi, dicevo, e gli altri fecero le cose durissime, e poi dure e poi indulgenti, con gradualità.
Così, dall’“anno zero”, quando la produzione industriale era ridotta al 23% di quella del 1938, ci trovammo in soli quattro anni, nel ’49, ad aver superato quella d’anteguerra; e subito dopo il Pil aumentò alla media di 5-7 punti l’anno: autentiche premesse del miracolo economico degli anni Cinquanta-Sessanta, sia pure con enormi squilibri. Reddito di 350mila lire per abitante a Milano, 66mila ad Agrigento. Due milioni e 200mila disoccupati la cui salvezza ancora nel ’55 era affidata all’emigrazione, prima che gli strumenti dello sviluppo girassero a pieno regime «rispettando l’ortodossia monetaria e il liberalismo economico», cioè equilibrio di bilancio, risanamento della finanza, accumulazione capitalistica; e rinnovando o creando strumenti di economia di stato quali Iri, Eni, Cassa del mezzogiorno, riforma agraria.
Nel frangente, prendeva corpo nella conferenza di Messina e coi trattati di Roma del 1956 la grande promessa del risorgimento, dell’antifascismo e della Resistenza: l’Europa. Per arrivarvi, quell’Italia coraggiosa s’era piegata dieci anni prima a pagare i debiti del fascismo firmando la pace di Parigi, senza attardarsi, come avrebbero voluto alcuni grandi vegliardi, a contemplare le proprie ferite e restare ai margini della storia che ripartiva. Il resto è cronaca. Via via che i patrioti morivano e i «modi di vivere» ricordati da Monti facevano, di ciascuno e di tutti, volontari o involontari profittatori, ricominciò la marcia indietro del paese fino all’orlo del fallimento.
Forse ci salveremo. E lo dovremo soprattutto a Napolitano e a Monti, che hanno ripristinato la moralità e la sapienza di Einaudi e De Gasperi.

da Europa Quotidiano 26.04.12

"Quando la storia insegna", di Franco Cordero

Cent´anni fa tenevamo banco europeo, sciaguratamente perché l´impresa libica innesca convulsioni balcaniche: Giolitti (quarto ministero) s´è rassegnato all´avventura coloniale sotto la spinta d´un nazionalismo ancora invisibile in aritmetica parlamentare ma influente tra i colletti bianchi più o meno umanisti (lo sostengono industriali dell´acciaio e dello zucchero: «I miei clienti duri e dolci», li chiama Alfredo Rocco, giurista, futuro architetto dello Stato totalitario); se il gioco riesce, terrà quieta la destra aggressiva mentre le Camere votano un´inaudita riforma elettorale (suffragio maschile quasi universale). Dal «Corriere della Sera» D´Annunzio canta le Gesta d´Oltremare in terzine dantesche, dieci canzoni, 8 ottobre 1911-14 gennaio 1912. Albertini gliele paga 1250 lire l´una e tira un milione di copie. Non è più tempo d´empiria giolittiana. Gl´interlocutori naturali nel riformismo socialista perdono quota: smania l´antilibico Benito Mussolini; il «sindacalismo rivoluzionario» dista poco dalle cabale imperialiste. Enrico Corradini, piccolo letterato, ha scoperto la guerra di classe tra Stati e Giovanni Pascoli tiene un discorso che ai miei tempi figurava nelle antologie, «La grande proletaria s´è mossa». In capo a due anni, quando un terrorista serbo uccide l´erede al trono absburgico scatenando i cannoni d´agosto, nasce l´equivoco cartello: dai reazionari (il cui disegno è chiaro, guerra da preda e ferreo ordine padronale) ai sogni d´una crociata virtuosa, vedi Salvemini e Bissolati; l´avventuriero Mussolini, espulso dal partito, guida uno pseudosocialismo interventista. Anime incompatibili, concordi però nel condurre alla festa sanguinaria il paese che non la vuole. Retorica dannunziana e «Corriere della Sera» ispirano il colpo di Stato con cui Antonio Salandra, avallato dal Quirinale, muove piazze urbane (impiegati dei ministeri, studenti ecc.) spaventando le Camere, e porta l´Italia in guerra. Francesco Saverio Nitti lo descrive torpido levantino con fondi d´anima nera.
Gli strateghi temevano che l´affare cruento durasse poco. Marte li esaudisce. Passano quarantun mesi e senza l´intervento americano Dio sa dove finirebbe l´incauta intervenuta: sta tra i vincitori ma geme sulla «vittoria mutilata», metafora dannunziana; i meno avidi aspettavano l´impero adriatico annunciato dall´orrenda-ridicola Nave, il cui trionfo sulle scene (inverno 1908) era cattivo sintomo; la Proletaria, più che mai tale, subisce l´egemonia francoinglese dalla Mesopotamia all´Atlantico. Il velleitario biennio rosso rilancia Mussolini: era sparito; nemmeno un seggio nella XXV legislatura, aperta l´1 dicembre 1919; s´è rimesso in gioco fornendo squadre agli agrari. Le «giornate radiose» 1915 prefiguravano la marcia su Roma. Chiamato al governo, 31 ottobre 1922, vi resta vent´anni, otto mesi, ventisei giorni. Dux (titolo del panegirico che gli dedica Margherita Sarfatti) ha del carisma: scrive e parla in battute incisive, cospicuo giornalista; né gli manca l´estro politico ma, egomane furioso, non percepisce i quadri causali. Meno impulsivo o più fortunato nelle scommesse, sarebbe condottiero a vita, tanto è l´ascendente sul grosso degl´italiani: coltiva fantasie pericolose; scialando le riserve, conquista un volatile impero etiopico in puro passivo; crede d´avere forgiato una razza guerriera; sbaglia calcoli legandosi al carro hitleriano; dichiara guerra a Francia, Inghilterra, Russia, America, non avendo materie prime né industria bellica, senza armi e dottrina sul come usarle, convinto che basti il gesto. Siamo nel paese dei mondi virtuali. Chiedeva mille morti da spendere al tavolo d´una grassa pace. Finisce molto male, appeso come Cola di Rienzo (Roma, mercoledì 8 ottobre 1354-Milano, domenica 29 aprile 1945), visionari tutt´e due.
L´Italia rinasce perché, fuori delle false glorie, ha talento laborioso ma infiacchita dal benessere, nei quarantasette anni seguenti perde fiato ingaglioffendosi. L´ultimo regime consortile muore corrotto e chi subentra? L´arcicorruttore, finto uomo nuovo, stregone d´un impero mediatico davanti al quale il ministero fascista della cultura popolare era opera buffa. Calca la scena diciotto anni, dominante anche negl´intervalli d´otto e mezzo. A colpo d´occhio risulta improponibile ogni paragone col demiurgo romagnolo: non ha l´ombra d´idee politiche; formidabile però nell´accumulare soldi coniugando frode, plagio, corruzione; s´era allevato «un popolo» mescendo ipnosi televisiva, secondo modelli inesorabilmente intesi al peggio; parlamentari su misura gli votano qualunque cosa chieda, roba molto privata. Li comanda a fischi. Quattro anni fa, dopo due governi fallimentari, stravince salutato col cappello in mano dai perdenti. Saremmo suoi sudditi se la crisi economica planetaria non l´avesse disarcionato. Notevole l´analogia con quanto era avvenuto domenica 25 luglio 1943.
Sono tanti, quarant´anni su cento d´inebetimento gregario; è chiaro che l´Italia abbia pochi anticorpi; la prossima volta niente garantisce salvezza gratuita in extremis. L´anamnesi enumera fattori in lunga fila: particolarismo politico, Controriforma, debole tensione etica, mercati d´anime ecc.; e i chierici tradiscono, lamentava Julien Benda. Tecnologie del falso presuppongono un passato fluido: ridisegnandolo qualunque mago dispone del futuro; è così plastica la materia grigia. Le lobectomie cominciano dalla confisca delle parole pericolose. Tutto sta nel ridurre l´area del pensiero, moltiplicando rumori, fumisterie, stereotipi, ignoranza tecnicoide. L´acquisito rifiuta ogni discorso trasparente, né sopporta lo spettro della realtà: un ottavo o sedicesimo d´idea gli gonfiano lunghe tiritere; l´intelligere diventa vizio e fatica, impopolarissimi («faticoso» è stigma molto usato dai censori); acquistano alto pregio mugolii, mimiche, trilli farfallini; al primo sospetto d´una quadratura sintattica qualcuno estrae già la pistola. Chiudiamo con un ricordo. Cuneo era città naturalmente aliena dalle retoriche fasciste: Achille Starace l´aveva definita «vergogna d´Italia»; correvano analisi caustiche del carnevale nero. Antropologicamente parlando, stavamo meglio allora.

La Repubblica 26.04.12

"Nuovo apprendistato. Si passa da sei a tre anni", di Giuseppe Vespo

Apprendisti cercansi. Da oggi entra in vigore definitivamente il Testo Unico sull’apprendistato, una piccola rivoluzione normativa che nelle intenzioni di chi ha scritto questa legge diventerà la porta d’ingresso nel mondo del lavoro per i più giovani.
L’INTESA DI OTTOBRE Il Testo unico nasce dall’intesa siglata il 27 ottobre del 2010 da sindacati, imprese, governo e regioni. Mentre l’accordo definitivo è del 13 luglio del 2011. Il nuovo apprendistato è in vigore già dal 25 ottobre del 2011 ma fino a ieri è rimasto «congelato» per dare la possibilità al mondo imprenditoriale di prepararsi alle nuove regole. In questo periodo transitorio le aziende hanno potuto assumere apprendisti facendo riferimento alle vecchie norme. Ma quali sono le novità? Innanzitutto viene stabilito che le regole dei diversi settori vanno definite con i contratti nazionali o con gli accordi interconfederali. Vengono però fissati dei paletti ai quali tutti devono fare riferimento. Il neo assunto dovrà avere entro trenta giorni dalla firma del contratto un piano formativo individuale. L’apprendistato potrà durare massimo tre anni (cinque per l’artigianato), mentre prima la durata massima era di sei anni. Il giovane assunto dovrà avere un tutor o referente aziendale e potrà essere licenziato solo «per giusta causa». Se al termine dei tre anni non viene comunicata con preavviso la fine dell’apprendistato, il dipendente si ritiene assunto a tempo indeterminato. La nuova legge prevede inoltre che potranno essere assunti come apprendisti anche i lavoratori messi in mobilità da altre aziende, e in questo caso ovviamente non ci saranno i limiti di età che nel caso dei più giovani la legge fissa tra i 15 e i 25 anni (da 18 a 29 anni per l’«apprendistato professionalizzante »o per quello di «alta formazione e ricerca»). Vengono così ridefinite le regole di un mondo che – stando alle analisi degli esperti del gruppo di ricerca Adapt e del sito www.fareapprendistato. it – nel 2009 interessava 591mila giovani (nel 2008 erano 645mila), il trentatré per cento dei quali con più di 25 anni di età, per la maggior parte con licenza media o superiore. Oggi si spera che questi numeri possano crescere, anche in ragione del fatto che sono previsti degli sgravi per le imprese che fanno ricorso agli apprendisti. Soddisfatti sindacati e imprese. «In questo modo abbiamo dato il nostro contributo allo sviluppo del mercato del lavoro, puntando sulla formazione obbligatoria dei giovani e l’assunzione a tempo indeterminato », commenta Claudio Treves, responsabile del mercato del lavoro per la Cgil. Una partita che non è finita ma continua con la riforma firmata dalla ministra Fornero, che aveva introdotto tra i paletti da far rispettare alle aziende che fanno ricorso agli apprendisti l’obbligo di assumere, al termine dei tre anni, almeno la metà dei giovani formati. Un obbligo che al momento è sceso al 30% degli apprendisti. Mentre dal punto di vista politico, «la cosa più importante – riprende il sindacalista di Corso Italia – è il riconoscimento del fatto che spetta al contratto nazionale discilplinare il rapporto di lavoro dell’apprendista. Senza alcuna deroga ».

L’Unità 25.04.12

"La Costituzione tradita", di Andrea Manzella

Merito a parte, la proposta di revisione costituzionale che i maggiori partiti presentano assieme è l´emblema di una “nuova” centralità del Parlamento (a volte ritorna). E´ anche il più eloquente simbolo di una comune volontà di disincagliare la nave: il linguaggio dei segni conta moltissimo in politica. Conta però anche la realtà: questa volta fatta dei tempi tecnici che sono troppo stretti per concludere entro la fine della legislatura.
Se però si è riusciti a tanto – a concepire insieme una riforma di norme costituzionali importanti – forse (forse) si può riuscire a fare alcune cose indispensabili per attuare e democratizzare la Costituzione, senza cambiarla e, quindi, in tempi possibili.
Nella nostra Costituzione la democrazia non è una cosa semplice e astratta. E´ cosa complessa e concreta. Una cosa che ha più forme. La democrazia rappresentativa (“ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione”: art. 67). La democrazia dei partiti (“per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”: art. 49). La democrazia civica partecipativa (la “effettiva partecipazione” all´”organizzazione politica, economica e sociale del Paese: art. 3). La democrazia dell´azione giudiziaria (“tutti possono agire in giudizio”: art. 24). La democrazia elettorale (“sono elettori tutti i cittadini”: art. 48).
Non sono forme alternative o sussidiarie o opzionali. Sono forme tutte necessarie e connesse l´una all´altra. L´una spiega e giustifica l´altra. Se una manca, una sola, la Costituzione non è una costituzione democratica.
Ognuno vede che nella situazione attuale gli appelli al costume, all´etica, alla moralità, al cambiamento di vita rivolti ad un mondo politico in gravi difficoltà nel capire e nell´agire sono nobili parole al vento, prediche inutili. L´unica pressione sensata deve essere quella di indicare le vie praticabili per democratizzare la Costituzione, per attuarla. Con norme che ne recuperino il suo senso originario di legge fondativa fatta per i cittadini e ne impediscano il tradimento, contro i cittadini.
Questo stesso Parlamento che sta obbedendo a vincoli esterni, talora venati di fideismo e simbolismo, per salvare l´economia, può essere capace di trovare in questi ultimi suoi mesi di vita, lo scatto per obbedire a vincoli interni che già sono in Costituzione e che i fatti, e non solo le opinioni, dicono non più aggirabili.
I tradimenti della Costituzione sono infatti sotto gli occhi di tutti, nella loro micidiale concatenazione antidemocratica. Così come sono ormai noti i rimedi che sono possibili subito. Per attuare la Costituzione, prima ancora di cambiarla in qualcosa.
Tradisce la Costituzione un funzionamento del Parlamento che non dà al governo procedure”pulite” per realizzare il suo programma, in tempi “europei”. Ma che non dà neppure all´opposizione la possibilità di porre questioni di libertà davanti alla Corte Costituzionale (basterebbe cambiare i regolamenti parlamentari e una legge ordinaria del 1953, per fare queste cose).
Tradisce la Costituzione, l´andazzo di partiti operanti fuori dalla legge, senza rispetto per il comune metodo democratico interno e senza riscontro esterno sui soldi pubblici che ricevono (basterebbero poche norme ordinarie, anche più semplici di quelle già proposte, per il controllo dei giudici sulle regole di base e quello della Corte dei Conti sulla destinazione d´uso del danaro dei contribuenti).
Tradisce la Costituzione la mancanza di norme che vincolino il Parlamento a prendere sul serio le iniziative dei cittadini: non per un assurdo abbandono della democrazia rappresentativa ma per assicurarne l´ancoraggio continuo ai bisogni oggettivi della società (e basterebbe anche qui una modifica vincolante dei regolamenti parlamentari).
È tradimento dalla Costituzione – oltre che dell´economia – la abnorme durata dei processi civili e penali che annulla di fatto il diritto democratico alla giustizia. La responsabilità personale dei giudici dovrebbe essere fatta valere per questo eccesso di tempi e non (com´è perversa ipotesi) per le loro sentenze. E distoglie da questa vitale questione chi vorrebbe che i giudici non potessero colpire il malaffare del Potere mostrando subito le prove che hanno in mano: prima di essere sopraffatti dal volume di fuoco degli indagati potenti.
Tradisce la Costituzione una legge elettorale che consegna la scelta dei parlamentari non alla Nazione che devono rappresentare e che li deve eleggere ma al gruppo dirigente di partiti senza regole. Certo, ogni democrazia ha bisogno di un governo che possa governare e di un Parlamento che possa obbedire agli interessi nazionali, senza mandati personali “vincolanti” (se così non fosse, se vi fosse una frammentazione individualistica del rapporto Parlamento-corpo elettorale, quale mai maggioranza alle Camere potrebbe sostenere, per esempio, un governo come l´attuale?). Ogni democrazia ha bisogno di partiti politici che, nella babele di una società civile in preda alle emozioni e informazioni più contraddittorie, sappiano interpretare, fare emergere, guidare le correnti d´opinione che rispondono ad una visione generale di destino del Paese. E fondare su di esse, e non su vincoli padronali, la “disciplina” di gruppo in Parlamento (art. 54 Cost.). Ma è mai possibile che, per calcoli fondati sul nulla (la forma di governo dopo le elezioni del 2013 non è seriamente prevedibile e neppure coartabile) stenti tanto a nascere una legge che equilibri queste esigenze con quella di rendere visibili agli elettori, con le loro facce, tutti i candidati: da soli o in liste brevi nei collegi?
C´è, come si vede, un incrocio permanente, un bilanciamento fra quattro o cinque cose puntuali che sono necessarie e urgenti, come lo è stato l´aumento delle tasse. Ma che, in un certo preciso senso, lo compenserebbero: con la crescita del peso e dell´autostima dei cittadini, quelli che oggi minacciano di rifugiarsi nel rifiuto elettorale.
C´è tutto il tempo che occorre, se non si inventano falsi ostacoli “giuridici”, per queste semplici cose essenziali, che non richiedono revisioni costituzionali. E per tirare un bilancio politico del governo “tecnico”.

La Repubblica 26.04.12

"Sul reintegro rispettare lo Stato di diritto", di Luigi Mariucci

In tema di licenziamenti nel disegno di legge varato dal Consiglio dei ministri si è salvato il principio della reintegrazione, pur nel quadro di un insieme di modifiche che rafforzano i poteri dell’impresa. Ne emerge una nuova versione, molto complessa, dell’art.18 che darà adito a varie controversie interpretative. L’innovazione più corretta riguarda le misure sulla accelerazione delle controversie in sede giudiziaria. In tema vanno contrastati i molti scetticismi circolanti: se non siamo in grado di assicurare tempi decenti alla giurisdizione, in tutte le sue forme (del lavoro, civile e penale) tanto vale rassegnarsi al fatto che siamo un paese di serie B, dato che questo è uno degli handicap più rilevanti sul piano della funzionalità delle nostre istituzioni. Suscitano invece varie perplessità le modifiche dirette ad assumere un carattere permissivo verso le violazioni formali, di carattere procedurale. Invece che mettere mano a modifiche mirate a migliorare la norma si annunciano invece possibili emendamenti peggiorativi, tali da alterare il (difficile) compromesso fin qui raggiunto. Il primo riguarderebbe i licenziamenti disciplinari. In questo caso l’attuale versione prevede che il giudice possa disporre la reintegrazione anche in caso di violazioni di “legge”. Qui occorre intendersi sul significato di un punto essenziale della riforma. La modifica dell’art. 18 trova il suo fondamento razionale nel senso di ampliare il margine della valutazione giudiziaria di fronte al caso concreto. Questo non significa enfatizzare la soluzione giudiziaria delle controversie sui licenziamenti, ma il suo contrario. Proprio perché al giudice, in ultima istanza, si lascia un margine discrezionale di valutazione tra indennizzo e reintegrazione a seguito di un licenziamento illegittimo, si rafforzano le soluzioni conciliative, che possono consistere, a seconda dei casi, nella revoca del licenziamento ovvero nell’indennizzo, ma mettendo entrambe le parti sul piede di una pari dignità. È evidente che nell’ambito della valutazione del giudice rientrano anche le ipotesi “di legge”, oltre a quelle previste dai contratti collettivi. Cancellare il riferimento alle “leggi” sarebbe quindi paradossale. Non siamo in uno stato di diritto, il cui primo riferimento sono appunto “le leggi”? L’altra modifica peggiorativa ventilata riguarda il tema dei licenziamenti economici. Qui il giudice può disporre la reintegra ove sia verificata la “manifesta insussistenza” del motivo economico. Ci si può domandare quale sia il senso di quell’aggettivo. L’”insussistenza” non è già evidente di per sé? Invece che cancellare quell’inutile termine, si propone una modifica dal sapore palesemente vessatorio. Infatti nel caso dei licenziamenti economici si prevede giustamente il ricorso a una preventiva procedura conciliativa presso gli uffici del lavoro, cui è assegnato un breve termine. Il senso di questo controllo, pubblico e sindacale, sulla veridicità del motivo economico sta evidentemente nel suo carattere preventivo. Il che significa che fino all’espletamento della procedura il licenziamento deve essere sospeso. Ora tuttavia, lamentando il rischio che il lavoratore si metta in malattia al solo fine di allungare i tempi della procedura, qualcuno propone di rendere efficaci fin dalla loro intimazione i licenziamenti, con ciò svuotando il senso stesso della procedura. Ci si può domandare da quale distorsione mentale possano derivare tali suggerimenti. Lo stato di malattia del lavoratore, il quale come è noto deve essere certificato e controllato, viene equiparato tout court a un abuso. Tale ipotetico abuso non viene quindi contrastato prevedendo, al limite, tanto per dar seguito a questa incredibile cultura del sospetto, che i termini della procedura decorrano anche in caso di malattia certificata, ma dichiarando l’immediata esecutività dei licenziamenti. Un vero capolavoro di antiriformismo, che va decisamente contrastato. Tutto questo sia detto ricordando l’errore principale commesso dal governo nella vicenda: avere messo tutta l’enfasi della riforma nella modifica dell’art.18, quando ogni serio imprenditore dice che i problemi reali del rilancio della economia e della produzione riguardano tutt’altro, e ben più serio, ordine di questioni.

L’Unità 26.04.12

"Sulle riforme i partiti non possono più attendere", di Marcello Sorgi

Pronunciati ieri in pubblico in occasione delle celebrazioni del 25 aprile, i due quasi simultanei «no» alle elezioni anticipate di Napolitano e Monti dovrebbero aver chiuso, al momento, ma non si sa per quanto, tutto il gran discutere nei giorni scorsi di scioglimento delle Camere. Il Presidente della Repubblica e quello del consiglio hanno fatto due discorsi perfettamente complementari, dedicati rispettivamente alle incognite della situazione politica e di quella della crisi economica: ammonendo, il primo, dai rischi di un ritorno alle urne senza aver realizzato le riforme che i partiti si sono impegnati a fare nell’ultima fase della legislatura, anche per contrastare la crescente disaffezione verso la politica che emerge dall’opinione pubblica. E avvertendo, il secondo, che attualmente non ci sono alternative alla linea di rigore portata avanti dal governo, e solo insistendo senza indugi in questa direzione l’Italia può sperare di coglierne i primi frutti l’anno venturo: insistere, come da un po’ stanno facendo i partiti della maggioranza, sulla necessità di avviare subito una svolta verso la crescita, per il capo dell’esecutivo tecnico significa dunque ignorare le difficoltà che continuano a manifestarsi in tutta l’area euro e rendere di conseguenza più difficile l’azione del governo. Di qui l’invito di Monti ai partiti che lo sostengono a recuperare lo slancio costruttivo che fu proprio della classe dirigente uscita dalla Liberazione e dalla guerra.

Napolitano nel suo intervento a Pesaro ha anche fatto accenno esplicito ai timori per l’antipolitica e alla necessità di non lasciare spazio «a qualche demagogo», allusione che è parsa rivolta contro Grillo. E che fa capire, conoscendo l’abituale cautela del Presidente, che al Quirinale devono essere arrivati segni concreti dello stato di ansia in cui versano i partiti di fronte alla crescita, rivelata dai sondaggi, del movimento del comico ligure, ormai vicino a un livello di sicurezza, attorno all’8 per cento, ben più alto di qualsiasi sbarramento elettorale, si tratti del quattro per cento (otto su scala regionale per il Senato) prevista dall’attuale legge Porcellum, o di un eventuale innalzamento della soglia.

Nuovi casi di corruzione, uso e abuso del finanziamento pubblico dei partiti, riforme istituzionali per ridurre il numero dei parlamentari, differenziare i compiti delle Camere e rafforzare il ruolo del premier: ogni giorno che passa i tempi sono più stretti, ma questi restano i nodi attorno a cui i partiti non possono più permettersi di girare intorno.

La Stampa 21.04.12