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"Salari al palo, a marzo +1,2%", di Tonia Mastrobuoni

C’era una volta la scala mobile, un meccanismo micidiale che legava automaticamente gli stipendi all’inflazione e creava, a sua volta, aumenti dei prezzi, la cosiddetta «spirale inflazionistica». Ma c’è qualcosa anche nel metodo attuale, che prevede che i sindacati e aziende negozino ogni tre anni gli aumenti in busta paga, che funziona male. A marzo si è registrata la differenza più alta tra la dinamica dei prezzi e quella delle retribuzioni da diciassette anni: ben 2,1 punti percentuali. Una sorta di «tassa occulta» che mina la capacità di spesa dei lavoratori e che incide negativamente sul costo della vita.

Mentre gli incrementi in busta paga sono stati dell’1,2 per cento rispetto a marzo del 2011 (e nulli mese su mese), ci fa sapere l’Istat, l’inflazione è aumentata del 3,3 per cento, spinta soprattutto dall’impennata del petrolio e delle materie energetiche. La differenza è del 2,1 per cento, appunto, la forbice più alta dal 1995, quando era stata del 2,4 per cento. L’incremento dell’1,2 per cento, peraltro, è il più alto dall’inizio delle serie storiche, dal 1983 (quando però c’era ancora la scala mobile). Anche il dato del primo trimestre degli aumenti degli stipendi è ai minimi: l’1,3 per cento rispetto al periodo gennaiomarzo del 2011.

Certo, il dato è influenzato dal congelamento dei rinnovi contrattuali decisi nel 2010 per gli statali – infatti nella rilevazione per macrosettori risulta che a marzo, tra i pubblici dipendenti, la variazione sull’anno precedente è stata nulla.Alcontrario,idipendenti del settore privato hanno beneficiato – se così si può dire, di buste paga più pesanti dell’1,7 per cento.

Ma un altro fattore che pesa, è che molti rinnovi attendono ancora di essere firmati: ben 36 (ma 16 nel pubblico), equivalente al 32,6 per cento dei dipendenti. Significa che ci sono 4,3 milioni di lavoratori in attesa di un adeguamento dei loro stipendi al costo della vita attraverso i negoziati sui contratti collettivi.

Il Codacons parla di una «tassa invisibile che dissangua sempre più gli italiani» e ha tentato un calcolo delle perdite effettive per una famiglia. «E’ come se una famiglia di tre persone avesse avuto una perdita equivalente a 720 euro (610 per una famiglia di 2 persone)» calcola il Codacons. In trincea anche i sindacati. Susanna Camusso osserva che le cifre fornite dall’Istat confermano che «le condizioni di reddito dei lavoratori continuano a peggiorare». La numero uno della Cgil ha ricordato che « i lavoratori pubblici sono al quarto anno di blocco dei contratti» e che molte «altre categorie rinnovano i contratti e gli accordi aziendali con grande difficoltà mentre sul potere d’acquisto pesa l’aumento delle tasse e il fiscal drag».

Intanto sono in arrivo ritocchi alla riforma dell’articolo 18. Alcune correzioni potrebbero essere apportate in Senato nel corso dell’esame in Commissione lavoro. «Il Pdl e il Pd non hanno presentato modifiche all’art. 18», il che conferma il fatto che «il “lodo ABC” tiene», ha spiegato il relatore Maurizio Castro (Pdl), anche se alcuni piccoli aggiustamenti potrebbero essere fatti in particolare sui licenziamenti disciplinari, limitando i poteri del giudice e correggendo le norme che potrebbero diminuire le tutele in appello per i licenziati. Per questi aggiustamenti non saranno i relatori a presentare gli emendamenti ma dovrebbe farlo il governo. Castro ha poi precisato che «vanno fatti due aggiustamenti». Uno sul disciplinare: la tipizzazione legale va espunta rispetto alla tipizzazione contrattuale e regolamentare. Mentre nel licenziamento economico bisogna fare in modo che la possibilità che la procedura conciliativa non possa essere elusa. In tutto sono 800 gli emendamenti depositati (300 solo della Lega) che da domani la Commissione deve affrontare.

La Stampa 25.04.12

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“Stipendi al palo, mai così male dall´83”, di Filippo Santelli

La crisi, per i lavoratori italiani, è nello scarto tra due velocità. Quella degli stipendi, congelati come mai era successo negli ultimi trent´anni. E quella dei prezzi che continuano a crescere a passo sostenuto. Gli stessi soldi per comprare più caro, il risultato è l´erosione del potere d´acquisto delle famiglie. La più marcata dal 1995 ad oggi, secondo i dati presentati ieri dall´Istat. Perché a marzo le retribuzioni orarie sono cresciute appena dell´1,2%. E con l´inflazione stimata al 3,3%, la forbice con i prezzi ha raggiunto i 2,1 punti. Non succedeva da 17 anni: «Una famiglia di due persone si ritrova, da un anno all´altro, con circa 610 euro in meno da spendere», spiega il Codacons, che ha provato a tradurre i dati in soldoni. «Un nucleo di tre persone ne ha persi 720. Si tratta di una specie di tassa invisibile che dissangua sempre di più i cittadini». Non solo una pressione fiscale in aumento dunque, a pesare sull´economia degli italiani è anche l´andamento dei salari. Di fatto bloccati nella prima parte dell´anno, secondo l´Istat: tra febbraio e marzo, per ora lavorata, non sono aumentati neppure di un centesimo. Il dato sui dodici mesi è positivo, ma appena dell´1,2%. Si tratta del valore più basso almeno dal 1983, da quando cioè l´Istituto ha cominciato la serie storica delle rilevazioni.
Non in tutti i settori le cose vanno altrettanto male. Dal dossier dell´Istat emerge che per i lavoratori del privato le retribuzioni orarie sono aumentate dell´1,7%, più della media. Chi ha un impiego nell´industria le ha viste crescere in un anno del 2,3%, con alcuni comparti, come il tessile e la chimica, vicini al 3, quasi al pari con l´inflazione. Discorso molto diverso per gli agricoltori, per i quali la cifra percepita a marzo 2012 è stata identica a quella del 2011. Crescita zero, così come per i dipendenti statali. Sono loro la categoria più penalizzata, anche a causa del blocco dei contratti della pubblica amministrazione previsto dalla manovra del 2010. L´andamento dei loro stipendi è piatto già da novembre dello scorso anno. E per tutto il 2012, prevede l´Istat, il trend non cambierà. Sulla base degli accordi collettivi in vigore, l´Istituto stima una crescita media dei salari dell´1,4%. Con agricoltura e statali sempre fermi a quota zero.
Qualche adeguamento salariale potrebbe arrivare con i rinnovi contrattuali. Non fosse che in Italia trovare un´intesa è missione sempre più lunga e difficile. A fine marzo quasi un lavoratore su tre era in attesa di una firma: 36 categorie in tutto con 4,3 milioni di persone interessate. Ma mentre nel privato questa condizione riguarda solo il 12,3% dei lavoratori, con una copertura quasi totale per agricoltori e operai, sono ancora una volta i dipendenti statali ad essere più esposti. Per legge, sempre la manovra del 2010, che ha bloccato i rinnovi nel pubblico fino al 2012. Così oggi l´intero settore è scoperto, circa 3 milioni di persone. E questo fa impennare il tempo medio richiesto in Italia per rinnovare gli accordi, voce che l´Istat chiama “tensione contrattuale”. Nel 2011 i mesi dalla scadenza al rinnovo erano 15,2: sono quasi raddoppiati a marzo 2012, diventando 27. In questo caso, senza grandi differenze tra lavoratori del pubblico e del privato.

La Repubblica 25.04.12

"La luna di miele è finita", di Claudio Tito

La campagna elettorale è virtualmente iniziata. Le bordate sparate ieri da Silvio Berlusconi ne sono la plastica rappresentazione. Al di là della effettiva celebrazione del voto politico in autunno – per niente scontato –, le parole del leader Pdl sono però il segno che la luna di miele nella maggioranza, e con il governo, si è ormai esaurita. Tutti stanno piazzando le rispettive truppe per affrontare la volata verso le urne. Il Cavaliere lo ha fatto per primo. Perché sa che la sua corsa si sta sempre più rivelando una rincorsa e per di più in salita. I sondaggi assegnano il minimo storico al suo partito. Le risse interne sono quotidiane e a pagarne il prezzo maggiore è il segretario del Pdl, Angelino Alfano. Il campo del centrodestra è il più confuso: senza una strategia chiara, senza un asse definito. Senza un appeal elettorale specifico. Ma soprattutto quello spazio è diventato contendibile. In primo luogo dai centristi di Casini e dal futuro Partito della Nazione. Che possono approfittare di un´immagine decisamente appannata dell´ex premier e sfruttare la crisi della seconda gamba del centrodestra: la Lega.
Per affrontare la salita, allora, Berlusconi cerca di rimescolare tutte le carte. E lo sta facendo su due sponde diverse. La prima lo sta portando a prendere le distanze dal governo Monti. I suoi sondaggi riflettono un calo nella popolarità dei tecnici. Il 70% degli elettori di centrodestra vorrebbe tagliare il rapporto con i “professori” e tornare rapidamente alle urne. Il Cavaliere vuole intercettare quel malumore. Che, peraltro, con ogni probabilità esploderà quando a giugno gli italiani saranno chiamati a pagare l´Imu. Nel frattempo però si riverserà con fragore sulla prossima tornata amministrativa di maggio. Un appuntamento che rischia di essere dirompente per il Pdl.
La seconda sponda che costringe il Cavaliere a sventolare la carta del voto anticipato tocca proprio il suo partito. Dilaniato dalla lotta intestina tra le correnti, a un passo dall´esplosione e soprattutto soggetto ad una “scalata ostile” da parte di Casini. Non a caso, per bloccare l´Opa dei centristi, l´ex premier sta iniziando a porre il veto sulla riforma elettorale. Ad una legge che libera i partiti dall´obbligo di coalizione, spezza ogni legame tra il Pdl e la Lega e rende ancor più attraente il nuovo soggetto moderato del Terzo Polo. Uno scenario che non solo farebbe perdere per sempre a Berlusconi il controllo dell´area moderata ma renderebbe comunque residuale il suo ruolo. Con il Porcellum le chance di conservare una centralità anche nella sconfitta restano in larga parte intatte. Perché il suo obiettivo resta quello di trattare i suoi interessi anche stando all´opposizione ma potendo gestire un pacchetto consistente di seggi. Forse anche per questo ha sostanzialmente archiviato l´idea di candidare Alfano come premier e non esclude più rimettersi in pista: «Sono l´unico che può tenere unito questo partito e ricucire con Bossi».
Per inseguire questi obiettivi, allora, l´ex premier ha una sola arma: prendere le distanze da Monti e minacciare le elezioni. E in caso provocarle. Possibilmente scaridandone la responsabilità sul Pd. Nella convinzione che una parte dei Democratici stiano coltivando la tentazione di affrettare il ritorno al voto. Tutti i sondaggi del resto danno il Pd in netto vantaggio. Ma con l´attuale legge elettorale, Bersani non solo non potrà fare affidamento sul Terzo Polo di Casini, ma dovrebbe resuscitare la cosiddetta foto di Vasto e l´alleanza con Idv e Sel. Un´opzione da cui aveva cercato di allontanarsi in questi mesi. Soprattutto dovrebbe di fatto rinunciare a qualsiasi apporto da parte dei ministri tecnici e dello stesso Monti. Il Professore, infatti, non sarebbe più spendile in una coalizione con Di Pietro.
Le elezioni ad ottobre al momento non sono ancora l´ipotesi più probabile. Ma anche se si votasse nel 2013, la campagna elettorale è di fatto iniziata. I più preoccupati di questa situazione sono il presidente della Repubblica Napolitano e il presidente del Consiglio. Il primo ha colto la necessità di assegnare rapidamente all´esecutivo un altro obiettivo vitale e evitare il pantano dei veti incrociati. Non basta più risanare i conti per andare avanti. Palazzo Chigi deve individuare un´agenda più “popolare” per mettere a profitto almeno i prossimi sei o sette mesi di lavoro. E Monti sa bene che il suo governo cammina su un crinale scivolosissimo. La preoccupazione è altissima, il rischio-paralisi elevatissimo. E la sua forza non può solo basarsi sulla debolezza delle forze politiche e sull´idea che nessuno si assumerà la responsabilità di farlo cadere.

La Repubblica 25.04.12

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“Berlusconi lancia il voto a ottobre No di Pd e Udc”, di Carmelo Papa

Il leader del Pdl Berlusconi punta ad andare alle elezioni a ottobre. Netto no all´ipotesi voto anticipato da parte del Pd e dell´Udc. Il segretario dei democratici Bersani propone il dimezzamento dei fondi pubblici ai partiti rispetto agli attuali rimborsi elettorali: «Se i lavoratori stringono la cinghia, noi dobbiamo stringerla il doppio».
Agita lo spauracchio del voto anticipato a ottobre, «bisogna tenersi pronti», ma dice che è il Pd a volerlo. Lancia l´appello all´unità dei moderati, ma ammette che al massimo si può scommettere su una confederazione dei partiti centristi. Annuncia che cambierà il nome del Pdl, ma solo quello, perché contenuti e dirigenti non si toccheranno. Ripete che il segretario Alfano il “quid” ce l´ha, ma si guarda bene dall´indicarlo quale candidato premier per il 2013. Silvio Berlusconi ricompare al cospetto dei suoi dopo quasi un mese di ritiro. Più che provato, lo descrivono sconfortato per l´incalzare del processo Ruby, l´inchiesta Lavitola e l´eco delle intercettazioni audio delle “Olgettine”. Ad ogni modo monopolizza il deserto prefestivo di Montecitorio riunendo prima i coordinatori regionali e provinciali per quasi due ore al gruppo Pdl, poi facendosi portare a pranzo per la prima volta al ristorante della Camera da Maurizio Lupi («Perché non mi inviti mai qui?») e tre deputate: Barbara Saltamartini, Beatrice Lorenzin e Maria Rosaria Rossi. Ed è lì, al fianco di Alfano, che si lascia andare agli sfoghi più personali. «Dobbiamo lavorare a una confederazione dei moderati, deve essere quella la nostra prospettiva» spiega ai commensali. Delle resistenze del leader centrista il Cavaliere confessa di non capacitarsi, mentre passa da una pasta al pomodoro a una mozzarella con prosciutto crudo: «Pier Ferdinando cosa vuole in più? Continua a chiedermi un passo indietro, ma io di passi indietro ne ho fatti due. Il primo dal governo, il secondo dal partito. Io l´accordo con lui l´avrei fatto anche nel 2008, ma è stato Fini a opporsi». Un paio d´ore prima, al vertice con i coordinatori freschi di elezione ai congressi, era stato esplicito: «Solo se noi moderati ci presenteremo uniti alle prossime elezioni potremo vincere e evitare di consegnare il Paese alla sinistra». Pensa a una «confederazione», ognuno col suo simbolo, sorta di riedizione del «Polo del buongoverno» e avverte: «Chi dividerà i moderati per ragioni personali, si esporrà a pesanti accuse». Ma ancora una volta Casini non pare convinto. «L´unità dei moderati – gli manda a dire – si costruire su cose concrete, sui programmi, non su nominalismi». Lo stesso ruolo di primo piano che Berlusconi ritaglia ancora per sé resta l´ostacolo insormontabile per i centristi. «Resta il problema di come i voti moderati sono stati rappresentati in questi anni» ragiona Casini chiudendo per ora le porte e sottolineando: «Al voto si va ad aprile-maggio 2013».
Invece per Berlusconi ogni scenario è possibile «Dobbiamo tenerci pronti a ogni eventualità – dice ai coordinatori riuniti con pochi deputati – Se si andasse a elezioni a ottobre, la sinistra potrebbe vincere, con questo sistema elettorale, visto che la Lega masochisticamente ha deciso di andare sola e Fini ha fatto quel che ha fatto». Il Cavaliere sostiene che sia proprio il Pd di Bersani a spingere in quella direzione, ispirato dai sondaggi favorevoli. Ma proprio il segretario dei democratici lo sconfessa: loro sosterranno il governo Monti fino al 2013, «se lui ha un´altra idea lo dica, ma non parli per noi… Mi consenta». Tanto più che mentre il leader Pdl evoca elezioni a ottobre, viene distribuito ai coordinatori il vademecum per la lunga campagna con tanto di logo “elezioni2013pdl”. Parlando ai suoi invece Berlusconi conferma il cambio di nome, ma «il partito resta lo stesso, composto dalle stesse persone che credono nelle nostre idee». E sarà guidato da «Angelino, che ha quel quid in più», dice per smussare quanto dichiarato a marzo da Bruxelles. A pranzo rivela di essere molto amareggiato per «i tribunali che mi perseguitano», ma anche per quanto accaduto all´amico Bossi. Spera ancora nell´alleanza. Il Senatur, interpellato in serata, svela di aver ricevuto la telefonata e l´offerta di aiuto dal Cavaliere, giorni fa, ma di aver risposto: «Grazie, ma facciamo da soli». Sul voto a ottobre taglia corto: «Magari, ma non si è mai fatto. Vince la sinistra? Speriamo di no» dice esibendo il consueto dito medio. Cauto sulle alleanze, «aspettiamo ottobre per deciderlo».

La Repubblica 25.04.12

"Il new deal d´europa", di Barbara Spinelli

L´Europa è talmente malmessa, che non può permettersi alla guida degli Stati uomini senza nuovi progetti sull´Unione, che proseguano con avaro nazionalismo i falsi movimenti di salvataggi inesistenti. Ha bisogno di pensare in grande il doppio sconquasso che l´assedia: la crisi che minaccia l´euro, e la crisi di rappresentanza politica che minaccia la democrazia. Questo il messaggio che domenica è venuto dal primo turno delle presidenziali francesi. il rigetto di Sarkozy, il successo della xenofobia antieuropea di Marine Le Pen, confermano che esiste ormai un tragico divario, non solo in Francia, fra la gestione contabile dei debiti pubblici e le passioni democratiche dei cittadini.
È finita l´epoca in cui l´economia determinava ogni cosa. È l´economia, stupido! disse nel ´92 uno stratega di Clinton, sicuro che Bush padre non avrebbe vinto con i suoi discorsi sul dopo-guerra fredda. Per vent´anni le menti sono state prigioniere di quel motto fatale, cattivando gran parte delle sinistre europee, ed ecco che fa irruzione una questione che credevamo chiusa, morta: la questione sociale. Sarkozy è sorpassato al primo turno da Hollande e dal Fronte Blu-Marina di Pen per aver ignorato questa novità, pur visibile da tempo. Dalla Francia profonda gli giunge l´annuncio: È il sociale, stupido!
È il sociale come nel 1933-37, quando Roosevelt avviò il New Deal, in reazione alla Grande Depressione del ´29, e non solo predispose ingenti piani di investimento ma corresse anche la democrazia americana: a fatica impose le sue proposte, avversato sia dalla Corte suprema, sia da singoli Stati che ritenevano violate le loro prerogative ed eccessivo l´intervento dello Stato federale. Lo stesso sta accadendo da noi. Pensare in grande, oggi, significa pensare europeo, non limitarsi a escogitare ombrelli temporanei che riparino dalle bancarotte gli Stati periferici. Alla Grande Contrazione dei redditi e dei diritti, e alla disperazione sociale che dilaga, si può rispondere solo con un New Deal, un Nuovo Patto che sia federale e sovra-statale come quello di Roosevelt.
François Hollande non ha forse la stoffa di Roosevelt (chi ha la stoffa di un grande, prima di provare?) e l´Europa federale ancora non c´è. Durante tutta la crisi Sarkozy ha impedito questo sviluppo, vantandosi d´aver riportato l´Europa nelle capitali, lontano da Bruxelles. Ma se Hollande la spuntasse, al secondo turno, qualcosa potrebbe cominciare a muoversi. Se le parole che ha detto pesano, l´immobile pigrizia di Merkel e Sarkozy un poco s´incrinerebbe. Non dimentichiamo che tanti Europei lo chiedono: i socialdemocratici e liberali tedeschi (che hanno appena iscritto la Federazione nel programma del partito), il Consiglio degli esperti economici in Germania, i governi polacco e spagnolo, e uomini come Cohn Bendit, Verhofstadt, infine Delors, secondo cui l´odierna politica «uccide l´Europa». Lo chiede anche Mario Monti.
La tesi di Hollande è che il Patto di bilancio franco-tedesco, approvato il 2 marzo da 25 Stati dell´Unione, è una tappa necessaria («Io accetto la disciplina», ha detto ai socialisti europei, in marzo a Parigi) ma fallimentare se non affiancata da una politica europea di investimenti e occupazione. Delors aggiunge: se non abbinata a un´Europa più federale e a un diverso modello di sviluppo.
L´iniziale idea di rinegoziare il Patto di bilancio è stata abbandonata, e la battaglia di Hollande ha ora altri obiettivi: non più la trasformazione dei debiti sovrani in debito comune, ma il potere dato alle istituzioni sovranazionali europee «di finanziare nuovi progetti di sviluppo». Il candidato chiede inoltre che nel Fiscal compact sia introdotta una clausola, perché i fondi per le regioni povere siano meglio usati e la Banca europea degli investimenti diventi più attiva.
Il Fondo salva-stati (Firewall, muro antincendio) è criticato con forza. L´ha criticato anche Robert Zoellick, Presidente uscente della Banca Mondiale, il 16 aprile in un articolo sul Financial Times: «L´agitazione sul Firewall distrae dalla questione fondamentale: che può fare l´Unione per aiutare Italia e Spagna ad attuare le riforme senza perdere il consenso politico? Invece d´azzuffarsi sul muro antincendio, gli Europei dovrebbero aggiungere almeno una frazione – circa 10 miliardi di euro – al capitale della Banca europea degli investimenti».
La vittoria di Hollande potrebbe mitigare le rigidità della Merkel, far da contrappeso a un dominio continentale di Berlino al contempo prepotente e abulico, che mai è stato sottoposto a vere sfide da Sarkozy, affamato di appoggi alle elezioni. Chi presagisce la fine dell´asse franco-tedesco con Hollande all´Eliseo non ha memoria nel cervello: Parigi e Berlino sono un tandem, per necessità.
Resta che il grosso dello sforzo toccherà alla Francia, più che mai. È qui che ci si aggrappa più accanitamente alla sovranità assoluta degli Stati. Per mezzo secolo Parigi ha fatto e disfatto l´Unione ben più capricciosamente della Germania. Il federalismo, antica vocazione tedesca, è inviso in Francia. Hollande denuncia il rigore senza crescita, non il tabù della sovranità nazionale. Delors è un´eccezione alla regola.
Il non-detto in Europa è che la crisi non è una buia manovra speculativa. Nasce da una dislocazione planetaria dell´economia. La verità taciuta dai governi è che la crescita di ieri da noi non tornerà: che converrà dipendere meno da vecchie industrie, non più competitive in Asia e America latina, e puntare su energie rinnovabili, ecologia, ricerca.
Un´altra verità occultata è l´organizzazione della ripresa. È per risparmiare soldi che il Nuovo Patto deve partire dall´Unione, non dagli Stati. Come ha detto Alfonso Iozzo, ex presidente della Cassa Depositi e Prestiti e federalista europeo, in una riunione romana di EuropEos a marzo: agli Stati incombe l´obbligo del rigore, «all´Europa lo sviluppo con un New Deal». I primi infatti «non possono più sostenere piani nazionalmente troppo costosi». Dice Passera che non possiamo aspettarci ideone dai governi. Ma di ideone c´è bisogno disperato – lo attesta il trionfo dei nazionalismi xenofobi europei – e il New Deal è una di esse.
Si dirà che mancano i soldi. Ma l´Europa può trovarli, accrescendo il proprio bilancio. Secondo i federalisti, l´aumento delle comuni risorse deve passare dall´1 per cento del prodotto interno lordo al 2. E deve poter essere usata la tassa sulle transazioni finanziarie, oggi solo annunciata, per sostenere i lavoratori colpiti dalla globalizzazione e i giovani esclusi dal lavoro.
L´Europa di Merkel e Sarkozy non ha sanato ma aggravato nell´Unione la sofferenza economica e democratica, accentuando populismi e chiusure nazionaliste. Perfino il trattato di Schengen è messo in causa, spiega Monica Frassoni, deputata europea dei Verdi, sul sito Linkiesta.it: è recente un appello inviato dai ministri dell´Interno di Francia e Germania al Presidente del Consiglio dei Ministri europeo, perché vengano reintrodotti i controlli alle frontiere nazionali contro i migranti illegali. Sarkozy spera di strappare voti a Marine Le Pen. Domenica abbiamo visto che l´originale, almeno per ora, è preferito alla copia.
Può darsi che manchino oggi leader come Roosevelt. Ma la constatazione s´è fatta stantia. Importante è smettere di dire che l´Europa funziona così com´è: che basta – l´ha detto Monti in gennaio alla Welt – la sussidiarietà (se i nodi non sono sciolti nazionalmente si passa al livello sovranazionale o regionale). La sussidiarietà è un metodo, che si usa ad hoc. Non è l´istituzione che dura nel tempo e «pensa tutto il giorno all‘Europa», invocata da Delors. Altrimenti l´Europa sarà la bella statua di Baudelaire: sogno di pietra troneggiante nell´azzurro, nemica di ogni movimento che scomponga le linee. «E mai piange, mai ride».

La Repubblica 25.04.12

"La Resistenza da difendere", di Migel Gotor

Il 25 aprile di quest´anno desideriamo celebrare il sangue versato dai vincitori e ricordare, accanto alla memoria e alla letteratura della Resistenza, anche la storia e la politica del movimento partigiano. Non solo, dunque, gli immaginifici sentieri dei nidi di ragno percorsi da piccoli maestri come il partigiano Johnny, ma i viottoli di montagna battuti 67 anni fa da uomini in carne e ossa come Arrigo Boldrini, Vittorio Foa, Sandro Pertini e Paolo Emilio Taviani. Grazie alla loro storia commemoriamo i migliaia di giovani caduti in nome della libertà, per la dignità e il riscatto della Patria, in difesa della propria comunità di affetti.
Lo facciamo nella consapevolezza che senza la riscossa partigiana e senza la fedeltà all´Italia e il senso dell´onore di quei militari che, a Cefalonia e non solo, scelsero di impegnarsi nella guerra di liberazione dal nazifascismo, non sarebbe stato possibile gettare le fondamenta della nuova Italia democratica e repubblicana, quella che ancora oggi abbiamo il privilegio di abitare. Ma avvertiamo questa esigenza anche perché abbiamo alle spalle oltre vent´anni di un senso comune anti-antifascistiche ha egemonizzato il discorso pubblico intorno a due concetti meritevoli invece di maggiore ponderazione.
Il primo è quello che vede nell´8 settembre 1943 la morte della patria. In quei giorni si assistette al collasso dello Stato e delle istituzioni, ma la patria trovò, grazie alla scelta partigiana e alla coscienza di tanti, le ragioni per resistere, rigenerarsi e rinascere alimentando un secondo Risorgimento della nazione.
Il secondo concetto è quello di guerra civile, che è stato indebitamente strumentalizzato. In questo caso, la condivisibile interpretazione azionista di un partigiano come Franco Venturi («le guerre civili sono le uniche che meritano di essere combattute») è stata piegata agli interessi del reducismo fascista e saloino che da sempre hanno negato il carattere di lotta di liberazione alla Resistenza e, sin dalle origini, hanno utilizzato il concetto di guerra civile per equiparare, sul piano politico e morale, le ragioni delle parti in lotta.
Da questa duplice manipolazione della realtà storica è scaturita la rivalutazione di carattere moderato/terzista della cosiddetta «zona grigia»: l´attendismo e l´indifferentismo, motivati da umane e comprensibili ragioni, inizialmente vissuti con disagio e un sentimento di vergogna, si sono trasformati nella rivendicazione orgogliosa di una zona morale di saggezza e virtù. Al contrario, se la Resistenza non avesse avuto il consenso implicito ed esplicito della società civile non sarebbe riuscita a prevalere sul piano militare e politico. Bisogna piuttosto rammentare che l´intrinseca moralità della Resistenza sul piano storico deriva dal fatto che quei giovani combatterono non soltanto per la propria libertà, ma anche per quella di chi era contro di loro e di quanti scelsero di non schierarsi: lo ha dimostrato senza ombra di dubbio la storia successiva dell´Italia democratica e parlamentare.
Oggi questi atteggiamenti, alimentati dalla lunga stagione del berlusconismo con la sua corrosiva ideologia della divisione, segnano il passo e offrono l´occasione alla Resistenza di trasformarsi finalmente in un patrimonio nazionale condiviso anche sul piano del giudizio storico. Un giudizio in cui devono albergare un sentimento di pietas per gli sconfitti, la volontà di studiare in modo equanime – contestualizzando e non per rinfocolare odi di parte – tutta la Resistenza, anche quella più violenta, vendicativa e oscura, e, infine, il riconoscimento dell´importanza del percorso compiuto da quanti oggi, pur essendo cresciuti nel Movimento sociale, hanno dichiarato di riconoscersi nella condanna delle leggi razziali del 1938 e nei valori dell´antifascismo.
È indicativo che in un momento di crisi della politica e della rappresentanza come questo, stiano aumentando le iscrizioni all´Anpida parte dei più giovani. Nell´Italia attuale è necessario recuperare lo spirito di collaborazione e di ricostruzione civica che ha animato il movimento partigiano da cui scaturì la stagione della Costituente in cui forse politiche di estrazione profondamente diversa impararono a conoscersi e seppero fare fronte comune nell´interesse nazionale. Quello spirito lontano e generoso è il testimone della Resistenza che serve oggi all´Italia.

La Repubblica 25.04.12

"Raddoppiano le lauree on line: troppe", di Pasquale Almirante

Le università online raddoppiano gli iscritti nel volgere di pochi anni e stipulano convenzioni con società ed enti: forse c’è un eccesso, scrive il Sole 24 Ore, e forse occorrerebbe vigilare meglio. Le università telematiche, varate nel 2003, sembra abbiano preso a fare incetta di iscrizioni, se è vero, come dice il Sole 24 Ore, che gli studenti sono passati da 29mila del 2009/2010 a 42mila del 2010/2011, il 41% in più.
Un autentico boom dovuto alla volontà di ottener un titolo accademico mentre si è ancora al lavoro e magari per fregiarsi in età avanzata di una laurea sognata per anni, ma mai conseguita per una serie di difficoltà, come l’impossibilità di frequentare un ateneo.
In primo piano, secondo il giornale della Confindustria, gli accordi siglati da parte delle 11 università online con aziende e anche con enti pubblici, che avrebbero finora raggiunto un numero complessivo di 176, e che addirittura pagano parte delle rette per agevolare i loro dipendenti a frequentare i corsi online che così diventano più accessibili e offerti a pacchetti sempre più economici.
“Ad esempio, è anche grazie alle convenzioni con la Telecom e con la Scuola superiore della Pa, che la Uninettuno è passata dai 3.365 iscritti del 2009-2010 ai 6.719 del 2010-2011 (+99%). Mentre ha ben 59 intese segnalate sul proprio sito la Unisu (o Unicusano), cresciuta in un anno da 5.666 a 8.610 iscritti (+46%): rette agevolate sono previste per i dipendenti del Comune di Roma, Polizia di Stato e Carabinieri, ma anche per quelli del Centro d’ascolto Madonna del Rosario e persino per i pensionati del Cral dell’Inps.”
L’attività lavorativa fra l’altro è riconosciuta come credito e ciò consente a questi iscritti-lavoratori di abbreviare il percorso e conseguire il titolo in tempi rapidi, e che poi magari possono spendere in stretta concorrenza con chi invece ha seguito corsi regolari e senza nessun abbuono. In altre parole lo slogan pubblicitario: “laureare l’esperienza” ha piena applicazione perché vengono riconosciuti crediti formativi praticamente per tutto.
Secondo il Miur nel 2005-06 ne beneficiava il 93% degli studenti: un’enormità. Come non sospettare che i crediti siano una bella scorciatoia per titoli accademici facili? L’allora ministro, Fabio Mussi, nel 2007 diede una stretta: ma ancora nel 2008 (ultimi dati Miur) in alcune realtà i laureati precoci erano numerosi: 33% alla Uninettuno e ben 69% alla Unisu.
Tuttavia restano, proprio a causa di tanta attrazione, alcuni dubbi individuati da Luigi Biggeri, ultimo presidente del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario: «Il sistema degli atenei online permette la formazione universitaria anche a chi non può o non vuole frequentare, ma è abbandonato senza controlli sulla qualità dei servizi erogati, anche se in alcuni casi la qualità è buona».
E allarmi in tal senso ne erano venuti a partire dal 2010 con un dossier dove era stata messa in evidenza la scorsa valutazione sugli effettivi servizi erogati, mentre molte erano le realtà dove scarseggiavano docenti di ruolo, risorse finanziarie e ricerca, tanto che l’Ordine degli ingegneri le aveva bocciate per timore appunto che uscissero professionisti tali solo sulla carta.
E infatti, l’Università E-Campus, evoluzione del Cepu, scrive sempre il Sole, “nel 2011 per le sue 5 facoltà poteva contare solo su 4 professori straordinari a tempo determinato e 52 ricercatori a tempo determinato. Più strutturata la Marconi di Roma che per i suoi 30 corsi dispone di 16 docenti di ruolo, mentre sono tanti i docenti che non accettano di insegnarvi, nonostante alcune di esse abbiano nel proprio organico nomi illustri.

da La Tecnica della Scuola 25.04.12

"25 Aprile: Profumo senza memoria", di Pippo Frisone

Siamo alla vigilia della festa civile fondativa della Repubblica italiana. Il 25 aprile del ’45 la Resistenza italiana, anticipando le forze alleate, dava il suo contributo determinante per la sconfitta delle truppe occupanti naziste e dei collaborazionisti repubblichini. Il 25 aprile del ’45 l’Italia, grazie alla lotta di Liberazione, usciva dalla dittatura e dalla guerra, riconquistando con la Costituzione la libertà e la democrazia. Per tutte queste ragioni il 25 aprile non va dimenticato, soprattutto nelle scuole e vanno contrastate tutte quelle azioni che vogliono, in nome di uno strisciante revisionismo pacificatore , perderne progressivamente la memoria.

Cominciò Berlusconi a disertare la ricorrenza del 25 aprile, con l’unica eccezione del 2009 quando si presentò a sorpresa a Onna in uno dei comuni abruzzesi maggiormente colpiti dal sisma.

L’ex ministra Gelmini non fu di meno e sulla scia del Capo, andò a inaugurare alcune scuole-tenda nel martoriato Abruzzo.

Per il resto e fino allo scorso anno, dopo vari tentativi di declassamento delle festività civili del 25 aprile e 1 maggio, da viale Trastevere ha prevalso un gelido silenzio .

Sorprende che il governo tecnico anche su questo punto sia rimasto in totale sintonia e continuità col precedente.

Nessun comunicato stampa, nessuna circolare alle scuole per ricordare la ricorrenza.

Il ministro dell’istruzione,università e ricerca Profumo non ha trovato nemmeno il tempo di festeggiare il 25 aprile con gli studenti, come invece fece a suo tempo nel 2008 l’ex ministro Fioroni a Viterbo, dopo un’infuocata polemica col sen.Dell’Utri sul valore della Resistenza.

Un Paese senza memoria è un Paese senza radici ma anche senza futuro.

Per fortuna che almeno la maggior parte degli insegnanti, quella memoria non l’ha persa anche se qualcuno che storce il naso c’è sempre, come è successo a Roma dove un vecchio partigiano è stato contestato da giovani dell’estrema destra, proprio in una scuola.

Dalle pagine di questo giornale invitammo inutilmente la Gelmini a scendere in piazza e a festeggiare il 25 aprile.

Ministro Profumo, spezzi almeno lei questa continuità , riacquisti la memoria , vada dove meglio creda, a Torino o a Roma ma festeggi, scenda in piazza, dia il buon esempio ai suoi figli e con loro ai milioni di giovani che frequentano le scuole e le università italiane, in cerca di valori e di futuro.

da ScuolaOggi 25.04.12

"L'efficienza è l'unica via d'uscita", di Irene Tinagli

Di fronte agli ultimi dati dell’Istat sulla frenata dei salari si può reagire in due modi. Si può incolpare la crisi, o l’austerità di Monti e invocare nuove contrattazioni più generose o altre forme di supporto al reddito. Oppure si può cercare di fare un ragionamento più approfondito per capire le radici del problema e quali soluzioni possano funzionare o no.

La questione dei salari in Italia, e del parallelo rapporto con i consumi (anch’essi stagnanti) è un problema reale e profondo, ma non c’entra tanto con la crisi né con l’austerità.
Ha radici più lontane, che hanno iniziato a manifestare i propri effetti prima della crisi. Già nel 2006 i dati dell’Eurostat mostravano come l’Italia avesse salari medi annuali inferiori del 20-30% rispetto a Paesi come Francia o Germania.

E nel 2007 l’allora governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, in una relazione presentata alla società italiana degli economisti, lanciò un allarme sulla stagnazione di consumi e salari che affliggeva l’Italia già da alcuni anni. Il vero problema, come indicava Draghi e come ha ribadito un paio di giorni fa l’attuale governatore Visco, risiede nella produttività. Proprio la Banca d’Italia in uno studio sui primi dieci anni di Unione Monetaria (1998-2008) ha mostrato come la produttività sia aumentata del 18% in Francia, del 22% in Germania e del 3% in Italia.

Se l’Italia non è in grado di trasformare in maniera efficiente i suoi fattori produttivi in prodotti e servizi competitivi sui mercati internazionali (e farlo su larga scala, non in pochissime nicchie), non possiamo aspettarci che aumentino le retribuzioni, il Pil, i consumi e quant’altro.

Affrontare il nodo della produttività è complesso, e un’analisi completa richiede più spazio di quanto conceda un editoriale. Ma è importante almeno ricordare che parlare di produttività significa parlare non solo di investimenti e nuove fabbriche, ma anche di servizi avanzati, istruzione della forza lavoro (di cui non si parla mai, come se fossimo tutti geni naturali quando invece siamo una delle forze lavoro meno qualificate d’Occidente), e un sistema di regole di mercato e di amministrazioni pubbliche trasparenti, snelle e funzionali.

La funzionalità ed efficienza del sistema in cui operano imprese e lavoratori è fondamentale, ed è data dalla semplicità e dai costi della burocrazia e dall’amministrazione pubblica, dalla qualità dei servizi che produce, così come dalla fluidità di certi mercati, perché più sono protetti e rigidi, più sono inclini a sprechi e inefficienze. Ed è ovviamente legata anche alla dinamicità del lavoro, intesa non solo come flessibilità in entrata ed uscita, quanto come flessibilità nell’organizzazione del lavoro, che è cosa diversa, perché implica poter cambiare rapidamente orari, turni, mansioni e riqualificazioni all’interno dell’azienda, cose complicate con l’attuale struttura della contrattazione.

Tutti questi cambiamenti hanno fatto e continuano a far paura, e l’incapacità di gestirli se non in modo confuso e spesso pasticciato ha portato alla situazione attuale. Il paradosso è che non di rado molte associazioni di categoria, aziende o persino cittadini, preferiscono ridurre un po’ la propria ricchezza pur di non essere costretti a cambiare modo di produzione, lavoro, studio o formazione. In pratica è come se negli anni passati fossimo stati testimoni di una sorta di scambio implicito tra mancanza di riforme complete da un lato e minori redditi dall’altra.

Prendiamo l’esempio della pubblica amministrazione: è vero, come giustamente ricorda il segretario Cgil Camusso, che questo settore ha gli stipendi bloccati da anni (ed è uno dei fattori che traina al ribasso i dati Istat), ma è anche vero che, in Italia come in Spagna o in Grecia, questi blocchi sono la conseguenza di una incapacità di riformarli e renderli più efficienti rispetto ai servizi che erogano.

Non potendo fare riforme che consentano di risparmiare risorse e migliorare l’efficienza legando i costi all’impegno e ai risultati (riforme sistematicamente vanificate da veti, proteste o da miseri accordicchi che le neutralizzano), l’unico modo per contenere la spesa è bloccare i salari. E’ un metodo sbagliato, ingiusto e inefficiente. Ma a quanto pare è l’unico fino ad oggi accettabile dalle varie «parti» in gioco. E nel settore privato sono emersi comportamenti e soluzioni diverse ma similmente distorte e distorsive ogni volta che si è provato a parlare di liberalizzazioni, riconversioni e così via. Anzi, piuttosto che investire in riforme e risorse per rendere i nostri mercati più aperti a nuovi settori, nuove tecnologie, e a tutto quello che poteva aiutare una riconversione del sistema produttivo, abbiamo speso miliardi per evitare tale riconversione e tenere in vita aziende stracotte e non competitive.

Il problema è che tutte queste mancate riforme alimentano ulteriori inefficienze «di sistema» che a loro volta si traducono in maggiori tasse, maggiori costi di produzione, e in prezzi più alti e/o prodotti e servizi più scadenti. Quindi non basta invocare controlli sui prezzi o rinegoziazioni centralizzate dei salari per risolvere la questione, perché non sono variabili «indipendenti» regolabili dall’alto, ma sono legate alla nostra capacità di cambiare il nostro modo di studiare, lavorare, produrre e gestire la macchina statale. Può sembrare una sfida impossibile, ma non lo è.

Molti Paesi hanno saputo superare crisi e debolezze, basta pensare alla recessione svedese di inizio Anni Novanta, con raddoppio del debito e decuplicazione del deficit, o alla stagnazione del Pil della Germania nei dieci anni dal 1995 al 2005. Paesi che ce l’hanno fatta con riforme profonde e spesso pesanti, ma motivate da un unico imperativo: il bisogno di cambiare per poter rinascere.

La Stampa 25.04.12