Latest Posts

Bersani: "Cambia il vento anche da noi la vittoria socialista è un segno anche Mario ne tenga conto", di Goffredo De Marchis

La soddisfazione per il sorpasso di Hollande. La cautela per un ballottaggio che resta aperto anche se con un favorito molto vicino al Partito democratico. La preoccupazione per l’exploit della destra di Marine Le Pen che «però difficilmente viene imbarcata dai gollisti». Ma al fondo Pier Luigi Bersani si dice convinto che le presidenziali francesi cambieranno le politiche dell’Europa.E che saranno una svolta anche per quelle italiane: «Se Hollande arriva all’Eliseo la piattaforma concretissima e non ideologica dei progressisti europei che abbiamo sottoscritto a Parigi, deve diventare una piattaforma per l’Europa. E per Monti».

Lei crede al vecchio slogan per cui quando gira il vento in un Paese del Vecchio continente, quel vento arriva anche in Italia? «Sì, ci credo. Il voto francese, quello dei land tedeschi e le prossime amministrative italiane possono segnare un mutamento delle opinioni. E se davvero gli equilibri verranno stravolti, noi ci attrezziamo a prendere quel vento.

A interpretarlo». Significa che nel Pd scatterà la tentazione di correre alle urne con elezioni anticipate? «No, ho dato la mia parola. La fedeltà al governo Monti fino alla fine della legislatura è fuori discussione. Ma faremo la nostra parte nel solco di quello che abbiamo detto sin qui. La parola d’ordine è ricostruzione. Nella ricetta italiana vuol dire rivolgersi non solo alle forze di sinistra e di centrosinistra. Perchéè giunto il momento di chiarire se vogliamo una democrazia occidentale che assomigli alle altre o se continuiamo a inseguire anomalie. Pensoa quello che ho visto negli ultimi due giorni».

Il Partito della nazione e la novità annunciata da Alfano? «In quale democrazia del mondo la politica si imposta in questo modo? In nessuno. Noi abbiamo bisogno di formazioni politiche stabili, aperte, rinnovate che organizzano le alternative. O pensiamo di inventarci ogni volta un film che ci porta a sbattere contro un muro? Con gli elettori, il prossimo anno, andrà chiarita una questione di fondo: se occorrono partiti ripuliti ma veri o un salvatore della patria, un altro specchietto per le allodole». Con Hollande all’Eliseo la Francia andrebbe a sinistra.

Quanto fa ancora paura all’Italia questa parola? «Se Hollande vince lo fa come espressione di un centrosinistra che contrasta la destra lepenianae sarkoziana. Sul piano politico, nel fondo del nostro paese, ci sono cittadini prontissimi a sostenere forze riformiste e progressiste che mettono un po’ di uguaglianza nei processi di crescita e chiedono una democrazia capace di contrastare piegature populiste».

Cambierà anche l’Europa? «Il successo del leader socialista sarebbe un primo passo di cambiamento per la Francia e per l’Europa. Non è certo un caso che in molti paesi, Italia compresa, tanti esponenti conservatori si augurino la vittoria di Hollande. Qui lo hanno detto Tremonti e Sandro Bondi. La destra europea è prigioniera del meccanismo di consenso che ha creato, ostile a una solidarietà continentale. Ma adesso vedono che si va al disastro e non hanno la forza per correggere al rotta. Con un nuovo presidente a Parigi si mette in movimento una diplomazia del cambiamento.

Tanti paesi troverebbero il modo di collegarsi. Non solo quelli del sì al fiscal compact. La Merkel stessa ne dovrebbe prendere atto».

Lei chiede già a Monti di cambiare linea rispetto al solo rigore? «I progressisti hanno una piattaforma concretissima. Firmata anche dai socialdemocratici tedeschi per cui non è stato facile accettare la mutualizzazione di una parte del debitoe l’ok alla tassa sulle transazioni finanziarie. Diciamo così: anche per il nostro Paese si apre qualche spazio, la possibilità di avere più voce in capitolo.

Monti è chiamato a far sentire questa voce».

Per rimanere su Monti, lei fu il primo a parlare di un governo nel 2013 composto da un mix di tecnici e politici . Oggi invece chiede ai ministri di fare i ministri. Perché? «Ma per carità. Quando vorranno fare outing sulle loro scelte politiche saranno i benvenuti. Non solo hanno il diritto di fare politica ma ne hanno anche la capacità e le competenze. Confermo quello che dissi: Dio ci scampi e liberi da un esecutivo, il prossimo, fatto con il manuale Cencelli. Dopo i competenti mettiamo gli incompetenti? Ma siamo matti! Dopo che finalmente le donne hanno occupato le poltrone in dicasterichiave torniamoa metterle nei posti ornamentali? Non succederà».

Secondo Montezemolo chi tifa Hollande, come lei, gioca in difesa. «È una teoria stucchevole. È la teoria per cui se un partito si chiama socialista o socialdemocratico è arretrato, appartiene al secolo scorso. Ma sono tutti imbecilli quelli che vivono in Francia o in Germania? Sono cittadini che vivono nella società dell’800? Ci vuole molta più modestia quando si parla di politica. L’uomo e il partito che i francesi stanno mandando all’Eliseo non sono vecchiumi». Stamattina i mercati diranno come reagisce la finanza al successo dei socialisti. Preoccupato? «Può arrivare una reazione negativa solo perché tutti i paesi, durante le elezioni, mettono un po’ di polvere sotto il tappeto e dopo vengono alla lucei problemi. Ma lo sa il Fondo monetario, lo sanno gli Stati uniti: la decrescita dell’Europa è il fattore che rallenta il mondo intero. Tutti invocano un’altra politica europea. Per questo un cambiamento delle politiche comunitarie non sarà punito dal mondo».

La Repubblica 23.04.12

"Restaurare il futuro?", di Ilvo Diamanti

IL “dopo-Monti” rischia di essere più vicino del previsto. Non perché le elezioni anticipate siano divenute probabili. Ma perché oggi è divenuto altrettanto improbabile l’ipotesi che Monti succeda a se stesso. Nelle ultime settimane, infatti, il calo di consensi verso il governo ha assunto proporzioni ampie. Superiori a 15 punti percentuali. Sarebbe sceso intorno al 50% secondo Ipsos, ma molto al di sotto secondo Demose il Cise diretto da Roberto D’Alimonte. Ciò segna la fine del singolare paradosso dell’esperienza di Monti, accompagnato da un alto livello di gradimento personalee verso il governo, ma da un elevato grado di insoddisfazione verso le politiche governative. Fino a ieri. Mentre oggi l’insoddisfazione verso i provvedimenti sembra essersi trasferita direttamente su chi ne ha la responsabilità. Dunque, su Monti. Le ragioni di questo rapido mutamento del clima d’opinione sono diverse.

1. In primo luogo, l’impatto di alcuni provvedimenti. La riforma del mercato del lavoroe dell’articolo 18. Ma soprattutto, a mio avviso, gli interventi sul sistema fiscale, in particolare l’Imu. Che colpisce direttamente il più tradizionale e diffuso metodo di “accumulazione” delle famiglie – peraltro, “ereditario”. In un Paese dove circa l’80% delle famiglie possiede un’abitazione e oltre il 20% almeno un’altra, questa “tassa” ha sospeso la “tolleranza” riservata al governo Monti.

2. Un’altra causa della svolta nell’opinione pubblica è, certamente, il riaprirsi delle difficoltà finanziarie del Paese sui mercati internazionali. Scandite dalla ripresa del famigerato “spread”. Di cui pochi conoscono il significato, ma che tutti hanno identificato come simbolo del “pericolo greco”, trasferito all’Italia. Ciò ha ridimensionato l’indulgenza dei cittadini verso Monti. Il “medico” le cui cure – dolorose – erano accettate dal paziente – il cittadino in quanto necessarie. Da quando i mercati internazionali hanno mostrato che la malattia è lungi dall’essere guarita, anche la fiducia verso il medico e le sue terapie si è improvvisamente abbassata.

3. Peraltro, Monti aveva utilizzato il sentimento anti-partitico come argomento per marcare la propria differenza. Di “tecnico” lontano e distinto dalla politica. In grado, per questo, di prendere “decisioni”, senza cedere a mediazioni defatiganti e frustranti. Ma oggi è divenuto evidente che Monti e il governo possono assumere decisioni e renderle effettive solo con il sostegno dei partiti presenti in Parlamento. La cui decomposizione si riflette sulla in-decisione del governo.

Ciò non significa che il governo Monti non possa recuperare la fiducia dei cittadini, nel prossimo futuro. Attraverso provvedimenti che affermino, maggiormente, il principio di equità sociale. Tuttavia, i maggiori cedimenti rilevati nel clima d’opinione colpiscono proprio i caposaldi del consenso al governo. Gli elettori del Pd, i ceti medio-alti, le componenti di età matura, a istruzione più elevata. Mario Monti, dunque, resta un leader di governo autorevole, ma difficilmente il Montismo si imporrà come un modello e un’ideologia di successo. Torna, piuttosto, ad essere concepito – dai cittadini e prima ancora dagli attori politici – come una pausa, una tregua.

In attesa di una prossima, incerta stagione di confronto elettorale. Ciò ha accelerato le tendenze degenerative riassunte dalla definizione un po’ indefinita dell’Antipolitica. Che viene utilizzata: a) per significare il peggioramento del clima d’opinione verso le istituzioni e i partiti.

Sottolineato dalla rapida crescita, nei sondaggi, dell’area grigia dell’astensione e dell’incertezza. Prossima, ormai, al 50%; b) ma anche per spiegare il consenso al Movimento 5 Stelle, ispirato da Beppe Grillo. Stimato oltre il 7%.

In effetti, la presunta “antipolitica” sottolinea soprattutto l’impotenza politica dei partiti e l’incapacità della classe politica di reagire alle ragioni del proprio discredito con iniziative, se non sostanziali, almeno ad alto contenuto simbolico. Basti vedere le difficoltà che incontrano i tentativi di prendere provvedimenti in tema di finanziamento pubblico ai partiti. Per non parlare dell’infruttuosa ricerca di nuovi sistemi elettorali. L’antipolitica riflette, ancora, la crisi del principale soggetto antipolitico che ha attraversato la Prima e la Seconda Repubblica. La Lega. Stressata da se stessa, dai propri comportamenti e dalle proprie divisioni interne, piuttosto che dagli avversari politici e dagli stessi magistrati.

L’antipolitica, per questo, appare, soprattutto, un argomento politico, utilizzato contro gli avversari politici. Non solo da movimenti (in)definiti in questo modo. Ma da tutti gli attori politici e dallo stesso Monti. D’altra parte, se osserviamo la composizione degli elettori di Grillo, appare evidente come sia difficile liquidarli come “antipolitici”. Tra di loro, infatti, appare molto più alto della media il peso delle componenti di età centrale (da 30 a 54 anni), di istruzione più elevata, con maggior grado di interesse e informazione politica. Un terzo di essi, alle elezioni del 2008, si era astenuto, ma un quarto aveva votato Pd e il 16% circa Idv.

Più che l’antipolitica, questi dati suggeriscono il cedimento del sistema partitico. Il quale appare, d’altronde, frammentato, anzi: frantumato, senza poli né modelli di riferimento. Il Pd intorno al 26%. Il Pdl al 20%.

Entrambi in declino. I loro alleati, Idv, Sel e Lega: all’opposizione. L’Udc e il Terzo Polo: sospesi fra Centrodestra e Centrosinistra. Tutti quanti, ad eccezione dei due partiti principali, fra il 6% e il 10%.

L’indebolirsi del Montismo, come prospettiva del post-berlusconismo, pare aver prodotto una sorta di big bang. In cui si agitano progetti di nuovi partiti. Inventati da Berlusconi, nel segno del marketing elettorale.

Oppure ri-progettati da postdemocristiani di lungo corso.

Come Casini e Pisanu. Solo il Pd, per bocca del leader, Bersani, ha il coraggio di rivendicare “l’usato sicuro”. Confermando, involontariamente, l’assenza di rinnovamento che lo affligge. Il problema è, come si è già detto, che dopo Monti nulla resterà come prima. Soggetti politici e classe politica: non potranno più ri-presentarsi allo stesso modo, con le stesse facce. Perché il Montismo ha segnato, comunque, una rottura: di stile, modello di comportamento, competenza.

Vedere il Nuovo annunciato da Berlusconi, Pisanu, Casini, lo stesso Bersani. È come pretendere di “restaurare” il futuro. Con un puzzle di pezzi raccolti dalla Prima e dalla Seconda Repubblica. Rischia solo di rafforzare il peso di chi “si chiama fuori”. Attraverso il non voto o la critica radicale di Grillo.

La Repubblica 23.04.12

Lettere dai partigiani "Il 25 Aprile dei ragazzi",di Paola Soriga

Le loro storie sono la nostra memoria. Le storie dei nostri nonni, che ci hanno raccontato quando magari non avevamo voglia di ascoltare, e che adesso non sappiamo dire quanto ci dispiace non potere più ascoltare. Le storie dei nostri nonni o dei nonni che ci siamo scelti, arrivate con una parola, con un libro, con una canzone. Come quella di Mario Bottazzi, partigiano romano, che sabato scorso, al liceo Avogadro di Roma, è stato contestato da un gruppo di studenti neofascisti, e per questo, proprio perché il tempo non è passato, dopodomani 25 aprile, dopo due anni di manifestazione a Porta San Paolo, i partigiani hanno deciso di tornare a sfilare. Per le strade.

La suggestione di un mondo che non conosco se non attraverso le parole a me l’hanno data, a diciassette anni, i CSI. La scoperta di Beppe Fenoglio nei testi di La terra, la guerra, una questione privata. Della guerra, del fascismo, della Resistenza, sapevo quello che avevo studiato e letto e guardato a scuola e quello che avevo sentito in casa.

(segue dalla copertina) Alle elementari le maestre ci mandavano in giro per il paese a intervistare gli anziani che avevano vissuto quegli anni. Erano storie di guerra e di fame, di prepotenza in divisa, libertà e dignità calpestate. Di ragazzi di vent’anni che cercavano di tornarea casa, in Sardegna,e si unirono alle bande partigiane, sui monti e nelle città, con la speranza in tasca. Di ragazze che facevano chilometri sulle loro biciclette, nelle valli in nord Italia, con ordinie messaggi nascosti frai vestiti, con coraggio e incoscienza e lo spazio per un pensiero d’amore. Di donne che nascondevano uomini nelle cantine o nelle soffitte, cucivano vestiti e cucinavano minestre, nelle periferie di Roma o di Milano. La storia di Giuseppe Serreli, ascoltata e trascritta da alcuni bambini: «Giuseppe Serreli è un uomo di 55 anni, basso e magro. Vive ad Uta e fa l’ortolano». Raccontò che si fece partigiano nell’Appennino Ligure, chissà se incontrò Italo Calvino, aveva ventun anni, e scelse Uta come nome di battaglia. Che poi anziane non erano, quelle persone, quando io ero alle elementari, avranno avuto sessant’annio poco più.

Adesso, adesso sono anziani, molti sono morti. Sono i nostri nonni, e lentamente muoiono. Da raccontare, adesso, quelle storie, ai ragazzi delle medie che non sanno cosa sia, il 25 aprile,a cosa serva. Non sanno cheè per tutti, per tutti noi ogni giorno ancora. Non sanno che hanno lottato, quelle persone, che non era in vacanza che andavano gli oppositori di Mussolini, chi si opponeva alle sue idee di oppressione e di violenza, come hanno provato a raccontarci in questi anni. Non sanno le carceri e il sangue sui muri. Non lavate questo sangue, hanno scritto su un foglio le prime persone che sono entrate alla scuola Diaz, dopo la notte in cui accadde quello che accadde. Il sangue non si lava via perché serve a ricordare, a non dimenticare. Quando vengono sospesi i diritti della democrazia, la libertà e la dignità calpestate, non va lavato via il sangue. Perché «tutto quel che è successo è perduto, ma tutto quel che è successo può tornare a succedere», scrive Rossana Rossanda.

La libertà per cui hanno lottatoè anche la nostra e la libertà è faticosa. Il 25 aprile deve sopravvivere alla retorica e anche a anni di rilettura, di discorsi in cui non sembra più tanto chiaro che la democrazia, la Costituzione, sono figlie delle donne e degli uomini che hanno combattuto contro l’occupazione nazista e contro il fascismo che la appoggiava. La libertà è faticosa e non vuol dire fare quello che ti pare, mi ha detto una signora di ottantasette anni che ha fatto la partigiana.

«Un’elementare spinta di riscatto umano» era, secondo Calvino, a spingere i nostri nonni nell’urgenza di quei giorni, e ancora preme nei nostri, di giorni, lontanissimi e diversi ma riconducibili allo stesso «quid elementare, chiave della storia presente e futura». Come un impegno preso, essere sempre contro ogni forma di oppressione e di fascismo, di discriminazione e di violenza, comprendere e accogliere. Hanno saputo guardare oltre le macerie, i nostri nonni, hanno saputo immaginare mentre agivano e ridare un senso alle cose. Per questo anni fa, a Barcellona, in un locale pieno di stranieri, io e il mio amico Mattia, di San Remo, il 25 aprile abbiamo brindato all’Italia: se aveva un significato il nostro essere italiani, a vent’anni, in una città europea, il significato era questo.

La Repubblica 23.04.12

"Ieri il compleanno della senatrice Nobel per la medicina. Gli auguri del Presidente Napolitano", di Chiara Valerio

Rita Levi Montalcini ha compiuto ieri 103 anni. Giorgio Napolitano le ha mandato i più affettuosi auguri di compleanno. Lei ha festeggiato con un brindisi insieme ai suoi più stretti collaboratori. 103 è un numero intero positivo, è un «numero primo», il ventisettesimo per la precisione, ed è anche un «numero felice», il che significa che la somma dei quadrati delle sue cifre dà uno. Non che, da matematico, io sia particolarmente legata alla definizione di numero felice, tuttavia, poiché 103 sono gli anni compiuti ieri Rita Levi Montalcini, mi sento di poter festeggiare fin dalla definizione. 103 dunque è un «numero felice», molto. Ho incontrato Rita Levi Montalcini una sola volta, il 21 aprile del 2009, nella sua casa romana. Silvia Bencivelli, Costanza Confessore, Marco Motta e io l’allora redazione di Radio3 Scienza siamo andati a farle un’intervista in occasione dei suoi cento anni. Insieme a Rossella Panarese, il curatore della striscia quotidiana di scienza su Radio3, avevamo costruito la puntata (Voglio una Rita spericolata) intorno all’idea di un secolo di primati divisi tra ricerca scientifica e impegno civile. Circa due anni prima, il 10 ottobre 2007 dalle pagine della Repubblica Levi Montalcini aveva risposto a Francesco Storace, che proponeva di fornirle delle stampelle per la deambulazione sua e del governo, «A quanti hanno dimostrato di non possedere le mie stesse facoltà, mentali e di comportamento, esprimo il più profondo sdegno non per gli attacchi personali, ma perché le loro manifestazioni riconducono a sistemi totalitari di triste memoria». Impegno civile, sì. Il 21 aprile 2009 pioveva e io mi ero persa con la motocicletta dietro piazza Bologna, credo fossi emozionata. Come tutti quelli della mia generazione infatti, oltre a uno scienziato, a un senatore della repubblica, a un esempio ante litteram di espatrio dei cervelli, Rita Levi Montalcini era anche una elegante icona pop.
In effetti, successivamente all’assegnazione del Nobel nel 1986 per la medicina sulle sue ricerche degli anni cinquanta riguardo il fattore di accrescimento della fibra nervosa e il conseguente disegno da parte dello stilista Roberto Capucci dell’abito per la cerimonia del Nobel, Rita Levi Montalcini, pur non essendo un personaggio mediatico, ha cominciato ad appartenere a un immaginario estetico condiviso e riconoscibile, e in qualche modo, replicabile, non portava solo le sue ricerche, la storia degli ebrei italiani e della sua famiglia, ma pure un modo di vestire.
ICONA POP
Una icona pop, per l’appunto. Sono abbastanza certa di essere rimasta immediatamente colpita dalla sua sottigliezza, di fisico e di intelletto, e dalla sua eleganza. Noi eravamo in jeans e camicia, lei era vestita di raso nero, modello Capucci 1986. Io non la conoscevo personalmente e non la conosco neppure adesso, ma ho letto i suoi libri e le sue interviste. Non perché fosse una donna, perché avesse vinto il Nobel, e neppure perché, in seguito alla promulgazione delle leggi razziali fosse stata costretta a espatriare, e neanche perché, tornata dopo un breve espatrio a Bruxelles fosse tornata in Italia e avesse impiantato, nella sua camera da letto a Torino, un piccolo laboratorio nel quale continuare le ricerche. Io ho letto e seguito Rita Levi Montalcini perché nel suo ripetere, anche alla lectio del Nobel, di non avere avuto merito alcuno nella buona riuscita delle sue ricerche, ma solo una grande fortuna, mi ha insegnato che studiare è sinonimo di guardare, di essere (pre)disposti a cogliere le variazioni, di essere perennemente stupiti e grati di quello che accade intorno, nell’infinitamente piccolo degli embrioni di pollo, e fattore di scala dopo fattore di scala, nell’infinitamente umano della politica e della cosa pubblica. Levi Montalcini mi ha insegnato che la scienza è un punto di vista democratico sul mondo, quindi, oltre agli auguri, anche e un’altra volta, grazie.

L’Unità 23.04.12

"Giovani oltre i limiti- Fra sogni e trasgressioni a caccia d’identità", di Carlo Buttaroni*

Si affacciano alla vita scoprendone i drammatici conflitti e gli inevitabili negoziati, insieme alla distanza che separa le loro aspirazioni dalla realtà che si gli apre davanti. All’inizio li orienta la volontà di vivere svincolati da qualsiasi condizionamento, la pulsione a emanciparsi dalla condizione pre-adolescenziale; poi il bisogno di scoprirsi entità autonome, pensanti; infine la scoperta che la vita non può essere che un compromesso tra desideri e necessità. L’altra faccia drammatica della crisi è quella dei giovani che inciampano fra i detriti di sogni troppo precocemente infranti. Avvolti da un’atmosfera rarefatta, senza più alcun punto di riferimento, rassegnati a un deficit di speranza che li porta a vivere un eterno presente dove per usare le parole di Sartre bisogna scegliere tra non essere nulla o fingere quello che si è. In questo habitat malinconico, in cui l’interlocuzione con il prossimo sembra passare quasi esclusivamente attraverso i social network, i giovani provano a muovere i primi passi, alcune volte troppo timidi per essere efficaci, altre volte sotto forma di salti nel buio alimentati dalla crescente insoddisfazione che li assale. Un’insoddisfazione che diventa timore e ansia da prestazione, che anche quando non rende ragione della loro vita reale, li spinge a cercare nuovi esasperati riferimenti che permettano di esorcizzare la realtà che non comprendono, o che vivono come estranea e distante. I progetti di vita non appaiono abbastanza forti a restituire significato al senso d’incertezza che avvolge i loro destini. E il modello familiare appare in piena crisi nel momento in cui al suo interno, al posto dell’ascolto e della parola, si alternano distratte attenzioni e vuoti silenzi, occasionalmente compensati dall’ultimo modello di cellulare o dall’automobile lanciata a folle velocità verso il nulla. Continuamente sollecitati a diventare predatori dell’ambiente che vivono, ma che gli è pericolosamente ostile, i giovani in crisi di futuro tendono a rompere gli argini, a spingersi verso un “oltre” che spesso significa immergersi in dimensioni sconosciute, esplorare nuovi territori che permettano loro di trovare un surrogato d’identità, in un mondo che sembra non riuscire a offrire altre prospettive. L’atto trasgressivo, forzando e mettendo in discussione norme sociali e collettive, se non anche violandole apertamente, mostra in filigrana un’esistenza precaria e confusa, che spinge i giovani a conoscersi e a riconoscersi attraverso il contrasto, a sperimentare i propri limiti per verificare fino a che punto coincidano con quelli collettivamente accettati. Per poi infrangerli di nuovo, in un continuo superamento dei limiti. Ecco allora che si manifestano la seduzione della droga e comportamenti rituali emulativi come effetti, allo stesso tempo, del conformismo e dell’anticonformismo. I gesti senza movente riconducono sempre a un’insensatezza di fondo e al fatto che la vita è intesa uguale alla morte. E che le regole primordiali dell’amore e dell’odio non vengono sentite come tali e non spiegano le ragioni del gesto, che dovrebbe invece avere una ragione e un perché. Un’esistenza così vissuta spinge all’illusione dell’apparire e alla pubblicizzazione dell’intimità, che nettamente differiscono dal «cielo stellato» e dalla «legge morale», connesse alla consapevolezza di andare come diceva Paul Valéry «senza dei verso la divinità». Le trasgressioni estreme che vivono i giovani non sono, come dovrebbero essere, il riaggiustamento della propria socialità percepita come imperfetta. Lo scontro e la conflittualità individuale rappresentano, invece, l’estremo tentativo di riappropriarsi della propria vita, coscienti della propria diversità, e rendere socialmente visibile la trasformazione. Ogni trasgressione è percepita come una sfida da affrontare, dove l’esito si deposita in un bagaglio di esperienze intorno alle quali l’identità del giovane tende a disporsi. Il quadro che sembra emergere indica proprio il dischiudersi di due dimensioni: l’una legata al naturale processo evolutivo dall’adolescenza alla maturità, l’altra correlata strettamente al contesto nel quale i giovani sono immersi. Un ambiente sociale surreale, in cui il pensiero e l’azione sembrano elementi sconnessi e scoordinati, anziché la naturale conseguenza l’uno dell’altro. Una dicotomia in cui trovano spazio anche quei comportamenti a rischio che sembrano caratterizzare così fortemente le nuove generazioni. È come se alla base vi fosse un processo che inizia con l’esplorazione della propria identità,ma che si conclude nel momento stesso in cui una delle possibili forme è intravista dall’esterno. E in quel riconoscimento vi è la selezione di un’identità possibile ma provvisoria che esprime tutta questa socialità imperfetta. Non è più l’individuo lacaniano che si riconosce nello specchio ma è l’individuo che si riconosce solo nello specchio riflesso degli occhi degli altri, dove la positività su ciò che si è, viene vissuta solo in stretta dipendenza con il grado di accettazione da parte degli altri. Per dirla con Galimberti, i giovani, anche se non sempre ne sono coscienti, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che segnano la loro età, ma perché un ospite inquietante penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti. Un sentimento che sembra gettare i giovani in un’impotenza assoluta di fronte al futuro e alla vita che avanza. Solo il presente ha senso. Un presente da vivere con la massima intensità perché permette di seppellire l’angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che si perde di vista il senso della vita. Un’angoscia che si traduce nell’incapacità di elaborare un pensiero che consenta di uscire dal suo effetto collaterale più evidente: vivere la vita in uno stato di costante incertezza e precarietà. Quello dei giovani è un grido forte e sottovalutarlo sarebbe il più tragico degli errori perché il grande rischio della nostra epoca è che le nuove generazioni si ritirino dal futuro, rifugiandosi in una curva del tempo priva di valori assoluti, che può solo proporre da quale luogo partire, ma nessun luogo dove andare.
*Presidente di Tecnè

L’Unità 23.04.12

"L'antipolitica già al potere", di Michele Prospero

Ci sarà un esito antipolitico alla crisi italiana? La furiosa contestazione delle élites di solito apre le danze, mobilitando chi invoca spazi nuovi di agire sociale liberati dagli apparati logori. Poi però compare chi propone di chiudere le operazioni con la macabra esibizione muscolare della destra.
Una destra trionfante, peraltro, che celebra la riscoperta di arcane pratiche di dominio personale.Quando si avvicina una crisi di sistema occorre per questo sempre preoccuparsi di scongiurare che i crampi della politica si intreccino con il disagio sociale.
Oggi l’Italia è molto vicina a una grande crisi di legittimità che accompagna un oscuro passaggio di fase. Tutto può saltare quando si realizza una saldatura tra questi elementi: lo smarrimento di forze economiche che perdono referenti solidi, lo spaesamento di strati che cedono posizioni di ricchezza e prestigio serbando un grande rancore contro le classi dirigenti percepitecome responsabili del loro declino, la comparsa di metafore anti-convenzionali amplificate dai media, la crisi paralizzante dei soggetti politici tradizionali. Se la sinistra si lascia sorprendere da un cortocircuito culturale e da un allentamento della sua presa rassicurante nel malessere sociale, allora la crisi, con una incredibile celerità, contagia economia, politica e culture. Si innesca un’onda anomala ch sconvolge gli antichi assetti di dominio non più adeguati evocando però soluzioni del tutto apparenti, imperniate sulla primitiva fascinazione di capi carismatici. Nella giuntura odierna una lacerante crisi sociale, che potrebbe dare sfogo alla disperata ribellione della massa, convive con lo smembramento del sistema politico bipolare e personalistico edificato vent’anni fa. La rivolta contro l’èlite al potere in Italia c’è già stata e ha portato al governo proprio i campioni dell’antipolitica, che oggi sono travolti dai disgustosi episodi di malcostume. Nel duello tra la società civile riflessiva, che voleva abbattere la vecchia nomenclatura dei partiti con il mito di Westminster, e la rude microimpresa padana, che sognava un denaro senza gli obblighi del fisco, vinse la miscela avvelenata preparata dal magnate di Arcore. Egli arruolò, a fianco del suo partito di plastica, le truppe di terra assoldate nel rurale mondo periferico del nord, dove le sensibilità più elementari garantivano una maggiore disposizione al nuovo, all’inaudito, al folklorismo politico. Oggi è in crisi proprio l’antipolitica cheha sostituito i partiti con le due forze irregolari(Forza Italia e Lega) che avevano inopinatamente preso il potere in nome del nuovo. Questo è il dato reale: lo sfaldamento dell’anti-politica che, da tendenza eccentrica, era diventata una incredibile forza di governo. I due partiti egemoni non reggono allo sfascio immane che hanno provocato. Ci sono dunque delle energie positive liberate da una crisi che si è abbattuta sulle due forze interpreti dell’antipolitica. Per quanto
i media stiano tentando l’ultima operazione di sviamento che rimane ai ceti del privilegio, quella di coinvolgere tutti i partiti nella stessa catastrofe, la lezione storica da trarre è invece del tutto trasparente. Non si può rimanere a lungo nel solco dell’antipolitica senza distruggere la capacità di governo di una società complessa che richiede innovazione. Da questo fragoroso fallimento di imprenditori e ceti irregolari insediatisi al potere discende che un Paese moderno non può prescindere da grandi partiti che esprimono una reale partecipazione, una forte energia etica, una autentica cultura. Senon ricostruisce partiti dall’elevato profilo ideale, un Paese civile è condannato alla lenta marginalizzazione e al collasso storico.m La forma del partito personale, che la destra ha inventato e imposto sulla scena come un segno della postmodernità, appare cadaverica. Non poteva essere altrimenti. L’usura del corpo del capo mette in discussione la sopravvivenza stessa del partito sprovvisto di quella «dignità che non muore» di cui parlavano i giuristi medievali come peculiarità del politico. Un partito di plastica o carismatico muore con il corpo del capo che declina o è ammaccato. Questo scostamento dai cardini della modernità politica occidentale ha ostacolato il funzionamento delle istituzioni, occultato il principio di legalità. Come vent’anni fa, i persuasori palesi cavalcano l’antipolitica per abbattere tutti i partiti. La videopolitica lancia i fantasmi del partito del comico, del professore, del sindaco, del magistrato o le liste civiche di protesta. Una sciagura. Il verbo an- tipolitico e le metafore ultrademocratiche diventano il veicolo di una rivoluzione passiva che nel deserto imponeun nuovo capo aunpubblico diso- rientato, demotivato, scoraggiato dagli scandali. La ricetta è quella di sempre: scaldare il cuore dell’indignazione per sparigliare anche a sinistra il nesso tra capi e popolo, e poi incassare a destra il via libera per la prosecuzione del piccolo mondo antico abitato da governatori celesti, politicanti senza pathos politico, miliardari divorati dal conflitto di interessi. Con una crisi sociale drammatica, la destra e i media dell’antipolitica a reti unificate preparano il suicidio della democrazia.

L’Unità 23.04.12

"Le imprecisioni del Ministro (o del Ministero)", di Reginaldo Palermo

Colpisce, nel discorso che il Ministro ha pronunciato a Torino al Convegno promosso dalla CEI, la scarsa precisione. Eppure è solo con dati precisi che si possono attivare programmi credibili e realizzabili. Un breve commento alle dichiarazioni del ministro Profumo di cui diamo conto in un apposito articolo è quasi inevitabile.
Ci sono diversi punti del discorso del Ministro che non convincono del tutto.
Intanto i dati sul numero delle scuole: Francesco Profumo parla di 10mila sedi, ma forse avrebbe fatto bene a precisare a quali ordini di scuole intendeva riferirsi perché secondo i dati più recenti riferiti al 2009/2010 la situazione è questa

qui la tabella

In qualunque modo si aggreghino i numeri non si riesce a trovare un totale di 10mila sedi.
C’è poi la questione dei concorsi. Tralasciando ogni valutazione di carattere politico-sindacale resta il fatto che se davvero il Ministro vuole percorrere questa strada è bene che acceleri (e molto) i tempi. Emanare un bando di concorso non è una operazione semplice, soprattutto per i tempi necessari ad ottenere il visto del Ministero dell’Economia.
Senza trascurare il fatto che fra un mese si inizierà a parlare della finanziaria 2013 e, se il nodo concorsi non verrà affrontato in quella fase, l’avvio dell’operazione potrebbe slittare in autunno e a quel punto difficilmente i bandi sarebbero pronti entro il 2012.
Quanto alla dichiarazione che non c’è tempo per le riforme, c’è poco da dire: nulla di nuovo sotto il sole, dal momento che il Ministro non ha mai preso alcun impegno in questa direzione. Che poi i sindacati nutrissero speranze su questo, è un’altra faccenda.
Ma, l’affermazione che più di altre dimostra, a nostro parere, la distanza siderale del Ministro rispetto ai problemi quotidiani della scuola reale è un’altra. Francesco Profumo ha parlato della possibilità di tenere aperte le scuole fino alle 23 in modo da trasformarle in luoghi di incontro.
L’intento è assolutamente nobile, per carità, ma ci pare che si tratti di un sogno del tutto irrealizzabile, almeno per ora.
Si è chiesto per esempio il Ministro con quale personale si tengono aperte le scuole dopo il termine delle lezioni?
Forse il Ministro non sa che l’attuale contratto nazionale prevede specifici compensi per il servizio svolto in orario serale. Non solo, ma le norme attuali hanno anche previsto il blocco dei fondi per la contrattazione integrativa.
Ci sono precedenti illustri: il ministro Fioroni aveva lanciato il progetto “Scuole aperte” finanzlandolo con i fondi della legge 440. Ma, come è noto, questi fondi sono ormai stati dirottati altrove e i pochi che sono rimasti sono del tutto ridicoli (1,5 euro per alunno nel 2011).
Insomma, le dichiarazioni del Ministro – almeno in questa circostanza – appaiono improntate ad una non perfetta conoscenza del nostro sistema scolastico. Nulla di male, per carità: i Ministri non possono e non devono essere onniscienti, ma forse gli uffici di Viale Trastevere dovrebbero fornire loro dati un po’ più precisi.

La Tecnica della Scuola 23.04.12